Creating a vibe – Vaughan Oliver, parte II

Come di consueto, Valerio Michetti ha creato una playlist dedicata, che vi accompagnerà durante la lettura:

Ultra Twisted Art #2

“I Pixies sono stati al centro della mia vita” (V.O.)

Merita un capitolo a parte il lavoro di Oliver con i Pixies.  Insieme al fotografo Simon Larbalestier ha progettato la grafica dell’intera discografia della band, disegnando le copertine dei cinque album in studio, degli EP e delle edizioni speciali, tra le quali le due edizioni limitate del celebre cofanetto “Minotaur”, con cui i Pixies celebrarono i vent’anni del loro “Doolittle”.  Il box include tutti gli album in formato CD placcato in oro a 24k, cinque 12” in vinile da 180 grammi masterizzati dai nastri originali, un DVD, un Blu-ray, il live a Brixton del 1991, un art book di 96 pagine e un altro di 54, oltre a stampe e due poster.

[approfondimento su “Minotaur”: digital press release #1; #2; #3, Unveiling Pixies Minotaur]

Oliver e i Pixies si incontrarono alla 4AD, giardino dell’arte di Oliver stesso ed etichetta discografica della band, riuscendo ad instaurare una collaborazione intensa e altamente fecondo.  Oliver ebbe un contatto diretto con la fase creativa dell’album e libero accesso alle sessioni di registrazione, fu in grado di immergersi completamente nella musica e nei testi del disco.

Oliver disse: “In genere era Blake Francis (alias di Charles Michael Kittridge Thompson IV, voce e chitarra dei Pixies) con cui lavoravo ed era sempre estremamente professionale. Siamo partiti con il piede giusto e abbiamo condiviso un simile oscuro senso dell’ umorismo” . […]

“C’è una straordinaria tensione creativa nelle loro canzoni, perché molto spesso quello di cui cantano è terribile, ma c’è un umorismo che fa da contrappunto all’orrore. La sua energia ti fa sorridere, in una sorta di modo shakespeariano e tragico.”

Come on Pilgrim

Nel 1987, la band di Boston aveva pronte le otto tracce dell’album di debutto: “Come on Pilgrim”.  Blake Francis aveva chiesto al dipartimento grafico dell’etichetta 4AD di utilizzare un nudo maschile per la copertina del disco.  Oliver inviò una bozza con l’immagine realizzata dal fotografo Simon Larbalestier,  si trattava di un un uomo irsuto con la schiena voltata alla fotocamera, Thompson ne fu immediatamente affascinato.  Oliver raccontò: “L’uomo peloso è uscito dalla busta e Charles ha detto: ‘Ecco fatto, abbiamo una band!’”.   (Il titolo originale dell’immagine era “Nimrod’s Son”, la schiena dell’uomo è di un certo Sean, un amico di Simon Larbalestier).

Un’immagine densa, non posso fare a meno di seguire il racconto del corpo irsuto e della sua posa curva, che preclude ad un mutamento (o una mutazione?), avvolto da un drappo tenebrista che mi sembra non riesca a celare il contenuto musicale dell’album.  La schiena animalesca e la testa calva e luminosa, creano un movimento narrativo chiaroscurale forte e delicato al tempo stesso.  Lo spazio intorno al corpo ha una profondità oscura, dovrebbe inquietarmi, ma la luce chiara concede morbidezza e questa immagine infine è così spudoratamente armoniosa da commuovermi.

“Ci sono così tante immagini nelle canzoni dei Pixies che era un sogno.”

Surfer Rosa

La nudità, già apparsa in numerosi lavori di Oliver, è il fulcro della copertina di Surfer Rosa, anche questa nata dalla collaborazione con Larbalestier e, come in moltissime altre opere, è un chiaro omaggio a Joel-Peter Witkin, uno dei riferimenti primari di Oliver.

Si tratta dell’iconica immagine di Isabel Tamen, ballerina di flamenco portoghese.  La leggenda narra come Oliver e Larbalestier avessero allestito il set nella cantina di un pub vicino agli uffici della 4AD, con numerosi dettagli fortemente simbolici, come il manico della chitarra, prestito di Robin Guthrie dei Cocteau Twins, che sporge dal muro in chiaro riferimento picassiano, il severo crocifisso cattolico appeso alla parete e il pesce inchiodato. 
Questa immagine è un viaggio di sapore rinascimentale di sola andata, mi perdo nel vigoroso passo di flamenco, una danza complessa e profonda di passi e emozioni, con forti movimenti rivolti verso il basso, che si oppone all’elevazione della danza classica e vengo disturbata dall’ austero crocifisso, che emerge da uno sfondo di ombre per spezzare la passione furiosa del ballo e la nudità esposta.

Per ottenere l’immagine, scattata con una Polaroid Type 55, conservarono i negativi in soluzioni di solfito di sodio molto fredde per tutto il periodo della lavorazione, così i negativi risultarono semi-solarizzati.  Larbalestier disse che fu un “felice incidente”, che casualmente riprodusse la tecnica della solarizzazione, in cui i negativi vengono invertiti di tono attraverso l’esposizione, metodo già sperimentata da Lee Miller e Man Ray.
Per Oliver il risultato era perfetto: “Aveva un’ atmosfera. C’è mistero e ambiguità, ma c’è anche un contesto emotivo. Non devi lavorarci sopra”.

Doolittle

Doolittle, una copertina in movimento.  In contrasto con “l’invecchiamento organico” dello sfondo, linee e cerchi creano diversi punti focali, al cui interno si muovono i nostri occhi, subito catturati dal musetto della scimmia nel cerchio al centro, li spostiamo sul numero 6, che ci rimanda all’angolo in basso a sinistra e poi a salire verso il numero 5 in alto a sinistra, ovvero al titolo dell’album, virando verso il nome della band e di nuovo verso il cerchio centrale.   É così? o forse voglio tentare un altro percorso? La griglia non è così costrittiva, i tagli sul metallo dello sfondo ne sono un’invitante estensione, che ci richiama per vagare ancora una volta secondo la nostra percezione, più che per strade tracciate da altri.
In realtà siamo già nell’album, l’immagine è strettamente legata al testo del brano “Monkey Gone To Heaven”, nei cui versi leggiamo “se il diavolo ha 6 anni, allora Dio ha 7 anni”.  Ma ecco che Oliver ci disorienta (o ci libera?) di nuovo, quando descrive così la copertina:

“Non ho mai dovuto prendere niente alla lettera, a parte Monkey Gone to Heaven, e anche quella canzone parla di qualcosa di completamente diverso; un buco nello strato di ozono”.

[per chi desidera approfondire Pixies: sito ufficialecanale youtubepagina ufficiale sul sito 4AD]

Concludo mantenendo la promessa fatta nella prima parte, con la copertina di “Good Day Today”/”I know” di David Lynch, di cui Oliver ha curato la grafica delle numerose versioni.

a destra Good day today – a sinistra I know

Oliver raccontò in una intervista: “Sono stato invitato dall’etichetta Sunday Best, con la quale non avevo avuto contatti precedenti.  Immagino che pensassero che sarei entrato in empatia con il lavoro di Lynch. Empatizzare? Lo adoro e ne sono stato ispirato per 23 anni da quando ho visto per la prima volta Eraserhead.”
Oliver spiegò che la musica di Lynch era profondamente in sintonia con la sua sensibilità di designer: “Senso di ambiguità. Dualità. Orrore e bellezza nella stessa pagina, nella stessa immagine. Eufemismo.”

E ancora: “ Ho ascoltato le tracce.  Avevano una bella semplicità con cui potevo relazionarmi.  Volevo mettere in relazione l’opera d’arte catturando un’atmosfera oscura più inquietante. Il mio primo punto di riferimento è stato il fotografo Marc Atkins, con cui ho lavorato per più di dieci anni” […] “Ho chiesto a Marc di darmi un angelo che si muovesse dall’oscurità alla luce. Ascoltate I know… Penso che funzioni davvero insieme, l’uomo calvo che quasi parla dei testi con un alone di luce e fuoco intorno a lui. Per me, in termini di connubio tra musica e grafica, ha funzionato magnificamente”.  Ed è l’ennesima opera leggendaria che Vaughan Oliver ha lasciato al mondo.

