Conferenza Globale delle Donne Indigene

Partecipazione alla politica, impatto della violenza sulle comunità e difesa dei territori, sono questi i temi di cui si è parlato durante la seconda Conferenza Globale delle Donne Indigene. L’evento ha riunito, in forma virtuale a causa della pandemia, 500 leader di donne indigene provenienti da diverse regioni ed esperienze – parlamentari, artiste, donne delle Nazioni Unite, sindache e attiviste sociali –  per dialogare e rafforzare il loro movimento globale. Con l’obiettivo di riscrivere e definire una nuova tabella di marcia per tutto il mondo indigeno. Dalla metà di agosto ai primi di settembre un calendario fitto di dibattiti e workshop con un orizzonte comune: “Niente di noi, senza di noi”, per ottenere visibilità e scrivere una agenda politica globale. Dalle maori della Nuova Zelanda alle ambientaliste delle Filippine, dalle comunità del Burundi e dalle donne Twa del bacino del Congo alle nepalesi e alle donne Sami della Norvegia, alle donne Quechua, le Maya, le Mapuche, le Yucateco e le Otom delle tante realtà indigene dell’America latina.

Venticinque anni dopo la Dichiarazione e la Piattaforma d’azione di Pechino, considerata un punto di svolta per l’agenda mondiale sulla parità di genere, donne e ragazze indigene, seguite da poche osservatrici esterne, si sono date appuntamento per dire quello che vogliono, con l’idea di rafforzare l’organizzazione per il riconoscimento dei loro diritti, perché ancora si ritrovano a dover combattere la violenza strutturale e la discriminazione e l’emarginazione che le colpisce, spesso costrette da sole a contrastare l’espropriazione delle terre che abitano, la violenza ambientale, il cambiamento climatico e l’imposizione di progetti di sviluppo decisi per loro da altri. Con i loro sistemi di vita e cultura sempre sotto assedio e delegittimati dagli stati egemoni, provenienti da quei sistemi coloniali economicamente dipendenti dal saccheggio delle risorse naturali e oggi politicamente organizzati dal neoliberismo e dalla politica di mercato. Così come si legge nelle conclusioni dello “Studio globale sulla situazione delle donne e delle ragazze indigene”, allegato al kit di lancio della conferenza.

Secondo le informazioni raccolte dalle organizzazioni partecipanti, le popolazioni indigene rappresentano il 6,2% della popolazione mondiale, ma costituiscono il 15% delle persone più povere del mondo. Inoltre, mentre c’è stato un miglioramento nell’accesso all’istruzione per le donne e le ragazze in tutto il mondo, le donne indigene si trovano ancora a dover lottare per l’accesso all’istruzione di base in particolare in Africa e nella regione Asia-Pacifico, così come all’istruzione secondaria e terziaria in tutte le altre regioni dove vivono, una difficoltà legata alle gravidanze infantili, ai matrimoni forzati, all’imposizione di svolgere un lavoro anche se minorenni o spesso una discriminazione vera e propria, legata al razzismo.

In più per tutte le donne indigene, indipendentemente dalla loro posizione geografica o dalla situazione socio-politica, gli indicatori di salute assumono valori costantemente più bassi rispetto a quelli delle popolazioni non indigene, con una aspettativa di vita più bassa e tassi più alti per la morbilità e mortalità materna.

La pandemia ha esacerbato disuguaglianze già esistenti: i vaccini non raggiungono queste comunità e, nei pochi territori dove arrivano, l’importanza della vaccinazione non viene spiegata nella lingua nativa e l’uso del monolinguismo dei servizi pubblici non permette un accesso equo all’assistenza sanitaria. Anche nella sfera economica le donne indigene sono state particolarmente colpite, perché la maggior parte di loro è coinvolta in attività produttive del settore informale. In molti paesi per il coronavirus gli imprenditori hanno avuto sussidi dai governi per poter sostenere la propria economia, ma nel caso delle donne indigene e delle loro imprese locali, non c’è stato alcun sostegno. Aumentando un divario sempre più difficile da superare.

Aprendo la conferenza Tarcila Rivera Zea, ex-membro del Forum Permanente per le Questioni Indigene dell’ONU e fondatrice di Chirapaq, l’associazione formata da donne andine e amazzoniche, ha detto: “Sappiamo che ogni sorella, ogni donna indigena, in ogni angolo del mondo, in ogni comunità, lotta, si sforza e affronta situazioni perché i nostri popoli e le nostre culture sopravvivano, e molte volte non siamo visibili. Contribuiamo, collaboriamo, resistiamo attivamente, ma siamo spesso invisibili”.

Tutto quello che ha detto Tarcila Rivera Zea nasce dalla sua storia. Da lei bambina di dieci anni che ha iniziato a lavorare come collaboratrice domestica, a lei giovane donna che ha dovuto imparare lo spagnolo per sopravvivere in Perù. La ribellione che sostiene è iniziata con lei, con la sua vita materiale, e lo stesso si può dire per la tante altre donne che hanno raccontato le proprie storie e le troppe violenze subite. Violenze dovute alla militarizzazione dei territori, violenze fisiche, psicologiche, economiche e lavorative che si ripetono sia all’interno che all’esterno delle comunità indigene.

Incontrarsi e dare voce alle tante realtà rappresentate è stato utile per analizzare la continuità dei progetti politici globali, per capire come rafforzarsi e quali buone pratiche hanno dato sostenibilità finora, per capire come andare avanti. Come stabilire nuove alleanze tra le loro comunità, il loro movimento, e altri settori. Come avviare un dialogo con le autorità invitate per dare eco agli accordi e alle risoluzioni che sono emerse come spazio di advocacy e per dare risonanza alle tante che chiedono di sradicare il razzismo e la discriminazione che si esprime nell’esclusione, nella negazione dei diritti e nell’invisibilità.

“Non siamo esotiche, non siamo folklore, siamo popoli con vita”. Essere indigene è una ricchezza per tutte loro, ma sembra che per il sistema formale sia ancora una fonte di vergogna. O comunque di disinteresse.

Questo articolo è stato già pubblicato sulla rivista Left

 





Città femministe

Articolo già pubblicato su Left

A chi appartiene lo spazio urbano? Le città che abitiamo sono a misura di uomo o di donna? O, per dirla meglio, le città rispondono ai bisogni di tutte le persone che le compongono? La pianificazione urbana certo non è mai stata neutra. Quando 30 anni fa nelle grandi città spagnole sono state fissate le linee guida per la mobilità si è pensato di più a soddisfare un cittadino standard che era maschio, bianco e di classe media. Così le strade e lo spazio pubblico sono state associate alle attività produttive, un tempo svolte soprattutto dagli uomini, e alle automobili che venivano usate per spostarsi verso i luoghi di lavoro. In questo modo si è avviata una narrazione urbana declinata al maschile che ha portato a un disegno delle città dove le donne venivano pensate nelle case, dedite solo alla vita familiare.

Ancora oggi nonostante la massiccia incorporazione delle donne nel mondo del  lavoro, l’area urbanistica delle principali città spagnole stenta a proporre una soluzione alle difficoltà delle donne nel combinare la loro vita professionale e familiare, quel ruolo di caregiving che spesso sono costrette a svolgere e che non prevede solo una mobilità lineare con un punto di partenza e uno di arrivo, ma molti di più. Sono soprattutto le donne che nel tragitto da casa al luogo di lavoro devono accompagnare figli e figlie a scuola, poi quando escono dal lavoro devono ricordarsi di andare al panificio o dal fruttivendolo per comprare quello che trasformeranno in pranzo o cena, devono ripassare dalla scuola per riprendere figli e figlie, devono trovare anche il modo e il tempo di andare dal medico per accompagnare un genitore anziano o un parente non autosufficiente. Poi, quando possono, raggiungono anche il parco o il giardino più vicino per portare a spasso il cane.

A Madrid come a Barcellona, a Valencia o Siviglia, la forma urbanistica è spesso il risultato e la prova dello stretto legame tra patriarcato e capitale. Nei diversi spazi che abitiamo – le case, le strade o le piazze – il modello urbano risponde principalmente alle esperienze e ai bisogni di un soggetto maschile considerato più redditizio e a un modello economico basato sullo sfruttamento. Così poco alla volta, seguendo questa logica, l’urbanistica e l’architettura hanno favorito l’esclusione dallo spazio urbano delle donne e di altre soggettività non egemoniche, come le persone razzializzate, gli anziani, i bambini o le persone con diversità funzionale.

Di fronte a questa concezione della città, che costringe le persone che la abitano ad affrontare grandi spostamenti quotidiani, privilegiando l’uso di veicoli privati, e concepisce le strade come luogo di transito e non di incontro, è emersa l’idea dell’urbanistica femminista e dell’urbanistica inclusiva, che racchiude i contributi di vari campi dell’urbanistica e dell’architettura sulla proiezione di città sostenibili, adatte alla vita quotidiana e centrate sui bisogni delle persone. Negli ultimi tempi è aumentata la richiesta di progetti che rivendicano la necessità di pianificare le città dando priorità alla mobilità necessaria alla cura, principalmente responsabilità delle donne e proprio per questo spesso invisibile, in opposizione alla supremazia della mobilità lineare, cioè quella da casa al lavoro, che mette al centro gli aspetti produttivi e remunerativi, tradizionalmente legati agli uomini.

Ce lo chiede l’Europa quando parla di transizione ecologica e sostenibilità? Città come Vienna o Parigi sono andate oltre la progettazione e hanno già realizzato zone urbane “ dei 15 minuti” basate sul concetto di prossimità, dove il lavoro, i negozi, l’assistenza sanitaria, l’istruzione, il benessere, la cultura, lo shopping e il divertimento possono essere tutti raggiungibili entro quindici minuti da casa propria, a piedi o in bicicletta. La pandemia, il cambiamento climatico e molte altre sfide dimostrano che il mondo ha bisogno di solidarietà, azione collettiva e capacità di lavoro interdisciplinare. La crisi del covid-19 ha esacerbato le disuguaglianze nei confronti delle persone vulnerabili, comprese le donne e le ragazze, ma ha esaltato il loro ruolo predominante nella risposta alla pandemia. Le ha rese consapevoli del divario tra la città costruita e la città che la vita quotidiana richiede per svolgere tutti i suoi compiti. In contrasto con quanto realizzato finora mettere la cura e la socializzazione al centro della progettazione incoraggerebbe tutti, forse anche gli uomini, a partecipare a questi compiti.

In Spagna collettivi di urbaniste femministe come Dunak Taldea nel nord del paese o il Col·lectiuPunt 6, formato da architette e sociologhe riunite in una cooperativa con sede a Barcellona, o UrbanIn+, per l’urbanismo inclusivo, da anni reclamano il recupero dello spazio pubblico,  per garantire il diritto alla città e per costruire città inclusive e socialmente emancipate che incorporino le esperienze e i bisogni del luogo e delle persone che usano e vivono nei loro spazi. Nella pianificazione urbana, la visione femminista delle città spagnole si sta facendo strada nelle istituzioni dopo oltre vent’anni di lotta in ambito accademico e professionale. L’analisi parte dalla consapevolezza che la pianificazione urbana non è neutrale rispetto al genere e che è arrivato il momento di ribaltare le principali linee guida di pianificazione urbana che hanno dato priorità alle esigenze del genere maschile. Si tratta di mettere la vita delle persone al centro delle decisioni urbane. Urbanistica di genere o femminista? Si parla di urbanistica femminista e non solo di urbanistica con una prospettiva di genere perché sebbene il genere sia uno strumento analitico che permette di rendere visibili le differenze negli usi degli spazi dovute al fatto di essere donne e uomini, e i compiti, gli stereotipi e i ruoli attribuiti a ciascuno, si vuole fare un passo in più e si vuole analizzare come questi ruoli di genere influenzano e hanno implicazioni dirette nelle decisioni urbane.

L’impegno è quello di trasformare la società ripensando gli spazi, perché anche gli spazi contribuiscono a plasmare le realtà. Le città progettate dall’urbanistica femminista non pensano solo alle donne, non c’è un disegno che si riduce alle “cose che riguardano le donne”, ma cerca di incorporare una visione intersezionale che parla di problemi universali. La sfida è tener conto della diversità di genere incrociata con altre variabili identitarie, come l’età, l’origine, l’identità sessuale, il tipo di unità di convivenza in cui si vive, la classe sociale, la diversità funzionale, e così via. E come queste variabili si intersecano e si materializzano sotto forma di privilegi e oppressioni nella città e negli spazi che vengono utilizzati. Non c’è altra scelta che reinventare le città e introdurre la diversità delle esperienze e delle necessità in qualsiasi  progetto di pianificazione urbana, perché non è la stessa cosa vivere e sperimentare la città per un giovane adolescente omosessuale di origine straniera, come per una donna anziana, quasi ottantenne, che vive da sola e deve muoversi con un girello negli spazi pubblici o ha bisogno di una panchina dove sedersi ogni 200 metri.

 

 

 





Violenza sulle donne. 1906: cronache dagli Stati Uniti

L’anno è il 1906 e il giornale è L’Illustrazione Italiana, settimanale ad ampia diffusione, edito a Milano da Treves che, con le sue belle tavole in xilografia e fotografia, si ispira a modelli inglesi e francesi (The Illustrated London News e L’Illustration). Tra le notizie varie, di attualità e di costume, della rubrica Corriere, curata dal giornalista Alfredo Comandini (si firma Spectator), nelle prime pagine del n. 10 dell’11 marzo, si affaccia una questione che in Italia, in quel primo Novecento, trova qualche spazio nelle aule dei tribunali, ma viene ignorata dalla carta stampata: «La cronaca quotidiana torna a rimpinzarsi di brutti delitti coniugali. Di preferenza sono mariti che ammazzano le mogli. Noto, per l’onore del gentil sesso, anche una moglie che accoltella ferocemente il marito».
Una coincidenza casuale: siamo alla vigilia dell’8 marzo (la rubrica è datata 7), ma la Giornata della donna ancora non c’è. La proposta sarà lanciata tra qualche anno, nel 1910, dal congresso internazionale delle donne socialiste, su iniziativa delle delegate americane, ripresa da Clara Zetkin, dirigente della sinistra socialdemocratica tedesca. E passerà ancora molto tempo prima che l’appuntamento si stabilizzi ovunque all’8 marzo.
«A tutti questi dannati nel cerchione della disperazione coniugale, dedico, fresca fresca, una paginetta di curiosità americane», scrive Spectator, che – con qualche sgradevole scivolata di cattivo gusto (ma siamo nel 1906 e il suo pubblico è la buona, medio-alta borghesia, che certo non brilla per progressismo) – apre uno spiraglio sul trattamento dei casi di violenza sulle donne negli Stati Uniti. La prima «curiosità americana» viene dal Congresso: «La Camera dei rappresentanti in Washington, ha respinto quindici giorni [or] sono, quasi all’unanimità, un progetto di legge di Adams, deputato della Pensilvania [sic], tendente ad assoggettare alla pena della frusta qualunque uomo risultasse responsabile di percosse inferte ad una donna». «Va notato che Adams è scapolo», commenta Spectator, certo di strappare ai lettori un sorriso di complicità, mentre «la maggioranza dei deputati al Congresso nord-americano è di ammogliati, e si capisce che la legge sia stata respinta».
«Ma non bisogna credere che i mariti, agli Stati Uniti, possano impunemente applicare il proverbio: “Chi batte ama”», continua il pezzo, introducendo la seconda «curiosità». «In certi Stati della Confederazione esistono leggi durissime a tutela esclusiva dell’incolumità personale delle mogli. Se debbo credere al World, un ricco gioielliere dello Stato di Alabama è stato condannato or ora a 75 dollari di multa [al valore attuale si dovrebbe trattare, più o meno, di 1700 euro] per avere bastonato troppo spietatamente la propria metà». Poi Spectator completa la notizia, senza evitare una battuta che ritiene spiritosa: «Una lezione a certe mogli può ben valere 75 dollari; ma il ricco gioielliere è stato condannato, per giunta, a due mesi di lavori forzati; ed i suoi concittadini hanno la soddisfazione di vederlo ogni mattina, in mezzo a forzati negri, spazzare le strade e spingere la carretta dell’immondizie trascinando ai piedi una catena più fastidiosa della catena coniugale».
Due parole, infine, sul deputato della Pennsylvania Robert Adams, che avrebbe voluto mettere mano alla frusta. Esponente del Partito repubblicano (ai suoi tempi su posizioni liberal-progressiste: era ancora il «partito di Lincoln»), era stato eletto alla Camera dei rappresentanti nel 1893, dopo un passato di politico locale e una breve esperienza diplomatica in Brasile. La proposta registrata negli atti parlamentari, frutto evidentemente di uno scatto di indignazione e con ogni probabilità soltanto provocatoria, sembra essere l’unico passaggio significativo di una biografia politica non particolarmente brillante. Certamente fu l’ultimo: pochi mesi dopo, a 57 anni, Adams si suicidò, sparandosi un colpo di pistola, travolto da sfortunate speculazioni finanziarie.

