VICINE DI CASA, VICINE AL MONDO

Trent’anni di centro antiviolenza e quindici anni di Festival della Violenza illustrata per cambiare il mondo a partire dalle singole donne. Un bel compleanno per la Casa delle donne di Bologna che in questi decenni «ha visto passare oltre 12mila donne, ognuna di loro con una sua storia, importante, unica, di sofferenza ma anche di felicità per una nuova vita da ricostruire” come racconta Anna Pramstrahler, una delle socie fondatrici della casa e co-ideatrice del Festival: «siamo riuscite a costruire un centro autonomo e femminista, siamo tutte donne, formate, motivate, con una forte spinta politica a non volere considerare la violenza maschile contro le donne un problema “psicologico” come fanno i servizi istituzionali. È una questione globale, strutturale, una questione di potere tra i generi». E l’anno della pandemia lo ha confermato.

«L’emergenza sanitaria ha colpito in primo luogo le donne, questo ormai è chiaro e lo affermano anche fonti ufficiali: la povertà è aumentata e la cura di figli, anziani etc è tutta in mano alle donne. Gli episodi di violenza, soprattutto nei due mesi di chiusura totale, sono stati resi ancora più drammatici dal fatto che le donne non potevano chiedere aiuto, perché erano controllate 24 ore su 24 – continua Pramstrahler – Ma immediatamente dopo hanno chiesto aiuto ai Centri antiviolenza, anzi per noi i numeri sono notevolmente cresciuti. In più, moltissime delle donne povere, precarie, che hanno perso il lavoro a causa della violenza o della separazione, lavorano proprio nei servizi di cura e sono doppiamente svantaggiate”. Un motivo in più per confermare l’edizione 2020 del Festival anche se in versione completamente online, che sintetizza nel titolo “Vicine di case” una forte pratica femminista: «se la pandemia ci costringe a stare lontane, almeno fisicamente, noi abbiamo detto no. Noi siamo vicine alle donne, stiamo vicine tra noi perché solo così possiamo vincere questo momento difficile. Con “case” intendiamo la Casa delle donne ma anche le case delle altre donne o quelle delle associazioni e reti di donne, la nostra comunità. L’immagine del Festival ci è stata regalata dalla illustratrice Sara Colaone e ci ha fatto quasi ridere: tutte noi, donne, amiche, vicine, allegre, con voglia di fare, di parlare, di condividere. Tutte cose che non possiamo fare, ma nonostante i contatti fisici limitati progettiamo lo stesso un mondo comune con le donne».

Il festival parte da Bologna ma parla all’Italia e al mondo anche aderendo alla campagna Onu #16daysOfActivism, «16 giorni di attivismo contro la violenza di genere». Dal 25 novembre (Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne) al 10 dicembre (Giornata Mondiale dei diritti umani) il programma si svilupperà in 14 eventi on-line fra seminari, dibattiti e presentazioni di libri e due mostre: Uncinetto e mani di donne (Centro Lame, Bologna) dedicata a Nadia Murat (Premio Nobel 2018) e Sogni Vestiti e 100 Scarpe rosse per dire basta alla violenza sulle donne (Centro Nova, Bologna).

Un festival condiviso e reso possibile dalla tenacia di un gruppo di femministe che trent’anni fa non ha avuto paura di toccare con mano la realtà della violenza e che non ha mai mollato, convinte oggi come ieri che «la battaglia per tutte le donne deve continuare, creando alleanze anche con chi tra le donne occupa posti di potere – conclude Pramstrahler – e la pandemia può essere un’occasione per un grande cambiamento, che deve venire dalle donne».

Tutto il programma su https://festivallaviolenzaillustrata.it/

 

 

Immagine di copertina © Patrizia Pulga





Lavorare con il corpo: dialoghi tra femministe e prostitute.

Pubblicato su La27esima ora – Corriere della Sera

Sì, senza
punto interrogativo: Sex work is work. E come tale va accolto. Non
significa far propria quella scelta ma riconoscerne la dignità al pari di
altre, accettando almeno di fermarsi ad ascoltare cosa hanno da dire le dirette
e diretti interessati. E senza dover ogni volta ricordare che la tratta e lo
sfruttamento sono altro e che le/i sexworker sono in prima fila nel combattere
illegalità, soprusi e violenze. Sì, è vero che il lavoro sessuale scelto senza
costrizione riguarda una minoranza di persone, ma sfuggire al confronto perché
riguarda poche persone è come dire: non ci occupiamo più delle minoranze
etniche o delle femministe perché non sono la maggioranza della popolazione.

È indubbio che Carla Lonzi abbia dichiarato, a suo tempo, che «il femminismo mi si è presentato come lo sbocco tra le alternative simboliche della condizione femminile, la prostituzione e la clausura: riuscire a vivere senza vendere il proprio corpo e senza rinunciarvi», ma non penso, come sostengono, fra le altre, Monica Ricci Sargentini e Alessandra Bocchetti , che sia stato paradossale, financo disdicevole, aver ospitato alla Casa internazionale delle donne di Roma, lo scorso 21 gennaio, un incontro pubblico sul sexwork proprio nella sala dedicata a Lonzi, la femminista che, nel Manifesto di Rivolta Femminile del 1970 redatto con Carla Accardi ed Elvira Banotti, affermava: «accogliamo la libera sessualità in tutte le sue forme». Anzi, credo che Lonzi avrebbe ascoltato con cura e attenzione – così come hanno fatto le circa duecento persone presenti – le testimonianze emozionanti e le relazioni che si sono susseguite, aprendo il dibattito a interrogativi e contraddizioni non certo risolti, ma segnando un primo passo importante per iniziare a ragionare, in maniera dialogante, su una questione scottante e forse, per molte, irritante.

Scottante al
punto da far saltare i livelli minimi del rispetto reciproco, ne sono prova gli
attacchi violenti subìti dalle organizzatrici sui social network o le ingerenze
inopportune di alcune voci del femminismo italiano per impedire che l’incontro
si svolgesse nella “casa di tutte”; irritante perché parlare di “sexwork”
significa dibattere non solo con chi ha deciso senza costrizione di lavorare
con la propria sessualità e con il proprio corpo, ma anche fare i conti con le
titubanze e le paure, i desideri, i turbamenti e le rimozioni che il parlare di
“sesso” comporta.

«Da tempo sono testimone, nel mondo femminista, di reazioni emotive incontrollate contrapposte ad un approccio che riconosce le prostitute come interlocutrici alla pari perché intende la prostituzione come fatto politico», ha ricordato Maria Rosa Cutrufelli, scrittrice, autrice nel 1981 de Il cliente. Inchiesta sulla domanda di prostituzione, la prima indagine a puntare l’occhio sul protagonista maschile della vicenda. «Oggi si parla di sexwork, parola recente nata proprio dalla lotta delle prostitute e dopo discussioni negli spazi femministi – ha proseguito Cutrufelli – e sebbene non posso più dire, come negli anni Ottanta, che la prostituzione sia l’istituzione nera e scura contrapposta all’istituzione bianca e chiara del matrimonio, certamente – riprendendo anche Kate Millett e il suo scritto del 1975 Prostituzione: quartetto per voci femminili– si può affermare che non è cambiata complessivamente la resistenza negli ambienti femministi a riconoscere pari dignità alle donne che scelgono volontariamente di vendere il loro corpo: ecco, a me piace parlare di scelta volontaria più che di libera scelta».

Non è dello stesso avviso Pia Covre, fondatrice con Carla Corso del Comitato per i diritti civili delle prostitute, da anni attiva anche nelle reti internazionali e arrivata da Pordenone per raccontare la sua personale esperienza: «Personalmente preferisco l’espressione “libera scelta” perché così l’ho vissuta quando ad un certo punto della mia vita ho deciso che volevo essere pagata per uno scambio sessuo-economico che comunque veniva dato per scontato nelle relazioni. Mi bastò fare due conti per capire che avrei guadagnato di più così che facendo la cameriera».
«Fino al 1982, quando siamo nate come Comitato, ho fatto politica in vari modi, anche con i Radicali per il diritto all’aborto – ha raccontato Covre – ma non avevo mai partecipato ad assemblee femministe. Andare ad incontrarle e trovarsi dinanzi un muro è stato molto deludente, ma questo non mi impedisce di sentirmi femminista. Ho passato la vita a battermi per la mia (e nostra) autodeterminazione e libertà, perché altrimenti saremo sempre schiacciate fra le spinte abolizioniste e quelle regolamentatrici che, in entrambi casi, non si curano delle condizioni materiali di vita, anche igienico-sanitarie, di chi fa questo lavoro, spesso anche per sfuggire alla povertà».

Se quindi, da un lato, non viene eluso il nodo delle condizioni materiali di partenza che possono divenire delle costrizioni, dall’altro, ripetono le protagoniste, si sceglie il lavoro sessuale avendo ben presente il restante mondo del lavoro e quel che comporta. Eppure lo stigma è su alcuni lavori e non su tutti: «Se lavorassi per una multinazionale o per una società dai vertici di potere maschili, come quasi tutte d’altronde, qualcuna allo stesso modo direbbe di me che sono una serva del capitalismo patriarcale? Se mangiassi cadaveri di animali torturati, mammiferi come me, o di altre specie, qualcuna direbbe: quella è un’assassina, una specista infame, con la stessa gravità di ‘quella fa la prostituta, o la spogliarellista o la mistress?».

Sono domande rivolte soprattutto a quelle femministe che pensano che di certi lavori ci si debba forse vergognare, fino al punto di negarli, senza tener conto di tutte le variabili in gioco. Anche per questo, molte reti di sexworker intrecciano le loro battaglie per i diritti civili con quelle delle/i migranti e chiedono contestualmente alla depenelizzazione del sexwork anche una normativa non repressiva sul tema delle migrazioni: a ribadire che il sexwork non è necessariamente un lavoro a tempo indeterminato e le condizioni di vita possono cambiare se vengono tutelati i diritti civili e sociali. Il collettivo femminista Ombre Rosse si muove dentro questo contesto e ha partecipato all’incontro portando testimonianze dirette per capire chi sono e cosa vogliono i/le sexworker. Per tutelare le proprie attiviste/i il collettivo ha scelto di intervenire anonimamente e con il sostegno di Silvia Gallerano, attrice e interprete del monologo La Merda con cui ha già ricevuto molti riconoscimenti internazionali. «Lavorare con il corpo significa tantissime cose tra cui condividere qualcosa di intimo. Questo è vero per il lavoro sessuale, come per altri lavori che mettono in gioco corpo, sensazioni e relazioni. Molti lavori di cura prevedono intimità corporee e non solo, molti lavori performativi prevedono espressione corporea e interpretazioni che hanno radici nella sfera dell’intimo» – così la sexworker interpretata da Gallerano, che aggiunge «ho scelto di fare questo lavoro da adulta, dopo un percorso femminista che mi ha dato la possibilità di ragionare sul mio stare al mondo, un ragionamento che non si è concluso perché continuare a stare al mondo significa anche rimettersi continuamente in discussione, almeno per me».