[per chi vuole approfondire l’esperienza: Good Day Today – Official videoI Know – Official video]

Nel febbraio del 1990, la galleria Espace Graslin, di Nantes, dedicò a Vaughan Oliver una mostra monografica di tutte le opere prodotte per la 4AD, la stessa esposizione venne proposta in seguito anche a Parigi, e fu completata dal catalogo: “Exhibition/Exposition”.

Nel 1994, il Pacific Design Center di Los Angeles gli dedicò un’importante retrospettiva, nel 2011, la University for the Creative Arts lo insignì della onorificenza di Master of Arts.

Oliver ha anche progettato design commerciali per L’Oréal e le Olimpiadi di Londra del 2012, ha diretto spot televisivi per Microsoft, Sony e Harrods.

Nel 2018 è stato pubblicato un libro esaustivo che rende onore alla sua vita e alla sua carriera:  “Vaughan Oliver: Archive

Oliver ha lasciato questo mondo il 29 dicembre 2019 a soli 62 anni, accompagnato dall’affetto del suo partner Lee.

link alla parte I




Creating a vibe – Vaughan Oliver,  parte I

“Suggerire è creare, descrivere è distruggere”

Una frase del fotografo Robert Doisneau, che Vaughan Oliver fece sua ed usò come firma dei tanti  graffiti realizzati negli anni ’70.

Ci accompagna nella lettura la playlist dei brani selezionati da Valerio Michetti:

Vaughan Oliver è uno dei graphic designer più leggendari del ventesimo secolo.

Nato il 12 settembre 1957 a Sedgefield, nella Contea di Durham, affascinato da Dalì [puoi leggere su Diatomea anche: “Salvador Dalì, Ritratto cilindrico cromo-olografico del cervello di Alice Cooper” ispirato dal lavoro di Roger Dean [articolo relativo: “Kowloon: l’oceano parallelo di Roger Dean”], con cui condivide la radice surrealista, e sedotto da artisti pop come Robert Rauschenberg e Andy Warhol, Vaughan Oliver stabilisce il centro del suo processo creativo sullo studio del profondo legame tra l’arte della comunicazione visiva e la musica.

“Da giovane io e un mio amico ci mettevamo in mostra – leggendo il NME con una copia di Frank Zappa, o Pink Floyd sotto il braccio. Ero un ragazzo della classe operaia di una noiosa cittadina della contea di Durham, non c’era una vera cultura, i miei genitori non erano davvero interessati a nulla di insolito – tutto quello che stavo apprendendo era attraverso le copertine dei dischi. era un modo democratico di scoprire l’arte. Il negozio di dischi locale era per me una galleria d’arte.”.

Vaughan Oliver, fotografia di Luca Giorietto

Nel 1979 si laureò alla University of Northumbria e si trasferì a Londra, in cerca di un lavoro presso grandi aziende di design, ma non era il suo destino, che invece incontrò nel 1980 nella persona di Ivo Watts Russell, fondatore insieme a Peter Kent dell’etichetta indipendente Axis(2) /4AD, con il finanziamento della catena di negozi di dischi Beggars Banquet, per cui lavoravano entrambi.  Kent lasciò l’anno seguente per avviare la Situation Two Records

[per chi vuole approfondire, consiglio il bellissimo libro di Martin Aston:  “Facing the Other Way: The Story of 4AD”].

L’intenzione di Watts-Russel era di dare alla sua etichetta un’immagine grafica speculare alla musica che produceva: gruppi gotici, elettronica sperimentale e musicisti al di là dei confini di genere come Matt Johnson, di cui pubblicò nel 1981 lo psichedelico “Burning Blue Soul”. 

Watts-Russel lasciò la parte grafica alla intuizione di Oliver, che ricorda:

Avevamo la libertà creativa. Tornando al 1980 [Watts] non faceva contratti. Se la band fosse stata felice, sarebbe tornata per fare il prossimo album. Non ha legato nessuno. Quello era il modo indipendente.

Ivo Watts-Russell aveva una attenzione feticistica per la musica, Vaughan Oliver ne rifletteva lo spirito in modo subliminale e innovativo, crearono un loro universo in cui traslare le opere dei musicisti, vere e proprie sonografie, attraverso cui visualizzare ipso facto le tracce dell’album, un’esperienza neurocognitiva eraclitiana di un “incessante divenire”, che riunisce la percezione cosciente allo stato emotivo profondo del pubblico, del designer e dei musicisti in un ciclo continuo.

Il primo lavoro di Oliver per la 4AD fu la copertina del singolo “Gathering Dust”, di Modern English, con Watts-Russell decise di utilizzare la fotografia di Diane Arbus “Il pensionato e la moglie in un campo per nudisti”.  Oliver aveva interpretato l’immagine quando era ancora studente, la elaborò per farne la copertina del singolo.

Diane Arbus e copertina di Gathering Dust

 

Il resto è storia, con l’alias 23Envelope e insieme al fotografo Nigel Grierson, Oliver firmò copertine per This Mortal Coil, David Sylvian e The Golden Palominos, Scott Walker, His Name Is Alive, Heidi Berry; come “v23”, con Chris Bigg, Simon Larbalestier e Marc Atkins firmò opere per Lush, Cocteau Twins, Mojave 3, The Breeders, This Mortal Coil, Pale Saints, Pixies, Ultra Vivid Scene, Throwing Muse, TV on the Radio e David Lynch, che hanno reso uniche le pubblicazioni di 4AD Records, determinando l’estetica della casa discografica stessa.

I like the idea of the sleeve seducing you into its world.” (Vaughan Oliver)

23 Envelope firma anche la copertina del primo album dei This Mortal Coil,  progetto musicale di Watts-Russell, il cui nome prende spunto dal verso dell’Amleto: “What dreams may come, when we have shuffled off this mortal coil, must give us pause”.  La leggenda narra che David Lynch volesse la traccia “Song to the Siren” per Blue Velvet, non avendo il budget sufficiente per pagare la licenza, chiese ad Angelo Badalamenti di scrivere un brano similare: “something cosmic, angelic, very beautiful”. Nacque così “Mysteries of Love”, cantata da Julee Cruise.  Nel 2011, Oliver disegnò la copertina del singolo Good Day Today di Lynch, di cui parlerò nella seconda parte di questo articolo.

This Mortal Coil poster e This Mortal Coil

L’album è “It’ll End In Tears”, la copertina raffigura una donna (una sirena?) sospesa in un elemento enigmatico (acqua, è il mare? o stelle, è polvere cosmica?), racchiude tutto lo stile di Oliver, malinconico, sognante, a tratti oscuro, con ampio uso delle tonalità seppia, strutture sovrapposte, distorsioni dell’immagine, che è sempre suggestiva e provocatoria, mai incontaminata. 

Le copertine di Oliver sono dei magici galdrastafir, che attraverso misteriosi portali ci guidano verso la parte intima dell’opera del musicista, dentro la sua vita stessa.  Ma camminiamo da soli, l’immagine non è un vincolo alla nostra percezione, attraversiamo la soglia senza forzature, accompagnati dal linguaggio surreale e potente del designer.

La texture e l’illuminazione sono buoni modi per trasmettere uno stato d’animo e quando lavori nell’ambito musicale è molto utile. il mio obiettivo è sempre stato quello di suggerire l’atmosfera della musica. […] Mi piace elevare il banale attraverso il surrealismo. mistero e ambiguità sono armi importanti nell’arsenale di un designer. Cerco di creare immagini in cui non sempre ricevi subito il “messaggio”, ma queste cose ti lasciano un gancio. lasciare spazio all’interpretazione è importante.”.

Le sue opere sono sempre condivise: il musicista, il designer e chi risponderà all’oggetto artistico sono coinvolti in una dinamica di risonanza, che qualifica l’esperienza come empatica.

