Il “68”. Zevi, Portoghesi e Rossi_ 3a Puntata

(Liberamente tratto dal libro di Giorgio Mirabelli La coerenza delle contraddizioni. Architetture 1984-2009″ , a cura di Cesare De Sessa – Edizioni Kappa)

Intanto c’è da dire che il Post-moderno non è stato un fenomeno nato improvvisamente senza nessun preavviso.

Già negli anni Sessanta ed ancor di più negli anni Settanta, cominciarono, in tutto il mondo, a manifestarsi quei “segni” precisi ed inconfutabili che annunciavano il declino del Movimento moderno.

Venturi, Moore, Graves e Rudolph negli Stati Uniti, Jencks in Gran Bretagna, Portzamparc in Francia, Hollein in Austria, Holzbauer e Boehm in Germania, solo per citarne alcuni tra i più famosi.

In Italia Ridolfi con le ultime opere, Gardella, Anselmi e Portoghesi con quelle della consapevolezza, ma soprattutto G. Valle (Residenze alla Giudecca a Venezia) e Quaroni (Teatro dell’Opera a Roma) con quelle della maturità, allontanarono decisamente la loro linea di ricerca dal Movimento moderno per aderire a questo nuovo fermento, a questa nuova cultura architettonica, con la speranza di trovare un nuovo equilibrio.

Tutto questo per dire che mi sembrava riduttivo, bollare con l’etichetta della semplice riproposizione e/o della citazione di forme storiche, facendo supporre anche una assenza di contenuti, quello che, a mio modesto parere, era invece il tentativo di riannodare o meglio ripristinare una comunicazione con la storia ed il nostro passato, anche quello recente, che il Movimento moderno aveva volutamente spezzato. Nonostante tutto c’era qualcosa in questo nuovo modo di porsi davanti ai problemi della nostra disciplina, che ancora non aveva saputo conquistarmi definitivamente.

In ogni caso, pur condividendone lo spirito, questo nuovo linguaggio espressivo non riusciva, però, a coinvolgermi emotivamente e le corde delle mie emozioni restavano in attesa di altre sollecitazioni.

Nel citare alcuni dei maggiori architetti italiani che avevano aderito a questa nuova linea oramai riconosciuta come Post-modern, ho tralasciato di menzionare Aldo Rossi, perché, secondo me, è stato in assoluto uno dei più grandi architetti del novecento, non solo italiano, e vorrei qui ricordarlo brevemente.

Il primo architetto italiano a vincere nel 1990 il Premio Pritzker, (Premio Nobel dell’Architettura), eguagliato solo da Renzo Piano nel 1998. Negli anni Ottanta non conoscevo molto bene Rossi e le sue opere, ed anche per questo, forse, nutrivo molte perplessità nei suoi confronti. Devo riconoscere che l’esperienza con Portoghesi prima, e le occasioni di lavoro con Giovanni Rebecchini dopo, contribuirono a smantellare la mia diffidenza dettata solo da un atteggiamento di pregiudizio, più che da una effettiva posizione di attrito verso la sua architettura.

L’invito di una coppia di amici a trascorrere un fine settimana a casa loro a Parma, fu l’occasione del mio primo incontro con le opere di Rossi. Con gli amici ci recammo al Centro Torri, un’opera considerata, da alcuni, tra le meno importanti, ma per me fu un’autentica rivelazione. Una sensazione molto forte di coinvolgimento e di vicinanza a quel modo di fare architettura che ho ritrovato e riprovato in seguito quando, sotto la spinta emotiva di questo primo approccio, ho sentito il bisogno di visitare altre opere in Italia ed all’estero. Il Teatro Carlo Felice a Genova, il Monumento a Pertini a Milano, gli Edifici di abitazione (IBA) e lEdificio residenziale e uffici in Schutzenstrasse a Berlino, le Case per l’area della Villette a Parigi. Opere, come tante altre, che spesso nascondono dietro la loro apparente semplicità, una intensa e creativa progettualità e, quindi, una grande capacità di visioni più complesse.

Aldo Rossi a Parigi ©Lucilla Brignola

Credo che proprio questa coesistenza di semplicità e complessità, che non poteva non emozionare chi come me vive quotidianamente di conflitti e di contraddizioni, sia alla base di quel senso del tragico che le opere di Rossi ci comunicano e che Arduino Cantàfora ha descritto, come meglio non si poteva, nell’introduzione al libro pubblicato due anni dopo la tragica ed improvvisa scomparsa di Aldo Rossi.

“…Non sono piccole o grandi trovate il repertorio della poetica rossiana, proprio niente di tutto questo. Non ci troviamo mai di fronte a suggestioni seducenti per cercare di simulare d’essere altro, ma al contrario sempre all’assunzione del peso di ciò che noi siamo.

Rossi ha sempre fatta propria la terribile verità nella quale la bellezza dell’arte si pone come ultimo baluardo sulla soglia dell’abisso della disperazione. L’architettura di Aldo Rossi è etica, per questo è tragica, ed è da qui che è nato il Teatro del Mondo, come più bello non si poteva immaginare. Ma i “Teatri del Mondo” erano già stati un tempo i teatri della vita, fatti per tentare di legare ancora una volta l’uomo alla natura”.

Non credo si possa aggiungere altro, tranne che ricordare come alcune opere e progetti hanno saputo riportare a galla momenti emozionanti della mia infanzia, come in un sogno ad occhi aperti, quando bambino giocavo con le piccole costruzioni di legno (cilindri, cubi, parallelepipedi, timpani di colore giallo, rosso e blu) regalatemi da mio nonno.

In questo sogno suggestivo pensavo che sarebbe stato semplice e divertente smontare, proprio come facevo da bambino, pezzo per pezzo, una di quelle architetture rossiane.

Aldo Rossi a Berlino ©Lucilla Brignola

Nessun altro architetto, fino ad oggi, ha saputo trasportarmi nei suoi progetti come ha fatto Aldo Rossi, affascinato dalla apparente semplicità della sua arte e della sua architettura ed intrappolato nella sua complessità di uomo.

Ho molti rimpianti per non averlo conosciuto e penso che sarebbe stato interessante vedere come avrebbe reagito oggi, lui che per certi versi potrebbe essere considerato una archistar ante litteram, all’avvento del cosiddetto star-system, e come avrebbe affrontato il tema della bio-architettura, delle energie rinnovabili e del risparmio energetico, che rappresentano sicuramente uno dei problemi più importanti che abbiamo davanti.

L’esempio di Rossi è stato per me, soprattutto crescita culturale e punto di riferimento nella ricerca, in ogni progetto, di qualsiasi tipo e/o dimensione, di quella qualità architettonica diffusa di cui le nostre città e la nostra vita hanno bisogno, e che secondo me rappresenta l’altro problema più importante del nostro tempo.

Fine della 3a ed ultima Puntata

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…vai alla 2a Puntata “Il geometra e l’architetto, tra moderno e post-moderno”

 


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