Eppure c’è chi ha certezze inossidabili e ha deciso che chiunque faccia questa scelta sia schiava del patriarcato: «Vendere il proprio corpo è una frase che odio e ho sempre odiato. Come se non ci fosse la mia mente, la mia intelligenza, come se il mio corpo fosse smembrabile. O forse il problema è fare sesso per soldi? Fare sesso senza amore? O il problema è proprio il sesso?» – è andata dritta al punto l’altra voce del collettivo – «Vorrei poter lavorare in cooperative gestite da colleghe e colleghi, protetta da abusi, sfruttamenti e violenze anche da parte delle forze dell’ordine».

Ma è violenza «anche parlare e decidere al posto mio, giudicarmi, inferiorizzarmi, vittimizzarmi e stigmatizzarmi, voler fare leggi contro la mia libertà di scelta: pensavo questo lo facessero i preti, gli obiettori, i maschilisti, non donne che si dichiarano femministe come me – ha concluso Ombra Rossa – Vorrei che il pensiero femminista accogliesse e rispettasse le soggettività non conformi, le minoranze oppresse, le esperienze e identità altre, vorrei che il femminismo rompesse definitivamente lo schema patriarcale santa-puttana che dice di criticare e invece ripropone».

Anche perché, come ben ha ricordato Giorgia Serughetti – ricercatrice dell’università Milano Bicocca e autrice nel 2013 di Uomini che pagano le donne– non si può continuare a puntare il dito solo sull’offerta ma «è necessario tener conto anche della complessità della domanda, quel variegato mondo composto in larga maggioranza da uomini, ma non più solo da uomini, che chiede e cerca anche su internet sesso a pagamento, sempre in un contesto in cui i rapporti di potere sono dentro la cornice economica del sistema capitalistico. Basti pensare – aggiunge Serughetti – al caso che ha visto le donne chiedere a richiedenti asilo prestazioni sessuali dietro compenso. Non solo si ripete lo schema di potere di un soggetto privilegiato su uno svantaggiato (uomo/donna, donna bianca/migrante) mettendo ben in evidenza anche la questione delle diseguaglianze, ma si sgretola anche un altro luogo comune che vuole il cliente come soggetto deviato».

A mescolare, infine, tutte le carte la performance di Rachele Borghi, professora di geografia alla Sorbonne e componente della commissione di reclutamento del Cnrs francese. Sulla scia del progetto collettivo transnazionale Zarra Bonheur, condiviso con la pornoattivista Slavina, Borghi ha esposto letteralmente nuda le parole di chi sceglie il sex work e cerca alleanze politiche con altre sessualità dissidenti e con chi è disposto ad accogliere le loro vite. Ha infatti ricordato non solo il suo essere femminista transfemminista in rete con tante altre ma ha felicemente montato in sequenza uno spaccato di ragionamenti di donne che si battono per il riconoscimento del sexwork e le violente argomentazioni di chi in queste settimane ha irrispettosamente attaccato la possibilità dell’ascolto fra femminismi diversi.

(articolo Pubblicato su La27ora/Corriere della Sera)





Diritti al cuore Mix Fest – Musica e diritti in festa.

Il 28 settembre dalle ore 19 l’associazione Diritti al cuore, con sede in Via Federico Borromeo 75, organizza una serata all’insegna dell’arte, della musica, del volontariato e dei diritti umani.

L’associazione, che da anni si occupa di libera informazione, cooperazione internazionale e diritti umani, presenterà le sue attività previste per la stagione 2019-2020.

La festa sarà ricca di ospiti ed eventi: si aprirà con il vernissage della mostra fotografica Humanity First di Siliana Arena, a seguire un aperitivo a buffet (contributo 10 euro). Verrà poi proiettato il video Empatia, di Serena Arena. Segue l’esibizione de Le Danze di Piazza Vittorio che dalle 20 presenteranno il nuovo corso di balfolk con danze e musiche ad ingresso libero. Alle 21.30 si terrà il grande concerto di chiusura dei Black Echoes, con la loro musica blues.
Ma vediamo nello specifico i protagonisti di questo festival.

Humanity First è un progetto fotografico che nasce nel 2019 realizzato da Siliana Arena e sviluppato nell’arco di 3 mesi, coinvolgendo circa 25 persone. il progetto vuole essere un ammonimento ad ogni ideale di supremazia di una categoria umana sull’altra. Una pacifica protesta in opposizione alla dilagante disumanità di cui siamo testimoni, ma di cui possiamo non essere complici. Consiste in una serie di ritratti di persone di età, etnie e storie diverse, ad occhi chiusi, accarezzati da una mano che potrebbe rappresentare quella di chiunque. Humanity First è un elogio alla gentilezza umana e un invito a non dimenticarsene.

Empatia, il video di Serena Arena. Il video “Empatia” è un elogio all’umanità. Alla sensibilità. A quel sentire che, in fondo, ci lega tutti quanti. È un invito a fare un passo verso l’altro, a correre il “rischio” di poter comprendere la prospettiva di un diverso punto di vista, ad abbattere quelle sovrastrutture e convinzioni che ci riempiono di pregiudizi. Senza empatia, tendiamo a chiudere la nostra realtà in un cerchio sempre più piccolo. Tendiamo a cercare etichette per le persone al di fuori del nostro piccolo cerchio: “l’altro”, “il problema” o persino “il nemico”, identificano chi si trova al di fuori.
Queste etichette che tendiamo a creare ci impediscono di andare avanti e di crescere. Ci allontanano dalla consapevolezza che l’esperienza umana è un’esperienza condivisa.

Le danze di Piazza Vittorio collaborano con noi di Diritti al cuore da 2 anni e in occasione del festival presenteranno il corso in partenza di danze popolari che organizzano presso la nostra sede e che, grazie alla loro donazione, ci permette ogni mese di finanziare l’acquisto del carburante per il nostro camper impiegato per le visite mediche del progetto Salute migrante.
Ma chi sono? Dal 2011 hanno l’idea di usare i suoni e le danze popolari per divertirsi e star bene insieme, ma anche per avere un canale di comunicazione in più nella bellezza caotica rappresentata da Piazza Vittorio, a Roma. Prima come gruppetto di amici, poi come associazione, hanno cominciato ad incontrarsi ed a suonare e ballare in piazza, poi si sono ritrovati coinvolti nelle attività di tanti gruppi ed associazioni, poi in giro per il mondo a cercare feste e tradizioni, poi presso la scuola Di Donato a organizzare laboratori di danze, strumenti, canti popolari.

I Black Echoes, gruppo di musicisti da diversi anni sul palco dei più noti locali romani, chiudono il Diritti al cuore Mix Fest. Alle 21.30 si esibiranno con il loro repertorio che offre una miscela raffinata di blues, soul, southern rock e ballads. La loro forza è sicuramente nella costante ricerca di un sound pregiato ed elegante, cosa che gli ha permesso di inaugurare il festival del Rosso Conero, nelle Marche, partecipare al Summer Festival della provincia di Viterbo, essere selezionati per un evento internazionale con il comune di Roma.

Durante la serata infine lanceremo poi la campagna di raccolta fondi sulla piattaforma ulule per la realizzazione di un reportage in Senegal (vedi qua: https://it.ulule.com/foto-video-reportage-diritti-al-cuore-del-senegal/). Per tutta la serata poi sarà attivo un piccolo punto ristoro e vi sarà un mercatino di libri usati e di artigianato senegalese.
Per info e adesioni 3289297160

 


Tutte le foto di questo articolo © Diritti al Cuore onlus.




DALLA PRESA DI COSCIENZA ED IL CORAGGIO DELLE EMOZIONI ALLA LOTTA PER UN’IDEA. LA CASA INTERNAZIONALE DELLE DONNE, ROMA

La Magnolia © MjZ

Nomade sono
per il viaggio raro
sotterraneo

Haiku, da Isolanotte di Edda Billi

È un ambiente molto informale quello in cui si entra e l’aria che si respira è estremamente colta non appena si stabilisce un contatto con le persone che lavorano nella Casa Internazionale Delle Donne.

La prima richiesta è quella di condivisione di una lotta comune, quella di far sopravvivere un luogo, un’idea, una casa. Sottoscrivo la petizione per far sì che questo luogo mantenga la stessa vitalità che mi colpisce non appena entro. Ad accoglierci è Noemi Caputo, una volontaria della Casa. Di evidente valutazione il fatto che per chiamare questo luogo in maniera informale ed intima ci si esprima solo con il termine Casa. Se si va oltre alla definizione strettamente legata al significato del termine, con cui si designa uno spazio abitato da un nucleo di persone, e se si scavalca quello legato all’aspetto architettonico, che fa del luogo un complesso di ambienti costruiti da persone per svolgere l’attività dell’abitare, è quasi impossibile non approdare al legame che esiste tra il concetto architettonico-funzionale e quello antropologico-sociale.

Il Movimento Moderno in architettura, con uno dei suoi massimi esponenti, Le Corbusier, partendo dal problema del suo tempo nei riguardi delle tipologie di insediamento umano a seguito dei bombardamenti, pensa ad un’abitazione che diventi un vero e proprio edificio-città. Ed è proprio questo il principale contributo che ha dato all’architettura moderna, quello di aver concepito luoghi fatti per le persone e costruiti a misura delle stesse.

In questo senso, è impossibile tralasciare le nozioni storiche sulla destinazione d’uso che aveva la struttura prima che fosse legittimamente assegnata nel 1983 dalla Giunta Comunale del Sindaco Ugo Vetere ai gruppi femministi che lasciavano la sede di via del Governo Vecchio, e designata come luogo per la cittadinanza femminile e femminista, ed è altresì fondamentale porre l’accento sull’alto significato simbolico del perché della scelta della nuova sede della Casa delle Donne in via della Lungara.

Leggo una breve storia del complesso sul sito di Archivia http://www.archiviaabcd.it/associazione/ 

“Nato nel 1615 come primo reclusorio femminile laico carmelitano dello Stato della Chiesa, denominato Ospizio della S. Croce per Pentite, nella seconda metà del Seicento, l’Ospizio diventò il Monastero della S. Croce in cui le Oblate vivevano un’esperienza di stampo teresiano e le loro educande vivevano in silenzio e in preghiera, catechizzate, alfabetizzate e addestrate nei lavori di cura o lavori donneschi. Ridotte a pochissime, nel 1802 le Oblate misero il Monastero a disposizione del Collegio dei Parroci, che v’internò, a suo criterio, adulte e bambine dirette, con criteri volontaristici, da un Patronato di Dame. Nel 1838, il Cardinal Vicario Carlo Odescalchi affidò la gestione all’ordine vandeano Nostra Signora della Carità del Buon Pastore. L’ingresso delle suore francesi avviò un profondo cambiamento nell’organizzazione del carcere monastero e, nel 1854, con l’ampliamento dell’edificio, carcere statale dove si scontavano ergastoli e lavori forzati. Entrarono nelle sue celle recluse di altri carceri femminili, patriote e filosofe perseguitate per le loro idee, suore di cui gli ordini volevano liberarsi e donne in transito verso o dal manicomio. Nel 1895 il Regno d’Italia trasferì il carcere statale a Regina Coeli e affidò la gestione della struttura ad una serie di Opere Pie che proseguirono l’operato delle suore. Il Riformatorio monarchico diventò, con la Repubblica, un Osservatorio minorile (Osm), mentre la vendita dell’edificio al Comune di Roma, nel 1941, da parte dell’Opera Pia, si concluse con varie cause legali nel 1983. Quello stesso anno, l’edificio fu assegnato a finalità sociali, con particolare riguardo alla cittadinanza femminile e destinato dal Comune, in parte, al Centro Femminista Separatista, costituito da dieci Associazioni e gruppi che in cambio lasciarono la Casa della donna occupata di Via del Governo Vecchio.