La copertina di “Pod”, The Breenders, progettata da Oliver e fotografata da Kevin Westerberg, è l’evidenza del designer che stabilisce un rapporto viscerale con l’opera del musicista e il pubblico, al punto da poter attingere alla narrazione di sé nel processo creativo.  Nella immagine a lunga esposizione della copertina, sullo sfondo di un acquerello trascendentale compare lo stesso Oliver, è nudo e compie una danza della fertilità, indossando una cintura di anguille morte,  ed è già “l’accadimento” dell’album, il gesto primario e cosciente di un’opera musicale dalla strumentazione minimale e testi dagli enigmatici riferimenti sessuali. 

“Pod” – The Breeders

A questo punto pausa, respiro, dobbiamo entrare nell’universo Pixies, di cui Oliver ha firmato l’intera discografia.  Ci rivediamo nella, non meno interessante, non solo Pixies, seconda parte.

Nel frattempo: 

Vaughan Oliver Remembered By Ivo Watts-Russell (english)

23 Envelope Documentary 1985 (english)

Vaughn Oliver / 4AD – RAPIDO (Video by BBC2, 1989) (english)

Vaughan Oliver and my 4AD Records (english)

Vaughan Oliver interview (Snub TV) February 1990 (english)




Mahler, ovvero la colonna sonora del Secolo Lungo

Tardo pomeriggio di un sabato di fine febbraio, in cui pare che l’inverno – fino a questo momento piuttosto mite – si sia ricordato tutt’insieme della propria esistenza e di essere ancora in tempo per prendere a schiaffi con la sua tramontana le gote dei romani che passeggiano per strada. È in programma in questi giorni la Sinfonia n°4 “Italiana” di Felix Mendelssohn e la Sinfonia n°1 “Titano” di Gustav Mahler. Il viaggio in macchina in direzione auditorium lo passo sgomento e angosciato come tutti quanti nell’ascoltare alla radio ciò che sta succedendo in queste ore in Ucraina e giungo al Parco della Musica con la voglia di svuotare per un po’ la mente dai pensieri per riempirla di emozioni positive. Emozioni che non tardano ad arrivare, complice uno straordinario Daniele Gatti alla direzione di un’orchestra di Santa Cecilia che sembra aver acquisito sotto la sua bacchetta un nuovo smalto e una nuova verve comunicativa.

Se è vero che la musica è la forma d’arte effimera per eccellenza, che nasce e muore nello stesso istante in cui vengono prodotti i suoni, e che nessuna registrazione suonata da un impianto hi-fi potrà mai sostituire la spazialità e le sfumature di un’orchestra dal vivo dentro una sala da concerto, credo che ciò sia particolarmente vero per la musica di Mahler.

Ho sempre pensato che Mahler fosse il compositore la cui vita e la cui arte avessero rappresentato, in anticipo di qualche decennio, l’Uomo di quello che lo storico Eric Hobsbawm definì Secolo Breve, con tutte le sue contraddizioni, i suoi drammi esistenziali, il suo cosmopolitismo, le sue conquiste e le sue sconfitte e la sua incapacità di esprimere appieno sé stesso e la complessità del mondo. Mahler è l’artista dei grandi conflitti interiori, dei successi e degli abissi, dei contrasti fortissimi che difficilmente trovano un loro equilibrio. Così, analizzando la sua vita, ci si accorge che fu uno stimatissimo direttore d’orchestra, che però in vita quasi mai fu preso in considerazione come compositore; fu il grande interprete delle opere di Mozart e del suo contemporaneo Puccini, ma è colui che scrisse solamente lieder e sinfonie, senza mai avventurarsi nel melodramma; è l’ebreo che comincia ad avvertire sulla propria pelle il crescente antisemitismo nella Mitteleuropa e che si converte al cattolicesimo, rimanendo però, agli occhi del pubblico, sempre l’ebreo boemo, nonostante ebreo non fosse più e nonostante potesse definirsi a ben diritto viennese, essendo divenuto (tra l’altro) il direttore stabile dell’Opera di Stato di Vienna, una delle istituzioni musicali tuttora più prestigiose al mondo; è colui che sentì la necessità di avere a disposizione una quantità di mezzi espressivi senza precedenti, che sfocerà in quell’Ottava, chiamata la Sinfonia dei Mille per il numero di esecutori richiesti; è colui che negli ultimi anni rimarrà affascinato dal misticismo orientale e dalla poetica cinese; è colui che porterà alle estreme possibilità espressive il sistema tonale, che proprio nelle sue ultime sinfonie comincerà a scricchiolare, lasciando presagire quel crollo totale che si verificò pochi anni dopo la sua morte. Pur cosciente di essersi spinto verso un punto di non ritorno, Mahler probabilmente non se la sentì di fare un ulteriore passo verso l’ignoto, lasciando la responsabilità al suo discepolo Schönberg, che di lì a qualche anno divenne l’alfiere ed il teorizzatore del sistema dodecafonico.

E poi la sua vita è segnata dal dramma esistenziale, che sembra il percorso della storia del dramma che vivrà l’Uomo del Novecento. Sappiamo che soffriva di una nevrosi che all’epoca veniva definita follia del dubbio e che probabilmente oggi verrebbe collocata nel disturbo ossessivo-compulsivo. Ebbe un incontro con Sigmund Freud che lo aiutò molto a far luce sui suoi complessi e a guardare sotto un’altra luce sua moglie, Alma Schindler, di 19 anni più giovane e donna dalla brillantissima mente, ambita e corteggiata dagli intellettuali di mezza Europa (ebbe relazioni e matrimoni, tra i vari, con Gustav Klimt, Oskar Kokoschka, Walter Gropius…).

Nelle sue composizioni, Mahler non dà quasi mai certezze, ma lascia l’ascoltatore nel dubbio e nella tempesta. Spesso si nota la sua difficoltà a trovare una soluzione ad un garbuglio in cui si è immerso, suo malgrado. E nel risolverlo ha bisogno di un numero sempre maggiore di mezzi espressivi: nella sua Sesta Sinfonia, ad esempio, utilizza un martello enorme che percuote una cassa di legno rivestita di cuoio e lo fa per tre volte, come le volte che il Destino busserà alla sua porta. Nell’ultimo movimento, più si è vicini a una conclusione e più i dilemmi aumentano, più si aggiungono complicazioni e gomitoli da sbrogliare. Si avverte quasi la difficoltà nel comunicare la complessità dell’esistenza e dell’universo in cui l’Uomo è immerso. E cosa non è, se non ciò che vivrà l’umanità nel XX secolo?

Ma torniamo al concerto e a quella Prima Sinfonia che è riecheggiata nella sala Santa Cecilia di Roma in questo freddo ed inquieto pomeriggio del XXI secolo. Ho sempre pensato che questa sinfonia fosse quasi folle nella sua sfrontatezza, nella sua audacia e nel suo mostrarsi così diversa e difficilmente collocabile rispetto alla musica sinfonica che fino ad allora era stata composta. Siamo nel 1889 e l’allora ventottenne Mahler dovette lasciare quanto meno perplesso il pubblico di Budapest, dove questo suo primo capolavoro fu eseguito per la prima volta. Ma, oltre alle considerazioni fatte sulla sua musica poc’anzi, non possiamo non notare una certa ironia nelle sue partiture, spesso amara, nonché un gusto per il grottesco e per la parodia, come si nota in quello che potrebbe sembrare uno jodel da taverna nel secondo movimento di questa sinfonia.

Forse l’elemento più ricorrente nelle composizioni di Mahler è però quello della Natura e dei suoi suoni, come esplicitamente si può udire nel primo movimento di questa Prima Sinfonia (e poi di nuovo nel finale), dove i cinguettii degli uccelli riecheggiano insieme ai gorgoglii dei ruscelli.