 





Strumenti in psicoterapia: la Fototerapia come linguaggio alternativo

La psicoterapia è relazione (nello specifico una relazione di cura), e come tale può usufruire, per dispiegarsi e mantenersi, di diverse modalità di comunicazione.

La particolarità della relazione terapeutica è quella di avere uno “scheletro” ben definito, dato da una cornice teorica di riferimento precisa, e da linee guida tecniche da cui a volte è difficile prescindere. Accanto a questi elementi più o meno stabili vi è una variabile determinata dal canale comunicativo utilizzato che diventa peculiare e tratto distintivo di quel rapporto specifico e che, in un altro rapporto, può invece avere poco o nessun senso. Tutto ciò è reso possibile dal fatto che ogni persona ha un canale comunicativo prediletto (scelta formatasi a seguito delle esperienze nella prima infanzia) attraverso cui i significati vengono compresi e ricordati; il cliente ci mostra, nella relazione terapeutica, quel canale invitandoci ad utilizzarlo per entrare in sintonia, capire ed essere capiti. Personalizzare la comunicazione con ogni specifica persona vorrà dire renderla più efficace utilizzando taluni strumenti e simboli al posto di altri.

La bontà di un terapeuta risiede, tra le altre cose, nella sua continua ricerca e disponibilità a padroneggiare nuove forme comunicative che possano ad esempio agevolare percorsi terapeutici “difficoltosi” o che hanno bisogno di trovare un nuovo linguaggio per comunicare nuove difficoltà.

Una di queste forme di comunicazione è la fotografia, che può essere usata in qualità di facilitatore della comunicazione. La fotografia è memoria, simbolo, desiderio e necessità. Come oggetto transizionale essa porta con sé ricordi, emozioni, significati molte volte più complessi e completi di quanto le parole riescano ad esprimere. Attraverso la fotografia un luogo o momento congelato nel tempo prende vita, dando l’impressione a chi osserva di trovarsi di fronte ad una testimonianza oggettiva della realtà, dimenticando che essa non è altro che una sua costruzione simbolica avvalorata dall’esperienza soggettiva di chi la sceglie.

In terapia capita a volte (molto più spesso di quanto uno possa immaginare) che il linguaggio verbale possa non bastare più. Qualcosa si è rotto in un punto così profondo e così in là nel tempo, quando ancora la nostra capacità comunicativa non era basata su ciò che diciamo, ma era costituita sostanzialmente da ciò che viviamo e sentiamo (nel qui-ed-ora del momento), ciò che siamo nel corpo. Ecco che allora molti significati non trovano espressione nella parola ma in simboli pre – verbali nascosti ad esempio in una foto.

In questi momenti e in questi casi per me, in qualità di terapeuta, la fotografia rappresenta quasi una nuova relazione, per molti aspetti più intima e sicuramente diversa. Entrare in punta di piedi nella vita di una persona attraverso le parole si trasforma in un coinvolgimento totalizzante fatto di corpi, luci, ombre e sfocature, momenti congelati nel tempo, espressioni, emozioni e posture che risuonano sia nella persona che ce le mostra per un motivo specifico, squisitamente personale, sia dentro di noi, in ciò che magari di diverso possiamo osservare e che può diventare una chiave di lettura mai esplorata prima di questo momento.

L’esplorazione dell’inconscio attraverso immagini e fotografie crea un’esperienza emotivamente molto forte poiché la narrazione di una storia cede il passo alla drammaticità del momento con tutta la sua carica emotiva intatta che si rovescia nel qui-ed-ora. Momenti congelati nella persona stessa, non solo nelle foto amate / odiate; attraverso esse riusciamo a mettere nuovamente insieme i pezzi di qualcosa che si agita al di sotto della coscienza.

Nella mia esperienza come terapeuta l’uso delle fotografie è limitato (con diverse variabili) a poche situazioni, in cui ad esempio si è reso necessario dare voce a qualcosa che non conosceva parole. Ancora adesso, nel ripensare ad alcuni di quei momenti mi commuovo nell’entrare in contatto con l’impatto di quelle emozioni autentiche così vivide e travolgenti.

Non credo sia necessario sottolineare il fatto che in terapia ciò che viene analizzato di una foto, o di una immagine generica, non è l’aspetto stilistico e artistico quanto ciò che rappresenta per la persona stessa e i legami che essa stabilisce con il subconscio di questa; paradossalmente una foto “brutta” può essere scelta e acquisire significato proprio per questo motivo.

Concludendo, lavorare con le fotografie ha per me una duplice valenza: superare il velo delicato e sottile della narrazione, entrare in contatto diretto con la vita inconscia della persona e portare il legame terapeutico ad una intimità maggiore (o forse questa ne è la causa più che una conseguenza);costruire una tolleranza emotiva maggiore del solito (da parte del terapeuta), in quanto il contatto immediato con certi tipi di contenuti non schermati dalla narrazione necessita di una capacità di stare con se stessi, le proprie e le altrui emozioni più forte e reattiva del solito. Questo è il motivo per cui è uno strumento molto utile e al contempo molto delicato da utilizzare e padroneggiare.





VICINE DI CASA, VICINE AL MONDO

Trent’anni di centro antiviolenza e quindici anni di Festival della Violenza illustrata per cambiare il mondo a partire dalle singole donne. Un bel compleanno per la Casa delle donne di Bologna che in questi decenni «ha visto passare oltre 12mila donne, ognuna di loro con una sua storia, importante, unica, di sofferenza ma anche di felicità per una nuova vita da ricostruire” come racconta Anna Pramstrahler, una delle socie fondatrici della casa e co-ideatrice del Festival: «siamo riuscite a costruire un centro autonomo e femminista, siamo tutte donne, formate, motivate, con una forte spinta politica a non volere considerare la violenza maschile contro le donne un problema “psicologico” come fanno i servizi istituzionali. È una questione globale, strutturale, una questione di potere tra i generi». E l’anno della pandemia lo ha confermato.

«L’emergenza sanitaria ha colpito in primo luogo le donne, questo ormai è chiaro e lo affermano anche fonti ufficiali: la povertà è aumentata e la cura di figli, anziani etc è tutta in mano alle donne. Gli episodi di violenza, soprattutto nei due mesi di chiusura totale, sono stati resi ancora più drammatici dal fatto che le donne non potevano chiedere aiuto, perché erano controllate 24 ore su 24 – continua Pramstrahler – Ma immediatamente dopo hanno chiesto aiuto ai Centri antiviolenza, anzi per noi i numeri sono notevolmente cresciuti. In più, moltissime delle donne povere, precarie, che hanno perso il lavoro a causa della violenza o della separazione, lavorano proprio nei servizi di cura e sono doppiamente svantaggiate”. Un motivo in più per confermare l’edizione 2020 del Festival anche se in versione completamente online, che sintetizza nel titolo “Vicine di case” una forte pratica femminista: «se la pandemia ci costringe a stare lontane, almeno fisicamente, noi abbiamo detto no. Noi siamo vicine alle donne, stiamo vicine tra noi perché solo così possiamo vincere questo momento difficile. Con “case” intendiamo la Casa delle donne ma anche le case delle altre donne o quelle delle associazioni e reti di donne, la nostra comunità. L’immagine del Festival ci è stata regalata dalla illustratrice Sara Colaone e ci ha fatto quasi ridere: tutte noi, donne, amiche, vicine, allegre, con voglia di fare, di parlare, di condividere. Tutte cose che non possiamo fare, ma nonostante i contatti fisici limitati progettiamo lo stesso un mondo comune con le donne».

Il festival parte da Bologna ma parla all’Italia e al mondo anche aderendo alla campagna Onu #16daysOfActivism, «16 giorni di attivismo contro la violenza di genere». Dal 25 novembre (Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne) al 10 dicembre (Giornata Mondiale dei diritti umani) il programma si svilupperà in 14 eventi on-line fra seminari, dibattiti e presentazioni di libri e due mostre: Uncinetto e mani di donne (Centro Lame, Bologna) dedicata a Nadia Murat (Premio Nobel 2018) e Sogni Vestiti e 100 Scarpe rosse per dire basta alla violenza sulle donne (Centro Nova, Bologna).

Un festival condiviso e reso possibile dalla tenacia di un gruppo di femministe che trent’anni fa non ha avuto paura di toccare con mano la realtà della violenza e che non ha mai mollato, convinte oggi come ieri che «la battaglia per tutte le donne deve continuare, creando alleanze anche con chi tra le donne occupa posti di potere – conclude Pramstrahler – e la pandemia può essere un’occasione per un grande cambiamento, che deve venire dalle donne».

Tutto il programma su https://festivallaviolenzaillustrata.it/

 

 

Immagine di copertina © Patrizia Pulga





Il piccolo motore del Manifesto e la scintilla del movimento operaio

Non sorprende, ma comunque emoziona e fa piacere lo straordinario e diffuso riconoscimento avuto da Rossana dopo la sua morte.

Mi ostino a pensare che non rappresenti solo un omaggio alla sua straordinaria persona, alla sua intelligenza e cultura, ma anche un riconoscimento dell’importanza che ha avuto, sebbene sconfitta, l’impresa politica collettiva, a cui diedero vita lei e il gruppo storico, fondatore della prima rivista il Manifesto.

Non è giusto separare Rossana da questa storia. Fondatori e fondatrici della rivista, una volta radiati dal Pci, capirono che per continuare ciò che avevano iniziato era necessario raccogliere e organizzare la diffusa domanda di base che la loro cacciata dal Pci aveva suscitato. Una domanda che non veniva solo dalle e dai militanti comunisti, ma anche da tanti gruppi organizzati di studenti e operai formatisi nelle lotte del ’68 e nella diffusa insubordinazione operaia dei primi mesi del ‘69.

Penso alla discussione nel collettivo operai studenti di Bologna, quando, nell’ottobre del ‘69, proposi di far confluire nel Manifesto la nostra esperienza. Ricordo che l’unica obiezione che mi fu fatta, soprattutto dagli operai del collettivo, fu quella di verificare se il gruppo storico era intenzionato a trasformare ciò che scriveva sul mensile in una presenza organizzata nei territori e nelle lotte. La paura che fossero “intellettuali slegati dalle masse” come da più parti si insinuava, svanì con la scelta di dar vita in tutto il territorio ai centri di iniziativa del Manifesto.

Faremmo un torto non solo a Rossana e a tutto il gruppo storico, ma anche alle tante e tanti che hanno condiviso l’impresa, considerare il Manifesto solo un giornale e i suoi militanti solo coloro che in questi 50 anni gli hanno permesso di nascere quotidianamente.

Sarebbe una visione impoverente che finirebbe per ridurre in lettrici e lettori passive/i le migliaia di donne e uomini che in tutt’Italia provavano ogni giorno, a costruire o almeno influenzare i conflitti operai e sociali a nome del Manifesto.

Ricordare questa parte non significa nascondere le discordanze che ci hanno diviso, tantomeno il dibattito sul tipo di organizzazione da costruire, dimenticare ad esempio quanto lei insistesse sulla nostra provvisorietà, sull’esigenza di non apparire come una forza scissionista.

Non aveva senso mettere in moto il piccolo motore del Manifesto, se poi la forza che si riusciva a sprigionare, non contribuiva ad avviare un processo più vasto, una generale rifondazione del movimento operaio italiano e in particolare del partito comunista.

Strettamente collegata all’idea della nostra provvisorietà era l’idea di rivoluzione sociale, ricca cioè di istituti intermedi, come i consigli, dove i soggetti sociali consolidavano conquiste e prefiguravano già le caratteristiche, le relazioni della nuova società a cui aspiravano.

Le nostre erano ambizioni grandi, che gli altri gruppi della nuova sinistra, in particolare Lotta Continua, scambiavano per opportunismo e cedimenti al Pci. Non hanno mai compreso che era questo l’unico modo per smettere di “predicare” la rivoluzione e impedire che le avanguardie più radicalizzate si separassero dalle masse.

Solo una rifondazione generale della sinistra italiana poteva aiutare a creare le condizioni, politiche, sociali e culturali, per mettere in discussione concretamente il capitalismo e cogliere l’occasione aperta dalla radicalità delle lotte operaie e studentesche. Così, come solo abbandonando l’attesa dell’ora ics, del potere come qualcosa da prendere, il socialismo a cui stavamo riflettendo avrebbe fornito risposte convincenti, di partecipazione e autogoverno, alle rivoluzioni fino a quel momento realizzate e miseramente fallite.

Non è che non fossimo consapevoli della sproporzione che c’era fra ciò che concretamente eravamo e le ambizioni che ci animavano. Proprio per cercare di colmare questo divario fummo costretti a procedere per continue accelerazioni, di cui la più ardua e sicuramente la più riuscita, fu quella di ideare nel ‘70 un giornale quotidiano, uno strumento autonomo che ogni giorno dall’aprile ‘71, oltre che nelle edicole, veniva diffuso dalle e dai militanti del Manifesto davanti alle fabbriche e nei quartieri.

È giusto dire che Rossana non la si può tirare da tutte le parti, Rossana comunista, quella operaista, femminista, ambientalista, ma certo è molto difficile separarla da questo progetto politico.

Mi si dirà che dagli anni ’80 quel Manifesto non esiste più, che la rottura politica fra Magri e Rossanda ha fatto nascere nuove ipotesi. È vero, abbiamo camminato su strade diverse, il partito da una parte e il giornale dall’altra, eppure nel ‘99, sull’onda del movimento pacifista mondiale e dei social forum, su iniziativa di Filippo Maone si fondò la seconda rivista del Manifesto, un collettivo in cui tardivamente l’intera sinistra comunista si ritrovò, da Ingrao passando per Tortorella, Chiarante, Bertinotti, insieme con Magri, Rossanda, Pintor, Castellina e Parlato.

In questa mia ostinata rivendicazione c’è solo la convinzione che riflettere sull’intera nostra storia potrebbe offrirci indicazioni utili per contribuire a ricostruire una soggettività all’altezza del presente, a smuovere la rassegnazione con cui ogni giorno subiamo i negativi rapporti di forza che si sono determinati in larga parte del mondo.

In fondo non è a questo che Rossana pensava a più di novant’anni quando, rientrata da Parigi, provò a proporci di fare un inserto da inserire nel Manifesto?

articolo già pubblicato su il Manifesto il 14.10.2020





La tratta atlantica. Appunti per una storia dello schiavismo in età moderna

Le isole dello zucchero

Con il problema della scarsità della manodopera i conquistatori dell’America si trovarono a fare i conti molto presto. Nei primi anni le braccia da lavoro non mancavano. Gli indiani facevano parte del bottino e Cristoforo Colombo aveva provato a venderne qualche centinaio in Spagna. Senza successo. Del resto, con la conquista del Messico e del Perù e l’avvio della rapina delle risorse del continente, le stive delle navi venivano caricate di merci più preziose. Gli indiani potevano essere utilizzati sul posto, anche se faticavano ad adattarsi allo sfruttamento spietato imposto dagli spagnoli. Di fatto divennero schiavi, anche se si negava che lo fossero. Poi cominciò il crollo demografico provocato dalle violenze dei conquistadores e dalle malattie introdotte dagli europei e il sistema del lavoro forzato si inceppò. Il problema poteva essere risolto importando schiavi africani. Si trattava di ampliare un esperimento che era in corso dalla metà del Quattrocento, con ottimi risultati.

Tutto era cominciato nelle isole al largo delle coste marocchine, prime colonie dell’Europa moderna, avamposti dell’espansione che avrebbe coperto il pianeta di imperi sconfinati. Nella disabitata Madera, occupata nel 1419, i coloni portoghesi avevano introdotto con successo la coltivazione della canna da zucchero, un prodotto prezioso, venduto in Europa a caro prezzo. L’esperienza era stata imitata dagli spagnoli quando, nel corso del secolo, avevano conquistato le Canarie, liquidando con la violenza la resistenza della popolazione indigena. Ma la produzione dello zucchero – tra preparazione dei terreni, coltivazione, taglio, trasporto e macinazione della canna –  richiedeva grandi quantità di manodopera e l’Europa, che ancora non si era ripresa dalla grave crisi demografica in cui era stata precipitata dalle epidemie e dalle carestie, non poteva garantirle. I coloni avevano provveduto importando uomini dall’Africa.