Le condizioni in cui versava l’edificio, quando divenne la Casa delle Donne, erano di profondo degrado e solo la loro forza, animata da lotte amate, ha fatto sì che questo complesso oggi sia il frutto del legame stretto che esiste tra una struttura progettata architettonicamente per un vivere funzionale ed il concetto antropologico-sociale del luogo che lo rende uno spazio dell’abitare comune, un’edificio-città, un luogo di incontro, una Casa.

La storia del vissuto all’interno di questi spazi ci viene incontro non appena oltrepassiamo l’atrio dove troviamo di fronte a noi un’intera parete tappezzata di nomi di donne uccise, morte per femminicidio. Noemi ci spiega che l’idea di fare dei necrologi delle donne morte nel corso degli anni è un progetto nato anni addietro di cui ne rimane traccia in una delle ex-celle di reclusione per sole donne che si trovano al secondo piano, dove, Illuminata all’interno da un cono di luce intensa che entra dalla finestra, c’è il pavimento tappezzato di necrologi ‹‹Lì – racconta Noemi – venivano internate tutte quelle donne che decidevano di non seguire il destino che era stato loro designato, tutte quelle donne definite “trasgressive” che si ribellavano alle decisioni imposte da altri››.

La parete al piano terra, invece, è stata fatta per continuare a dare voce a queste donne, seppur morte per cause diverse; si è deciso di farlo in occasione della Notte Bianca del 2017, in una serata gremita di persone che ha visto una grande partecipazione tra le Associazioni che lavorano per La Casa e che ha segnato un’esperienza molto bella nella memoria di tutti. ‹‹Durante la Notte Bianca, il 30 settembre, qui sembrava tutto rinato, gli spazi erano attivi contemporaneamente – racconta Noemi – Abbiamo fatto una chiamata a tutte le Associazioni perché proponessero delle attività in modo da aprire le porte della Casa e, soprattutto, per farlo tutti insieme. È stata una bellissima occasione per raccontarsi e per far conoscere le Associazioni, di quello di cui si occupano ed i servizi che offrono nella Casa. Donne senza Confini, questo è il nome che abbiamo dato alla serata, che ha visto 100 eventi svolgersi contemporaneamente, dalle ore 17 fino a notte inoltrata ed alla quale tutti hanno partecipato. È stato proprio per questa occasione che abbiamo pensato di recuperare tutti i nomi delle donne uccise tra il 2015 ed il 2017 per femminicidio, cioè donne uccise in quanto donne da mariti, compagni, padri, fidanzati che non sopportavano di essere lasciati, e di mettere i loro necrologi attaccati alla parete, così che non siano nomi dimenticati››.Martina Agrosi, 14 anni, uccisa con un colpo di pistola dal padre; Nona Movila, 42 anni, sgozzata dal marito; Antonella Lettieri, 42 anni, massacrata di percosse dall’amante; Gina Paoli, 82 anni, uccisa a fucilate dal marito che uccide anche la figlia; Sabrina Magnolfi, 44 anni, figlia di Gina Paoli, uccisa da suo padre a fucilate; questi sono solo alcuni dei nomi che leggo.

Atrio della Casa Internazionale delle Donne  © MjZ

Non posso che concordare con Noemi quando dice che ‹‹In questa casa c’è un’energia trasmessa che è talmente travolgente che ti fa appassionare ed innamorare ed è quella stessa forza che porta a prendere decisioni tutte insieme. La Casa delle Donne per chi ci lavora diventa una vera e propria Casa in cui passiamo tutta la giornata, anche dopo le ore lavorative, per fare tutte quelle attività che normalmente si svolgono al di fuori dell’ambito professionale, il pranzo, la palestra, la cena. Entri la mattina ed esci la sera››. Sono tante le Associazioni e le Cooperative presenti che danno un contributo reale ed attivo a diversi livelli ed insieme formano l’APS Casa Internazionale delle Donne. Gli ambiti sono molteplici, dai diritti tutelati da associazioni di avvocate a consulenze per la salute, dall’assistenza psicosociale delle donne vittime di violenza alla consulenza lavorativa per donne senza distinzione di età, nazionalità e formazione culturale, dal turismo accessibile per persone sorde ad un centro di documentazione servito da una biblioteca. ‹‹Tutte queste Associazioni di tradizione sociale – ci dice Noemi – che concorrono a sviluppare idee ed eventi all’interno della Casa, sono una realtà del luogo, alcune vengono dall’esterno, altre hanno sede qui, per dare atto all’idea di entrare nella Casa fisicamente››.

Associazioni © MjZ

Noemi ci accompagna nel bellissimo giardino che si trova all’interno del complesso, un corte sovrastata dalla presenza di un albero di Magnolia.

La Magnolia nel giardino interno della Casa © MjZ

‹‹La Magnolia è il simbolo della Casa, quando fiorisce c’è un profumo che arriva in tutta la casa. Questo albero è centenario e, insieme al Noce detto il Nocio che si trova nell’altro cortile e che è stato piantato da Giovanna Olivieri, coordinatrice di Archivia, il Centro di Documentazione della Casa, ed Edda Billi, Presidente onoraria dell’AffiAssociazione Federativa Femminista Internazionale e fondatrice di Archivia, sono, insieme, i nostri simboli così come Giovanna ed Edda sono la nostra memoria storica››.

Attraversando il giardino, possiamo entrare in contatto con alcune delle Associazioni che hanno sede all’interno della Casa. Incontriamo Azucar Family-lab e spazio Baby Care. Dolcemente insieme.

Sede dell’Associazione Azucar © MjZ

‹‹Qui si organizzano dei laboratori sulla lettura, sulla scrittura e sulla produzione dei libri per bambini. Durante l’estate tirano fuori tutti i seggiolini quando si mangia e l’ora di pranzo diventa un momento di condivisione per loro e per noi che lavoriamo qui››; la foresteria Orsa maggiore, che si trova al secondo piano, e che è l’unico Ostello per donne dedicato anche all’accoglienza delle donne che viaggiano da sole. Insieme al Centro Congressi, sono direttamente gestiti dal Consorzio della Casa e sono un’importante risorsa sia per le Associazioni che per gli ospiti che ne fruiscono;

Foresteria Orsa Maggiore © MjZ

il Ristrò Luna e l’altra, che come cooperativa sociale è interamente rivolta all’inserimento lavorativo per donne, e che offre “pappa buona” e calorosa accoglienza.

Ristrò © MjZ

Eco Diversità che si occupa dell’integrazione delle ragazze sorde nella gestione dell’orto e nella vendita del mercatino biologico, inserendole nella produzione e nella vendita. ‹‹Sono loro – racconta Noemi – che si sono occupate di risistemare l’Orto ed hanno iniziato queste aiuole di permacultura, una tecnica particolare di coltivazione del terreno intesa anche come filosofia di approccio››. Sono più di quaranta associazioni femministe hanno dato vita a questa struttura aperta, un vero e proprio laboratorio dove coniugare impresa culturale e servizi e che racchiude la storia ed i successi del movimento di liberazione delle donne.

Orto © MjZ
È al primo piano che troviamo l’Associazione Archivia, una delle realtà più belle della Casa, che in qualità di biblioteca/archivio è specializzata nella storia e nella cultura delle donne. Conserva libri, riviste di donne e documenti, volantini foto e manifesti del movimento femminista dalla fine degli anni ’60 ed è senza dubbio il patrimonio bibliografico, in continua espansione, a cui tutte le donne che abitano la Casa, sono particolarmente legate. Archivia è una fonte inesauribile e preziosa di storia delle donne cui attingono le studenti per il lavoro delle loro tesi di laurea.

Archivia © MjZ

Le Donne della Casa sono Donne testarde che non si sono mai arrese, donne che continuano a combattere per i diritti delle donne…. e non solo.Pensano e lavorano in grande.

È proprio davanti ad Archivia che incontriamo una di loro, Edda Billi, una delle memorie storiche della Casa, la donna che ha scalfito a mano le pietre, durante l’occupazione, per rivendicare i loro diritti ed ottenere che fossero riconosciuti, insieme ad uno spazio tutto per sé.

Parliamo con lei…  

Edda Billi © MjZ

Che cosa significa oggi questa casa e perché è importante questo spazio ancora oggi?

Perché finalmente abbiamo una casa nostra e ci abbiamo messo tanto per averla, perché dobbiamo ancora combattere perché ci sono dei pericoli che incombono, perché sembra che vogliano togliercela, ed in questo credo che siano dei pazzi a pensarlo, avranno tutte le donne contro. Li trovo di una stupidità infinita però sai, siccome sono stupidi, c’è da aspettarsi di tutto. Il significato è semplice, è che ogni città dovrebbe averne una, perché uno spazio di donne significa libertà, libertà delle donne.

Questa Casa c’è costata tantissimo, c’è costata 10, forse 12 anni, in cui abbiamo occupato perché cercavano di riprenderla tentando di darne un pezzo all’Ente Santa Croce (forse longa mano di CL).

Ci era stata assegnata dopo una lunga trattativa con una delibera bellissima del sindaco Vetere, che parlò per la prima volta di una casa data ai movimenti femminili e femministi. Per la prima volta veniva usata la parola femminista su una delibera comunale.

Dopo Vetere era arrivato un sindaco fascista, di cui non ricordo il nome, che tentò di assegnarne una parte a quest’Ente della chiesa e da lì è iniziata l’occupazione anche di quella parte. Questo posto era fatiscente, non avevano restaurato che 400 mq circa, mentre il resto era tutto da rifare. Qui non c’era nulla, si camminava nelle buche, era un luogo in disfacimento totale. Noi abbiamo lottato anche perché fosse rimesso a posto, ed in questo ci siamo riuscite con i soldi di Roma Capitale del Giubileo ma il restauro totale è durato quasi 10 anni

Che anno era?

No. Mai chiedere a me gli anni. I numeri per me hanno dei colori, degli odori, passeggiano. Non hanno nessun significato.

C’è della filosofia in quello che dice.

Sarei una matematica favolosa! – continua Edda – Gli anni li dovete chiedere alla “donna delle date” Paola Mastrangeli, fra un po’ arriva. Siamo fiere di aver lottato per così tanti anni. Nel freddo, nel buio, senza luce, senza acqua.

È stata dura. Molto dura

Questi lavori sono stati fatti a vostre spese?