Mahler è anche un cittadino del mondo, nonostante sia strettamente e indissolubilmente legato alla sua Vienna. Lo si capisce chiaramente non tanto perché trascorse la sua vita in giro per l’Europa e per gli Stati Uniti invitato a dirigere le più grandi orchestre, ma perché – come nel primo movimento di questa sinfonia – si odono il passare di fanfare militari e di bande di paese, così come danze e melodie popolari di varie parti d’Europa. Egli non dimentica neppure le sue origini rurali e il suo amore per la montagna, testimoniato anche dai suoi frequenti soggiorni di isolamento ristoratore nella sua casa tra le montagne dell’allora austriaca Toblach – oggi Dobbiaco, in Italia. La sua ricerca non si limita, però, solo alle espressioni esteriori dell’essere umano, ma è in lui presente una forte dimensione spirituale che spesso coincide con la trascendenza del divino delle religioni monoteiste a cui fu educato e a cui aderì, ma che a volte sembra quasi aderire ad una dimensione legata alla correlazione tra tutti gli esseri viventi e le forze della natura, più vicina alla concezione orientale del divino (come si intuisce nella sua Nona).

La cosa che sicuramente ha reso famosa questa Prima Sinfonia è quel bizzarro trattamento della famosa melodia del Bruder Martin: si tratta della nenia infantile della nostrana Fra’ Martino campanaro, patrimonio da secoli degli infanti di ogni angolo del Vecchio Continente. Come si fa nel famoso gioco attorno a questa canzoncina, Mahler ripete la melodia a canone, ma variandola e soprattutto trasportandola in tonalità minore, il che le fa assumere le sembianze di una parodia di una marcia funebre. Il fatto di affidare le prime esposizioni del tema – tra i vari – a due strumenti gravi come il contrabbasso e la tuba in registri insolitamente acuti, dà a questa marcia un sapore decisamente grottesco. Come ebbe a dire il direttore Bruno Walter (discepolo e collaboratore dello stesso Mahler) “siamo condotti in un inferno che non ha forse l’eguale nella letteratura sinfonica”. Il tono parodistico prende vigore con l’entrata di un tema dal sapore “ungherese”, accennato dagli oboi con il controcanto delle trombe. C’è spazio anche per un frammento lirico, con la citazione dell’ultimo dei suoi Lieder eines fahrenden Gesellen; ritornano però la spettrale marcia iniziale e il beffardo tema tzigano, che rafforzano ancor più l’effetto di annichilimento: questa canzoncina infantile che si trasforma in marcia funebre potrebbe essere elevata a simbolo dell’universo mahleriano.

Ed è proprio mentre ascoltavo inebriato di emozioni forti e contrastanti questo movimento, che ho pensato che quella fosse la colonna sonora perfetta per questi giorni in cui assistiamo con incredulità e apprensione all’avvicendarsi del conflitto armato in Ucraina.

È rimasta famosa la frase che una volta Mahler pronunciò: “il mio tempo verrà”. Era conscio che la sua musica avrebbe fatto fatica ad essere accettata durante la sua vita, ma che avrebbe sicuramente trovato spazio nei decenni a venire. Ed il suo tempo è effettivamente arrivato, dopo la metà del ‘900, ma nonostante la velocità a cui procede la storia negli ultimi decenni, sembra che quell’epoca non sia poi tanto diversa da quella attuale.

Hobsbawm si sbagliava. Quel secolo, che doveva sembrare breve, si è dimostrato lunghissimo.




PREMIATA FORNERIA MARCONI. I DREAMED OF ELECTRIC SHEEP / HO SOGNATO PECORE ELETTRICHE

Recensione pubblicata su www.metal.it

Il nuovo album della Premiata Forneria Marconi è una gradita sorpresa, soprattutto se paragonato al precedente (e deludente, almeno per il sottoscritto) “Emotional Tatoos”.

Ispirato all’iconico “Blade Runner” di Ridley Scott – “Do Androids Dream Of Electric Sheep?” è il titolo dell’opera di Philip K. Dick su cui si basa il famoso film – “I Dreamed Of Electric Sheep” rievoca costantemente il glorioso passato della band italiana (penso in particolare al brano “Kindred Souls”), contestualizzandolo però nel presente con il contributo di alcuni dei talenti nostrani più affermati e riconosciuti (due su tutti, Marco Sfogli e Luca Zabbini).

Gli episodi strumentali “Worlds Beyond” e “Transhumance Jam” spiccano per la freschezza della scrittura, che si traduce in un progressive moderno dalle tinte heavy e sinfoniche. C’è lo Steven Wilson di “To The Bone” in “Electric Sheep”, mentre l’italianità emerge nella cinematografica “Let Go”, che mi ha ricordato il maestro Franco Battiato. Sonorità elettroniche e aperture melodiche convivono nella buona “If I Had Wings”, mentre la disimpegnata – o almeno così sembrerebbe – “Daily Heroes” fa da contraltare all’ottima “City Life”, Toto in salsa prog.

Un ritorno convincente, come sempre in doppia lingua italiana/inglese, nella migliore tradizione PFM.




SUN RA, IL SIGNORE DEGLI ANELLI DI SATURNO

Il 30 maggio del 1993
Sun Ra lasciava il Pianeta Terra.
Ma la musica del visionario
del jazz non ha mai smesso
di raggiungerci: tra continue
ristampe e un flusso
costante e incredibile
di inediti, il “Living Myth”
è più vivo
(e più mitico) che mai.

 

 

Track 01. The Ship Landed Long Ago

Un’immagine, ricorrente in tanta fantascienza: accompagnata da suoni e luci rutilanti, la navicella aliena discende fin quasi a toccare terra; dal portellone dell’astronave, un fascio luminoso è proiettato sugli sprovveduti terrestri; i loro corpi sono smaterializzati e catturati dal fascio di luce; sospesi, fluttuanti, sulla soglia fra due mondi…

E così [apparve] questo riflettore. Somigliava ad un riflettore, ma adesso lo definirei più una macchina di energia, e mi illuminò. Il mio corpo si trasformò in un fascio luminoso. Come sai, quando un riflettore fa luce su qualcosa, si vedono anche dei piccoli granelli di polvere. Era proprio così che sembrava: io riuscivo a vedere attraverso il mio corpo ed iniziai a salire, ad una velocità impressionante, verso un’altra dimensione, un altro pianeta”?(Sun Ra in Sinkler, 1992).*

Tutto ciò non è però l’incipit né di un film né di un fumetto, né di un romanzo di fantascienza. Si tratta piuttosto della storia con cui Herman Poole Blount, un giovane musicista nero dell’Alabama, nel 1936 dichiarò di essere un alieno, e divenne Le Sony’r Sun Ra… l’afronauta Sun Ra, tra i primi sperimentatori della “musica spaziale”, obliquo esponente del free jazz e afrofuturista ante litteram.

La sua storia è la storia di un mistero: my story è così vicino a mystery. Sun Ra lo affermava spesso: “Io penso a me stesso come a un completo mistero. Per me stesso” (Sun Ra, 2008). Un mistero, quello dell’alieno venuto da Saturno per parlare al mondo attraverso la musica, al quale invitiamo a credere. Leggere questo rapimento alieno non come un’allegoria, ma lasciandosi scivolare nel mistero di questa impossibilità, può rivelare un infinito numero di possibilità, di linee di fuga per interrogare i concetti complessi di ‘cultura’, ‘identità’, ‘umano’, ‘spazio-tempo’ e ‘radici’. Sono linee di fuga che interessano così tanto lo spazio esterno a noi, quanto quello interno. La divisione stessa tra lo spazio interno e quello esterno anzi esplode: non allegoria, ma allucinazione. Un’allucinazione, un disorientamento fisico e mentale nello spazio-tempo… un time warp, un tempo piegato e ripiegato, non disteso in maniera lineare.
Basato sull’equazione fra la slave ship e l’astronave, l’Afrofuturismo, o fantascienza afrodiasporica, segue proprio questa linea di (dis)orientamento nello spazio, piegando il concetto del tempo finché le divisioni rigide tra passato, presente e futuro collassano verso un assetto mobile, sempre in continua ri-definizione. La fiction di questo movimento creativo prova ad immaginare l’impossibile: snodando e riannodando frasi diasporiche di passato nel presente, attualizza le potenzialità della cultura tecnologica pop, generando nuovi territori emotivi futuribili.