Non si era trattato di reinventare una figura giuridica e sociale dimenticata. La schiavitù, sopravvissuta alla fine del mondo antico, non era mai scomparsa. Negli anni quaranta del Quattrocento, quando i portoghesi avevano cominciato a razziare uomini sulle coste africane, poi a comprarli, gli schiavi erano una delle voci del traffico commerciale (anche italiano). Slavi e musulmani in Europa, cristiani e africani nel mondo islamico, erano una merce come un’altra, trattata su mercati specializzati. Tuttavia non avevano più un ruolo centrale nell’organizzazione produttiva. Sostituita dalla servitù della gleba, divenuta marginale nella vita economica, la schiavitù era un fenomeno non trascurabile, ma circoscritto ad ambiti secondari, come il lavoro domestico. Con un’eccezione importante, costituita dagli insediamenti coloniali italiani nel Levante: in quelle piantagioni, in quegli stabilimenti e in quelle miniere era utilizzata ampiamente. La canna da zucchero a Madera e nelle Canarie aveva stimolato la ripresa di quella esperienza.

Il fatto nuovo era costituito dal quadro in cui si inseriva il vecchio modello dello schiavismo: non si trattava dell’ultimo guizzo dell’economia coloniale medioevale, priva di prospettive di espansione, ma del primo passo della nuova economia coloniale atlantica, un settore destinato a sviluppi impressionanti e a un ruolo decisivo nella crescita della società emersa dalla crisi del Trecento. Fu questo contesto a creare le condizioni perché la schiavitù uscisse dalla sua marginalità, per tornare nel cuore dei meccanismi produttivi. L’economia della schiavitù – e l’efficiente organizzazione che doveva permetterne il funzionamento – si rivelò dunque quello che era: non un aspetto della feroce avidità di un pugno di avventurieri, ma il vero volto dell’economia delle piantagioni.

Un triangolo sull’Atlantico

All’inizio del Cinquecento gli schiavi neri erano già nelle isole americane, soprattutto a Hispaniola (Haiti), dove la popolazione indigena stava scomparendo. Si trattava di piccoli quantitativi, spediti non direttamente dall’Africa ma dalla Spagna. Poi gli arrivi divennero consistenti. Nel 1518 sbarcò nelle Indie Occidentali il primo carico della tratta organizzata. Era scattato l’asiento de negros, la licenza esclusiva di trasporto e vendita, con cui la corona regolamentava il traffico degli schiavi diretto alle colonie, attribuendone il monopolio – in cambio di una tassa su ogni africano sbarcato – e mettendo fuori legge chi praticava quel commercio senza autorizzazione.

Di fatto la tratta finì subito nelle mani dei portoghesi, che avevano avviato un regolare traffico di uomini dall’Africa dal 1448 e che nei decenni successivi avevano consolidato il loro controllo sul litorale atlantico del continente, lungo il quale le loro navi stavano scendendo, alla ricerca della rotta per l’Asia. Una delle prime basi della tratta era stata l’isola di Arguin, a nord del Senegal: sarebbe diventata un centro di raccolta capace di garantire carichi di mille schiavi all’anno. Nel 1481 i portoghesi avevano messo piede sul continente, ottenendo da un re della Costa d’Oro (Ghana) l’autorizzazione a costruire un forte su una penisola che avevano chiamato Elmina.

Il contingente di importazione nelle colonie spagnole, fissato dall’asiento, venne progressivamente elevato. La coltivazione della canna da zucchero si stava estendendo nelle Antille e gli effetti della crisi demografica americana rendevano necessario accelerare la sostituzione della manodopera indigena. Intorno alla metà del Cinquecento gli schiavi sbarcavano nell’America spagnola al ritmo di duemila all’anno. Poi toccò alle regioni colonizzate del Brasile, dove pure era arrivata la canna da zucchero, seguita dalle coltivazioni di caffè e cacao, e dove sarebbe stata avviata un’intensa attività mineraria. E qui il rifornimento era un affare tutto dei portoghesi, che stavano completando la catena degli scali sulla costa africana e dunque controllavano le rotte per le loro colonie brasiliane. Prima della fine del Cinquecento almeno duecentomila schiavi avevano raggiunto l’America.

Schiavi al lavoro in un impianto brasiliano per la produzione dello zucchero (incisione della fine del sec. XVII)

Il monopolio di Lisbona sulla tratta e sul commercio africano non era però destinato a durare a lungo. Venne scosso già nel Cinquecento dalle imprese dei negrieri clandestini, dei pirati e dei contrabbandieri, poi fu definitivamente spezzato. Gli schiavi nelle piantagioni mettevano al mondo pochi figli. Dunque bisognava procedere a rifornimenti regolari, per rinnovare la popolazione nera. E intanto le coltivazioni continuavano a estendersi e la domanda di schiavi cresceva. La tratta era ormai un affare colossale e il Portogallo, con le sue deboli strutture economiche, politiche e militari, non era in grado di gestirlo.

Il colpo decisivo venne quando, nel Seicento, Inghilterra, Olanda e Francia insediarono proprie colonie nelle isole americane. Erano nazioni in ascesa, che disponevano di solide strutture economiche e commerciali e di flotte potenti. Non avevano bisogno di intermediari. E furono i navigatori inglesi a impostare il traffico negriero secondo un modello triangolare, che garantiva i massimi profitti: esportazione in Africa di acquavite, tabacco, armi da fuoco e merci varie (utensili, lame, barre di ferro e di ottone, pezze di tessuto, vetri colorati, specchi), carico di schiavi per le colonie, scambio in America con i prodotti pregiati delle piantagioni, destinati all’Europa. Insomma le navi viaggiavano sempre a stive piene: ogni lato del triangolo disegnato tra i tre continenti dava profitti elevati. Il commercio triangolare divenne la regola. Più tardi, con la specializzazione dei traffici, si sarebbe smembrato in rami autonomi: vascelli negrieri dall’Europa all’Africa e all’America, flotte mercantili per l’esportazione nelle colonie delle merci europee e l’importazione dei prodotti coloniali.

Piano di carico di un vascello negriero. Le tavole, diffuse dal movimento antischiavista inglese tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento per denunciare gli orrori della tratta, furono disegnate tenendo conto della regolamentazione introdotta nel 1788 dal Parlamento britannico per limitare il carico e l’affollamento degli schiavi sulla base della stazza delle navi. Dunque documentano condizioni di trasporto ritenute accettabili e comunque migliori rispetto al passato

Pezze d’India

Nella prima metà del Seicento furono sbarcati in America più di cinquecentomila schiavi. Alle rotte verso le Antille, l’America spagnola e il Brasile si aggiunse una direttrice settentrionale, verso le colonie nordamericane. Qui erano la coltivazione del tabacco e, più tardi, quelle del riso e del cotone, a richiedere grandi quantitativi di manodopera. L’organizzazione schiavista del lavoro si estese gradatamente nella parte meridionale dei territori colonizzati dagli inglesi. Nella seconda metà del Seicento gli schiavi erano presenti in tutte le colonie del nuovo mondo.

Mentre cresceva l’interesse inglese per la tratta, stimolato anche dai nuovi insediamenti nelle Antille e soprattutto dalla colonizzazione di Barbados, su cui venne presto introdotta la coltivazione della canna, aumentò la pressione degli olandesi, che strapparono ai portoghesi alcune importanti basi africane. Verso la fine del secolo furono però gli inglesi a imporsi nei traffici atlantici e il loro primato non fu più intaccato, nemmeno quando aumentò la presenza dei francesi, anche loro spinti dalle piantagioni americane: erano entrati nelle Antille nella prima metà del secolo e più recentemente avevano consolidato l’insediamento di Saint-Domingue, nella parte occidentale di Hispaniola. Attestati alle foci del Senegal, i francesi presero il controllo di quel tratto della costa africana, occupando anche le isole di Gorée e di Arguin i due più importanti centri di appoggio dei negrieri sul litorale nordoccidentale. E poi c’erano i contrabbandieri, che continuavano a trafficare con l’Africa al di fuori di ogni controllo.

La tratta si riforniva lungo le coste, dal Senegal al golfo di Guinea e all’Angola. Al centro del sistema c’erano il Niger e il tratto del litorale che prese il nome di «Costa degli Schiavi». Qualche contingente di neri arrivava anche dalla costa orientale del continente, dove convergevano i flussi della tratta araba, diretta verso il medio oriente, un traffico che investiva tutta l’immensa area compresa tra il Mediterraneo e l’Oceano Indiano e che spostava il suo raggio d’azione in un sud sempre più profondo.

Le navi si appoggiavano agli scali, dove risiedevano gli agenti delle compagnie europee. Le razzie della prima fase, pericolose e poco produttive, avevano lasciato il posto a sistemi più efficienti. I negrieri non si avventuravano al di là delle isole e della fascia costiera. La caccia all’uomo veniva delegata ai mediatori indigeni. Con i regni che controllavano le regioni affacciate sull’Atlantico erano stati stabiliti regolari rapporti di scambio: mercanzie varie contro uomini, oro e avorio. Altrove gli europei facevano leva sulle tradizionali ostilità tribali, si intromettevano nei conflitti tra i villaggi, magari li provocavano o li riaccendevano, offrivano fucili e chiedevano in cambio il bottino di prigionieri.

Con l’estendersi della tratta le comunità della costa vennero a trovarsi in uno stato di guerra permanente con quelle dell’interno e il risultato fu uno sconvolgimento civile e sociale. La tratta divenne la principale risorsa di regni, tribù e villaggi. La corruzione, il disordine e il terrore dilagarono. Stati e istituzioni, organizzazioni sociali, sistemi economici e culture complesse scivolarono verso il caos. Degradarono le città della costa, che spesso erano state fiorenti e più popolose di molte capitali europee. Vennero abbandonate e dimenticate tecniche e pratiche agricole. Nell’area vastissima e fertile compresa tra il Sahara, il golfo di Guinea e la foresta equatoriale, una delle più densamente abitate del mondo alla fine del Quattrocento, la popolazione cominciò a diminuire.

Ai centri di raccolta gli schiavi venivano portati come capi di bestiame. Scendevano verso il mare con lunghe marce, o seguendo il corso dei fiumi, stipati a bordo di piroghe. Gli uomini aggiogati a travi, le donne legate con cinghie, con i bambini appesi al collo. Ogni tentativo di fuga e ogni rallentamento della marcia venivano puniti duramente, anche con la morte. Chi non ce la faceva veniva abbandonato.

Sulla costa, ammassati in recinti, gli schiavi venivano offerti ai mercanti. Le contrattazioni erano laboriose. Bisognava di volta in volta trovare un accordo sul rapporto di scambio tra il valore dei capi offerti e quello delle merci portate dall’Europa. Spesso l’unità di misura era la «pezza» di stoffa: tanti fucili, tanti metri di tela, tanti galloni di acquavite, tante collane di vetro equivalevano a una «pezza», tante «pezze» a uno schiavo. E gli schiavi, nel gergo dei negrieri come nel linguaggio dell’asiento, erano niente altro che piezas de India, «pezze d’India», cioè le pezze di cotone indiano con cui venivano barattati.

Vendita di schiavi in un mercato di Rio de Janeiro, 1858

Raggiunto l’accordo, il medico di bordo della nave procedeva a un esame, scartando vecchi, malati e invalidi. Gli schiavi selezionati venivano marchiati con il contrassegno della compagnia. Poi l’attesa dell’imbarco. Drammatica, anche se i negrieri cercavano di abbreviarla: gli utili dipendevano in gran parte dalla rapidità con la quale riuscivano a completare il carico e a fare vela per l’America, perché le precarie condizioni in cui gli schiavi venivano tenuti provocavano una mortalità elevata.

Saliti a bordo, incatenati a coppie, gli uomini venivano fatti scendere nelle stive. Là sotto, ammassati in un unico locale, o distribuiti su soppalchi, se la nave era grande, dovevano conquistare il loro pezzo di tavolato. Non potevano sdraiarsi, né alzarsi. Dovevano restare seduti, immobili, schiacciati da soffitti alti poche decine di centimetri. Le donne e i bambini, sistemati in reparti separati, disponevano di spazi ancora più angusti, ma generalmente venivano rinchiusi soltanto di notte. L’igiene era inesistente, l’aria irrespirabile. Si diceva che il lezzo delle navi negriere si avvertisse a cinque miglia di distanza. Di giorno, quando le condizioni del mare lo permettevano, gli schiavi venivano fatti uscire sul ponte e costretti a sgranchirsi danzando, mentre si pulivano sommariamente i locali chiusi.

Gli schiavi sul ponte di una nave negriera catturata sulla costa di Cuba nel 1860, quando la tratta era ormai fuori legge. L’articolo pubblicato con l’incisione (ricavata da un dagherrotipo), precisa il numero degli africani liberati: circa 500, per l’80 per cento ragazzi di 10-16 anni. Un centinaio i morti nel corso della traversata

Nel buio di quelle stive orrende il sentimento più diffuso era la voglia di farla finita. Il viaggio era interminabile, il destino ignoto, i giorni segnati da disperazione, terrore, catene, sporcizia, malattie, alimentazione forzata e frustate. L’unica speranza era una morte rapida, magari il suicidio. E la morte accompagnava tutta la traversata. L’asiento concesso nel 1592, prevedeva il 25 per cento di perdite. Una quota ritenuta accettabile anche un secolo dopo. Branchi di squali seguivano la scia delle navi, in attesa dei cadaveri gettati fuori bordo.

Quando la nave giungeva a destinazione gli schiavi in condizioni precarie venivano inviati in campi speciali, per recuperare le forze e riacquistare il loro valore commerciale. Gli altri venivano messi subito in vendita. Spesso i mercanti compravano all’ingrosso, per rivendere al dettaglio nelle città dell’interno.

Il trattamento degli schiavi in una piantagione della colonia olandese del Surinam, c. 1774

Poi le piantagioni e una nuova selezione: il 20-30 per cento degli schiavi non sopravviveva oltre i primi tre-quattro anni. Il lavoro cominciava all’alba, veniva sospeso brevemente un paio di volte per mangiare e proseguiva fino al buio. La notte in capanne, con il pavimento in terra battuta. Per letto un giaciglio di paglia. L’aria solo dalla porta. Promiscuità e sporcizia. Le condizioni non erano ovunque le stesse, ma in generale si trattava di una vita fatta di fatica, denutrizione, soprusi, abusi sessuali, umiliazioni, punizioni severe e torture, fino alle amputazioni e alla morte. E ferri ai piedi e alle mani, blocchi di legno da trascinare, per impedire i tentativi di fuga, museruole di lamiera per evitare che venissero mangiati i prodotti dei campi. Lo schiavo era soltanto un’unità di lavoro. Tutti i mezzi erano leciti per piegarlo, se osava alzare la testa.

Il movimento antischiavista

Nel Seicento i negrieri avevano portato in America più di un milione e mezzo di schiavi. Trecentocinquantamila erano morti durante il viaggio. Nel Settecento, soprattutto dalla metà del secolo, la tratta toccò cifre impressionanti. In Europa il consumo di zucchero si stava diffondendo anche tra le classi popolari: la domanda sollecitava l’aumento della produzione e quindi del volume della tratta. Uno stimolo ulteriore veniva dalla richiesta crescente delle colonie nordamericane. In quelle regioni, intorno al 1775, gli schiavi erano già mezzo milione. Nel corso del secolo furono sbarcati cinque milioni e seicentomila africani. Un milione i morti durante la traversata.

Ormai tutte le nazioni europee che avevano insediamenti coloniali in America disponevano di basi africane e di flotte negriere. Nel golfo di Guinea trafficavano anche danesi e prussiani. La tratta, in una prima fase controllata da compagnie statali, era largamente liberalizzata. Sembra che tra il 1783 e il 1793 le centocinquanta navi negriere di Liverpool abbiano imbarcato trecentomila africani e altrettanti, in tre anni, intorno al 1800.

La tratta e il commercio dei prodotti dell’organizzazione schiavistica del lavoro avevano stimolato lo sviluppo delle marine mercantili, delle banche e delle compagnie di assicurazioni, producevano ricchi profitti, fornivano nuovi mercati alle industrie. In Inghilterra, in Olanda e in Francia erano settori specializzati, gestiti da grandi compagnie. Re e duchi, principi e magistrati, banchieri e notai facevano a gara per collocare il loro denaro presso i grandi mercanti, ottenendo interessi fissi, o per acquistare partecipazioni nelle compagnie commerciali. Imitati da una folla di oscuri borghesi, che investivano i risparmi nelle società che gestivano le imprese dei negrieri e i traffici atlantici. Gli utili ricavati dalla tratta e dal commercio coloniale costituivano una voce importante della formazione dei capitali che stavano lanciando una nuova economia e una nuova società, destinata a far approdare l’Inghilterra, e poi l’Europa, all’età delle macchine e delle fabbriche. In Africa, depauperata dalla tratta atlantica e da quella araba di milioni di abitanti, per lo più giovani, tra deportati, morti nel corso delle razzie, prima dell’imbarco e durante la traversata, le civiltà tribali si erano dissolte.