I primi accorgimenti sono stati nostri, in una fase in cui veramente questo stabile andava a pezzi. Poi no. Non sarebbe stato possibile, è un complesso enorme, come vedete.Il restauro è stato opera del Comune che ne è il proprietario e sono rientrati nel progetto per il Giubileo del 2000. Ma posso garantirvi che sono occorsi molti soldi per far sì che venisse così bella come è adesso. Questa è una conquista per tutte noi.

Quand’è precisamente che avete deciso di occupare?

Vi posso raccontare come è nata questa occupazione. Eravamo in quei primi 379mq , che il sindaco Vetere ci aveva dato, accomodati, che era una stanzona collocata dalla parte dove è piantato il N?cio. La delibera ci aveva dato l’intero spazio, invece notte-tempo, il sindaco che era succeduto ne assegnava quasi metà dell’altra struttura al famoso Ente quello di CL.A quel punto decidemmo di occupare. Buttammo giù il cancello di ferro, e siamo entrate. Eravamo in riunione in questo stanzone e c’era Anita Pasquali – che ricordiamo essere stata una “Donna battagliera con grande passione politica e una volontà d’acciaio, sempre in prima linea nella battaglia per i diritti delle donne e del movimento femminista” – che aveva contatti con la Provincia e che seppe in tempo dell’assegnazione all’Ente Santa Croce alla Lungara. Allora noi aprimmo, entrammo e occupammo. Questa occupazione è durata molti anni ed è stata molto, molto dura.

Tutto il resto, comprese le finestre e le porte, era chiuso con grandi massi ed io, con poche altre, li abbiamo tutti smantellati. Piano, piano, con forza, la forza delle donne.

Devo dire che questa è una delle più belle Case delle Donne e lo posso dire con orgoglio e con cognizione di causa perché ormai molte città ne hanno una ma sono sempre piccole, con poche stanze, con pochi spazi. Questa è stata una bella follia.

Immagino sia senza dubbio difficile gestire degli spazi così grandi.

La difficoltà della gestione di un posto come questo comporta non so quanto denaro. Noi non siamo imprenditrici. C’è un Direttivo con una Presidente in cui votiamo, ci sono le Associazioni di promozione sociale, ci sono le singole, insomma il Consorzio, ma noi non siamo donne imprenditrici. La Presidente, Francesca Koch, è una donna semplicemente eroica e non so come abbia fatto a resistere per così tanti anni pur essendo già in vacatio da circa un anno; per questo bisognerà fare le elezioni con la spada di Damocle della Sindaca Raggi, una donna purtoppo, ma Koch continua a reggere la Casa delle Donne. E’ una Presidente bravissima e non è pagata

È incredibile, no? Quando uno racconta questa cosa le persone stentano a crederci e a volte faccio fatica anche io a crederci. Devo dire che sono riuscite in una maniera miracolosa a provare ad essere imprenditrici femministe, che è una cosa difficile, molto difficile. Qui bisogna che i soldi entrino in qualche modo perché dovete sapere che questo posto non è gratuito. Noi paghiamo 9.000 euro al mese perché il Comune ci ha messo addosso anche gli anni di occupazione, con una mora e sono diventati 12.000 euro e avere questi soldi ogni mese è quasi impossibile. In molti sono convinti che sia gratuito, invece non lo è purtroppo. Dovrebbe esserlo perché hanno dato a tutti degli spazi gratuiti.

È quindi questo il motivo dello sfratto.

Sì, questo è il motivo per cui siamo state sfrattate, perché non siamo in grado di pagare l’affitto. Noi diciamo che offriamo servizi alle città che valgono diecimila volte di più del dovuto. Loro sono obbligati a valutare questi servizi che noi diamo in maniera gratuita alla città e lì dove il servizio non lo è, ad esempio quello delle avvocate, ha sempre dei prezzi politici alla base. Dalla nostra abbiamo il fatto di essere donne.

Edda Billi e Paola Mastrangeli © MjZ

Nel frattempo è arrivata la “donna delle date”, Paola Mastrangeli, alla quale Edda Billi si rivolge:
“Amore, quando è successo tutto questo?

‹‹Quale delle cose? La rivoluzione gentile? L’unica rivoluzione possibile dopo il cristianesimo, dopo quelle di Ottobre, quelle d’inverno…l’unica possibile? Nell’ ’84 ci avevano assegnato solo una piccola parte e intanto il resto doveva essere tutto ristrutturato, però nel frattempo la nostra amica Anita Pasquali, alla quale abbiamo dedicato una targa a piazza San Cosimato, ci avvertì che l’altra parte sarebbe stata aggiudicata all’Ente santa croce. Abbiamo detto no. Sfondato il cancello e presa tutta l’altra parte. L’occupazione è durata tanto e con quelle donne che hanno deciso di vivere, sopravvivere e di tenere acceso il braciere del fuoco della passione››.
Continuando a parlare di femminismo, di diritti delle donne, di lotte amate e di passione, ci raggiunge anche Giovanna Olivieri, attraverso la quale si giunge a parlare del fatto che, fino a non molti anni fa, gli uomini non potessero accedere alla Casa. Ci racconta un aneddoto ed il motivo per il quale, ad oggi, questa condizione è cambiata.

‹‹La cosa importante di questa faccenda sono i livelli di separatismo che c’erano allora – dice Giovanna Olivieri – Tutto è nato perché Alma Sabatini, donna “radicale” la cui vita è stata dedicata al servizio dell’idea femminista, muore tragicamente, all’età di 65 anni, a Roma nel 1988, a causa di un incidente automobilistico nel quale resta ucciso anche il marito e compagno amatissimo, Robert Braun. Abbiamo fatto due giorni di assemblea per decidere se i funerali laici potessero essere fatti ad entrambi all’interno della Casa, perché a quel tempo l’uomo non poteva entrare. Alla fine, data l’importanza dell’evento tragico, si decise di fare un’eccezione singolare alla regola separatista, che è stata subito ripristinata fino alla consegna totale della Casa restaurata nel 2002, per cui anche gli uomini potevano accedere. Quella allora fu la prima volta››.

Giovanna Olivieri e Noemi Caputo, volontaria della Casa © MjZ

Quando le chiediamo che cosa significhi essere femministe, risponde:
‹‹La domanda è: chi è la donna? quella definita dai maschi o qualcos’altro? Per trovare la risposta e per fare questo percorso personale, le donne hanno deciso che si dovevano parlare fra di loro. Quello che il femminismo ha cercato di fare, proprio partendo da chi siamo noi e da chi sono gli altri, era stabilire che c’è un conflitto, e le donne hanno deciso che si parlavano fra di loro perché tutte le volte che c’era un maschio diceva cosa dovevano essere, cosa dovevano fare e come si dovevano comportare. A monte di questo confronto, c’è sempre stata la nostra cultura che è profondamente sessista, misogina e quindi un luogo di discussione a partire da quello che ci dicevano e che noi dovevamo essere, confrontandoci con la nostra realtà. Per questo il “partire da sé”, il “personale èpolitico” sono slogan che avevano una forte valenza per noi. Se non parti da quello che sei tu e da quelle che sono le tue esigenze, non arrivi a nessun risultato. All’inizio si parlava di privato, perché il privato veniva considerato un campo non politico, non indagabile e quindi: perché la violenza sessuale era un reato contro la morale? Perché era considerata una cosa privata e non un reato pubblico contro una persona che dice “io non sono consenziente”. Il grande rivolgimento è avvenuto nel ’79, quando è stata fatta la proposta di legge popolare delle donne contro la violenza, e diceva: “Derubricare questo reato da un reato contro la morale ad un reato contro la persona”. Poi c’è stato questo percorso per cui non tutte le donne erano d’accordo con la denuncia d’ufficio, molte erano per la denuncia personale, perché c’erano posizioni diverse all’interno del dibattito sulla legge. Noi qui siamo un puzzle di identità di donne ma quello che ci tiene insieme, è evidente, è un luogo in cui questo puzzle esiste e ciascuna può confrontarsi con le altre oppure può trovare un input alle proprie esigenze, alle proprie richieste. Certo è che non possiamo rispondere a tutte, ma ci proviamo››.

‹‹Vi volevo far notare – interviene Paola Mastrangeli – che, la raccolta di firme per la legge contro la violenza sessuale è stata sempre basata su questa parola: sessuale. Ci abbiamo messo quasi 30 anni per ottenere la definizione sessista perché l’analisi a monte è che era una violenza sessista e non sessuale, ma soprattutto violenza maschile contro le donne. La stampa continua a parlare di “124 donne vittime di femminicidio” se la stampa stessa non sposta il focus dalla vittima all’assassino, avremmo sempre le donne vittime di femminicidio. In questo paese esiste un problema di “124 assassini di donne”. Bisogna spostare l’ottica perché se cominci a pensare che non è più violenza sessuale, ma è violenza sessista, che è violenza maschile contro le donne, l’analisi è diversa perché non mi possono dire che tutti hanno avuto un raptus, che tutti l’amavano troppo e non ce l’ha fatta a resistere››. E’ lo stesso problema che c’è quando si parla di prostituzione e si mette tutta l’attenzione sulla figura della prostituta condannandola e usandola come parolaccia per offendere: figlio di p….. Allora quando vado nelle scuole comincio sempre con lo spiegare che i soggetti del contratto di compravendita di rapporto sessuale sono due: il cliente e la puttana. Ma la parolaccia è stata inventata solo per lei. Lei è da condannare perché prende i soldi e lui no perché li dà? Allora li invito a cominciare a dire anche “figlio di cliente” se proprio vogliono offendere qualcuno. E quando qualche pischello più smaliziato mi dice: Ma è il mestiere più antico del mondo!!! Io ribatto anche l’omicidio con Caino e Abele è cosa antica. Ma l’omicidio è un tabù. La prostituzione rispetta solo la più semplice legge economica del mondo: quella del mercato. Laddove c’è domanda, nasce l’offerta. Ragazzi e ragazze chiedetevi perché gli uomini “da sempre” hanno bisogno di sesso a pagamento. Non sarà una questione di potere? e vi assicuro che nascono delle bellissime discussioni.

Giovanna Olivieri, Noemi Caputo, Edda Billi, Paola Mastrangeli © MjZ

È chiaro che la consapevolezza di se stesse e la presa di coscienza sia il passo obbligato attraverso il quale poter cambiare, non solo il proprio essere, ma anche la vita che ci circonda. La Casa delle Donne è prima di tutto una Casa per tutte, un luogo di incontro dove poter parlare, confrontarsi, chiedere aiuto e vivere.

Le Donne che abbiamo incontrato nel corso della giornata sono state tante. Donne attive, Donne orgogliose di essere Donne. Ognuna di loro ha regalato un pezzo di sé, ha parlato della propria presa di coscienza e di quello che fa per tenere attiva la Casa. Le donne della Casa sono tante e sono tutte unite.