Track 02. I’m Not Human

Nel 1984, Semiotext(e) pubblica un’intervista di Rick Theis a Sun Ra, intitolata “Fallen Angel”. A settant’anni dal suo ‘arrivo’ sulla terra, Sun Ra ribadisce di non essere umano: né lui, né nessun nero ‘diasporico’ lo sono.

“Io non sono umano. Non ho mai chiamato nessuno “madre”. […] Non ho mai chiamato nessuno “padre”. Non mi è mai venuto in mente di farlo. […] [Q]uesto pianeta non è abitato soltanto da umani: è abitato anche da alieni. […] Il punto caldo di questa scena sono gli Stati Uniti. […] Non è mai successo, nell’intera storia del mondo, che un popolo intero sia stato preso e portato in un altro posto attraverso la Sezione Commerciale, se non qui. […] Qui è successo. […] A quella gente non serviva il passaporto. Sono entrati come gente fuori posto. […] Semplicemente, quelli lì hanno preso della gente e l’hanno fatta entrare dicendo: “Non prestar loro attenzione, non sono nulla…sono quasi bestie”
(Sun Ra, 1984).
 

L’affermazione “Io non sono umano” acquista maggiore potenza spiazzante se letta sullo sfondo dei movimenti per l’empowerment dei neri americani, caratterizzati dalla volontà di opporre alla cultura bianca, nella quale il nero era designato come sub-umano, l’umanità del popolo nero. Necessaria per questa rivendicazione era la costruzione di una logica identitaria come base ideologica per la possibilità del cambiamento politico. Nel corpo del movimento per i diritti civili e del Black Power, la rilettura che Sun Ra dava del concetto di alienazione si poneva invece come linea di dissonanza e allo stesso tempo come una linea di costruzione, che attraversava e accelerava il movimento del corpo stesso. “Io non sono umano”, allora, è una trasformazione(in)corporea: un’affermazione che innesca un divenire, dentro fuori dal corpo.

Nel film di John Coney del 1974 Space is the Place, Sun Ra si materializza improvvisamente fra i giovani militanti del Black Power di un piccolo centro sociale giovanile di Oakland. I ragazzi si fanno beffe dei suoi sgargianti abiti spaziali alla egiziana e delle sue scarpe zeppate, così come della sua chiamata ad imbarcarsi per un viaggio intergalattico; alla fine gli chiedono:

“Sei reale?”. “Non sono reale. Sono proprio come voi. Voi non esistete in questa società. Se voi esisteste, la vostra gente non starebbe lottando per la parità di diritti… Perciò, sia io che voi, siamo miti. Io non vengo da voi in veste di ‘essere reale’; vengo presso di voi come mito. Perché ecco cosa sono i neri: miti”
(Sun Ra dal film Space is the Place).

Track 03. Tone Scientists

Per Sun Ra la cultura nera non è il punto di arrivo di una ricerca volta all’indietro, verso le origini, to dig and get to the root; è piuttosto il punto di partenza per un’ulteriore rielaborazione, che procede attraverso un uso straordinario della tecnologia come mezzo d’invenzione. Quella di Sun Ra è una produzione artistica che presenta un’idea complessa dell’identità nera, mettendo in relazione materiali fantascientifici, mezzi tecnologici ed elementi storici delle culture di deriva(zione) africana per esplorare e mappare uno spazio di esistenza del nero che è ancora e sempre a venire. La sua musica è aliena, perché non parla della strada, né la riproduce, ma si apre alla creazione; ed è diasporica, perché raccoglie la molteplicità, tanto quanto il continuum della cultura nera.
Quando Sun Ra dice space non parla di uno spazio vuoto al di sopra delle nostre teste, ma di uno spazio pieno in cui noi ci muoviamo; space is the place, ovvero il luogo mobile in cui materiali, corpi, discorsi e affetti si articolano gli uni con gli altri.

Sun Ra amava giocare con le parole, e spesso ne usava i suoni per veicolare la sua filosofia tra passato e futuro: “Darwin non aveva colto il quadro completo. […] Anch’io parlo di evolution, ma lo scrivo e-v-e-r-lution [«sempre- luzione»]” (Szwed, 2013). Un’evoluzione che, così, non procede seguendo linee di progresso, ma attraverso incessanti concatenamenti, allacciamenti e slacciamenti, pieghe, loops, senza fine…?L’interesse per le prime strumentazioni elettroniche, come il Solovox, i primi sintetizzatori, come il Moog, i primi apparecchi di registrazione paper-backed, come l’Ampex, e le pulsazioni elettriche della città, può procedere così di pari passo con lo studio della religione egiziana, del Book of the Dead, della Cabbala, con le riletture della Bibbia.

Track 04. Finding the Universe in a Grain of Sound

Nella musica di Sun Ra continuamente si costruiscono assemblaggi: la cultura, bianca e nera, è continuamente tradotta (trasportata). È dinamismo. Come le storie sono assenti e presenti nella memoria, così i frammenti culturali sono assenti e presenti nell’evento sonoro. L’evento sonoro, a sua volta, è la pratica stessa attraverso cui si generano e si sfaldano, continuamente, nuove soggettività. Chiudendo l’introduzione a The Black Atlantic, il critico britannico Paul Gilroy invita ad ascoltare proprio la musica per sentire la diaspora (cfr. Gilroy, 2003). Centrando il suo scritto intorno alla nave come tecnologia in movimento, Gilroy presenta l’Atlantico nero come una rete transnazionale che non si sviluppa secondo la forma di una radice, ma in maniera rizomatica. L’enfasi è sugli spazi creativi in cui la modernità è tanto vissuta quanto resistita.
La nave spaziale su cui sale Sun Ra viaggia attraverso la musica: in essa, le infinite potenzialità combinatorie della cultura afrodiasporica sono continuamente attualizzate, perché allo stesso tempo tutte le altre combinazioni sono virtualmente presenti nel tessuto musicale.

 

Sun Ra era solito impegnare la sua Arkestra in lunghe ed estenuanti sessions. Preparata la partitura di un pezzo e mostratala ai musicisti, li invitava a dimenticare immediatamente quanto scritto. La memoria stessa, o l’amnesia, sarebbe stata il terreno di mezzo da cui partire ad ogni esecuzione dell’evento sonoro, cosicchè ogni tentativo di ripetizione di un pezzo diventava una differente versione del pezzo stesso, influenzata tanto dalle direzioni di Sun Ra, quanto dai luoghi e dalle reazioni dei musicisti e del pubblico.
La musica, così, non era mai veramente completa e anzi doveva restare sempre aperta, affinché potesse compiere il proprio compito, che era quello di suscitare degli effetti (affetti), ogni volta diversi. Sun Ra, i musicisti, il pubblico, gli spazi modificano la musica, e sono da essa modificati. Così il nuovo entra nel mondo.
Tra tutte le infinite possibilità combinatorie dei suoni, alcune di esse sono momentaneamente raccolte in una specifica esecuzione, che sembra consolidarsi pian piano in una melodia; allo stesso tempo, però, tutte le altre possibilità non sono tagliate fuori, anzi continuamente intervengono, salendo e scendendo di volume o intensità e seguendo scansioni ritmiche diverse, un contrappunto, una linea di fuga nel momentaneo assemblaggio di un pezzo. L’evento sonoro, campo di forze, battaglia fra forze, abbozza un centro sonoro ripetitivo, circoscrive una traccia musicale marcata da segni riconoscibili, si lancia verso l’improvvisazione liberando un potenziale. Sun Ra aveva inventato un accordo speciale per destrutturare la musica: lo chiamava “space chord” e si tratta di solito di un accordo dissonante che egli suona improvvisamente, nel momento esatto in cui il suono inizia a consolidarsi in un ritornello, sciogliendo nuovamente la materia sonora, che fugge in diverse direzioni…

 