In questa situazione drammatica il quadro si mise in movimento. Da un lato cominciarono a farsi frequenti le notizie di agitazioni e rivolte delle genti nere d’America e di comunità di schiavi fuggiti dalle piantagioni, avvertite come una minaccia dai coloni. Dall’altro si sentirono le prime voci di dissenso, frutto di una cultura diversa da quella che aveva approvato, o tollerato, lo schiavismo. Tra gli illuministi francesi cresceva la convinzione che fosse una macchia sulla civiltà europea.

Rivolta a bordo di una nave negriera, 1839

Comunque i primi provvedimenti non furono varati in Europa, ma nel Nordamerica, nel corso della rivoluzione: strideva la contraddizione tra la condizione servile e i principi in nome dei quali era stato ingaggiato lo scontro con gli inglesi. Tuttavia il problema dell’emancipazione degli schiavi fu accantonato e l’attacco fu sferrato contro la tratta, senza farlo seguire da misure tali da impedirla realmente. Il primo provvedimento fu approvato nel 1774 dal congresso di Filadelfia, nel quadro dell’abolizione del monopolio inglese del traffico con le colonie: tra le merci boicottate furono compresi gli schiavi. Nel corso del decennio successivo alla proclamazione dell’indipendenza tutti gli Stati del nord proibirono la tratta o le imposero restrizioni. Comunque un buon numero di navi americane continuò a importare neri nelle Antille e nel sud della federazione.

La questione dell’emancipazione era più delicata. Nel nord – dove lo schiavismo serviva solo a fornire cuochi e camerieri alle famiglie benestanti – fu risolta facilmente, nell’ultimo ventennio del Settecento e nei primi anni dell’Ottocento, con provvedimenti di abolizione, o di graduale liberazione. Nel 1804 la schiavitù era scomparsa, o stava scomparendo, in tutti gli Stati settentrionali. Nel sud, invece, i piantatori non si ponevano nemmeno il problema e i liberali ritenevano l’emancipazione pericolosa perché, con un numero di schiavi tanto elevato, avrebbe scosso tutto il sistema economico e sociale.

Tra il 1787 e il 1788 il movimento antischiavista emerse contemporaneamente, e con forza, in Inghilterra e in Francia. L’offensiva abolizionista inglese era guidata da Thomas Clarkson e William Wilberforce. Il primo si impegnò in un’intensa campagna di denuncia degli orrori della tratta, e cominciò a fare presa sull’opinione pubblica. Il secondo lo affiancò con un’efficace azione parlamentare. In Francia gli antischiavisti si raccolsero nella «Società degli amici dei neri». Poi ci fu la rivoluzione. Gli abolizionisti erano ben rappresentati nella nuova classe dirigente francese, tuttavia non riuscirono a imporre tra gli impegni urgenti quello di una rapida pronuncia sulla schiavitù.

Sull’opposta sponda dell’Atlantico, l’altra leva di rivoluzionari, uscita dalla guerra di liberazione delle colonie inglesi, continuava a subire i condizionamenti degli interessi dei piantatori. La questione della schiavitù venne ignorata dalla Costituzione del 1787. La Convenzione federale decise di accantonarla per un ventennio, lasciando impregiudicata la situazione: l’economia di metà del paese strutturata sul sistema delle piantagioni, più di cinquecentomila schiavi, decine di migliaia di nuovi arrivi all’anno, garantiti da un traffico che era ripreso a pieno ritmo. Né c’erano segnali che la tendenza si invertisse spontaneamente. Nel 1793, in Georgia, Elias Whitney inventò la macchina sgranatrice. Consentiva di separare con rapidità le fibre di cotone dai semi, un’operazione che, effettuata a mano, era lenta e laboriosa. Con quella macchina il ciclo produttivo veniva notevolmente accelerato e la quantità di fiocchi che uno schiavo era in grado di lavorare diventava molto elevata. La coltivazione del cotone – materia prima essenziale della rivoluzione industriale inglese – divenne estremamente redditizia: un incentivo all’espansione delle piantagioni e

all’utilizzazione massiccia del lavoro degli schiavi.

«Siate liberi e cittadini»: la speranza dell’abolizione immediata dello schiavismo nell’incisione del frontespizio di un’opera pubblicata in Francia nel 1789

I giacobini neri

La frattura del sistema si verificò più a sud. Cominciò con una rivolta nella parte occidentale di Hispaniola, Saint-Domingue, una colonia che forniva due terzi del commercio internazionale francese, centro della produzione mondiale dello zucchero e massimo mercato degli schiavi. Da anni una serie di agitazioni faceva traballare il potere dei piantatori. Si intrecciavano la protesta dei creoli, liberi ma privi di diritti civili, e la serpeggiante furia degli schiavi neri, tenuti in condizioni di lavoro e di vita disumane.

Arrivarono le notizie della Bastiglia e dei fatti di Parigi e i creoli tentarono la spallata finale: coccarde rosse della rivoluzione sanculotta, la milizia trasformata in guardia nazionale. Una rapida repressione, qualche timida apertura e conferma della schiavitù. Nelle terre d’oltremare l’utopia della libertà, dell’uguaglianza e della fratellanza non superava la resistenza del pugno di schiavisti che controllava le colonie. E allora arrivò il momento della resa dei conti.

Nell’agosto 1791 l’insurrezione nera investì con furia le piantagioni, devastando e uccidendo. Parigi, impaurita, estese ai creoli e ai neri liberi i diritti civili e inviò un corpo di spedizione. Gli schiavi persero l’alleanza dei creoli, ma la rivolta divenne guerra di liberazione e trovò un capo: Toussaint Louverture, schiavo liberato, figlio di un capotribù africano, autodidatta. Era un autentico rivoluzionario, favorevole a una lotta determinata, contrario alle devastazioni selvagge. Era, si sarebbe detto in Europa, il capo dei «giacobini neri».

Giacobini neri – Toussaint Louverture in un’incisione pubblicata nel 1802

Toussaint organizzò i suoi uomini in esercito, si alleò con altri capi guerriglieri, sconfisse più volte i francesi, respinse le proposte degli spagnoli, che speravano di estendere il loro dominio dalla parte orientale a tutta l’isola. Rigettò in mare gli inglesi che, dalla Giamaica, avevano tentato l’invasione per conquistare una nuova colonia e mettere fine a un movimento che minacciava di contagiare tutto l’arcipelago.

Intanto in Francia maturava un quadro nuovo. Con la dittatura rivoluzionaria dei giacobini la questione della schiavitù, imposta dalla rivolta di Saint-Domingue, veniva finalmente affrontata. Nel 1793 la Convenzione dette un colpo alla tratta, eliminando i primi statali alle navi negriere. Era una decisione importante, anche se era stata preceduta da un atto danese del 1792, che aveva stabilito il divieto della tratta dal 1803. A Saint-Domingue il commissario francese proclamò l’abolizione immediata della schiavitù. Il 4 febbraio 1794 la Convenzione estese la decisione a tutti i possedimenti francesi.

Alla fine di quel 1794, caduto Robespierre, lo sbarco di un nuovo corpo di spedizione segnò la ripresa della lotta. Negli anni successivi si sarebbero ripetuti i tentativi francesi di riprendere il controllo della colonia. Ormai, comunque, due risultati erano stati raggiunti. Da un lato la legge giacobina che aveva abolito la schiavitù, confermata nella Costituzione francese del 1795 e ripresa dalle carte costituzionali di molte «repubbliche sorelle»: un precedente importante, insieme al decreto danese e ai provvedimenti varati nel Nordamerica, che segnava un nuovo punto di partenza per il movimento abolizionista. Dall’altro la nascita della prima repubblica nera della storia. Toussaint non avrebbe visto la sua proclamazione. Catturato e deportato in Francia, sarebbe morto in esilio, mentre i suoi compagni riprendevano a combattere, preparando le condizioni dell’indipendenza definitiva, che avrebbe dato alla nuova nazione il nome indigeno di Haiti (1804).

Dalla proibizione della tratta all’abolizione della schiavitù

Nel 1802 Napoleone revocò la soppressione della schiavitù. I neri e le piantagioni erano moneta sonante: non si poteva rinunciare ad essi in nome di principi astratti e ormai tramontati. Le violenze in corso nella colonia fornivano poi un argomento per giustificare la decisione napoleonica e in Francia c’era chi le rinfacciava agli abolizionisti: i neri erano immaturi per la libertà, la loro liberazione scatenava istinti selvaggi.

Erano le stesse obiezioni dei fautori inglesi della schiavitù. Nel 1793, quando era sembrato che il movimento abolizionista fosse a un passo dalla vittoria, era stata proprio la rivolta a Saint-Domingue a spaventare i parlamentari, nonostante gli schiavisti fossero ormai in minoranza nella società della rivoluzione industriale, che preferiva il lavoro salariato a quello servile. E poi l’abolizione giacobina aveva impresso sull’antischiavismo un segno di radicalismo rivoluzionario tutt’altro che gradito ai conservatori. In realtà, al di là delle ideologie, erano in gioco grandi interessi. Sembrava assurdo che si dovesse abolire lo schiavismo quando la tratta produceva guadagni mai raggiunti, quando la rovina delle piantagioni francesi faceva crollare l’offerta e impennare il prezzo dello zucchero, mentre i nordamericani stavano ampliando l’area della colonizzazione e delle piantagioni e si poteva prevedere un’espansione della domanda di schiavi.

Si dovette attendere qualche anno, ma il risultato fu ancora più rilevante di quello che gli abolizionisti avevano sperato, perché il movimento aveva fatto breccia anche negli Stati Uniti. Nel 1806 il Parlamento britannico approvò a schiacciante maggioranza una risoluzione che invitava il governo a prendere «misure efficaci per l’abolizione del commercio africano degli schiavi». Il 2 marzo 1807 un decreto del presidente americano Thomas Jefferson proibì la tratta dal primo gennaio 1808. Tre settimane dopo anche Londra approvò una legge che metteva al bando il traffico degli schiavi, proibendolo alle navi, ai sudditi e ai porti del regno. Poi la tratta fu dichiarata reato anche se praticata da stranieri, la costa africana fu pattugliata per impedirla e venne avviata un’intensa azione diplomatica, fatta di pressioni e trattati bilaterali, perché fosse vietata anche dalle altre nazioni. Nel giro di pochi anni l’Inghilterra si era trasformata da massima trafficante di schiavi nel paese guida di una crociata contro i negrieri.

Il risultato era importante, ma la partita decisiva era ancora da giocare. Intanto occorreva che tutti gli Stati approvassero leggi contro la tratta e prevedessero strumenti di repressione. Ma ciò non era sufficiente. Il problema centrale era costituito dal permanere in aree molto vaste delle Americhe di sistemi produttivi interamente fondati sulla schiavitù. Finché questo nodo non fosse stato sciolto il problema sarebbe rimasto aperto e la tratta, spostandosi sul terreno della clandestinità, avrebbe mantenuto ampie dimensioni.

La fine della schiavitù nei territori britannici arrivò soltanto nel 1833, con un atto – in vigore dal 1834 – che contemporaneamente avviò un processo di graduale emancipazione dei neri liberati. Un altro passo fu compiuto con la seconda abolizione della schiavitù nelle colonie francesi (1848). Ma si dovette attendere l’emancipazione dei neri degli Stati Uniti, con la vittoria nordista nella guerra di secessione (1865), e la fine dello schiavismo a Cuba e in Brasile (1886 e 1888) per interrompere il circuito tra schiavitù e economia delle piantagioni. Ed è solo alla fine del secolo che fu stroncato, a fatica, il ramo della tratta controllato dagli arabi. L’Africa era in ginocchio e ormai preda della spartizione coloniale.

Non si sa esattamente quali siano state le reali dimensioni della tratta. Non si sa quanti milioni di africani, nei quattrocento anni dello schiavismo moderno, siano stati strappati dai loro villaggi per essere portati, come bestie, al di là dell’Atlantico. Un calcolo prudente ipotizza dieci o undici. Non si sa quanti uomini siano stati uccisi durante le incursioni dei razziatori, quanti siano morti lungo le marce di trasferimento, o prima dell’imbarco, o durante la traversata. Certamente altri milioni. Fu una tragedia immane, che investì drammaticamente, in vario modo, la storia di tre continenti e lasciò segni profondi, dal sottosviluppo al razzismo. Un punto è certo: non si trattò di un incidente di percorso nel quadro di un’evoluzione verso il progresso altrimenti tranquilla e lineare. Al contrario: tratta e schiavitù sono state, con il colonialismo, l’altra faccia dei meccanismi della crescita sociale ed economica dell’Europa

Abraham Lincoln proclama l’emancipazione degli schiavi nel corso della guerra di secessione americana (1863)

Tutte le immagini che illustrano questo articolo sono tratte dall’archivio fotografico di Alessandro Piccioni (https://www.immaginidellastoria.it/)




SULLA MORTE DI PAUL LAFARGUE E LAURA MARX

articolo già pubblicato su La bottega del Barbieri (www.labottegadelbarbieri.org)

Il festival del cinema di Venezia si è appena concluso e nessun premio è stato attribuito al film di Susanna Nicchiarelli dedicato a Eleanor Marx, morta suicida per amore nel 1898.  È probabile che, al di là dei meriti o dei demeriti della regista, nessuno abbia voglia di occuparsi del comunismo, a meno che non ne denunci i misfatti, come il film Cari compagni di Andrei Konchalovsky. Nell’Italia dei cori fascisti allo stadio e del mausoleo di Affile a Graziani, non si può parlare di Marx se non con un certo imbarazzo, come se fosse un freak, uno spostato, un alieno. Ed ecco allora che parlando del film fioccano i titoli ad effetto come: «Miss Marx una donna succube» (Il secolo); «Una vita vissuta al limite» (F. Gallo, Ansa); «La sua vita fu assurda e tragica» (S. Nicchiarelli, nel sito ufficiale della Mostra del Cinema); «Pre-punk infelice… Di sicuro, non deve essere stato facile per “Tussy” vivere all’ombra di quel cognome ingombrante, finendo un po’ per morirne» (M. Anselmi, Cinemonitor). Simili battute non sono certo una sorpresa; in realtà l’onda lunga di un generale senso di fastidio dell’homo liberisticus verso un sempre più imbalsamato Marx, fonte di sciagure per l’umanità e sciagura egli stesso, che si è guadagnato una nicchia al Museo delle Cere accanto ad altri protagonisti della storia di fine Ottocento, come Jack lo Squartatore e Landru. Un atteggiamento mirabilmente riassunto in un articolo apparso sulla Repubblica del 14/6/2014 e firmato dall’autorevole Siegmund Ginzberg, che dopo aver ricordato il suicidio dell’altra figlia di Marx (Laura) e aver osservato che «i grandi padri spesso sono ingombranti» si conclude con le parole: «Il Capitale di Marx era, a modo suo, un romanzo. La struggente telenovela su Eleanor tocca tasti ancora più universalmente umani».
Eppure nonostante queste conclusioni. destinate a divenire un luogo comune sempre più stancamente ripetuto, Ginzberg non poteva fare a meno di ricordare un’elementare verità che fa a pugni con l’idea del “padre ingombrante” e della “telenovela”. Lasciamogli la parola: «Eleanor… aveva convissuto per quasi vent’anni con Edward Aveling, mantenendo la sua vita dispendiosa e tollerando le sue continue scappatelle. Lui era già sposato, ma non le aveva mai detto che la prima moglie era deceduta da tempo e lui aveva incassato e sperperato l’eredità. Solo il giorno prima del suicidio lui le aveva confermato quello che già tutti gli altri sapevano, che si era risposato un’altra volta ancora, in segreto, con un’attricetta. Lei finalmente lo aveva diseredato in extremis, ma il codicillo era stato fatto sparire. Si disse dallo stesso Aveling, che aveva frugato tra le sue carte in presenza del cadavere. Anzi, corse voce che addirittura fosse stato lui ad assassinarla».
Uno storico serio, anzi qualunque persona seria, dovrebbe verificare simili insinuazioni: se sono vere o quanto meno se ci portano a dubitare delle versioni ufficiali, allora è veramente scorretto e poco intelligente crogiolarsi nel ripetere luoghi comuni e mistificazioni di segno del tutto opposto. Se una persona è stata assassinata o se è stata indotta al suicidio in modo subdolo, non può essere stata turbata dal nome “imponente” di suo padre e neppure vittima di quella che è stata chiamata «la maledizione delle figlie di Marx».
La stessa mancanza di serietà e superficialità hanno dimostrato e dimostrano ancora oggi coloro che si sono occupati del presunto suicidio dell’altra figlia di Marx, Laura, che avrebbe terminato volontariamente la sua esistenza nella notte fra il 25 e il 26 novembre 1911, obbedendo a un mitico e mai documentato “patto suicidario”, stretto con il marito Paul Lafargue. L’argomento ha fatto versare fiumi di inchiostro ed è stato rievocato da grandi personaggi politici (come Jan Jaurés, Karl Kautsky, addirittura Lenin, presenti ai funerali della coppia) e da tanti altri scrittori, e storici.