È per questo che ritengo sia importante divulgare la notizia che questa struttura rischi di chiudere, a causa della burocrazia e della “non presa di coscienza” da parte delle autorità, che i servizi che offre alla città siano di gran lunga più onerosi dell’affitto mensile che si chiede loro di pagare. Chiunque voglia aderire all’iniziativa di sostegno per far sì che la Casa rimanga aperta, può sottoscrivere la petizione attraverso questo link

https://www.change.org/p/virginia-raggi-una-casa-per-tutte?utm_campaign=fb_dialog&utm_medium=email&utm_source=signature_receipt&post_id=10215760944884833#_=_

Le ragioni per firmare sono tante. Fatelo.


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati o per gentile concessione dell’autore, tutte le altre sono coperte dal diritto d’autore ©MjZ




Strumenti in psicoterapia: la Fototerapia come linguaggio alternativo

La psicoterapia è relazione (nello specifico una relazione di cura), e come tale può usufruire, per dispiegarsi e mantenersi, di diverse modalità di comunicazione.

La particolarità della relazione terapeutica è quella di avere uno “scheletro” ben definito, dato da una cornice teorica di riferimento precisa, e da linee guida tecniche da cui a volte è difficile prescindere. Accanto a questi elementi più o meno stabili vi è una variabile determinata dal canale comunicativo utilizzato che diventa peculiare e tratto distintivo di quel rapporto specifico e che, in un altro rapporto, può invece avere poco o nessun senso. Tutto ciò è reso possibile dal fatto che ogni persona ha un canale comunicativo prediletto (scelta formatasi a seguito delle esperienze nella prima infanzia) attraverso cui i significati vengono compresi e ricordati; il cliente ci mostra, nella relazione terapeutica, quel canale invitandoci ad utilizzarlo per entrare in sintonia, capire ed essere capiti. Personalizzare la comunicazione con ogni specifica persona vorrà dire renderla più efficace utilizzando taluni strumenti e simboli al posto di altri.

La bontà di un terapeuta risiede, tra le altre cose, nella sua continua ricerca e disponibilità a padroneggiare nuove forme comunicative che possano ad esempio agevolare percorsi terapeutici “difficoltosi” o che hanno bisogno di trovare un nuovo linguaggio per comunicare nuove difficoltà.

Una di queste forme di comunicazione è la fotografia, che può essere usata in qualità di facilitatore della comunicazione. La fotografia è memoria, simbolo, desiderio e necessità. Come oggetto transizionale essa porta con sé ricordi, emozioni, significati molte volte più complessi e completi di quanto le parole riescano ad esprimere. Attraverso la fotografia un luogo o momento congelato nel tempo prende vita, dando l’impressione a chi osserva di trovarsi di fronte ad una testimonianza oggettiva della realtà, dimenticando che essa non è altro che una sua costruzione simbolica avvalorata dall’esperienza soggettiva di chi la sceglie.

In terapia capita a volte (molto più spesso di quanto uno possa immaginare) che il linguaggio verbale possa non bastare più. Qualcosa si è rotto in un punto così profondo e così in là nel tempo, quando ancora la nostra capacità comunicativa non era basata su ciò che diciamo, ma era costituita sostanzialmente da ciò che viviamo e sentiamo (nel qui-ed-ora del momento), ciò che siamo nel corpo. Ecco che allora molti significati non trovano espressione nella parola ma in simboli pre – verbali nascosti ad esempio in una foto.

In questi momenti e in questi casi per me, in qualità di terapeuta, la fotografia rappresenta quasi una nuova relazione, per molti aspetti più intima e sicuramente diversa. Entrare in punta di piedi nella vita di una persona attraverso le parole si trasforma in un coinvolgimento totalizzante fatto di corpi, luci, ombre e sfocature, momenti congelati nel tempo, espressioni, emozioni e posture che risuonano sia nella persona che ce le mostra per un motivo specifico, squisitamente personale, sia dentro di noi, in ciò che magari di diverso possiamo osservare e che può diventare una chiave di lettura mai esplorata prima di questo momento.

L’esplorazione dell’inconscio attraverso immagini e fotografie crea un’esperienza emotivamente molto forte poiché la narrazione di una storia cede il passo alla drammaticità del momento con tutta la sua carica emotiva intatta che si rovescia nel qui-ed-ora. Momenti congelati nella persona stessa, non solo nelle foto amate / odiate; attraverso esse riusciamo a mettere nuovamente insieme i pezzi di qualcosa che si agita al di sotto della coscienza.

Nella mia esperienza come terapeuta l’uso delle fotografie è limitato (con diverse variabili) a poche situazioni, in cui ad esempio si è reso necessario dare voce a qualcosa che non conosceva parole. Ancora adesso, nel ripensare ad alcuni di quei momenti mi commuovo nell’entrare in contatto con l’impatto di quelle emozioni autentiche così vivide e travolgenti.

Non credo sia necessario sottolineare il fatto che in terapia ciò che viene analizzato di una foto, o di una immagine generica, non è l’aspetto stilistico e artistico quanto ciò che rappresenta per la persona stessa e i legami che essa stabilisce con il subconscio di questa; paradossalmente una foto “brutta” può essere scelta e acquisire significato proprio per questo motivo.

Concludendo, lavorare con le fotografie ha per me una duplice valenza: superare il velo delicato e sottile della narrazione, entrare in contatto diretto con la vita inconscia della persona e portare il legame terapeutico ad una intimità maggiore (o forse questa ne è la causa più che una conseguenza);costruire una tolleranza emotiva maggiore del solito (da parte del terapeuta), in quanto il contatto immediato con certi tipi di contenuti non schermati dalla narrazione necessita di una capacità di stare con se stessi, le proprie e le altrui emozioni più forte e reattiva del solito. Questo è il motivo per cui è uno strumento molto utile e al contempo molto delicato da utilizzare e padroneggiare.





“Aids, Tubercolosi e Malaria: fatti e stereotipi”

COMUNICATO STAMPA
24 marzo 2019 – Tbc Day

“Aids, Tubercolosi e Malaria: fatti e stereotipi”

A livello mondiale, la Tubercolosi (Tbc) è una delle 10 cause principali di morte, e, oltre ai problemi di accesso alle cure, c’è la questione dello stigma e discriminazione che molte persone affette devono affrontare quotidianamente.
Osservatorio AiDS – Aids Diritti Salute, Friends of the Global Fund Europe, Aidos – Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo e Bluestocking hanno realizzato il progetto “Aids, Tubercolosi e Malaria: fatti e stereotipi“.
Tre spot per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tre grandi epidemie che ancora oggi uccidono milioni di persone nel mondo. Tre brevi video costruiti attorno agli stereotipi più comuni diffusi sulle tre malattie e sul ruolo del Fondo Globale per sconfiggerle. Tre pillole pensate per essere diffuse e rilanciate in occasione delle tre giornate internazionali ad esse dedicate.

Il prossimo 24 marzo 2019, giornata internazionale della lotta alla Tubercolosi, viene diffuso il video sulla Tbc, sarà online sui nostri siti, social network e su tutte le piattaforme che aderiscono all’iniziativa. La diffusione è sostenuta anche dal circuito delle sale cinematografiche Anec e Fice.

Per aderire, scaricare e rilanciare i video scrivere a press@osservatorioaids.it

Alcuni dati mondiali su Tbc
• Dieci milioni di casi ogni anno, 1,6 milioni di morti nel 2017
• Bambine/i sono fra le categorie più vulnerabili: nel solo 2017 1 milione di minori ha contratto la Tbc e 230.000 sono morti a causa della malattia
• Gli effetti indesiderati delle cure per la Tbc portano molti pazienti ad abbandonare il trattamento portando ad avere nel 2017 oltre mezzo milione di persone con resistenza ai farmaci antitubercolari
• Una persona con una forma attiva e non trattata di Tbc può trasmettere la malattia ad altre 15 persone in un solo anno
• Porre fine all’epidemia di TBC entro il 2030 è uno degli obiettivi dell’Agenda 2030 sottoscritta dalle Nazioni Unite nel 2015
• Il Fondo Globale è uno degli strumenti più efficaci per la lotta alla Tbc e da solo fornisce più del 65% dei finanziamenti internazionali

Ringraziamo per aver partecipato al progetto

Attori e attrici
Simone Barbera
Martina Cavazzana
Antonio De Stefano
Flaure B.B. Kaboré
Martina Montini
Giulia Paoletti
Sara Pinna
Armando Quaranta
Teresa Romagnoli
Gaetano Maria Solfrizzi
Giuseppe Spata
Davide Strava

Regia
Arianna Del Grosso

Sceneggiatura
Alessandro Di Marco, Lucilla Lupaioli,
Claudio Renzetti
Con la collaborazione di Barbara Romagnoli e Marco Simonelli

Fotografia
Leonardo Mirabilia

Suono
Luca Cafarelli

Trucco
Monica Gaviglia

Montaggio
Ilaria Restivo

Mixage
Ivan Caso

Assistente Operatore
Matteo Rea

Aiuto Operatore
Lorenzo Scocco

Elettricista
Diego de Musso

Assistente Elettricista
Sirio Lupaioli

Color correction
Leonardo Mirabilia

Fotografa di scena
Alice Tinozzi

Dal 2005, Friends of the Global Fund Europe lavora per far conoscere e riconoscere gli obiettivi, le azioni e i risultati del Fondo Globale e contribuire all’incremento delle sue risorse.
www.afmeurope.org

Da oltre 25 anni Bluestocking lavora nel campo delle arti sceniche e della formazione attoriale, con particolare attenzione alla creazione di spettacoli ed eventi incentrati su tematiche sociali. Tra questi “Primodicembre”, performance di monologhi sull’Aids e “Io che amo solo te”, sul tema del bullismo omofobico.
http://bluestocking.it

Dal 1981, Aidos – Associazione italiana donne per lo sviluppo lavora per i diritti, la dignità e la libertà di scelta di donne e ragazze nel mondo.
www.aidos.it

Osservatorio AiDS – Aids Diritti Salute è una rete di 11 organizzazioni della società civile impegnate nella lotta contro l’Aids e per il diritto alla salute globale.
www.osservatorioaids.it




Fame dell’Essere: una prospettiva Analitico – Transazionale sui disturbi dell’alimentazione.

Nella mia esperienza come terapeuta analista transazionale con clienti affetti da disturbi alimentari ho riscontrato scarsa consapevolezza su quanto complesse siano queste patologie e, soprattutto, quanto coinvolgano la vita di interi nuclei familiari.

Non ho la pretesa di esaurire l’argomento in questo spazio; vorrei bensì utilizzarlo per far luce su alcuni aspetti semplici ma fondamentali che caratterizzano questa gamma di disturbi, che hanno radici forti nell’esistenza stessa dell’essere umano e nel suo riconoscimento in quanto tale.

I disordini alimentari nascono come una modalità distorta di preservarsi e salvarsi da un male più grande, quello del non esistere e non essere riconosciuti nella propria originalità e unicità; attraverso questa distorsione la persona trova un luogo (il corpo) dove spostare il peso della propria sofferenza, continuando così a esistere e affermarsi. Nonostante l’intelligenza e la creatività spiccata, queste persone non hanno trovato altra soluzione per salvare la propria mente oltre quello di sacrificare il proprio corpo.