I brani di Sun Ra e dell’Arkestra non hanno nessuna struttura narrativa, non raccontano una storia, ma continuamente catturano e rilasciano delle sensazioni, delle energie, non per un fine ultimo, ma per la gioia stessa della combinazione. Non a caso, A Joyful Noise è il titolo di un video documentario su Sun Ra e la sua Arkestra diretto da Robert Mugge nel 1981. La musica qui è quindi un lavoro di assemblaggio e sfaldamento continuo del caos che procede per sintesi, micro-unità di suono, connessioni imprevedibili.
Lo spazio cosmico è, per Sun Ra, proprio questo significante così aperto da sfuggire alla significazione: il suono è sfaldato, sfogliato, split e sliced secondo una serie infinita di assi; un’operazione che, naturalmente, l’uso di effetti elettronici aiuta a compiere, introducendo distorsioni sonore che rivelano la materialità del suono stesso, molto più vicina alle grida del teatro della crudeltà di Antonin Artaud che agli inni della chiesa battista nera. È pure vero che Sun Ra si muove all’interno di una tradizione nera, quella del jazz e quindi dell’improvvisazione; eppure, il jazz di Sun Ra è diverso.
L’orchestra di Sun Ra, pur nella scia delle orchestre nere, le bands, non è un’orkestra… è un’Arkestra. In un’orchestra tradizionale, infatti, ogni ruolo è assegnato, come in un corpo umano; nell’Arkestra di Sun Ra, però, questo corpo non è umano e il legame tra forma e funzione è interrotto dalla trans-formazione, cosicché il suono diventa pura intensità in libera circolazione. Nelle note di accompagnamento all’album Space is the Place (1973), sotto l’elenco dei musicisti e l’indicazione dello strumento da ciascuno suonato, compare una scritta: “Come tutti i marines sono fucilieri, tutti i membri dell’Arkestra sono percussionisti”.

 

Questa piccola nota contiene moltissimo. Da un lato, infatti, sottolinea questa esplorazione del corpo tanto dello strumento quanto dello strumentista, svincolata dalle abitudini manuali e mentali, verso la liberazione di energie pure. Da un altro lato, essa sottolinea l’importanza delle percussioni nella musica di Sun Ra. Nelle esibizioni dal vivo, le percussioni generano associazioni visive. In questa accelerazione della sensazione, anche l’abito, la luce, il colore sono musica.
Lo spazio acustico è un campo di relazioni, che, attraverso il labirinto dell’orecchio, raggiunge i centri nervosi e si ripropaga all’occhio, ma anche alla pelle e alle membra che danzano, costruendo un cosmo. È il suono che (è) danza.
Infine, l’immagine dei fucilieri introduce il concetto della disciplina. La liberazione delle intensità sonore non è caos, ma una pratica di ricerca delle migliori combinazioni, che non sono mai sempre le stesse, perché sempre in trasformazione.
La vastissima produzione di Sun Ra e dell’Arkestra, che si dipana lungo decadi in una costellazione di pezzi impossibilmente densi, ha acquisito nel tempo un’aura mitica: agli album noti si affiancano dischi rari, opere per lo più auto-prodotte e distribuite ai concerti, con etichette scritte a mano dai membri dell’Arkestra, copertine disegnate dalla comunità di musicisti e amici di Sun Ra, registrazioni live sempre sorprendenti… Un universo sonoro in continua espansione, attraversato, con gioia e curiosità, da un nomade della cultura; un invito a scoprire il potere vitale e creativo che è in ognuno e in ogni cosa.

“È la musica di te stesso… che vibri. Sì, anche tu sei musica. Ognuno ha una sua parte da suonare in questa immensa Arkestra che è il Cosmo”
(Sun Ra dal film Space is the Place).

* Le traduzioni dei testi di Sun Ra in questo articolo sono di Beatrice Ferrara, tranne dove indicato diversamente.

ascolti
  • Sun Ra, Space is the Place, Impulse, Universal Music Company, 1998.

 

letture
  • Paul Gilroy, The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza, Meltemi, Roma, 2003.
  • Mark Sinker, Loving the Alien. Black Science Fiction, in The Wire, Issue #96 (febbraio 1992).
  • Sun Ra, Fallen AngelExcerpt from an Interview with Rick Theis”, Semiotext(e) 12, Oasis, Vol. 4 No. 3 (1984).
  • Sun Ra, citato in Tongues of Fire, Lost in the Stars’: Hitching a Lift Down Sun Ra’s ‘Strange Celestial Road’, 2008 (non più reperibile).
  • John F. Szwed, Space is the place. La vita e la musica di Sun Ra, Edizioni minimum fax, Roma, 2013.

 

visioni
  • John Coney, Space is the Place, 40th Anniversary Edition, Harte Recordings, San Francisco, 2014.

 

Questo articolo esce in contemporanea sul blog   https://www.labottegadelbarbieri.org/ e viene tratto da quello già pubblicato in http://www.quadernidaltritempi.eu/sun-ra-il-signore-degli-anelli-di-saturno/





SATCHMO FOREVER

Theodor Wiesengrund Adorno l’ho adorato e lo adoro, tanto che mi spilucco i suoi Minima moralia come una beghina si sgrana il rosario in modo acritico, capace d’esaltarsi financo all’apologetica sottolineatura mantrica d’un Sambudello. Poi m’arriccio e m’adombro, m’indispettisco stizzito se mi parla del jazz come cosa degradante, puro piacere estetico, alla stregua d’esperienze pornografiche e gastronomiche. Musica-merce, come certe canzonette volgari, lontana dalle dinamiche autentiche d’umanità oppresse, asservita ad una concezione dei rapporti sociali capitalistici, subdolamente veicolante i contenuti esiziali del consumo a prescindere. Mi faccio d’improvviso eretico al pensiero di Coltrane e Mingus seduti con espressione inebetita sui banchi d’un supermercato, mi ateizzo di botto se m’immagino Gillespie alla stregua d’un imbonitore per saldi di pentole e materassi. Poi, dopo il primo acchito di repulsa, l’abbattimento del totem ed il superamento d’una dipendenza liturgica in favore del vizio puro, mi rassereno, mi rifaccio razionale, e m’avvedo che tale critica furibonda, il tedesco se la concepiva in quel ventennio tra anni trenta e primi cinquanta in cui ancora Mingus non solleticava utilmente le corde del contraddittorio, della dialettica in controtempo. Ed è chiaro che Adorno adduceva le sue ragioni di negazione d’arte per il jazz allorché, al suo orecchio perfetto, s’avvicendavano, effimere e suadenti, le partiture semplici e ripetitive di certe orchestrine swing, con patinature che, senza porre questioni di discernimento particolare, sapevano della voce cavernosa e della tromba ruffiana di Louis Armstrong. Dunque, in siffatto modo rappacificato coi miei credi, pure m’azzardo ad avallare le critiche furibonde del Francofortese. E se le gote più gonfie del mondo riferivano di nostalgie profonde e malinconiche per i bei tempi andati in certi sobborghi di New Orleans, già mi prefiguro le corse dal dermatologo per certe eruzioni cutanee, sobbollenti sotto traccia, di uno qualsiasi dell’ampia tribù dei Marsalis. Che certo, lui, era rivendicativo e vertenziale, difensore della causa di ex – ma non troppo ex – schiavi, non più di quanto non lo fosse Pippo di Topolino, piuttosto pareva l’esatta riproduzione al maschile di Butterfly, la domestica di Rossella O’hara.

E allora pace fatta, tutto a posto? E no, che rimangono dubbi, che m’arrovello d’incertezze. Che se fino ad ora il ragionamento a me pareva non facesse una grinza, manco una pieghetta rasa rasa, se m’ero accodato nel derubricare le strombettate dell’omonimo del passeggiatore lunatico, a pura e semplice mercanzia d’asporto, più d’una cosa, a cinquant’anni dalla sua dipartita, non mi torna. Semmai mi sovviene che quando bambineggiavo intorno al giradischi della Selezione del Reader Digest, dalla puntina abbassata senza garbo dalla mamma, gracchiava quella tromba, ed a me mi si muovevano le gambe. Era come se ci fosse qualcosa di magico e misterioso in quella roba, prima che l’età della ragione m’inducesse ad espellerla a lungo per consapevolezze – quanto spontanee non saprei dire -, che non m’evitava di ridere come se mi facessero il solletico sotto i piedi. E il “No, Satchmo no”, piano piano, lentamente, s’è spento, né più mi viene di saltare al brano successivo d’una compilation quando quel tappeto di velluto si fa suono. Pure mi si allarga il riso se mi prefiguro il faccione da palla da basket che campeggiava sulla copertina d’un vinile, più d’uno, anzi. Pare proprio vero che quando s’invecchia si torna bimbi.