 

Le petit Parisien”, 28 novembre 1911, prima pagina

La vicenda, riassunta da un grande studioso e uomo politico come Maurice Dommanget è la seguente:

«Paul Lafargue si diede la morte, trascinando con sé Laura, sua compagna, nella notte del 26 novembre 1911… Entrambi, dopo aver passato la giornata del sabato a Parigi, avevano raggiunto la loro abitazione di Draveil. Rientrando, avevano chiacchierato col giardiniere, Ernest Doucet, e con altri membri della sua famiglia. Lafargue parlò allegramente della giornata trascorsa. Laura e lui, che erano stati al cinema, si mostrarono – è stato scritto – “pieni di familiare allegria.” Eppure sapevano che ben presto avrebbero posto fine alla loro esistenza. Una serenità che lascia senza parole. Il mattino dopo, verso le dieci, Doucet si preoccupò non vedendo nessuno alzato anche perché i due coniugi avevano mantenuto abitudini mattiniere. Salì alle loro stanze, bussò e, non ottenendo risposta, aprì la porta. Lafargue era sdraiato sul letto, completamente vestito, senza vita, in camera sua. Nella camera vicina Laura, seduta in poltrona, era morta anche lei. Nessun disordine nei locali: tutto era a posto, come al solito… Su un tavolo, non lontano dai cadaveri, fu trovata una lettera al nipote, il dottor Edgar Longuet, e un foglio contenente le disposizioni testamentarie. C’era anche un certificato per il giardiniere, con la data del 28 settembre, e una lettera allo stesso, datata 18 ottobre, cioè rispettivamente due mesi e circa tre settimane prima del suicidio… II testamento è così redatto:

Sano di corpo e di mente, mi uccido prima che la vecchiaia impietosa, che mi tolse a uno a uno i piaceri e le gioie dell’esistenza e che mi spogliò delle risorse fisiche e intellettuali, non paralizzi la mia energia e non spezzi la mia volontà facendomi divenire un peso per me stesso e per gli altri. Da molto tempo mi sono ripromesso di non superare i settanta anni; ho fissato la stagione dell’anno per il mio distacco dalla vita e ho preparato il sistema per mettere in pratica la mia decisione: una iniezione ipodermica di acido cianidrico. Muoio con la suprema gioia della certezza che, in un prossimo futuro, la causa alla quale mi sono votato da quarantacinque anni trionferà.

Viva il Comunismo.

Viva il Socialismo Internazionale!»1.

Lo choc per l’incredibile notizia sconvolse tutti coloro che erano vicini a Lafargue, fossero amici o avversari politici. Non tutti approvarono il suo gesto e qualcuno, come Jules Guesde, molto vicino politicamente a Lafargue, parlò di “diserzione”: tuttavia la maggioranza dei commentatori furono travolti dall’emozione e molti, a cominciare da Karl Kautsky, espressero ammirazione per l’eroismo e la dignità stoica di questo suicidio, portato a termine «nel pieno del vigore», «prima del declino»2.

Tuttavia qualcuno espresse dubbi e perplessità. Uno fu Alexandre Zevaès, che conobbe bene i Lafargue. Come ha scritto Dommanget: «le sue affermazioni eccessive, esagerate, l’odio per Lafargue che traspare ad ogni frase, fanno dubitare delle sue parole e tuttavia si è costretti ad accogliere alcuni suoi punti di vista… Ricordando Laura, la figlia prediletta di Marx, donna ammirevole sotto tutti gli aspetti, Zevaes scrive: “Nulla di ciò che sappiamo del dramma del 26 novembre 1911 autorizza a credere che si sia suicidata”… Ed effettivamente non resta nessuna traccia scritta di lei, nessuna carta, nessuna annotazione, nessuna disposizione testamentaria. Nelle ultime lettere di Lafargue nulla lascia presagire il funesto progetto e di conseguenza nulla lascia intravedere la partecipazione di Laura. Ed anzi – cosa di estrema importanza e che sinora e sfuggita all’attenzione – nel suo saluto Lafargue parla in prima persona e le spiegazioni che dà si riferiscono a lui solo. Non vi si fa parola di Laura».

Secondo Dommanget anche Lenin nutrì qualche dubbio: «Lenin aveva un grande rispetto per Lafargue pur mantenendo sempre un atteggiamento critico nei confronti dei leaders del socialismo francese. Egli doveva così, prendendo la parola ai funerali dei Lafargue a nome del Partito operaio socialdemocratico di Russia, fare il loro elogio… Si astenne dal condannare il suicidio, sebbene non fosse d’accordo, secondo la testimonianza di Serafina Gopner, allora aderente al gruppo bolscevico di Parigi3… Il discorso di Lenin alle esequie non era improvvisato e questo spiega la traduzione che Ines Armand ne ha potuto fare. In questa traduzione l’uso del termine “morte” invece di “suicidio” lascia perplessi. Se tale traduzione è rigorosamente fedele, la cosa ha la sua importanza: essa postulerebbe in Lenin la persuasione che non ci fosse stato suicidio da parte di Laura»4. Anche altri espressero le stesse perplessità nel corso del tempo. Il poeta Louis Aragon, per esempio scrisse: «Voi trovate questa morte bellissima, straordinaria e bla, bla, bla. Io la trovo semplicemente riprovevole. Perché la figlia di Marx avrebbe dovuto fare una cosa simile?»5.

Si potrebbe pensare che si tratti solo di reazioni stizzose e polemiche: ma in realtà la scomparsa di Laura pone oggettivamente un problema che solo recentemente si è avuto il coraggio di affrontare apertamente in termini storici. Ha scritto a riguardo Jacques Macé: «La questione più grave concerne la morte di Laura… perché la donna non ha lasciato alcun documento che testimoni la sua adesione al progetto dello sposo e questo strano silenzio ha creato intorno alla fine dei Lafargue un disagio che non è mai stato dissipato»6.

Se riusciamo a superare le reazioni polemiche e le emozioni scomposte e ci atteniamo, saldamente, alla storia dobbiamo ammettere che non è questo l’unico problema sul tappeto. Il compito dello storico è oggi enormemente agevolato dal riordino e dalla catalogazione delle fonti d’archivio che riguardano Paul Lafargue e dall’inventario ragionato di Pierre Boichu e Jean-Numa Ducange7 e questo ci permette di porci nuove domande. La prima e fondamentale è questa: nel ricchissimo archivio di Edgar Longuet, nipote ed erede di Paul Lafargue, non figura l’originale della famosa lettera-testamento il cui testo abbiamo riportato in precedenza.

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Edgar Longuet e sua moglie

 

La lettera era diretta proprio a lui ma fra le sue carte l’originale non si trova: eppure fra le stesse carte figura una copia dattiloscritta della stessa lettera che testimonia il fatto che Longuet teneva molto, ovviamente, a questo documento, al punto da farsene una copia8. Il fatto è veramente singolare anche perché la lettera fu riprodotta sui giornali subito dopo il suicidio e in seguito venne commentata e citata da tutti coloro che si occuparono dell’argomento, senza che ne fosse mai pubblicata una solo foto. Possibile che l’originale sia scomparso? E guarda caso non solo l’originale della lettera ma anche di tutte le altre carte ritrovate accanto al letto di morte di Lafargue, come la lettera di benservito al giardiniere, che conteneva anche disposizioni testamentarie e fu riprodotta a sua volta nei giornali; l’abbozzo di telegramma a Edgar Longuet firmato a nome del giardiniere, egualmente riprodotto sui giornali. Non è strano?

Esistono anche altre stranezze. I primi testimoni – nell’inchiesta giudiziaria che stabilì le cause del decesso – dichiararono che la povera Laura Marx era stesa a terra sulla soglia della sua toilette9 e non seduta su una poltrona come poi dichiarò ufficialmente Longuet e ripeterono i giornali. Inoltre, come scrisse il corrispondente del Petit Parisien, Laura era praticamente in mutande, come se fosse stata sorpresa all’improvviso nell’intimità mentre suo marito fu trovato vestito di tutto punto. Questi particolari che sembrano insignificanti, presi uno per uno, acquistano invece un particolare risalto se si mettono insieme e se si ricorda che l’inchiesta giudiziaria stabilì che la donna era morta prima del marito10. Se accettiamo questa conclusione e ripensiamo alle osservazioni che abbiamo esposto, dobbiamo concludere che la donna è morta durante la notte, quando era appena rincasata e stava per spogliarsi per dormire; mentre l’uomo si è ucciso alle 6 della mattina, in base alla testimonianza della cuoca che sentì a quell’ora qualcuno che chiudeva le persiane. Se le cose stanno così allora come si può escludere che sia avvenuto quello che Macé ha chiamato un “omicidio-suicidio”? E come si può escludere che siano fenomeni casuali la falsa notizia diramata dagli eredi di Lafargue che Laura fosse seduta composta su una poltrona, invece che discinta a terra nel bagno e la scomparsa delle lettere originali, che impedisce ogni confronto con altri documenti autografi di Lafargue?  È davvero così strano pensare che si sia voluto tutelare la memoria del grande combattente socialista, che uccide la moglie e poi si suicida, “inventando” un patto suicidario che non è mai esistito, per mascherare la squallida realtà di un omicidio-suicidio come ricorre tanto spesso nelle cronache? Le motivazioni dell’episodio, non mancherebbero, persino “nobili”. Ha scritto a questo riguardo Macé: «Non potrebbe essere possibile che Paul abbia ucciso Laura per proteggerla da se stessa?.. Testimonianze dirette degli abitanti di Draveil (i discendenti dei vicini dei Lafargue e la nipote del giardiniere) sono concordi nel certificare che negli ultimi anni della vita si abbandonava senza ritegno all’alcool, provocando incidenti domestici. Un atteggiamento confermato da un rapporto di un ispettore polizia, che sorvegliava di nascosto la coppia. Disperato per questa situazione Paul non potrebbe aver pensato che Laura sarebbe stata incapace di provvedere a se stessa se egli fosse morto…?»11.

Ipotesi per ipotesi è anche possibile, in via del tutto accademica, formularne anche un’altra. Macé ha fatto notare12 che il giorno della morte dei Lafargue è lo stesso giorno in cui Clemenceau ammise apertamente una colpa gravissima: in una lettera a Le temps, l’ex primo ministro rivelò infatti di avere pagato una spia e un provocatore, Luc Métivier, che aveva avuto un ruolo di primo piano nel giugno del 1908, durante i violenti scioperi di Draveil, la cittadina nella quale abitavano i Lafargue, nei quali erano stati uccisi degli operai.

Lo sciopero di Draveil

Il vecchio Lafargue aveva tuonato come un giovane leone contro la furia selvaggia dei soldati sulle colonne dell’Humanité del 6 giugno di quell’anno e aveva sostenuto che si trattava di un’infame “macchinazione” ordita dal Sottoprefetto. La vicenda ebbe molti strascichi, con una serie di arresti, di lotte, di scioperi che si protrassero a lungo. Alla fine i socialisti scoprirono con prove inoppugnabili che i tumulti, ideati dall’alto, erano stati provocati da infiltrati della polizia, fra i quali c’era Métivier. Lo scandalo andò avanti per anni e alla fine, Clemenceau, ormai decaduto dalla sua carica, ammise la propria responsabilità. Tuttavia quell’ammissione tardiva non fu così innocente come sembra: assumendosi la colpa, Clemenceau copriva evidentemente i suoi complici che avrebbero potuto rivelare troppe cose, coloro che avevano tramato alle spalle di tutti, orchestrando la “macchinazione” di cui aveva parlato Lafargue. L’intervento di Clemenceau doveva essere l’ultima parola sull’argomento: nessuno avrebbe avuto il coraggio e la forza per attaccarlo direttamente, come nessuno ebbe il coraggio e la forza di attaccare direttamente Mussolini quando affermò, in modo provocatorio che se il delitto Matteotti era stato un delitto politico lui ne era il mandante.

Ebbene cosa ci sarebbe di strano se il giorno stesso in cui Clemenceau mise la parola fine su quell’argomento qualcun altro abbia deciso di mettere la parola fine agli interventi di Lafargue sullo stesso tema, visto che poteva aver raccolto informazioni riservate, prove inoppugnabili come avevano fatto i suoi compagni con Métivier. Forse Lafargue sapeva troppe cose…

Non sarebbe stato difficile toglierlo di mezzo: come hanno mostrato molti storici13, Lafargue era sorvegliato dalla mattina alla sera da diversi informatori della polizia, che conoscevano ogni dettaglio della sua vita, inviando relazioni giorno per giorno su tutto quel che faceva. I colleghi di coloro che avevano fabbricato le false lettere che avevano inchiodato Dreyfus non avrebbero avuto difficoltà a fabbricarne altre, che poi sarebbero provvidenzialmente sparite, dopo avere tratto in inganno, sull’onda dell’emozione, parenti ed amici.

Vogliamo allora sostenere che il presunto suicidio di Lafargue sia stato un omicidio politico? Non possiamo dirlo con sicurezza. Credo però sia giusto in casi simili sollevare dubbi che, allo stato attuale delle ricerche, non possono essere ancora risolti ma ci aiutano a riflettere. Quello che abbiamo scritto porta solo nella regione del dubbio e dell’incertezza: e tuttavia quanto è più umano, profondo e dignitoso accettare l’angoscia del dubbio piuttosto che sbandierare le false sicurezze di slogan vuoti che manifestano solo la nostra mediocrità. Come quello che chi nasce da un padre dal nome “ingombrante” non possa che sentirsi indegno di questo nome e finire male.


NOTE

1 M. Dommanget, Présentation de Le Droit à la paresse, Paris, Maspero, 1969, pp. 108-11. Dommanget riassume l’articolo di B. Mayéras, “L’Humanité” 28 novembre 1911, pag 1. Cfr anche L. Derfler, Paul Lafargue and the Flowering of French Socialism, 1882-191, Cambridge Mass., Harvard Un. Press, 2009, pp. 288-301.

2 M. Sembat “L’Humanité,” 29 novembre 1911, p. 1.

3 “Infatti, in un’intervista specificamente dedicata al suicidio dopo le esequie, formulò così la sua opinione: “Un socialista non appartiene a sé stesso, ma al partito. Se può in qualche modo essere ancora utile alla classe operaia, per esempio con lo stendere se non altro un articolo o un proclama, non ha il diritto di suicidarsi”. Lenin aggiunse anche che il caso di Lafargue era ancora più grave se si tiene conto del fatto che i partiti operai sono molto più poveri di scrittori dei partiti borghesi.”(M. Dommanget, Présentation, p. 111).

4 M. Dommanget, Présentation, p. 111.

5 L. Aragon, Les cloches de Bâle [1934], III, 2, Paris, Gallimard, 1972, p. 330.

6 J. Macé, Paul et Laura Lafargue, un couple mythique, Communication au colloque “Paul Lafargue, 1842-1911”, tenu au Conseil général de l’Essonne à Evry le 3 décembre 2011, vedi https://jacqmace.wixsite.com/histoires/lafargue.

7 P Boichu-J. N. Ducange, Une singulière histoire d’archives socialistes du Parti communiste français. Le fonds Paul Lafargue 300 J 1-12, 3 MI 32/1-3 . 1830-1965, Bobigny, Conseil général de la Seine-Saint-Denis, 2013.

8 Ibid., p. 56.

9 J. Macé, Paul et Laura Lafargue: Du droit à la paresse au droit de choisir sa mort, Paris, L’Hrmattan, 2001, p. 9.

10 J. Macé, Paul et Lara Lafargue: une couple [p. 5]: “Selon l’enquête, Paul Lafargue avait fait une injection mortelle d’acide cyanhydrique à son épouse puis s’était lui-même suicidé par le même moyen.”.