Ciò è valido per tutte le varianti del disturbo, dall’Anoressia Nervosa alla Bulimia Nervosa al Binge Eating Disorder.

L’infanzia delle persone candidate a sviluppare un disturbo alimentare è spesso caratterizzata da famiglie molto presenti che danno più importanza nell’educazione della prole al Fare, dimenticandosi del loro Essere. Ogni essere umano ha bisogno di riconoscimento in ciò che fa ma soprattutto per ciò che è. Queste variabili determinano un senso di esistenza, intesa come riconoscimento soggettivo del proprio esser-ci, essere-in-relazione, identificarsi. Io esisto in quanto (ad esempio) tu riconosci (e mi attribuisci) il mio essere simpatico, oppure esisto in quanto sono stato bravo nello svolgere il mio compito correttamente a scuola, perché tu mi dici che il compito che ho svolto valeva un bel voto.

In queste famiglie l’Essere del figlio viene sacrificato in favore dell’eccellenza, del saper fare, dell’essere il migliore. Ci si preoccupa dell’agire dei figli, del loro valore in quello che fanno, ma poco del sapere come essi sono stati durante quell’esperienza, o semplicemente di chiedere “come stai?”.

Il figlio cresce sperimentando un senso di inadeguatezza e fallimento nel non accontentare i genitori nelle loro richieste, in quanto le uniche carezze (nel significato Berniano di unità di riconoscimento sociale) positive arrivano attraverso le sue performances. Intuito ciò col passare del tempo il giovane tenderà a concentrarsi sulle richieste genitoriali di valore e eccellenza, onde evitare la delusione parentale: asseconderà così durante la crescita le abilità del fare e del pensare a scapito di una parte di sé sentita e vissuta emozionalmente con sede (specie nei primi anni di vita) nel corpo, poco o nulla valorizzata dalla famiglia e conseguentemente dal figlio stesso.

In questo modo comincia a delinearsi un primo nucleo scollato di Sé, una scissione tra la sfera cognitiva (mente) e quella emotiva (binomio corpo – emotività).

In chiave analitico – transazionale questo scollamento si mostra nel Bambino Interno non ascoltato (sfera emotiva) e nell’Adulto “Normativo” che determina l’agire dell’individuo (sfera cognitiva).

In pratica la modalità comunicativa dei genitori – tipo di un soggetto predisposto allo sviluppo di disordini alimentari stabilisce, in ordine di importanza: “prima vediamo come ti comporti fuori e cosa mostri, poi (forse) vedrò come ti senti (dentro)”. Di conseguenza il figlio tenderà a utilizzare come guida nella propria vita questa priorità, poiché la riconoscerà come unica possibile (dal momento in cui la famiglia non ne ha mostrato altre da poter essere prese come confronto per lo sviluppo di alternative durante la crescita).

Prendiamo ad esempio lo sport nei bambini e valutiamo due reazioni genitoriali tipiche. Possiamo ritrovare il genitore contento della partita del figlio ma anche preoccupato di sapere come si è sentito nell’avere sbagliato un rigore, prendendosi cura della sua delusione e tristezza per aver magari compromesso il risultato per la propria squadra; oppure possiamo trovare il genitore attento alle prestazioni del proprio figlio premiando risultati e rimarcando le responsabilità di questo negli obiettivi mancati, considerandolo poco dedito all’allenamento senza considerare le esigenze del suo corpo in formazione, quali ad esempio necessità di riposo o di espressività non controllata che fanno parte di uno sviluppo psico-fisico sano ed equilibrato.

Il corpo è quindi visto in questo caso solamente come un mezzo, un tramite attraverso cui raggiungere risultati. Non si considera invece che, dalla nascita in poi, il corpo è la sede del primo Sé e come tale si esprime e ha esigenze proprie. Non avendo ancora una padronanza di linguaggio (totale o parziale a seconda dell’età) è attraverso il corpo che il bambino prima e l’adolescente poi esprime se stesso.

I primi anni di vita dello sviluppo sono infatti responsabili della crescita armonica del corpo che, mentre il nostro cervello si prepara a consolidare la leadership in futuro, esprime il nostro sentire molto prima della comparsa del linguaggio così come lo conosciamo. Il linguaggio corporeo diventa parte integrante della nostra memoria e esperienza, inscritto nella nostra postura, fonte di ispirazione negli anni a venire.

Nel momento in cui qualcosa si interrompe in questo passaggio delicato si inizia a preparare un terreno fertile per l’insorgenza di un disturbo alimentare in futuro. Da qui lo scollamento del binomio mente – corpo, che col passare del tempo vedrà tracciata una linea di separazione sempre più netta.

Se le proprie emozioni tendono a contrastare le necessità Genitoriali, al fine di evitare l’esclusione o la non accettazione il bambino tenderà a costruire atteggiamenti compiacenti scegliendoli accuratamente sulla base dei risultati portati e seppellendo le proprie emozioni, quelle autentiche, nel corpo. Ecco creato un primo Copione di Vita (un piano di vita basato su una decisione presa durante l’infanzia, rinforzata dai genitori, giustificata dagli avvenimenti successivi e che culmina in una scelta definitiva), nel quale vado bene se compiaccio (faccio quello che loro mi chiedono, mente – fuori), mentre quello che sono non va bene (sono sbagliato a essere come sono, corpo – dentro).

Come premesso, questo è uno dei tanti meccanismi che sottendono l’insorgenza dei disturbi alimentari. Ho scelto consapevolmente di concentrarmi su questo aspetto per un motivo: è molto semplice infatti trovare famiglie con queste caratteristiche. Senza farne un discorso di colpa o responsabilità per il passato (poiché anche i genitori hanno un passato e trasmettono ai figli ciò che a loro volta hanno appreso), è loro dovere considerarla come responsabilità verso il presente. Non solo per garantire ai figli una crescita serena che possa esprimere al meglio il loro potenziale di crescita e favorire lo sviluppo dell’intelligenza emotiva, ma anche per i genitori stessi: liberarsi da aspettative di eccellenza e ri-focalizzarsi su una relazione basata sul vedersi per ciò che si è può favorire lo sviluppo di rapporti interpersonali sani, felici e forti.





Mi ritorni in mente – Buon compleanno MAXXI

Per caso, come succede qualche volta in uno studio, nel cercare alcuni documenti, sono affiorati da un cassetto alcuni cartoncini bianchi della dimensione di biglietti da visita con disegni a fil di ferro e frasi ermetiche.

Gli schizzi erano forse un po’ infantili, disegnati con mano incerta, ma avrebbero potuto benissimo somigliare ad ideogrammi abbozzati da architetti di altri tempi, quando si disegnava solo a mano, per fissare le idee o le impressioni di un luogo o di un progetto. Ma le frasi, prese così da sole senza contesto, Verdone avrebbe detto avulse, erano incomprensibili! Girato il cartoncino scoperto l’arcano: “Progetto: Se navigando uso la bussola…a cura del Dipartimento Educazione del MAXXI e del Dipartimento di Salute Mentale ASL RMA”.

Disegno realizzato per il progetto “Se navigando uso la bussola”… a cura del Dipartimento Educazione del MAXXI e del Dipartimento di Salute Mentale ASL RMA

Come d’incanto, la mia memoria è andata a quando, con i colleghi di Amate l’Architetturaeravamo entrati a visitare il MAXXI a Roma, prima che fosse allestito il museo e prima ancora della sua inaugurazione. Il ricordo sembrava recente ma invece risaliva ad almeno otto o nove anni fa quando con la dott.ssa Stefania Vannini, responsabile del Dipartimento Educazione del museo per il MIBAC, un piccolo gruppo, uno dei tanti scoprimmo in seguito, eravamo entrati in avanscoperta dentro questo strano oggetto che era piombato come un’astronave sul Flaminio. Un’altra perla sullo stesso asse dell’Auditorium di Renzo Piano, in aggiunta al Palazzetto dello Sport e allo Stadio Flaminio di Nervi e, come ultimo arrivato, il Ponte della Musica, mentre a poca distanza, sulla perpendicolare al di là del fiume, si distende imponente l’area sportiva del Foro Italico.

Il MAXXI è stato inaugurato il 28 maggio del 2010 ed è il primo museo nazionale di architettura in Italia e quest’anno ha compiuto otto anni dalla sua inaugurazione.

Il MAXXI è stato il risultato di un concorso in due fasi indetto dal Ministero dei Beni Culturali dopo aver acquisito le aree delle ex caserme Montello dal Ministero della Difesa per la creazione di un polo museale nazionale. Scelto tra 15 progetti selezionati su 273 partecipanti sará vincitore quello di Zaha Hadid per la sua capacità di integrarsi nel tessuto urbano e per la soluzione architettonica innovativa di interpretare le potenzialità della nuova istituzione e di dotarla di una straordinaria sequenza di spazi pubblici”.

Chiunque abbia visto il MAXXI, architetto o no, non potrà negare di aver avuto, per un edificio del genere a Roma e nel quartiere Flaminio, l’impressione di vedere un UFO, un corpo estraneo atterrato in una zona a caso di Roma. Ma Zaha Hadid o si ama o si odia, anche se come detto prima l’area accoglieva già prestigiose architetture non sempre purtroppo conservate all’altezza del loro valore. Perché noi eravamo finiti lì?

Non perché fossimo per la maggior parte architetti, ma perché il MIBAC all’epoca sotto la guida dell’arch. Pio Baldi della DARC, Direzione Generale per l’Arte e l’Architettura contemporanea, aveva sviluppato un grandissimo lavoro di preparazione del quartiere per l’avvento del nuovo museo.

Una sorta di progetto partecipativo alla rovescia.

Attualmente in applicazione della Delibera 57 del 2 marzo 2006 del Comune di Roma, l’ente pubblico ha l’obbligo di promuovere Il processo partecipativo per i progetti di trasformazione urbana al fine, non ultimo, di favorire la qualità, la trasparenza e la coesione sociale. Per esperienza diretta, queste pratiche a volte sono delle pure formalità e non influenzano minimamente le decisioni spesso assunte in anticipo e all’insaputa degli ignari cittadini che vi partecipano. Senza che il materiale prodotto da questa partecipazione sia realmente utilizzato per lo scopo per cui era stato elaborato. Questo modo di intendere ed attuare il processo partecipativo genera soltanto un maggiore scollamento con la popolazione e, di conseguenza una grande sfiducia nelle istituzioni.

Per ritornare al MAXXI, Stefania Vannini è stata per tutto il periodo della sua costruzione, una delle artefici di questo scambio con il quartiere, le associazioni, le persone disabili e chiunque fosse interessato a interfacciarsi con la nuova realtà che si andava concretizzando.

Noi architetti lo sappiamo, ma a volte non vogliamo porci il problema, che una nuova costruzione modifica sempre la realtà in cui questa viene inserita, crea nuove relazioni e sta lì e ci rimarrà per molto tempo indipendentemente dal suo valore estetico. Una volta realizzata lì rimane, nel bene o nel male!

