Le lettere.

Questa casa. Questa casa ha un unico pregio, quello di essere
veramente vicina all’Ospedale dove lavoro: sono una Farmacista Ospedaliera, mi
toccano le reperibilità e anche i turni festivi, meglio abitare vicino
all’Ospedale.

Questa casa. Questa casa era di mia madre, ci venne a vivere
dopo essere rimasta vedova: è ancora piena di cose sue.

Di suo marito, cioè di mio padre, solo poche tracce.

Una fotografia in camera da letto, il giorno delle nozze:
sorridono, chissà se erano veramente felici.

I libri, quelli ce ne sono tanti, gli scaffali del corridoio, questo
corridoio così lungo che potrebbe ospitare una stazione ferroviaria, ne sono
invasi.

Non ci sono spazi liberi.

I libri. Sono libri che non ho acquistato io, sui quali non ho
studiato, mi sono estranei.

In forma neutrale. Non li sento nemici ma nemmeno provo per loro
qualche forma di affetto, che potrebbe farmi dire che questi libri sono
importanti per me.

Forse lo erano per mia madre, forse lo furono per mio padre, ma ormai
non ho più la possibilità di chiederglielo.

Ma. Ma tra qualche giorno dovrò prendere una decisione, decidere
cosa tenere per me e cosa invece buttare, del contenuto stratificato nel tempo
di questa casa.

La venderò, ne ho già vista un’altra che mi piace, e che è più
adatta al desiderio di spazio confortevole, ridotto, sufficiente per le
esigenze di una ragazza che vive da sola.

E che probabilmente continuerà a vivere da sola: questa città mi
accoglie con diffidenza, dopo gli anni trascorsi in una metropoli a studiare, e
poi a lavorare in un altro Ospedale.

Mi sono definita ragazza. Mi sento una ragazza. Con tanto tempo
per pensare e sognare e fantasticare, non d’amore o altre frivolezze del
genere: sono una farmacista, sono abituata alle dosi, alle reazioni e a capire
se qualcosa non funziona più, ha perso d’efficacia.

Lui. Lui vive lontano da me, dice che in fondo non è una cattiva
cosa. Così assorbito dal lavoro, e dai pensieri e dalle responsabilità.

Ci vediamo. Ci vediamo ogni due o tre settimane. Lui viene qui,
ha un piccolo trolley blu, semivuoto quando arriva e semivuoto quando parte.
Non riesce a portare via con sé niente di me, non riesce, forse non vuole. O
forse non fa parte del suo modo di vivere, lui è un ingegnere, vive per
algoritmi, lui funziona, con i sentimenti in background.

Sembra una di quelle storie che devono finire ma non trovano neanche la forza di finire: sarà una
questione di energia cinetica residua, prima o poi salterà un viaggio, poi
l’altro e quindi non ci telefoneremo neanche più, solo qualche messaggio
cordiale e poi basta.

Dissipati; una storia finita in frammenti atomici a basso
livello di reattività, per i quali non esiste colla adatta a ricomporre il
tutto.

Forse passerà qualche settimana, forse alcuni mesi: potrebbe
capitare di reincontrarci nella nostra città, al Sud: penso che lo eviterò, non
voglio più sciupare affetto.

Forse è già finita, Non serve che io faccia nulla, è già finita,
smetteremo di vederci e amen.

Oggi ho preso un libro dallo scaffale in basso. È stato un incidente, frutto di una distrazione.

Cioè non è che lo avessi preso per leggerlo, mi era scivolato un
orecchino a terra, mentre tentavo di infilarlo camminando verso l’uscio.

Così mi sono inginocchiata e ho guardato lo scaffale.

La luce che entrava nel corridoio creava una barriera tra me e
l’orecchino, una barriera di fotoni e pulviscolo atmosferico, così ho dovuto
abbassarmi ancora un po’ per guardare meglio.

Le orecchie mi ronzavano per il silenzio assurdo che c’era in
casa, ho visto l’orecchino e anche il libro accanto al quale era caduto. Ho
esitato un attimo, il ronzio si è stabilizzato e ho potuto decidere di
allungare la mano e prendere quel libro.

Perché. Perché si vedeva una busta spuntare dal centro del
libro, una busta bianca da lettera.

Poi, senza motivo ho allungato la mano causando agitazione nel pulviscolo
luminoso, e ho tolto il volume dalla sua sepoltura, l’ho aperto e ho sfilato la
busta. La busta aveva un francobollo nuovo, era chiusa e senza indirizzo.

Sono rimasta senza fiato: sulla busta c’era il mio nome.
Alberta.

Qualcuno che aveva vissuto in quella casa aveva pensato di
scrivermi una lettera senza poi spedirmela.

Ho guardato meglio il francobollo, esponendo la busta alla lama
di luce, e causando un vorticoso movimento del pulviscolo illuminato, era una
edizione commemorativa dei campionati mondiali di calcio, Spagna 1982.

L’anno della mia nascita.

L’anno in cui moriva mio padre.

Ho aperto la busta, mi tremavano le mani e le gambe, mi sono
lasciata scivolare e ho appoggiato le spalle alla libreria.

Ho iniziato a leggere.

Bolzano, 25 settembre 1982

Ad Alberta                    

Ti piacciono i Genesis?

Perché c’è una premessa, una prefazione a quello che ti dirò
dopo.

Dopo aver pranzato in facoltà ho un po’ di tempo libero prima
della prossima lezione, ho preso il walkman e ho riascoltato Selling England by
the pound, meravigliandomi del miracolo compositivo che ha caratterizzato la
musica dei Genesis, che non è rock ma barock, nel senso di rock barocco.