11 J. Macé, Paul et Lara Lafargue: une couple [p. 6].

12 Ibid., p [p. 5].

13 Archives de la préfecture de police de Paris, Paris, Dossiers de surveillance de l’activité de Paul Lafargue, cote BA 1135. Cfr . C. Diaz, Jaurès et les indics, Paris, Duverner, 2012.

 

 





Rossana Rossanda e il giornalismo militante

20 settembre 2020

(articolo già pubblicato su http://www.barbararomagnoli.info)

In ricordo di Rossana Rossanda, ripubblico qui di seguito un testo contenuto nel volume “Scritture di Frontiera – Tra giornalismo e letteratura” a cura di Clotilde Barbarulli, Liana Borghi e Annarita Taronna, 2007, edito da Università degli Studi di Bari in collaborazione con Sil Società italiana delle letterate.

In questo lavoro ho inteso tracciare gli aspetti più importanti della figura di Rossana Rossanda con un breve accenno a «Il Manifesto», giornale quotidiano di cui lei è stata cofondatrice. Del lavoro di Rossanda ho messo in risalto un aspetto particolare, ossia il suo essere giornalista ‘militante’, dove per giornalismo ‘militante’ o ‘impegnato’ ? che è per definizione una scrittura di frontiera ? si intende l’uso della scrittura come scelta politica e strumento per trasformare il mondo.


Ho evidenziato questo aspetto anche per tentare di ragionare attorno ad un fenomeno che è sempre più presente in Italia nel campo della comunicazione e che veicola lo stereotipo della ‘donna-velina’. Ritengo, infatti, che il cliché della donna-velina non solo veicoli uno specifico sguardo sul corpo femminile, ma sia anche metafora di una maniera di intendere l’informazione, in particolar modo nei media mainstream che preferiscono la spettacolarizzazione della notizia a scapito dell’approfondimento, della ricerca e dell’esercizio della critica da parte di chi svolge questa professione. Mi sembra che il giornalismo praticato da Rossanda possa essere preso come modello ? o almeno come spunto per una critica costruttiva ? in contrapposizione al cliché della donna-velina imperante nell’attuale panorama mediatico e culturale italiano.

Comincio dal principio, chi è Rossana Rossanda. Non è un mito, né vuole esserlo, come lei stessa precisa all’inizio della sua autobiografia, ma credo possiamo tutti concordare nel considerarla una delle più grandi intellettuali e saggiste italiane del XX secolo. Rossanda nasce a Pola, città di frontiera, nel 1924 e la sua famiglia di estrazione medio-borghese venne travolta dalla crisi del ’29. Quindi, si trasferì prima a Venezia e poi a Milano, dove all’università fu allieva del filosofo Antonio Banfi ma, soprattutto, dove la sua vita fu radicalmente cambiata dallo scoppio della seconda guerra mondiale. È la guerra che le fa scoprire la politica fino a quel momento tenuta distante dal suo ambiente familiare che era tuttavia intellettuale, come ricorda Rossanda nella sua autobiografia: poca politica ma molti libri.
A chi le domanda perché, vista la sua origine familiare, è diventata comunista e non antifascista liberale, risponde:
Volevo fare un’altra vita, ma la guerra che cadde come qualcosa di mostruoso e imposto, mi fece pensare che dobbiamo cambiare il meccanismo di funzionamento del mondo. La libertà ha delle condizioni necessarie. Dal ’39 al ’46 avevamo solo la libertà di essere vivi. E neanche quella. La scelta di campo nasce dall’evidenza che troppa gente viene al mondo e non può essere padrona della propria esistenza. Non lo accetto e il comunismo è questo: la possibilità di prendere in mano la propria vita, è intollerabile che ci sia chi non lo possa fare.

Decide così, giovanissima, di partecipare alla Resistenza partigiana e, al termine della seconda guerra mondiale, si iscrive al Partito Comunista Italiano. In breve tempo, viene nominata da Palmiro Togliatti responsabile della politica culturale del Pci e viene eletta nel 1963 alla Camera dei Deputati.
Arriva il 1968, un anno di svolta anche nella biografia lavorativa di Rossanda. La giornalista pubblicò un piccolo saggio intitolato L’anno degli studenti, in cui affermava la sua adesione al movimento della contestazione giovanile che era deflagrata in tutto il mondo. Con un percorso di riflessione condiviso con altri, Rossanda in quegli anni si dichiara anche contraria al socialismo reale dell’Unione Sovietica. Nasce l’idea di una rivista di critica e riflessione e viene così fondato «Il Manifesto», esperienza che fu sia una rivista mensile e un giornale quotidiano, sia un partito. Anche per questo motivo, poco dopo Rossanda fu radiata dal partito, insieme ad altre e altri.
Questi brevi accenni alla sua biografia sono già sufficienti a cogliere la peculiarità del suo sguardo sul mondo e l’influenza che questo ha avuto sul suo lavoro giornalistico. Ma ci dicono anche che per Rossanda la politica è stata l’essenza di una vita e nel suo essere donna non si è mai occupata di questioni specificatamente femminili, tutt’altro. Quando lo ha fatto, ha sempre tenuto presente l’orizzonte complessivo nel quale anche le tematiche più vicine al movimento delle donne si inscrivono. Rossanda non scrive unicamente per se stessa ma per cercare «di capire e di informare su quel che avviene nel mondo attraverso una griglia di interpretazione di sinistra, comunista, libertaria, laica». Come lei stessa afferma: «Poiché nessuno di questi termini è di moda, il mio giornalismo è senz’altro militante». Per giornalismo militante intendo qui riferirmi a chi, come Rossanda, svolge questo mestiere con un approccio che unisce il rigore e il rispetto della tecnica giornalistica (ossia attenersi, pur nella discrezionalità di chi scrive, alla ricerca della verità dei fatti) alla passione civile che utilizza lo strumento giornalistico per modificare/trasformare il mondo e la politica che lo gestisce (che non significa alterare o limitarne l’immagine, ma restituire al lettore la pluralità e la conflittualità che il mondo contiene).
È questo che Rossanda ha fatto in trentacinque anni e più di lavoro, anche considerando come lei stessa dice che
c’è sempre un rapporto tra politica e giornalismo. In generale il giornalista risponde, in modo più o meno mediato, all’idea di società difesa dalla sua testata, che in genere è anche quella di una grande proprietà. Non esiste un giornalismo ‘oggettivo’. Che vorrebbe dire? C’è la selezione delle notizie a monte, a cominciare dalle agenzie, sennò neppure sarebbero discernibili; ma non è innocente. La selezione è retta da un criterio che è poi un giudizio. Secondo me [aggiunge Rossanda] la cosa più onesta è far cosciente il lettore di questa scelta e del punto di vista dal quale si scrive, giudizi e pregiudizi inclusi.

È proprio con questa filosofia che Rossanda (insieme a Luigi Pintor, Lucio Magri, Valentino Parlato, Luciana Castellina e altre e altri) decide di dar vita ad un progetto editoriale indipendente, un giornale che vuole essere «provocatoriamente solo politico, e per politica si intendeva in senso stretto il movimento anzi i grandi movimenti della storia». La novità de «Il Manifesto» è il non essere legato a nessuna proprietà specifica che possa influenzarne la politica editoriale. È gestito da un collettivo di giornalisti e si è costituito in cooperativa, cosicché si trova a non avere una proprietà davvero distinta dalla redazione, con giornalisti che sono editori di se stessi.
«Il Manifesto» è nato come voce comunista fuori dal partito, indubbiamente un’esperienza insolita, e nel corso degli anni, tra le varie cose, si è sempre schierato contro ogni guerra come modello militare di gestione dei conflitti. Il giornale ha scelto, infatti, sempre di parlare anche delle tante guerre dimenticate e lo ha fatto in maniera non embedded, termine entrato di recente nel nostro vocabolario. Con embedded si faceva riferimento agli inviati speciali nella guerra del Golfo, poi è diventato un modo per definire chi svolge questa professione attenendosi a “ciò che si vuole venga detto”. Per dirla con le parole di Rossanda:
Perlopiù il giornalista è embedded al sistema dominante. Il ‘dominio’ non è fatto solo di comandi o quattrini, possibilità o no di essere assunti, ma di molte sottili seduzioni: ci sarà una ragione se questo piace o interessa, se questo attira il lettore e quest’altro no, se il gossip fa pubblico, se si dà fastidio ricordando di continuo i mali e le sofferenze del mondo ecc. La spirale di connivenza tra quel che il giornalismo dà, il pubblico ama ricevere e il sistema dominante è molto stretta. In questi anni è passata la tesi che il liberismo [non il liberalismo] è il meno peggio, che ogni tentativo di mutamento sarà disastroso o sconfitto, che l’equilibrio è garantito solo dal mercato. Ne derivano anche una mercificazione e un ‘consumo’ delle idee.
Qui Rossanda ci dice qualcosa di importante anche sulla scelta dei contenuti che spesso sono una discriminante fondamentale per capire la differenza tra giornalismo militante e giornalismo mainstream.
Infatti, il XX secolo ha visto passaggi storici importanti e su questi si è focalizzato il lavoro di Rossanda. Faccio riferimento al fatto che alle due guerre mondiali è seguito un dopoguerra caratterizzato dalla divisione del mondo in due blocchi, la successiva fine della guerra fredda e la disgregazione dell’ex Unione Sovietica, la globalizzazione neoliberista che ha accelerato molti processi di trasformazione, l’avvento di Internet, la “guerra permanente” entrata con la tv nelle case di tutto il mondo, l’antico controllo politico e religioso sul corpo e l’immagine delle donne che ha assunto nuove forme (la guerra in Afghanistan è stata giustificata anche come liberazione delle donne dal velo talebano), fino ad arrivare all’11 settembre e a quello a cui stiamo assistendo oggi. Tutte queste tematiche, da me solamente accennate, sono state il contenuto privilegiato da Rossana Rossanda per i suoi scritti, articoli e saggi, spesso lungimiranti e in alcuni casi ancora molto attuali ? mi riferisco in particolar modo ad esempio alla raccolta di articoli che è stata pubblicata nel volume Note a margine.
Quindi Rossanda viene da questa storia, ne è stata testimone e l’ha poi raccontata, anche se, come lei stessa più volte ricorda, è diventata giornalista non per scelta professionale: «Avrei fatto dell’altro», dice, «ho fatto la giornalista come forma della politica dopo la radiazione dal Pci, il movimento del 1968, e poi la crisi crescente dei partiti…». Non è un caso che Rossanda abbia preso le distanze dalla professione giornalistica intesa come status symbol e che abbia rifiutato di essere iscritta al’Ordine nazionale dei giornalisti, istituzione italiana che non ha simili in Europa e che tutt’ora continua ad essere una organizzazione prettamente gerarchica e maschilista.
Inoltre, è importante ricordare che in Italia il sistema dei mass media non è di fatto pluralista (anche se nell’ultimo decennio sono notevolmente cresciuti i media indipendenti, via Internet, radio e stampa, spesso di carattere militante, che restano però esperienze di nicchia. Per fare un esempio che faccia capire la situazione, «Il Manifesto», indipendente, vende circa 40mila copie al giorno, mentre il «Corriere della Sera» legato a gruppi di potere specifici vende circa 900mila copie). Il sistema informativo italiano è fortemente dominato da lobby e/o interessi politici ? basti solo dire che il premier Berlusconi da solo controlla tre televisioni.
Rossanda nel suo lavoro ha dunque affrontato tutti questi nodi e complessità a cavallo tra due secoli e la particolare situazione italiana. Nel farlo, ha più volte puntato il dito, come dicevamo poco fa, sul mito del mercato e conseguente «mercificazione e “consumo” delle idee», un consumo di idee che ha, tra l’altro, l’obiettivo di veicolare stereotipi e immagini che riguardano la donna, sostenendo il modello di una donna-corpo come merce al pari di tutte le altre.
Secondo Rossanda,
anche a noi donne viene suggerito che, raggiunti alcuni innegabili diritti [votare, possedere o ereditare, non essere obbligate a sposare il tizio o il caio, potersene andare di casa, insomma una certa parità] conviene restare ‘femminili’, seduttive, moderatamente materne, signore del privato [salvo essere fatte fuori dal consorte], fuori dalle responsabilità del pubblico ed efferate consumatrici. Le donne si lasciano limitare con troppa facilità nelle loro ‘effettive capacità’. Finisce che neanche esse le conoscono più, perché poi uno è quel che fa. Il maschilismo resta imperante anche perché non ci sono più grandi battaglie contro di esso: siamo talmente tante donne nei media che, se davvero volessimo, potremmo imporre e imporci. Né si può dire che quelle fra noi che difendono un’altra immagine di sé rischiano la fucilazione. Resta perciò da vedere se il più delle volte non siamo complici della ‘velinità’ cui ci vogliono ridurre.
Rossanda, dunque, provocatoriamente chiede conto, in un certo senso, della “velinità” che c’è in noi e non è certo semplice dare una risposta. Credo sia interessante, per ragionare attorno a questo interrogativo, accennare brevemente alla storia del termine ‘velina’ in Italia, che è prima di tutto un tipo di carta molto sottile e trasparente.
Nella storia del giornalismo italiano si fa riferimento col termine veline ai dispacci del Ministero della Cultura Popolare, tramite i quali il regime fascista diramava agli organi di stampa e di informazione le notizie da rendere note (o meno) all’opinione pubblica. Ancora oggi, si usa “veline” per indicare i comunicati stampa che normalmente arrivano da governo o enti pubblici e che intendono suggerire al giornalista cosa e come scrivere la notizia. Ma è negli anni Ottanta, con la comparsa in Italia della tv commerciale che spunta la figura della donna-velina. La propone il programma televisivo “Striscia la notizia”, una sorta di telegiornale che vorrebbe unire satira, politica e varietà. Gli autori di “Striscia” decidono che le due ragazze “veline” sono le addette alla consegna delle notizie ai presentatori. Sembra che nell’intento degli ideatori ci fosse la volontà esplicita di richiamarsi in chiave polemica al periodo fascista per rivendicare l’inviolabile diritto alla libertà di stampa e di informazione, anche al di fuori dei canali ufficiali. Paradossalmente, dunque, negli anni Ottanta il corpo della donna-velina verrà usato inizialmente proprio come simbolo di una informazione che si definiva libera e indipendente ? un messaggio che credo però sia andato in un’altra direzione, se non addirittura opposta.
Le veline sono comunque sempre donne giovani e avvenenti che devono con la loro presenza e qualche performance richiamare l’attenzione e l’audience del pubblico. In poco tempo, grazie al successo della trasmissione, il termine “veline” è entrato nel modo di pensare comune e in senso lato viene anche utilizzato in modo spregiativo per indicare le giovani ragazze che vogliono entrare nel mondo dello spettacolo senza necessità di percorsi formativi o una graduale esperienza. La velina è diventata la pretesa di essere famosa senza saper fare nulla. Una sorta di rimedio universale alla disoccupazione. Attorno a questo ragionamento torna utile e anche suggestiva la provocazione di un gruppo femminista romano A/matrix che, riflettendo su questi temi, afferma: “Un mondo diverso è un mondo in cui anche la velina che è penetrata in ognuno di noi, donna e uomo, decide di scioperare. Siamo tutte e tutti veline. La velina è il paradigma della nostra dignità sociale perché nella società mercantile imperante è l’icona della conformità soggettiva ed esistenziale. La velina è il mordi e fuggi, l’usa e getta, il produci e consuma. Se l’immagine quotidiana venisse privata del nostro contributo, se le veline interrompessero i luccicanti sogni che i loro corpi e sorrisi promettono, se la velina si considerasse soggetto desiderante, saremmo già in un altro mondo”.
Credo che in questa imperante mercificazione del corpo femminile sia sempre più attuale il dibattito, iniziato con il femminismo degli anni Settanta e non ancora concluso, sul conflitto/confronto tra libertà-mercato-autodeterminazione della donna. Con l’evidente vittoria della mera emancipazione sulla liberazione e consapevolezza della donna.
Quindi, nonostante sia chiaro a quale stereotipo di donna rimanda il cliché della donna-velina, i media fomentano questo senso comune ed alimentano la “velinità” di cui parla Rossanda. Non c’è dubbio che sia maggiormente l’informazione mainstream rispetto a quella di carattere militante a scegliere una immagine di donna, e non solo, che preferisce l’apparire all’essere e che soprattutto, volendo utilizzare i termini di un vecchio dibattito femminista ancora aperto, attraverso il consolidamento di certi stereotipi, i media mainstream facilitano il lavoro di chi vuole il controllo sui corpi e sulle menti delle persone, in particolare sulle donne.
Appare invece evidente, rileggendone la vita e gli scritti, che Rossanda non si è mai piegata al modello del mondo maschile, lo ha certamente frequentato e ne ha preso parte attivamente, ma sempre nell’ottica di una modifica e di un miglioramento della società per tutte e tutti. Da un lato, quindi, abbiamo un modello di giornalista impegnata che non ha mai esitato a prendere parola sulle questioni del mondo e non ha mai perso la sua autonomia, dall’altro la donna-velina che pensa, mostrando il corpo, di essere libera e indipendente e che invece diventa simbolo di una informazione preconfezionata e funzionale ad un certo sistema. La questione è complessa e non certamente riducibile soltanto alle dinamiche interne alla società della informazione e comunicazione che, come ben sappiamo, riflette tutti gli aspetti di una società. Da tutto quello detto fin qui, la velina appare quanto più lontano possa essere dalla immagine di donna-giornalista che potrebbe invece rappresentare Rossanda la quale, tra l’altro, non può essere certamente classificata come femminista in senso stretto.
Non abbiamo in questa sede il tempo per approfondire il complesso rapporto avuto da Rossanda con il femminismo, ma con esso Rossanda ha intessuto negli anni un dialogo critico e fecondo, come lei stessa ricorda anche nella introduzione al volume Le altre, dove racconta l’esperienza radiofonica a fine anni Settanta, quando in una serie di conversazioni a Radiotre la giornalista si confrontò su alcune grandi parole-valori della politica (libertà, fraternità, eguaglianza, democrazia, resistenza, solo per citarne alcune) con donne che invece vissero in prima persona l’esperienza del femminismo degli anni Settanta (tra queste Lidia Campagnano, Letizia Paolozzi, Manuela Fraire).
In conclusione, vorrei ricordare proprio uno dei dubbi sollevati da Rossanda alle sue amiche e donne femministe. A queste donne che tanto si sono battute perché mutassero linguaggi e forme della rappresentazione della donna anche nei media, Rossanda ha più volte chiesto «cosa ha impedito al movimento delle donne di diventare intanto una forza capace anche di durare, di garantirsi uno spazio […] e soprattutto di generalizzare la propria cultura, farla passare…». Ossia, cosa impedisce ancora oggi alle donne di trasformare una cultura che le rappresenta in chiave sessista e discriminante.
A suo tempo, Rossanda disse che la grande forza del femminismo era stata l’aver portato allo scoperto e al centro della politica il corpo, la sessualità, l’esperienza dell’individuo in un’ottica di consapevolezza e riappropriazione della parola su se stessi. Il limite era stato quello di non riuscire a estendere questo modello fuori dal piccolo gruppo e delegare ad altri, spesso uomini, la lotta contro i “poteri reali”, gli stessi che cercano di dominare anche l’informazione e i media. Forse è da questo interrogativo che è necessario ripartire affinché anche nei media la donna possa essere se stessa senza omologarsi al modello maschile dell’usa e getta e con il riconoscimento delle sue capacità e responsabilità al pari di un qualsivoglia collega maschio.