Ma quello che stava sviluppando Stefania Vannini andava oltre i limiti dei suoi compiti istituzionali. Aveva elaborato un articolato programma di relazioni complesse tra il museo e le persone di tutti i generi con una particolare attenzione a quelle che avrebbero potuto avere più difficoltà a relazionarcisi o che non avrebbero potuto entrarci con la consapevolezza delle persone cosiddette normali.

Il progetto era stato avviato in collaborazione con il Centro di Salute mentale di via Palestro, oggi ASL Roma 1, e coinvolgeva un gruppo di pazienti insieme a un gruppo di persone in pensione del quartiere Flaminio che avevano risposto alla proposta del museo di fare, in occasioni speciali, da mediatori culturali sulle opere della collezione permanente (selezionati grazie alla collaborazione con la parrocchia di Santa Croce al Flaminio e la Biblioteca Flaminia di via Fracassini).

Quando ci ha accolto, nella sala con le colonne in ghisa una parte dell’edificio della vecchia caserma integrato nel nuovo progetto con l’ingresso direttamente su via Guido Reni dal quale noi eravamo entrati, attualmente occupata dalla caffetteria e bookshop, ci ha raccontato perché anche noi eravamo lì e che cosa fossero quei cartoncini bianchi che erano a disposizione di noi visitatori privilegiati.

Era il risultato del progetto di familiarizzazione con la costruzione che stava portando avanti con le persone che frequentavano il CIM di via Palestro ai quali era stato chiesto, dopo aver visitato il museo, di fissare le loro sensazioni scrivendo e disegnando appunto su quei cartoncini.

Frasi scritte per il progetto “Se navigando uso la bussola”… a cura del Dipartimento Educazione del MAXXI e del Dipartimento di Salute Mentale ASL RMA 

Disegno realizzato per il progetto “Se navigando uso la bussola”… a cura del Dipartimento Educazione del MAXXI e del Dipartimento di Salute Mentale ASL RMA

Disegno realizzato per il progetto “Se navigando uso la bussola”… a cura del Dipartimento Educazione del MAXXI e del Dipartimento di Salute Mentale ASL RMA

Al contrario di quello che poi mi è successo in seguito nel visitare altre mostre, in quel momento, all’interno senza barriere e vincoli di percorsi preorganizzati, non si perdeva affatto l’orientamento, bastava andare e ci si orientava facilmente, anche se in parte eravamo stati guidati, ma tutto scorreva. Forse come nel pensiero progettuale di Zaha Hadid. 

Disegno realizzato per il progetto “Se navigando uso la bussola”… a cura del Dipartimento Educazione del MAXXI e del Dipartimento di Salute Mentale ASL RMA

Prima del MAXXI l’unico edificio che avevo visitato di Zaha Hadid era la Stazione dei Vigili del Fuoco al Vitra Museum, opera del 1993, a Weil am Rheim, in Germania, che come struttura dedicata a tale funzione mi era sembrata improponibile se la si guardava con l’occhio del funzionalismo, ma nel parco di Weil am Rheim l’utilità degli edifici è un elemento trascurabile e Zaha Hadid non ha mai fatto mistero del fatto che non è il funzionalismo il suo primo pensiero nel progettare.

Ma un museo dovrebbe avere altre caratteristiche, la funzionalità in questo caso dipende molto dal fatto che si possa o meno utilizzare per lo scopo per cui è nato, è sicuramente un polo che attrae, anche il suo spazio esterno pur essendo utilizzato solo nelle ore di apertura, purtroppo, è uno spazio che i cittadini del quartiere sentono come proprio e lo vivono anche con bambini ed è frequentato a tutte le ore del giorno.

Di contro il museo è sicuramento un oggetto costoso dal punto di vista della manutenzione e questo forse è dovuto anche al tipo di materiali usati nella costruzione sia interna che esterna, ma qualche volta si può anche mettere in conto che con la cultura non sempre i conti tornano!


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati o per gentile concessione dell’autore, tutte le altre sono coperte dal diritto d’autore ©MjZ




Violenza sulle donne. 1906: cronache dagli Stati Uniti

L’anno è il 1906 e il giornale è L’Illustrazione Italiana, settimanale ad ampia diffusione, edito a Milano da Treves che, con le sue belle tavole in xilografia e fotografia, si ispira a modelli inglesi e francesi (The Illustrated London News e L’Illustration). Tra le notizie varie, di attualità e di costume, della rubrica Corriere, curata dal giornalista Alfredo Comandini (si firma Spectator), nelle prime pagine del n. 10 dell’11 marzo, si affaccia una questione che in Italia, in quel primo Novecento, trova qualche spazio nelle aule dei tribunali, ma viene ignorata dalla carta stampata: «La cronaca quotidiana torna a rimpinzarsi di brutti delitti coniugali. Di preferenza sono mariti che ammazzano le mogli. Noto, per l’onore del gentil sesso, anche una moglie che accoltella ferocemente il marito».
Una coincidenza casuale: siamo alla vigilia dell’8 marzo (la rubrica è datata 7), ma la Giornata della donna ancora non c’è. La proposta sarà lanciata tra qualche anno, nel 1910, dal congresso internazionale delle donne socialiste, su iniziativa delle delegate americane, ripresa da Clara Zetkin, dirigente della sinistra socialdemocratica tedesca. E passerà ancora molto tempo prima che l’appuntamento si stabilizzi ovunque all’8 marzo.
«A tutti questi dannati nel cerchione della disperazione coniugale, dedico, fresca fresca, una paginetta di curiosità americane», scrive Spectator, che – con qualche sgradevole scivolata di cattivo gusto (ma siamo nel 1906 e il suo pubblico è la buona, medio-alta borghesia, che certo non brilla per progressismo) – apre uno spiraglio sul trattamento dei casi di violenza sulle donne negli Stati Uniti. La prima «curiosità americana» viene dal Congresso: «La Camera dei rappresentanti in Washington, ha respinto quindici giorni [or] sono, quasi all’unanimità, un progetto di legge di Adams, deputato della Pensilvania [sic], tendente ad assoggettare alla pena della frusta qualunque uomo risultasse responsabile di percosse inferte ad una donna». «Va notato che Adams è scapolo», commenta Spectator, certo di strappare ai lettori un sorriso di complicità, mentre «la maggioranza dei deputati al Congresso nord-americano è di ammogliati, e si capisce che la legge sia stata respinta».
«Ma non bisogna credere che i mariti, agli Stati Uniti, possano impunemente applicare il proverbio: “Chi batte ama”», continua il pezzo, introducendo la seconda «curiosità». «In certi Stati della Confederazione esistono leggi durissime a tutela esclusiva dell’incolumità personale delle mogli. Se debbo credere al World, un ricco gioielliere dello Stato di Alabama è stato condannato or ora a 75 dollari di multa [al valore attuale si dovrebbe trattare, più o meno, di 1700 euro] per avere bastonato troppo spietatamente la propria metà». Poi Spectator completa la notizia, senza evitare una battuta che ritiene spiritosa: «Una lezione a certe mogli può ben valere 75 dollari; ma il ricco gioielliere è stato condannato, per giunta, a due mesi di lavori forzati; ed i suoi concittadini hanno la soddisfazione di vederlo ogni mattina, in mezzo a forzati negri, spazzare le strade e spingere la carretta dell’immondizie trascinando ai piedi una catena più fastidiosa della catena coniugale».
Due parole, infine, sul deputato della Pennsylvania Robert Adams, che avrebbe voluto mettere mano alla frusta. Esponente del Partito repubblicano (ai suoi tempi su posizioni liberal-progressiste: era ancora il «partito di Lincoln»), era stato eletto alla Camera dei rappresentanti nel 1893, dopo un passato di politico locale e una breve esperienza diplomatica in Brasile. La proposta registrata negli atti parlamentari, frutto evidentemente di uno scatto di indignazione e con ogni probabilità soltanto provocatoria, sembra essere l’unico passaggio significativo di una biografia politica non particolarmente brillante. Certamente fu l’ultimo: pochi mesi dopo, a 57 anni, Adams si suicidò, sparandosi un colpo di pistola, travolto da sfortunate speculazioni finanziarie.

 





RIACE. Un mondo possibile non voluto.

“Abbiamo smesso di credere nel sogno di una società dove c’è uguaglianza”.
Mimmo Lucano

marzo 2019.

Conosco molto bene Riace e la porzione di territorio che si estende tra Siderno e Soverato, sulla costa ionica della Calabria, ma non ho mai conosciuto Mimmo Lucano, anche se sono anni che ne sento parlare dalle persone locali che, sempre con un sorriso sulle labbra, lo chiamano il Sindaco dell’accoglienza.

D’estate frequento le sue spiagge, le stesse in cui sono state ritrovate negli anni ‘70 due tra le statue bronzee più famose al mondo, i cosiddetti bronzi di Riace, e la prima cosa che noto è che un murale fatto almeno tre o quattro anni fa, che era sul fianco di un caseggiato vicino alla fermata della stazione regionale, non c’è più, è stato cancellato da pochi mesi. Certo Salvini vedendolo non ne sarebbe rimasto contento ma nonostante abbia dichiarato che a Riace non ci avrebbe mai “messo piede” finché Mimmo Lucano sarebbe stato Sindaco, ed allo stato di fatto ancora lo è ancora dal 2004, probabilmente qualcuno ha ritenuto più consono cancellarlo.

Foto scattata nel 2017 © Raffaella Matocci

Decido di andare al Villaggio Globale, nel borgo antico della cittadina e mi inoltro da Riace marina, salendo per diversi chilometri ed attraversando un paesaggio molto diverso dal resto del paese. Mi vengono in mente le parole di un ragazzo del Kurdistan che ha detto che le colline di Riace gli ricordavano il suo paese e non stento a comprendere il motivo. Il paesaggio è splendido, ci sono i resti di quella che era una piccolissima chiesa ed il suo relativo insediamento abitativo, delle cave naturali di argilla e bellissime distese di campi di ulivi; a tratti si vede anche il mare.

Finalmente arrivo, è pomeriggio inoltrato e quello che vedo per primo è il cartello di entrata al paese e la sede del Comune di Riace, posta in alto. Il messaggio che mi arriva è diretto, murales e cartelli parlano di informazione corretta, di integrazione, di comunità che dialogano.

Sede del Comune di Riace, marzo 2019 © Raffaella Matocci
A sinistra “I viaggiatori”, a destra “Le porte di Riace” (Porta Asia, Porta Europa, Porta Africa) Realizzato da africani, italiani, siriani, e pakistani abitanti di Riace, marzo 2019 © Raffaella Matocci

Una volta arrivata, una grande emozione mi assale, non so spiegare bene perché, in fondo non è la prima volta che visito una realtà di questo tipo, ma è incontrollabile e, in verità, non cerco neanche di soffocarla. Quello che credo sia accaduto è che ho la consapevolezza che dietro a tutto ciò ci sia tanto lavoro,  dedizione, speranza, coraggio,  volontà,  lotta per un’idea. Tutti principi che mi appartengono ed in cui mi riconosco.