Forse era un conformista Armstrong, e sottolineo il forse, che ormai non ne sono manco più così sicuro. Che certo non rilasciava dichiarazioni roboanti a difesa della sua gente. Ma all’apice del successo, durante i disordini razziali degli anni ’50, non esitò a mandare a quel paese il governo americano dopo aver visto un bianco sputare in faccia ad una studentessa nera. Quindi non staccò nemmeno il biglietto per un tour in Russia organizzato dal dipartimento di stato, ed in piena guerra fredda, se non significava esattamente “mi scelgo io qual’è il mio paese”, certo somiglia parecchio ad un “so comunque chi è la mia gente”. Ed è difficile non ammettere che il suo stile, così apparentemente semplice e ripetitivo, alla fine ha consentito di creare i presupposti perché il jazz divenisse musica libera ed universale, persino entrando nelle viscere e rivoltandole di chi apparve come il perfetto contraltare del Nostro. Non credo sia così scontato che, senza quell’esperienza Ragtime, avremmo ascoltato un giorno le furibonde tirate di Ornithology, nemmeno le ovattate atmosfere di Ascenseur pour l’échafaud. Pure, nell’evidenza che i dischi comunque li incidevano i bianchi, lui fa d’aprifila, abbatte una frontiera che non era scontato che in una certa America potesse crollare. Se poi non s’è messo a rivendicarlo per se e per altri, al limite, chi se ne frega, se quel faccione m’ha fatto ballare e sorridere, e qualche volta lo fa ancora. E manco stavo nella pelle quando, ad un paio d’anni dalla sua scomparsa, ho scoperto che il vecchio amico inglese, assiduo frequentatore d’ogni jazz club minimamente rispettabile d’Oltremanica, e con cui dividevo fiaschi di vino e jazz nella bettola sotto casa, prima del suo ultimo viaggio, aveva dato disposizioni che mi si recapitassero tutti i suoi vinili e centinaia di musicassette dell’ “odiato” jazz dell’adorato Adorno. E, fatto ovvio che ve n’erano parecchie di Satchmo, non ho resistito alla tentazione di procurarmi un vecchio mangianastri in un mercatino di vecchiumi che, premi un tasto, poi un altro, fa pendant con le atmosfere fumose di casa mia, e colonna sonora per certi whisky torbati, mentre mi scappa quello strano fenomeno che le gote mi si gonfiano a pallone da basket.

 





5 giugno 2013 – Back tomorrow: Garcia Lorca-Patti Smith

Back tomorrow: Patti Smith si fa ritrovare all’appuntamento dato da Federico Garcia Lorca
“Un morto in Spagna è più vivo da morto che in qualsiasi altro luogo del mondo” (Federico Garcia Lorca)

 
New York, sul palco della Bowery Ballroom, nel Lower East Side Patti Smith celebra con un reading a più voci e un concerto il compleanno di Federico Garcia Lorca e l’esposizione del manoscritto originale di Poet in New York, scritto, annotato e illustrato dal poeta spagnolo durante il suo soggiorno tra il 1929 e il 1930.

Patti Smith solo pochi anni prima aveva parlato di Lorca come uno dei poeti a cui riconosceva un debito per attitudine, sensibilità e approccio pubblico dell’atto poetico. La poesia come scambio, lettura ad alta voce, incontro con l’ascoltatore, musicalità ed esaltazione del suono della parola. Poesia che ha origine nella tradizione popolare e che ha la sua collocazione nella componente popolare della società. Poesia come arma di riscatto e trasformazione, presa di coscienza e creazione di comunità. Durante un concerto a Granada aveva conosciuto Laura Garcia Lorca, nipote del poeta e organizzatrice dell’evento che aveva visto Patti Smith protagonista ospite della Fondazione Lorca. Era stato allora che aveva preso corpo l’idea di organizzare una serie di eventi in occasione del ritrovamento del manoscritto originale del componimento smarrito e ritrovato di Poet in New York. Ora sul palco della Bowery Ballroom sono presenti entrambe. Con loro alla chitarra Lenny Kaye per un set che prevede nella prima parte un reading musicale e un concerto nella seconda.

 
Federico Garcia Lorca era arrivato a New York nel giugno del 1929 per un periodo di studi e conferenze alla Columbia University, su invito del suo amico e maestro Fernando de Los Rios, che vi insegnava letteratura spagnola. Un viaggio e una permanenza, che comprende anche un soggiorno di due mesi a Cuba e che durerà sino ad aprile del 1930, nel pieno della crisi personale del poeta e nel mezzo del tracollo economico americano, con il crollo della Borsa di New York il 24 ottobre e l’inizio del devastante periodo della Grande Depressione.

 

L’aurora di New York possiede
quattro colonne di fango
e un uragano di colombi neri
che sguazzano nell’acqua torbida.
L’aurora di New York geme
su per le immense scalinate
cercando in mezzo agli spigoli
nardi di angoscia disegnata.

 
 

Fernando de los Rios aveva offerto a Federico la possibilità di frequentare un corso di inglese per stranieri e soprattutto di conoscere una realtà diversa da quella chiusa e provinciale in cui il poeta era costretto a vivere la lacerazione tra il grande successo e il favore per la sua opera poetica, teatrale e di ricerca e l’impossibilità di affermare liberamente la sua omosessualità, allora considerata nella moralista società spagnola alla stregua di vizio, malattia, devianza mentale, disdicevole vezzo comportamentale. Una contraddizione percepibile soprattutto nelle quattordici lettere inviate alla famiglia dall’America, tranquillizzanti e premurose, ricche di rassicurazioni su una vita da normale studente in terra straniera. Tutto trascorre nella più assoluta normalità, nuove amicizie e frequentazioni, adattamento tranquillo ai nuovi ritmi e alle consuetudini locali.

 

L’aurora arriva e nessuno l’accoglie nella bocca
perché là non c’è domani né speranza possibile.
Talvolta le monete fitte in sciami furiosi
traforano e divorano bambini abbandonati.
I primi ad affacciarsi comprendono nelle ossa
che non avranno l’eden né gli amori sfogliati;
sanno che vanno al fango di numeri e di leggi,
a giochi privi d’arte, a sudori infruttuosi

Oltre che studiare inglese, Federico gira la città, frequenta nuove persone, va con i colleghi nei jazz club di Harlem, osserva, partecipa, soffre nell’immergersi negli squilibri estremi della città dell’ostentata opulenza e della tragica estrema miseria, delle discriminazioni razziali, della velocità urbana che inibisce rapporti umani e espressione dei sentimenti: una “Babilonia palpitante e che rende folli”.

La luce è seppellita da catene e frastuoni
in impudica sfida di scienza senza radici.
Nei quartieri c’è gente che barcolla d’insonnia
come appena scampata da un naufragio di sangue

E soprattutto scrive, appunta pensieri, compone versi, corregge, disegna, illustra le sue poesie e le legge in pubblico, compone in progressione quotidiana una delle opere più conosciute della sua grande produzione letteraria “Poeta a New York”.

“Ho detto ‘un poeta a New York’ e avrei dovuto dire “New York in un poeta”. E quel poeta sono io. Semplicemente; io che non ho ingegno né talento ma che riesco a scappare dal bordo fosco di questo specchio del giorno, a volte prima di molti bambini. Un poeta che viene in questa sala e che vuole illudersi di essere nella sua stanza e che voi … loro, siate suoi amici, e che non ci sia poesia scritta senza occhi schiavi del verso oscuro né poesia parlata senza orecchie docili, orecchie amiche dove la parola che scaturisce porti, attraverso di esse, sangue alle labbra o cielo alla fronte di chi ascolta.”