Ma in senso positivo, perché anche tu lo sai (forse non lo sai
ancora, ma lo scoprirai, voglio insegnartelo) che quella forma d’arte
denominata barocca può avere delle punte di bellezza assoluta.

Cosa scrivere ad una figlia che ancora non parla, e non sa leggere?
Posso raccontarti qualcuno dei miei punti di vista sulla vita.

Cambio argomento (ma i Genesis torneranno), e ti spiego quella
che è a mio parere la stechiometria del rapporto di coppia: una reazione
complessa, in diverse fasi, che prevede metamorfosi e trasformazioni,
sedimentazioni e reazioni.

Prendere due corpi umani, possibilmente dotati di cervello, io
preferisco che siano un maschio e una femmina ma “de gustibus non disputandum est”, metterli in condizione di potersi
osservare, ascoltare, annusare. Se esiste affinità molecolare e sensoriale avviene
la prima reazione: l’attrazione fisica.

Se uno dei due elementi non si sente attratto dall’altro si avrà
un no contest, nessuna reazione e quindi nessun salto al livello superiore.

Immaginiamo invece che la reazione sia possibile: a questo punto
due individui normali -riscaldati ed eccitati dalla attrazione di cui sopra – saltano
al livello superiore, l’innamoramento.

Questa è una fase ad altissimo dispendio energetico, transitoria
e di breve durata: non si resta innamorati a vita, la molecola che si forma
dopo che l’amore ha dissipato la sua forza esplosiva non ha un nome preciso, ma
possiamo chiamarla affezione.

Quindi appare evidente che chiedere di continuo al partner “mi ami, mi ami ancora?” è fuorviante e
anche provocatorio. Voglio vivere per sempre (si spera) con te, ma non
chiedermelo ancora se ti amo: potrei deluderti dicendoti che ti ho amato per il
tempo che ci vuole a due atomi di idrogeno a scegliersene uno di ossigeno e
formare una molecola di acqua. Si spera che il partner o la partner non prenda
l’affermazione alla lettera! 

Parlo alla collega farmacista, lo so che tu diventerai
farmacista (come tuo padre): l’amore ha dose e forma, durata di effetto,
efficacia, tollerabilità e effetti collaterali diversi a seconda della cavia,
in qualche caso è letale o inefficace.

Ma. Ma ci vogliono i catalizzatori, e questi sono gli interessi
comuni, a te piacciono i Genesis (hai visto che sono tornati?) e piacciono pure
a me, a te piace lo Chardonnay e a me pure, a te piace andare in moto come
piace a me: più catalizzatori aggiungiamo migliore e più duratura sarà la
stabilità del sistema coppia. Te e me sono i due atomi che formano la
molecola coppia, non mi riferisco a te, Alberta.

Ma i catalizzatori non bastano, ci vogliono i conservanti. E non
sto parlando di benzoato di sodio o di metabisolfito, sto parlando di quello
che farà durare più a lungo la coppia.

Mettere al mondo dei figli. Sbagliato. O meglio incompleto. Il
conservante principale della coppia è la progettualità: avere uno o più
progetti farà sì che – questi progetti ovviamente devono essere ragionevolmente
ambiziosi e raggiungibili – la relazione tra quel maschio e quella femmina
coinvolti durerà a lungo, “finché morte non ci separi”. 

Cosa intendo per progetto? Fare un paio di marmocchi può essere
una base di progetto, ma il costrutto completo è “avere dei figli, educarli nel
modo più creativo e libero possibile, far sì che con l’impegno delle energie
della coppia possano essere lanciati verso una professione realizzante, imitino
i loro genitori, facciano coppie anche loro e producano un certo numero di
nipotini, lanciando così il DNA degli avi nel futuro”. 

Ma anche “quando smetteremo di lavorare, compriamo una barca a
vela e un cane Labrador e facciamo il giro del mondo” oppure “leggiamo insieme
tutti gli autori giapponesi” o fare un viaggio in Transiberiana con la propria
figlia. Quando compirai diciott’anni voglio regalarti questo viaggio. Mi piacerebbe
avere tutto quel tempo a disposizione per raccontarsi, o nutrirsi di panorama e
del rumoroso ritmico silenzio del treno che va, che aiuta a scavare dentro se
stessi, con una consapevolezza che il viaggio può dare. Mi piacerebbe, mi piace
pensarlo.

Bisognerebbe essere consapevoli di queste cose, invece la
maggior parte delle persone non ha cognizione e conoscenza necessaria, e poi si
lasciano, si odiano, si schifano, si ignorano, si ammazzano anche.

Forse ho divagato, e non sono arrivato al punto.

Prometto che ci sarà un seguito.

Per il momento, buona notte e lasciaci dormire, figlia mia.

Papà.

Tengo il foglio di carta da lettera tra le mani, una bella
scrittura, con la penna blu.

Non ho fatto in tempo a sentire la tua voce tanto da poterla
riconoscere, a parte qualche indizio in questa casa di te non so altro.

Però hai indovinato, sono diventata una farmacista, non sono
rimasta all’università come te.

Ma in questa lettera non la trovo la formula per risolvere il
mistero e la domanda che mi aveva perseguitato per anni, ritorna; perché?

E il seguito? Non ho tempo adesso di mettermi a cercarlo: se
un’altra lettera è tumulata in questa casa, in questa libreria, la cercherò
quando smonterò tutto. Forse.

Adesso devo uscire.


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