Ho un punto di vista chimico-fisico sulla fotografia, sarà colpa del mio essere farmacista?
La fotografia nasce solida: solida come le lastre di vetro e le grandi macchine che servivano a scattare fotografie nelle quali la luce e il lampo del magnesio fermavano gruppi familiari riuniti intorno al padre e alla madre, soldatini in atteggiamento marziale, uomini e donne spaesati nel momento di fare i documenti per emigrare. E queste fotografie si stampavano, adoperando supporti e prodotti che hanno consentito alla maggior parte di quelle stampe di resistere al tempo e alla vita dei protagonisti ritratti, arrivando ai nostri giorni e ai nostri muri. Le foto del nonno morto un secolo fa, in quella posa così gentile passeranno, quando io non ci sarò più, sulle pareti di altre case: speriamo non sia un rigattiere a ricollocarle.
La fotografia è stata solida come le reflex degli anni Sessanta, di vero e pesante metallo che hanno documentato le rivoluzioni e molte guerre, solida come le certezze dei rivoluzionari immortalati dai reporter, solida come le reflex giapponesi che hanno resistito ai miei maltrattamenti di rustico ventenne.
E da queste macchine, alimentate da rullini che concedevano la moderata creatività di 36 pose al massimo, sono usciti negativi solidi, stampati su carte fotografiche belle ma poco resistenti, paradossalmente, alla luce.
Poi, appaiono le prime macchine digitali e la fotografia diventa liquida: liquida, come la possibilità di scambiare velocemente i file di pochi megabyte e trasportarli su pendrive o dischetti, diventa liquida perché è spesso lasciata ad invecchiare sugli hard disk e riscoperta dopo anni con quel sapore di vino vecchio, non sempre buono, diventa liquida perché spesso, come quando si tira involontariamente il tappo della vasca, i file contenuti nelle schede di memoria vengono cancellati senza lasciare traccia, per essere rimpiazzati da altri file. Ricordo quando acquistai la mia prima fotocamera digitale, poco più di un giocattolo, con un piccolo sensore di soli 3 megabyte: mio figlio la maneggiò per qualche istante poi mi chiese “papà, dove si mette il rullino?”, e, quando risposi che non serviva il rullino, sentenziò “allora non serve a niente, è finta!” Non era troppo lontano dalla realtà.
Infine la fotografia diventa gassosa perché il supporto che la trasporta, lo smartphone o il social, sono effimeri e precari, e basta che il supporto si guasti o venga smarrito per fare evaporare i byte, e farli perdere per sempre: come quando Ulisse (fu lui?) aprì gli otri di Eolo e i venti si dispersero. La fotografia gassosa è come il profumo, anche il più intenso dopo un po’ perde il senso, e si dimentica. Ha un pregio, quello di costringere all’oblio digitale milioni di scatti insulsi, di foto di brutte feste, brutte cene, insulsi incontri. La fotografia gassosa costringe a complicate operazioni per essere trasportata da un telefono all’altro e spesso, al momento di avviare il nuovo smartphone così lucido e levigato, si decide che quelle immagini avevano senso solo nel momento in cui si possedeva il device con il quale furono scattate, e allora si eliminano, per sempre.
La fotografia gassosa porta con sé la perniciosa e contagiosa patologia del selfie: il selfista cronico è un essere senza identità, che affida al selfie quotidiano la certificazione del suo essere in vita, e la affida ai social affinché altri sappiano che lui – anche se non ha alcun valore – esiste. Forse, altrimenti è come un gas, inodore, incolore e insapore che si dissolve nell’istante stesso in cui viene realizzato.
Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web e possono essere soggette a copyright, le altre sono coperte dal diritto d’autore © Antonio Musotto
Si fa presto a dire Bio!
Sono nato a Palermo nel 1960, i miei mi hanno portato subito a mare e il mare è rimasto il mio elemento ideale. Studiai senza troppo entusiasmo “è intelligente, potrebbe fare di più ma non si applica” era il mantra dei miei insegnanti: mia madre, insegnante pure lei, rosicava da morire perché avevo imparato a leggere a tre anni seguendo Alberto Manzi in tv, e sapeva che le cose le sapevo, ma non lo dimostravo. Al liceo – e questo doveva farmi presagire il mio futuro – facevo i temi a tutti, o quasi tutti, ovviamente copiando il loro stile e stando bene attento che spuntassero un voto inferiore al mio. Maturità classica traumatica, laurea in farmacia con la velocità di speedy gonzales: avevo la Voigtlander di mio padre ma poi confrontandomi con gli altri studenti acquistammo le prime reflex elettroniche. Io comprai una Yashica FR1, che ho usato fino a poco prima del matrimonio. Per una decina d’anni ho fotogafato e filmato le tappe auxologiche dei miei figli, poi siccome ero stressato e a causa del lavoro di allora passavo tanto tempo a casa davanti al pc, ho cominciato a scrivere racconti. Ho ripreso a fotografare seriamente un giorno che, dopo avere regalato a mio figlio una pesantissima Nikon digitale, fui folgorato dalle Panasonic Micro 4/3: è ancora il mio sistema, e non lo cambierei perché è trasportabile, compatto, mangia poca batteria e mi fa fare belle foto. Sono uno che si concentra sull’inquadratura e non sulla tecnica, e la stessa cosa potrei dire della mia scrittura. Il racconto breve (non avrò mai la pazienza e la costanza di scrivere un romanzo) è una forma narrativa nella quale mi trovo a mio agio, Todo Mundo II è la mia ultima opera, non so se ultima ultima o no. Vivo a Palermo “vado in giro, vedo gente, faccio cose” nel campo delle biotecnologie e malattie genetiche rare. https://www.amazon.it/Sicilia-Ediz-illustrata-Antonio-Musotto/dp/8899003297