Nota: le citazioni in corsivo sono frutto di una intervista a Rossanda a cura dell’autrice.

 





Uno spettro asiatico sull’Italia 1835-37: cronaca della prima epidemia di colera

Per quattro secoli il terrore della peste aveva attanagliato
le popolazioni europee poi, alla metà del Settecento, improvvisamente e
misteriosamente, quel morbo che le aveva flagellate a ondate ricorrenti era
scomparso. Aveva ancora infuriato a sud-est, nell’Impero ottomano, appena al di
là dei confini del continente, ma non li aveva superati. All’inizio degli anni
trenta dell’Ottocento la minaccia sembrava svanita. Fu allora che il nuovo
spettro si affacciò dalla Russia e allungò un’ombra nera sull’Europa, iniziando
una marcia implacabile. La nuova peste era il colera, un’infezione acuta,
letale e molto contagiosa, dalla sintomatologia impressionante e disgustosa,
che dietro di sé lasciava devastazione e strage. I batteri si moltiplicavano
nelle acque inquinate da liquami e immondizia, contaminavano gli alimenti, si
trasmettevano anche per contatto con stracci, biancheria e indumenti infetti e
si rivelavano micidiali. Un decorso violento: diarrea e vomito, disidratazione
rapida, crampi e collasso, mentre la pelle si raggrinziva e assumeva un
colorito nero o bluastro. L’infezione uccideva in poche ore, al massimo in un
paio di giorni, tra atroci sofferenze, più del 50 per cento, fino al 60-70 per
cento, dei malati e il tasso di letalità diventava altissimo tra i più deboli:
bambini e vecchi. La grande paura, che la gente si era illusa di aver
dimenticato, riemerse dal profondo della memoria collettiva e tornò a
diffondersi a macchia d’olio. E si trattava solo della prima di una serie di
ondate epidemiche che avrebbero attraversato l’Europa nel corso del secolo.

Tutto era cominciato nel 1817, quando il morbo si era messo
in movimento dalla valle del Gange, dove era endemico da tempo immemorabile,
seguendo le imprese commerciali e militari degli inglesi. Era dilagato in tutta
l’India poi, lungo le antiche vie del commercio, le piste delle carovane e gli
itinerari degli eserciti, si era propagato lentamente verso l’estremo oriente
e, attraverso la Persia e l’Asia centrale, verso la Russia. E intanto, con le
navi, aveva raggiunto l’Arabia e la costa africana, era passato in Mesopotamia,
poi in Siria e in Anatolia. Nel 1830, varcati gli Urali, il «terribile flagello
indiano» raggiunse Mosca e iniziò la sua avanzata nell’Europa settentrionale,
un’avanzata micidiale e sempre più veloce. La gente ora si spostava più che nel
passato: lo consentivano i miglioramenti della rete stradale e dei mezzi di
trasporto. E ciò metteva in crisi e faceva cedere il dispositivo delle misure
anticontagio messo a punto nel corso dei secoli, quando il sistema delle
comunicazioni era ben più arretrato.

E poi c’erano gli spostamenti degli eserciti. Il colera era
entrato in Europa con le truppe zariste che tornavano da operazioni in Armenia
e in Persia. E furono i russi, impegnati nel 1831 nella repressione
dell’insurrezione polacca, a introdurlo a Varsavia. Da Varsavia l’epidemia
dilagò rapidamente, incontrando territori densamente popolati, mentre dal medio
oriente si avvicinava anche ai Balcani. Inesorabile: gli ostacoli con i quali i
governi tentavano disperatamente di frenarla si rivelarono fragili e vennero
superati uno dopo l’altro. Dopo aver fatto una strage in Austria e Ungheria,
tra il 1831 e il 1832 il «morbo devastatore» investì i paesi baltici e la
Germania, raggiunse la Gran Bretagna, l’Irlanda, il Belgio, l’Olanda e la
Francia. «Tutti fuggono da Parigi per il colera», scrisse Niccolò Paganini
nell’aprile 1832 dalla capitale francese, dove in sei mesi si contarono almeno
diciottomila morti: vennero scavate grandi fosse comuni e per il trasporto
delle salme, senza bare perché i falegnami erano insufficienti, furono
requisiti omnibus, fiacre, carri, carretti e carriole. Poi l’infezione superò
l’Atlantico, con gli emigranti irlandesi, e investì l’America
centro-settentrionale.

A sinistra: Il colera stringe la Francia in un abbraccio mortale (litografia, 1832);
a destra: Il colera a Parigi  (litografia, 1832)

Nel 1833 comparve in Portogallo e in Spagna, rifluita da oltre oceano su bastimenti infetti, o importata da una nave da guerra inglese, e questa volta toccò all’Europa meridionale, risparmiata dal primo passaggio, quando – nel 1832 – in una lettera da Firenze, Giacomo Leopardi aveva raccontato alla sorella di una commissione medica di ritorno da Parigi: «Ci promette la venuta del morbo in Italia: predizione di cui ridono i medici di qui». Alla fine del 1834 il colera era in Provenza. Nel luglio 1835 dilagò lungo la costa e arrivò al confine con l’Italia, superò il cordone sanitario e l’interruzione delle comunicazioni con la Francia, raggiunse Nizza e penetrò in Piemonte. In agosto investì Genova e, via mare, passò in Toscana. In autunno arrivò nel Veneto, portato sul Po da una barca carica di panni usati. Dalla primavera del 1836 serpeggiò in Lombardia, facendo strage soprattutto a Brescia, e in Emilia, smentendo l’illusione che il Po l’avrebbe fermato. Poi toccò alle Marche e sbarcò sulle coste della Puglia, con i contrabbandieri, che riuscivano a violare il severo cordone marittimo istituito dal governo borbonico. Con l’epidemia che avanzava dalla Puglia la sorte di Napoli era segnata. «E ci voleva pure il colera!», scrisse Francesco De Sanctis nelle memorie della sua giovinezza. «Questo ignoto e sinistro morbo, dopo di avere spaventato mezza Europa, piombò sopra Napoli come un flagello». Fra ottobre e dicembre falciò quasi seimila persone.

L’impatto era pesante soprattutto nelle città, dove il morbo
trovava un ambiente recettivo, che favoriva la rapidità della sua diffusione e
moltiplicava la gravità della strage: uno stato diffuso di sottoalimentazione e
una serie di pesanti carenze strutturali, dal disastroso degrado igienico e
sanitario dei centri urbani e delle abitazioni al dissesto degli impianti di
approvvigionamento idrico, dalle fognature fatiscenti agli scarichi a cielo
aperto di letame, liquami e immondizie, al sistema diffuso dei pozzi neri. La
malattia aggrediva i quartieri poveri e poi si estendeva ovunque. «Portò in
Ancona strage funesta tanto nella sudicia capanna del meschino marinaio e del
facchino cencioso, quanto nell’agiata casa del ricco mercatante e nel superbo
palagio del nobile profumato», scrisse un testimone, l’abate Francesco Borioni.

I medici erano disarmati e consapevoli della loro impotenza.
Il «morbo distruggitore» era giunto troppo in anticipo sulle conoscenze
scientifiche: la medicina ignorava quali fossero l’agente patogeno e i modi
della sua diffusione. Si discuteva se la malattia si trasmettesse per contagio,
da individuo a individuo, o dagli effluvi e miasmi che infettavano l’aria. E
intanto, mentre le due ipotesi si confrontavano vivacemente, tra rivalità e
gelosie, si moriva. «Fu la stessa cosa tra noi annunziar colera o morte»,
avrebbe riconosciuto un medico napoletano. «Il male veniva allora con tanto
impeto che brevissimo tempo lasciava in vita chiunque ne fosse preso».

L’abbigliamento di protezione e i preparati disponibili per bloccare l’attacco del colera (stampa satirica pubblicata a Norimberga)

«I medici sono costretti a fare tentativi diversi senza un risultato sicuro, poiché il male non si conosce», scrisse da Torino al figlio, nel settembre 1835, Costanza Alfieri di Sostegno, cognata di Massimo d’Azeglio. «Tutti i rimedi sembrano buoni e ne provano ora uno ora un altro con la speranza di riuscire. Il colera intanto ammazza». «I disgraziati continuano a morire rapidamente e quando sembrano migliorare subito si manifestano nuovi sintomi e soccombono». Identica la testimonianza di Borioni: «I metodi di cura erano dubbiosi, perché i medici givano a tentone, né sapevano a qual partito appigliarsi per raffrenare e reprimere un morbo, la cui natura ed indole non conoscevano. Quindi alcuni furono curati col caldo, altri col freddo; questi coi vomitivi, quelli colle sanguisughe». Si provavano rimedi stravaganti, infusi e decotti vari, talvolta nocivi. A Milano fu teorizzata una cura di stricnina e sambuco. A Brescia si giurò sull’efficacia di pillole a base di zinco. Si tentava la prevenzione con la «magnesia». Si praticavano clisteri di olio di lino, olio comune, decotto di malva e acqua di riso, massaggi di canfora o di trementina, stracci o mattoni caldi sui piedi, bagni in acqua tiepida. Si applicavano panni gelati al basso ventre, sanguisughe alle tempie e dietro le orecchie. Si somministravano purganti o si vietavano severamente. Si davano pezzetti di ghiaccio, neve, acqua a volontà, da bere a piccoli sorsi, pane tritato, tuorli d’uovo. L’antidoto «anticolera», spedito da Costanza al figlio, era stato preparato «mischiando malvasia di Sardegna, teriaca, rabarbaro ed assenzio»: la dose era un bicchierino ogni mattina a digiuno. «Attento all’aria cattiva», raccomandava Costanza, «attento ai cibi». E ancora: «Ti consiglio l’acqua di camomilla, che nel colera di Parigi fu distribuita a fiumi». A Napoli, d’ordine del ministro degli interni, si sperimentava vino con polveri di frutti di platano A Roma un medico insisteva su un preparato miracoloso per la prevenzione e la cura, a base di aglio macerato nell’aceto: doveva essere assunto per bocca e strofinato sulla pelle. Ma c’era anche chi riteneva pericoloso abitare in vie poco soleggiate, o vicino ai campanili, perché il suono delle campane era dannoso. E chi cercava nessi tra esplodere del contagio, dati astronomici o fenomeni atmosferici. Si disse che il passaggio della cometa di Halley, nell’aprile 1836, aveva provocato malefici influssi e lo sviluppo di germi ignoti. E ci fu chi pubblicò l’immagine (orribile e fantasiosa) di un minuscolo insetto, dalle «forme strane e singolari», catturato da un medico ad Ancona e studiato al microscopio, assicurando che si trattava del «drago cholerico». Insomma un clima favorevole ai ciarlatani, che spacciavano a caro prezzo intrugli e preparati miracolosi.

Il «drago cholerico» in un’immagine diffusa nell’autunno 1836

Per i resto i medici suggerivano regole di precauzione:
evitare cibi pesanti, mangiare e bere vino con moderazione, non prendere
freddo, non sudare, tenere il ventre «netto e obbediente», respirare aria pura,
evitare gli eccessi, specie quelli sessuali. «Vuolsi da i più contraria la
venere; i savii dicono non nocevole, se pochissima», informava un medico
pisano. «Gli impenitenti sono i primi a soccombere», confermava Costanza
d’Azeglio: «Un giovanotto era tornato a casa la sera e aveva trovato chiuso il
portone. Cominciò a bussare, impaziente, ma tardavano ad aprirgli. Il suo
portone sventuratamente era accanto a quello di una casa di piacere. “Tanto
meglio, se non si decidono ad aprirmi – disse allora il giovanotto – Dormirò
nella casa vicina, se non posso dormire nella mia”. E infilò subito l’altro
portone. Ma si era appena disteso sul letto, con due di quelle donne da
strapazzo, che rimase come fulminato. Il colera lo aveva abbattuto».

Ad Ancona, riferì Borioni, «fu affisso in tutti i canti della
città» un «regolamento per ben condur vita nel tempo del flagello», redatto su
incarico della commissione sanitaria. Il morbo era «terribile» e «menava
strage», ma «non doveva sgomentare gli animi di tutti, perché non era poi tanto
potente da ghermir quelli che si fossero guardati dal cadervi sotto». Queste le
regole, «da osservarsi da tutti coloro che amavano la loro salvezza» (e che
potevano permettersi di applicarle): «La nettezza scrupolosa delle case, la
politezza della persona, cibi leggeri e salubri, uso di carni salutifere e
specialmente di carne di pollo, il cioccolatte nella mattina, la bevanda di the
o camomilla nella sera, la buona giornaliera digestione, l’esatta e regolare
traspirazione della pelle, la fuga dalla soverchia fatica, il lavarsi
coll’acqua tiepida ed aceto, le fregagioni secche con panni di lana o collo
scoperto, il tenersi ben guardato con maglie di lana o di seta la carne, i
profumi dentro le case, e specialmente in sull’imbrunir della sera, e la
tranquillità dello spirito».

Qualcuno, invece di prescrivere banalità e rimedi fantasiosi,
si preoccupò di consigliare misure minime di igiene e prevenzione: «Ho creduto
opportuno dovere raccomandare», scriveva in un rapporto il medico provinciale
di Venezia, «che le materie emesse dagli ammalati anziché gettarle nei letamai
vengano tosto dalla camera dell’infermo asportate e sepolte, che le biancherie
usate dagli ammalati venghino espurgate e lavate con forte ranno; che sia
osservata la massima nettezza negli abitati, che venghino aspersi i pavimenti
con una soluzione di cloruro di calce per neutralizzare i perniciosi effluvii
degli ammalati».

