Il “68”. Zevi, Portoghesi e Rossi_ 1a Puntata

(Liberamente tratto dal libro di Giorgio Mirabelli “la COERENZA delle CONTRADDIZIONI. Architetture 1984-2009” , a cura di Cesare De Sessa – Edizioni Kappa)

“……Tante tavole piene di palle, pallette, pallozzini, pallozzetti, ma non ha disegnato nemmeno una maniglia!”

Con questo sfogo, quasi una gag surreale, e con il suo inconfondibile tono di voce, mentre nervosamente la mano sinistra portava alla bocca la pipa spenta, Bruno Zevi contestava il voto richiesto da un relatore, per una Tesi in Urbanistica, in una Commissione di laurea di un oramai lontanissimo Giugno 1977.

Da lì a qualche mese avrei dovuto affrontare anch’io l’esame di laurea e conoscevo bene Zevi per aver seguito le sue lezioni ed aver sostenuto con lui l’esame di Storia dell’architettura II.

Quindi non mi stupì il suo sfogo che era la conferma delle contraddizioni vissute ed ancora presenti all’interno della Facoltà di Architettura di Roma e nel Paese, in quel determinato momento storico.

Il vento del Sessantotto” che aveva “gonfiato” i nostri cuori e “spolverato” le nostre teste, era passato con il suo carico di giuste rivendicazioni e speranze rivoluzionarie, ma anche di illusioni e di tragiche utopie, alimentando in parte la deriva terroristica che, alla fine, sembrava avere spazzato via tutto; in quell’arco di tempo che è stato consegnato alla storia come gli anni di piombo….

Nel libro “la COERENZA delle CONTRADDIZIONI”  ho voluto anche testimoniare, attraverso il racconto del mio mestiere di architetto, con le poche opere realizzate ed i tanti progetti elaborati, quanto sia stato significativo per la mia generazione il movimento del Sessantotto ed in che modo abbia influenzato la nostra vita.
Tutto ciò presupporrebbe lucidità e distacco dagli accadimenti, cosa di cui dubito fortemente.

Copertina del libro

Per anni abbiamo ascoltato pazientemente le bacchettate di alcuni ex leader sessantottini che, dall’alto delle loro comode poltrone, ci hanno elencato e spiegato tutti gli errori e/o gli orrori di quei movimenti.
Poi giovani scrittori che a quel tempo non erano nemmeno nati, ci hanno spiegato come e perché le nuove generazioni, a distanza di quasi 40 anni (sic!) si sono sentite oppresse dall’eredità e dal peso di quel “terremoto” sociale, politico e culturale che ci travolse in quegli anni. Potrei affermare banalmente, con un luogo comune, che “gli assenti hanno sempre torto”, ma non è così.

Però se non si analizza soprattutto “l’aria” che si respirava in quegli anni, ma si parla solo delle conseguenze, soprattutto di quelle negative, non si fa di certo un favore alla Storia.
Non mi sono mai iscritto al Partito dei “sessantottini pentiti”, ma nemmeno a quello dei “nostalgici”, semplicemente perché ritengo che il movimento del “68”, storicizzato e inquadrato nel suo tempo, sia stato fecondo anche di cambiamenti positivi e quelli sì che sono arrivati fino ai nostri giorni.
Sarebbe altresì sciocco non riconoscere anche quanto di sbagliato ci sia stato in quella rivolta studentesca che, portava con sé tutta una serie di elementi di confusione e di forte contraddizione, tipici anche dei movimenti spontanei e popolari.
La cosa più difficile è stata ed è quella di distinguere nettamente i due aspetti del “fenomeno 68” per evitare, come poi in parte è avvenuto, di buttare, come si suol dire, il bambino con l’acqua sporca. Chiudo questa parentesi che alla fine non sarà del tutto estranea al contenuto di questo intervento, come potrebbe sembrare, per tornare al 1977 ed ai problemi non solo politici che ci turbavano in quanto futuri architetti.

Scrive Paolo Portoghesi: “…Tra le conseguenze più drammatiche che la rivolta studentesca del Sessantotto ha avuto sulla cultura architettonica italiana c’è stata la separazione drastica tra professione e ricerca. I protagonisti della rivolta, di solito figli dell’alta borghesia, disdegnarono l’impegno professionale che bene o male determinava un rapporto di dipendenza dal potere economico per rifugiarsi nella gabbia dorata dell’architettura “disegnata”… anche per un’ intenzionale collocazione del progetto in una regione utopica: un “controspazio” che aveva un valore simbolico di opposizione rispetto alle incerte politiche del riformismo nostrano”.
Tutto vero. Ma, naturalmente, non del tutto esaustivo.

Soprattutto perché, come me, tantissimi giovani che si iscrissero alle Facoltà di Architettura, nei primi anni “70” non erano certo figli dell’alta borghesia, tutt’altro.
Eravamo forse i figli delle prime conquiste del Sessantotto, come quella che permetteva l’accesso a qualsiasi Facoltà universitaria indipendentemente dalla scuola di provenienza e senza nessun tipo di esame integrativo.
Giusto? Sbagliato? Allora ci sembrava più che giusto!
Molti di noi venivano da quel ceto cosiddetto “popolare”, fatto di operai di vario tipo, di artigiani e piccoli commercianti che sognavano per i loro figli un futuro diverso e migliore sull’onda di un boom economico che cominciava a dare i primi segni di esaurimento.

Ricordo che quando manifestai ai miei genitori la volontà di voler frequentare il liceo e poi l’Università per diventare architetto, mio padre, che con una piccola officina da meccanico sosteneva una famiglia con 5 figli, di cui sono il secondogenito, con la concretezza di chi è abituato quotidianamente, per non farsi troppo male, a misurare la distanza tra il sogno e la vita reale, mi disse: “Guarda che se poi non potrò mandarti all’Università, e molto probabilmente sarà così, ti troverai in mano una Licenza liceale che non ti dà nessuna qualifica, per cui è meglio che ti prendi un bel Diploma, magari da Geometra che oltretutto è una professione affine a quella dell’architetto, poi si vedrà”…

 

Fine della 1a Puntata – La prossima a quando ne avrò voglia!

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vai alla 3a Puntata “Aldo Rossi, l’ultimo “maestro”


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