Sembra di essere tornati negli anni ’80, quando Riace contava poche centinaia di abitanti la cui età media era alta e tutto lasciava presagire che se non fosse cambiato qualcosa il paese sarebbe stato del tutto abbandonato. 300 curdi sbarcati nel 1988 cambiano le sorti di Riace, quando l’allora Sindaco fonda l’Associazione Città Futura ed avvia una politica di integrazione dei migranti all’interno della comunità locale, utilizzando spazi abbandonati, iniziando corsi di apprendimento della lingua italiana ed offrendo loro un lavoro.  Mimmo Lucano è eletto Sindaco nel 2004 e continua senza sosta a mettere in pratica la politica di integrazione dei suoi predecessori; nel 2006 Riace beneficia dei finanziamenti delle Regione Calabria e, con quei soldi, il Comune avvia un programma di rinnovo urbano attraverso la ristrutturazione di abitazioni ed esercizi commerciali abbandonati, che sono offerti ai migrati, la creazione di nuovi spazi verdi ed il tanto contestato sistema di riciclaggio dei rifiuti che, in quegli anni, era tutt’altro che diffuso in quelle aree.  Nel 2017, dopo 13 anni di mandato,  a Riace risiedevano circa 3.000 persone ed il sogno di una comunità  tenuta viva da un’economia circolare era diventato realtà: Baharam, giunto in Italia nel 1998 dal Kurdistan, oggi cittadino italiano, lavorava come falegname; Issa, di nazionalità afghana, produceva ceramiche e contribuiva a sostenere la sua famiglia nel suo paese d’origine; Daniel, del Ghana, lavorava in una cooperativa che si occupava del riciclo dei rifiuti; Aregu, rifugiata politica dell’Eritrea, lavorava il vetro e, dopo quattro anni di separazione, era riuscita a ricongiungersi con suo figlio in Italia; Biase, abitante di Riace, si occupava della raccolta differenziata dei rifiuti di casa in casa; Maria Grazia insegnava nell’unica scuola del paese, che avrebbe chiuso senza l’arrivo dei bimbi stranieri; una parente di Cosma, anche loro nativi del paese, lavorava presso la Taverna Donna Rosa come cuoca.

Il Villaggio Globale, marzo 2019 © Raffaella Matocci

Ora è tutto tornato come prima. Un paese immobile in cui lo spopolamento graduale e la forte depressione economica hanno ripreso piede inesorabilmente.

Entro dentro e da questo momento in poi voglio che siano le
persone che ho incontrato a parlare perché ritengo che nessuno più di loro
possa raccontare meglio quello di cui in questi mesi  si è tanto parlato e, concedetemi,
straparlato.

Non solo il laboratorio per la lavorazione del vetro ma anche tutte le altre botteghe sono chiuse e se ne sono andati via tutti” – mi racconta Amir in inglese – “È da quando Mimmo Lucano è agli arresti domiciliari che le botteghe sono tutte chiuse, da quando non è più potuto venire qui. Io ho chiesto di rimanere lo stesso, con la mia famiglia e con altre 12, per tutto il 2019, per far in modo di poter  riaprire i laboratori, ma siamo arrivati a marzo ed io non so ancora che cosa devo fare e non so che cosa ne sarà di tutte le botteghe che sono qui”. Amir viene dal Kashmir, una regione situata a nord del subcontinente indiano fra India e Pakistan, e quando parlo con lei i suoi figli ci giocano intorno, sembrano contenti, nonostante le parole della madre siano piene di preoccupazione: “Adesso la situazione è molto difficile, abbiamo tanti problemi perché non riusciamo più a lavorare” .

“Da quanti anni sei qui?” – le chiedo – “ Io e la mia famiglia siamo qui da quattro anni ma ad oggi i miei progetti sono finiti. Sono due anni che non percepiamo soldi perché ci sono stati bloccati e tutto quello che ci hanno dato sono stati dei piccoli aiuti ma solo ogni tanto. Noi stiamo aspettando questi soldi, se i soldi arrivano noi possiamo ripartire con le attività ma senza soldi è impossibile andare avanti, è troppo difficoltoso. Senza denaro non possiamo pagare le medicine e tutti gli altri bisogni che abbiamo. Da due anni, qualche volta, vengono delle persone da Catanzaro per portarci delle medicine per i nostri bambini e lo fanno gratuitamente perché sanno che non possiamo pagarle”. 

Amir si allontana seguendo i figli in un vicolo e solo dopo un bel po’ incontro un signore che sale dalla piazzetta principale del Villaggio Globale.

Questo borgo era quasi morto, la mancanza di lavoro ha fatto sì che negli anni se ne siano andati via quasi tutti i nostri figli, compresi i miei. Due case su tre sono vuote a Riace e non è rimasto più quasi nessuno se non persone grandi della mia età.”
A parlare è Cosma, un signore del posto, un uomo nato e cresciuto a Riace.
Dei mie tre figli, due si sono trasferiti in Svizzera ed uno solo è rimasto in Calabria, ma non vive qui. Quello che mi dispiace tantissimo è che la nostra casa, una volta che noi non ci saremo più, rimarrà vuota. Quando io ero bambino, all’età di 15 anni circa, questo borgo era tutto abitato, c’erano intere generazioni, dai nonni ai nipoti, ma ad un certo punto si è cominciato a spopolare a causa della grave mancanza di lavoro”.

Vede questa taverna? Questa era la Taverna Donna Rosa dove una mia parente ha lavorato per diversi anni in cucina ed era organizzata ed amministrata dal Sindaco Mimmo Lucano, anche se ci tengo a dire che non era di sua proprietà.  Qui era pieno di botteghe artigianali ma dopo che il Sindaco è stato mandato via, in pochi mesi sono state tutte chiuse. Dicono che forse c’è la speranza che tornino ad aprire, ma è solo la speranza quella che abbiamo perché di certezze non ne abbiamo”.

“Mi tolga una curiosità signor Cosma, come era convivere con queste persone di culture diverse? Le hanno mai dato fastidio, si è mai sentito in pericolo o defraudato del suo territorio o del lavoro?” – gli chiedo.

No, no. Mai. Erano tutte brave persone, abbiamo convissuto per anni insieme senza alcun problema, ma la cosa più importante, poi, è che entravano finalmente dei soldi sia al Comune sia a noi cittadini di Riace perché con queste persone lavoravano anche tanti paesani, tutti insieme. Poi è successo questo fatto e tutto si è fermato. Chi dice che hanno rubato, chi dice che hanno fatto cose fuori dalla legge, ma non è vero. Conosco Mimmo Lucano da sempre, da quando era bambino, conosco suo padre e la sua è una famiglia estremamente onesta, per questo io dico che lui di sicuro non si è appropriato nemmeno di un centesimo.”

Ora che hanno risolto facendo tutto questo? Le case sono tutte vuote tranne alcune abitate dalle pochissime famiglie che non sono ancora state mandate via. Noi tutti abbiamo ancora la speranza di poter fare qualcosa. A maggio ci sono le elezioni comunali ed io penso che Mimmo Lucano non si rimetterà in lista, ma se riescono a vincere le persone che hanno lavorato in questi anni con lui, speriamo che  questa realtà possa continuare ad andare avanti. Finché non ci saranno le elezioni, vedrà che rimarrà tutto fermo così come è adesso. Adesso il posto di Mimmo Lucano è stato preso dal Vice Sindaco e per fortuna il Comune non è stato commissariato perché lui non si è mai dimesso ed ha fatto bene perché deve continuare a lottare. In tanti altri paesi sono andati i commissari quando sono caduti i Sindaci, ma qui a Riace non c’è e penso che non ci sarà mai perché mancano solo tre mesi alle elezioni. Lui non può venire nel Comune di Riace, dicono che stia a Caulonia adesso, ma io non perdo la speranza, vedrà che non uscirà nulla in capo a Mimmo, ne sono sicuro. La vita è così, bisogna lottare tutti e farlo tutti insieme”.

Foto del Villaggio Globale, marzo 2019 © Raffaella Matocci

Provvidenziali le parole del signor Cosma a pochi giorni di distanza dalla notizia che “Non risultano frodi negli appalti assegnati da Mimmo Lucano” (fonte Il Sole 24Ore, 02/04/2019)

Solo il 20 gennaio 2019 si leggeva che era stato confermato
il divieto di dimora a Riace, dopo che il gip di Locri aveva respinto l’istanza
con cui i difensori del sindaco del paese
dell’accoglienza
avevano chiesto di sospendere il provvedimento che lo
obbligava a stare lontano dal borgo. (fonte SkyTg24,
20/01/2019)

Ma a distanza di due mesi  questo divieto di dimora è stato annullato con rinvio al Tribunale perché la Cassazione si è espressa in maniera negativa nei riguardi delle accuse a suo carico “Non risultano frodi negli appalti concessi da Mimmo Lucano, non favorì matrimoni di comodo tenuto conto del fatto che i presunti matrimoni di comodo tra immigrati e concittadini poggiano su incerte basi di un quadro di riferimento fattuale non solo sfornito di significativi e precisi elementi di riscontro ma, addirittura, escluso da qualsiasi contestazione formalmente elevata in sede cautelare . Mancano gli indizi di comportamento fraudolento per l’assegnazione di alcuni servizi, come la raccolta dei rifiuti, a due cooperative di Riace. Le delibere e gli atti di affidamento, infatti, sono stati adottati con collegialità e con prescritti pareri di regolarità tecnica e contabile da parte dei rispettivi responsabili del servizio interessato.” (fonte Politica & Attualità, 02/04/2019; trascrizione delle motivazioni depositate in data, in relazione all’udienza che il 26/02/2019 si è conclusa a Locri)

Il Viminale di Matteo Salvini ci tiene a dichiarare
pubblicamente, tramite i propri legali, che contro Lucano e il suo modello di
accoglienza e integrazione, divenuto, ad oggi, un riferimento in Italia e nel
mondo, ha intenzione di costituirsi parte civile e dunque di chiedere anche un
risarcimento. (fonte la Repubblica
01/04/2019)

Mimmo Lucano in  una delle interviste a #propagandalive del
07/12/2018 ha dichiarato:

“Se tu senti dentro l’ingiustizia che vive una persona,
una qualsiasi persona che sta in qualunque parte del mondo, e la senti sulla
tua pelle, te la porti dentro come qualcosa più forte di te, che non puoi
reprimere, ecco, io credo che questa sia una condizione necessaria e
fondamentale per  tutti noi, perché spesso
le ingiustizie le subiscono le persone più deboli, le persone marginali, le
persone invisibili. E poi c’è un’altra cosa importante che abbiamo messo da
parte che è questa dimensione che ti dà entusiasmo, che ti permette di credere
che un sogno è possibile,  che è
possibile una società dove c’è uguaglianza , un’uguaglianza in tutti i sensi:
economica, sociale, dei rapporti tra le persone”.

Non mi resta che dire che noi, come te, Mimmo Lucano non abbiamo smesso di credere nel sogno di una società dove c’è uguaglianza”.

Foto del Villaggio Globale, marzo 2019 © Raffaella Matocci

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