Le autorità erano impreparate. Provavano a negare il
pericolo, minimizzavano. Poi, all’avvicinarsi del contagio, mettevano in atto
le misure di contenimento sperimentate ai tempi della peste: cordoni sanitari
armati, chiusura delle frontiere, interruzione delle comunicazioni, sospensione
di fiere e mercati, isolamento delle località infette, quarantene, lazzaretti,
emarginazione e espulsione di mendicanti, vagabondi e lavoratori stagionali. E
quelle misure, anziché dare sicurezza, diffondevano il panico, così come i falò
su cui si bruciava lo zolfo o si bolliva la pece, che avrebbero dovuto
allontanare i miasmi, e le salve di cannonate, che avrebbero dovuto disperdere
l’aria «crassa e pesante», o i tardivi (e poco rispettati) interventi di igiene
ambientale e di disinfestazione disposti dalle commissioni sanitarie nei
quartieri più degradati. Chi poteva fuggiva, abbandonando tutto. Ecco l’esodo
dei forestieri da Ancona, nel 1836, nel racconto di Borioni: «In un attimo
cocchi, carra e carrette in movimento; e un pregare strettamente d’essere
portati altrove ed in qualunque luogo, purché fuori dell’influenza di questo
cielo maligno; e un rifiutarsi villano del cocchiere avaro, che non si piegava
alle istanze se non di quelli che più oro gli davano». Ed ecco la Napoli che
vide De Sanctis: «I più agiati fuggivano alle loro ville; la plebe squallida e
sudicia faceva spavento; nessuno osava accostarsi; l’uno fuggiva l’altro. La
vita pubblica fu sospesa; le scuole, le botteghe erano deserte».

Ovunque si bloccavano i traffici commerciali e con l’epidemia
avanzava rapida anche l’ombra della miseria. E della fame, nella morsa tra
carenza di approvvigionamenti, accaparramenti e speculazione sui prezzi, che
gli interventi governativi di assistenza non riuscivano a spezzare. Chi non
poteva fuggire si affidava a Dio: voti, riti, incensi, suppliche, esposizioni
di reliquie e di immagini miracolose, processioni. A Genova, raccontò Costanza
d’Azeglio, «nel vento e la pioggia si è svolta una processione di penitenza che
invocava la fine del colera, invece ha moltiplicato il numero dei malati». E in
quella «straziata» città «le furie epidemiche […] abbattevano centinaia di
persone al giorno». Ad Ancona, scrisse Borioni, «tutta quanta la popolazione di
borgo Pio a piedi scalzi con un’accesa candela in mano si portava alla
cattedrale per implorare […] la cessazione del tremendo flagello […] Oltre un
migliaio di persone, e la più parte donne, si vedevano o coi loro bambini in
braccio o coi fanciulli condotti a mano […] Giunsero in chiesa, e appena
prostrati davanti l’altare di Nostra Signora ruppero tutti in un grido […] e
quinci un levar di mani, un pianger di donne, uno strider di fanciulli, un
singhiozzar d’uomini». E «quelli dell’altro borgo imitavano questi il giorno
appresso», mentre «i borgheggiani di porta della Farina non s’appagavano della
solenne gita alla cattedrale; ma due giorni dopo portavano in devota
processione per le loro contrade un’immagine di Nostra Signora».

I medici talvolta erano introvabili, fuggiti anche loro in
campagna. Quelli in circolazione si presentavano alle visite domiciliari
coperti da una cappa nera di tela cerata, cappuccio con fori per gli occhi,
stivali e guanti e spesso si fermavano sulla soglia della stanza del malato,
pretendendo di visitarlo a distanza. Negli ospedali il personale era
insufficiente. Per affrontare l’emergenza, in Piemonte, un vescovo propose di
reclutare le prostitute e la prova ebbe successo: «Le prostitute si sono dimostrate
le infermiere più attente e più devote». Ma la gente diffidava di medici,
lazzaretti e ospedali, molti rifiutavano l’assistenza, i più poveri venivano
ricoverati a forza. «Il lazzaretto continua a riscuotere una generale
ripugnanza, perché i malati non guariscono che rare volte e la colpa sembra del
lazzaretto: ormai sono tutti convinti che vi si entra per non uscirne più e non
c’è modo di dissuaderli», riferì Costanza d’Azeglio. Non solo: «La gente grida
che scortichiamo i malati, che li uccidiamo noi sulla graticola: quanto meno li
avveleniamo per spacciarli senza tanta fatica e più presto». Correvano voci
agghiaccianti, che le autorità non riuscivano a soffocare, nemmeno con severi
provvedimenti. Non c’erano dubbi: ricchi, nobili e governi pagavano per
ammazzare i poveri. Arsenico invece che medicine. Delle «scemenze» che si
dicevano a Torino scrisse Costanza: «Il marchese di Rorà avrebbe dato seimila
franchi per ottenere uno sterminio di poveri. Il marchese di Barolo pagherebbe
venti franchi ai medici per ogni malato che riescono a uccidere e il Re
duecento», mentre un prete aveva tentato di entrare con la forza nel lazzaretto
per vedere con i suoi occhi gli ammalati ammazzati con il veleno. «La cuoca di
casa Bandissé, non appena si è sentita il colera non ha più voluto vedere i
suoi padroni per la paura di essere uccisa con il veleno». E si diceva che ci
fosse chi lo spargeva quel veleno, inquinando l’acqua e gli alimenti.
Nell’agosto 1835 un proclama del comandante della piazza di Genova, equiparando
al reato di omicidio le aggressioni ai presunti avvelenatori e la propagazione
di notizie false, assicurava che il governo poteva «garantire che alcuna
malignità umana non concorre immediatamente, né per alcun mezzo» a diffondere
il colera. Ad Ancona, scrisse Borioni, «alcuni […] spacciavano essere i medici
la cagione vera della malattia» e «altri più furiosi dicevano essere la
malattia opera del governo, dei preti, e dei frati, i quali avvelenavano le
pubbliche acque».

Nelle regioni del sud non bastò un editto che minacciava
frusta e prigione a chi «ardisca dire che chi muore è stato avvelenato» (ma
anche a chi «avesse ardito gittare per terra oggetti sospetti di veleno») a
frenare la ventata di panico e di violenza irrazionale. Ne scrisse Luigi Settembrini:
«Il popolo, che vede in un subito morire e non sa come e perché, crede sempre
che sia veleno, e ne accagiona i nemici, se ne ha, o quelli che egli odia. Il
nostro popolo credette che fosse veleno e che il Governo lo facesse spargere,
mandandone le casse agl’Intendenti, e questi lo dividessero fra i loro cagnotti
i quali lo gittavano nelle acque». «E avvennero fatti terribili». Nessun
dubbio: il colera era veleno. Qua e là tornò la caccia agli untori. Si diceva
che agivano bande di avvelenatori prezzolati, le fontane pubbliche venivano
presidiate da sentinelle armate, si verificarono violenze e disordini,
contenuti a stento dalla gendarmeria, aggressioni, linciaggi, esecuzioni
sommarie. A Catanzaro, avrebbe raccontato Settembrini, «tutti i cittadini si
armarono, si messero a guardia delle porte della città, e a drappelli andavano
girando pel contado». «Trovandomi inerme in mezzo a tanti che volevano fare a
schioppettate col cholera, io mi provai una volta a dire: amici miei, smettete
questa idea del veleno, ché nessun governo, per tristo che sia, ha mai
avvelenato i popoli. Ella è peste, è malattia […] c’è qualcosa in aria che
cagiona questo e l’aria non si può avvelenare […] Mi risposero inviperiti […]
Erano uomini di senno, e parlavano come matti […] credevano che era veleno e se
dicevi di no ti credevano avvelenatore». Era successo in tutta Europa. In
Polonia e in Russia erano stati distrutti ospedali e erano stati uccisi
infermieri e medici. A Parigi si erano verificati tumulti violenti. A Madrid la
folla aveva fatto irruzione in alcuni conventi, massacrando decine di frati,
accusati di nascondere veleni.

Nell’aprile 1837, dopo alcuni mesi di tregua, l’epidemia si
accese di nuovo, violentissima, a Napoli e in sette mesi uccise altre
quattordicimila persone. «Non mancavano le processioni, le esposizioni di Santi
e di Madonne, le invocazioni e le preghiere e le penitenze; ma la paura del
contagio raffreddava lo zelo religioso» (De Sanctis). I morti venivano sepolti
in silenzio, senza accompagnamento, di notte, per evitare l’ulteriore
diffondersi del terrore. Lasciando Napoli, De Sanctis attraversò quartieri
devastati: «Giunto in quei vicoli stretti e puzzolenti […] cominciò un via vai
di carri funebri, con preci sommesse […] che mi fece capire cos’era il colera
[…] L’infezione era un fetore acre, che veniva da cessi, da orinatoi, da
spazzature, da cenci, da uomini vivi e da uomini morti».

Una vittima del colera (litografia inglese, 1832)

Tra giugno e agosto la malattia passò in Calabria, si diffuse in Abruzzo e in Basilicata, entrò in Sicilia e fu una strage. Catania (quasi seimila morti) e Siracusa furono devastate. A Palermo, bloccata dai cordoni armati istituiti dai paesi circostanti, in quattro mesi il colera colpì un terzo della popolazione e fece ventisettemila morti. I pavimenti dei sei ospedali erano ingombri di pagliericci. «In un letto due o tre appestati», avrebbe raccontato il giornalista e scrittore Vincenzo Linares, «sotto al letto appestati giacevano uno vicino all’altro, uno sopra all’altro».Tutta l’isola fu sconvolta, si diffusero ovunque le voci sui complotti degli avvelenatori, su trame oscure ordite dal governo di Napoli, da agenti stranieri, da sette segrete, per infettare la Sicilia. A Palermo le raccolse Linares: «In tutto era veleno: chi lo temeva nelle pagnotte, chi nelle carni, chi ne’ medicamenti, altri perfino lo sospettava nell’ostia consacrata». Ignorato il decreto reale che, per garantire l’ordine pubblico, assegnava alle commissioni militari la competenza sui reati di «spargimento di sostanze velenose, ovvero di vociferazioni che si sparga veleno». Si scatenarono disordini rabbiosi e selvagge esplosioni di ferocia. Certo non si giunse agli episodi raccapriccianti (atti di cannibalismo e bambini arrostiti allo spiedo) raccontati in una lettera ripresa in agosto dalla «Gazzetta privilegiata di Venezia», ma ci furono gravi tumulti, saccheggi e sommosse di bande armate, talvolta intrecciate a cospirazioni antiborboniche. E furono decine i presunti avvelenatori seviziati e massacrati. «La paura diventò furore», scrisse Settembrini. «In Siracusa, in Catania, in Cosenza, in Civita di Penne furono moti simultanei. Feroce in Siracusa, dove il popolo, venuto in un pazzo furore, uccise tutta la famiglia di un giocoliere di cavalli credendo portasse veleno, uccise l’Intendente che tentava di impedire quell’eccidio e dichiarò decaduto dal trono un re che avvelenava i suoi popoli. In Catania non fu versato sangue ma rovesciato il governo». Dalle città la rivolta dilagò nei piccoli centri delle campagne, stroncata da spietate rappresaglie e condanne a morte. Siracusa, sconvolta dalla violenza popolare per più di venti giorni, tra luglio e agosto, e rea di «atti ferini e selvaggi» fu privata della dignità di capoluogo.

Frontespizi di due pubblicazioni edite a Palermo alla vigilia dell’epidemia

Mancava Roma. Tutti sapevano che non c’era speranza e che la
malattia sarebbe arrivata. Solo qualcuno si diceva certo che la città santa
sarebbe stata risparmiata dalla speciale protezione divina. Ma intanto si era
provveduto ad accelerare l’apertura del nuovo cimitero suburbano del Verano e,
nel settembre 1836, era stata istituita «una commissione straordinaria di
pubblica incolumità per provvedere ai possibili bisogni all’occasione che vi si
manifestasse il cholera asiatico». In quello stesso mese «L’Album» aveva
tentato ancora di tranquillizzare i lettori: «Non avvi dubbio alcuno che la
temperanza ed un corrispondente metodo di vita siano i più sicuri ed efficaci
mezzi per prevenire i terribili effetti» della malattia «e di tutti i rimedi,
coi quali i pubblici fogli volevano che ci avessimo a premunire da questo
novello nemico giurato della umanità regalatoci dall’oriente […] se ne
raccomanda uno principalmente […] il coraggio, uno dei più efficaci medicinali,
del quale sta a noi il fare uso contro i patimenti». Ma la commissione
sanitaria evidentemente non aveva ritenuto sufficiente l’invito alla temperanza
e al coraggio e, dopo aver impartito le prime disposizioni organizzative e di
prevenzione per fronteggiare la minaccia, aveva imposto al confine meridionale
un cordone sanitario rigoroso. Nel gennaio 1837 un editto aveva limitato le
feste del carnevale.

La protezione divina non ci fu. In luglio l’infezione entrò
nel Lazio, forse introdotta dai lavoratori stagionali. In agosto dilagò nella
capitale. E fu un disastro. Anche qui le disposizioni sull’isolamento e la cura
dei malati ebbero scarso effetto. In compenso si tennero messe solenni e
processioni imponenti, poi sospese con una notificazione del cardinale vicario,
«poiché giudicansi perniciose le riunioni e gli affollamenti in tempo di
malattia contagiosa sviluppata», e sostituite dall’esposizione alla pubblica
venerazione, nelle chiese più importanti della città, di una miriade di
reliquie – dalle teste degli apostoli Pietro e Paolo al braccio di san Rocco –
che assicuravano l’indulgenza plenaria. E intanto – nonostante un editto contro
le «inique menzogne dei veleni» – vicino al Campidoglio veniva massacrato uno
straniero, indicato come avvelenatore, e si accendeva un tumulto, con episodi
di saccheggio, contro il ghetto ebraico.

Lungo i cordoni sanitari dello Stato pontificio erano in funzione forni per la disinfezione della posta. Le lettere venivano afferrate con le pinze, deposte nella gabbia e esposte a vapori di zolfo. Il timbro riprodotto a destra attestava la disinfezione esterna. Per la disinfezione completa (timbro: «Netta fuori e dentro») venivano praticati sulle lettere alcuni tagli prima di esporle al trattamento (Museo storico della comunicazione, Roma)

Uno scrittore oggi dimenticato, Bonaventura Fidanza, attribuì
al protagonista di un volumetto pubblicato nel 1838 il racconto di una scena
atroce alla quale una sera aveva assistito: «Un sordo fragorio che veniva dalla
tacita via mi scuote […] era il carro funereo, che guidato da due becchini con
in mano una squallida face, ed un crocefisso velato a bruno recava al
campo-santo i corpi ammonticchiati di estinti, caduti nel giorno sotto i colpi
del morbo dominatore». Seguendo a distanza il convoglio, giunto al cimitero,
«dove per lungo solco si divide il terreno, veggo starsi il carro scoperchiato
[…] Piovevano in quella vasta fossa umani cadaveri scagliativi dai becchini
alla rinfusa e sconciamente. Rispetto non aveasi né al pudore delle vergini, né
alla canizie veneranda dei vecchi, né al decoro delle matrone».

«Un contagio distruttore e quasi paralizzatore della umana
società», scrisse in una lettera, in settembre, Giuseppe Gioachino Belli. «Qui
tutto crolla, e quel che non crolla trema […] Una solitudine, una mestizia, uno
squallore, per tutte le vie, per tutte le case, in tutte le facce». Negli anni
precedenti il poeta aveva dedicato una serie di sonetti alla malattia in
arrivo, raccolti sotto il titolo Er còllera mòribbus, che deformava in
romanesco il nome scientifico – cholera morbus – che le era stato
attribuito. E in un verso aveva spiegato «che mmòribbus siggnifica se
more
».

L’epidemia cominciò a declinare in settembre e si spense in
ottobre. I morti furono migliaia, qualcuno ipotizza diecimila, su
centocinquantamila abitanti. Si celebrarono solenni Te Deum di
ringraziamento, ma per chiudere la tragedia si aspettò qualche mese.
Nell’aprile 1838 ebbe grande successo una lotteria per raccogliere fondi da
destinare agli orfani del colera: grande partecipazione di popolo
all’estrazione dei numeri vincenti, a Villa Borghese, notevole la cifra
raccolta.

La contabilità complessiva dei due anni e mezzo in cui il
morbo aveva percorso la penisola fu catastrofica: quasi centocinquantamila le
vittime.