Per tutta la vita Lorca, attraverso studi e ricerche all’interno della tradizione popolare, della cultura orale e delle figure poetiche contadine, tzigane e andaluse aveva approfondito e spiegato i due perni intorno a cui ruotava la conoscenza, la comunicazione e in ultimo la poesia. La musicalità che precede il linguaggio e che lo sostiene, come nel canto jondo di antiche origine indiane, arrivato con la cultura Rom in Andalusia e poi fuso coi canti moreschi, diventando base del flamenco, della poesia pastorale e di quella colta, epica e popolare insieme. E l’altro perno è un’attitudine carismatica, una facoltà che non s’impara, l’incantesimo che avvolge e coinvolge, l’energia che si irradia e che gli altri percepiscono. Ha un nome, Duende.

Patti Smith ci teneva proprio a celebrare pubblicamente il compleanno di Garcia Lorca, intonare Happy Birthday Federico, quel 5 giugno, perché quei due concetti le sono sempre apparsi come ispirativi, decisivi e prima ancora formativi. Il giorno prima alla New York Public Library, dove era allestita la mostra Back Tomorrow, Federico Garcia Lorca/poet in N.Y., Aveva partecipato alle letture dedicate al poeta spagnolo con John Giorno, Will Keen and Maria Fernandez Ache, Philip Levine, Christopher Maurer, Paul Muldoon, eTracy K. Smith, esattamente trentanove anni dopo la pubblicazione del suo primo singolo Piss Factory, uscito il 4 giugno del 1974, un percorso artistico, poetico, musicale in cui ogni sua passione si traduceva in poesia, il rock e la controcultura, la spiritualità e l’anarchia, la beat generation e il cinema della Nouvelle Vague e soprattutto l’amore per i poeti europei, Arthur Rimbaud, Federico Garcia Lorca, Pier Paolo Pasolini. In tutti loro vedeva il continuo ricorso al duende, all’incantesimo insottraibile. In tutto quello aveva trovato la musicalità ancestrale, il suono comunicativo che spinge a sintonizzarsi col respiro del cosmo e restituire al mondo il regalo del suono, della parola, del linguaggio.

Esattamente come Garcia Lorca presentava il suo lavoro newyorchese: “Prima di leggere a voce alta e davanti a molte creature dei poemi, quel che si dovrebbe fare è chiedere aiuto al duende, perché questo è l’unico modo in cui tutti possono capire senza aiuto dell’intelligenza né dell’apparato critico, superando istantaneamente la difficile comprensione della metafora e catturando, con la stessa velocità della voce, il disegno ritmico del poema. Perché la qualità di una poesia di un poeta non può mai essere apprezzata alla prima lettura, soprattutto questo genere di poemi che leggerò e che, essendo pieni di fatti poetici esclusivamente all’interno di una logica lirica e fittamente collegati al sentimento umano e all’architettura del poema, non sono atti a essere compresi rapidamente senza il cordiale aiuto del duende.”

Così sul palco della Bowery Ballroom, Patti Smith presenta gli amici che porteranno le parole di Lorca. C’è Lenny Kaye, chitarrista della sua band, e la nipote di Lorca, una vecchia amica del college conosciuta e diventata amica dopo averle rubato la colazione, un ragazzo conosciuto in una stazione ferroviaria e una ragazza conosciuta in strada. Le occasioni che diventano legami di affinità e comunità.

Lorca ha visto la bellezza e la grinta di New York e parla di tutte queste cose“, dice Patti Smith, durante il suo tributo al poeta . “Le sue poesie [nella raccolta] sono una finestra sulla libertà che sentiva qui.” Parla della repressione morale che subiva nell’esprimere il suo orientamento sessuale, parla della repressione che le espressioni più alte e ribelli in quei giorni stanno subendo, i giovani di Gezi Park nell’Istanbul militarizzata di Erdogan e le Pussy Riot nell’oppressiva e sessista Russia di Putin. “I giovani sono perseguitati ovunque. Non possiamo permettere che questo accada. Posseggono tutto, cazzo, non possederanno la nostra voce. Dobbiamo tenere a cuore il nostro diritto di parlare“, ha detto ancora,”La nostra voce è l’unica cosa che abbiamo e dobbiamo preservarla“. Poi incoraggiata dal pubblico inizia a leggere le parole di Lorca.

 
Federico Garcia Lorca, era tornato in Spagna nel giugno del 1930 e si era impegnato nella politica culturale del nuovo governo repubblicano eletto nel 1931, costruendo un circuito teatrale, un vero teatro ambulante capace di arrivare ovunque e stare in mezzo ai contadini e agli strati sociali da sempre esclusi dall’offerta culturale. Aveva anche continuato a lavorare ai testi del suo diario poetico di “Poeta a New York” e nel 1936, aveva lasciato il manoscritto sulla scrivania del suo editore. Con un biglietto “Torno domani, Back Tomorrow”. Non tornò più. Una banda di nazionalisti fascisti, appena scattato il colpo di stato del generalissimo Francisco Franco il 18 luglio del 1936, lo catturò, lo fucilò, ne nascose per sempre il cadavere.

Back Tomorrow. Patti Smith si è fatta trovare all’appuntamento.

Il bellissimo booklet che accompagna la mostra  è preso da accioncultural.es la foto del Patti Smith Group scattata il 5/6/2013 è presa da brooklynvegan.com
(che contiene altre bellissime foto e info sui set musicali)

Patti Smith: Wing at Bowery Ballroom – 6/5/13


RIPRESO da www.bizarrecagliari.com ovvero «Storie della Beat Generation, della Controcultura e altro»: da gennaio racconta OGNI GIORNO vicende, persone, movimenti che il pensiero cloroformizzato e sua cugina pigrizia preferiscono cancellare. 





28 maggio 1932. Prime session di registrazione di Django Reinhardt

Un gruppo di tecnici della Gramophone era arrivato a Tolone da Parigi a caccia di talenti musicali. Il loro giro di esplorazione nel Midi della Francia li aveva portati nella città occitana giusto in tempo per trovare in pieno svolgimento una delle scene musicali più eccitanti in quel momento: l’orchestra di Louis Vola che aveva appena ingaggiato per le serate a Le Lido due chitarristi incontrati per caso, Django Reinhardt e suo fratello Joseph, che tutti chiamavano Nin-Nin.

Non era la prima volta che l’allora ventunenne Django Reinhardt entrava in uno studio di registrazione, aveva inciso alcuni brani con altri musicisti già nel 1918, a diciotto anni, sempre per la Gramophone, quando ancora possedeva il controllo di tutta la mano sinistra. Ora per la prima volta suonava in studio la chitarra solista dopo il terribile incidente che l’aveva privato dell’uso dell’anulare e mignolo della mano per produrre gli accordi nella tastiera.

Louis Vola, fisarmonicista e piccolo imprenditore, aveva un forno, mentre rincasava dopo un concerto si era imbattuto in due musicisti che anche da lontano gli erano sembrati avere un suono particolarmente efficace. Django e Nin-Nin suonavano “a cappello” al porto davanti a una piccola folla di tiratardi. La tecnica chitarristica e la verve inventiva del primo gli erano apparse subito straordinarie e ai due chitarristi non gli era sembrato vero poter avere un ingaggio e un po’ di soldi sicuri. L’accordo venne siglato all’istante e l’orchestra del Lido si presentò già il giorno successivo con la nuova formazione e un suono tremendamente eccitante, che spingeva la gente a ballare e a chiedere bis e che lasciava strabiliati i più nel sentire e vedere le fantastiche acrobazie di quel giovane zingaro con i baffetti la cui mano sinistra usava solo due dita per giocare e ballare sulla tastiera della chitarra.

Ciò che i tecnici Gramophone videro al Le Lido li convinse alla registrazione di sei brani, tre dei quali con Django e suo fratello. In realtà qualche perplessità dovevano averla, perché quella roba che facevano quei due strani chitarristi portava un po’ fuori dalla musica che si praticava e che andava per la maggiore, la musette, una forma di Danse che si era affermata dalla commistione di vari generi e influenze e provenienze geografiche, italiane del sud, francesi di varie zone, tzigane e dell’est europeo.

Django, Jean all’anagrafe, era il nome vero che i genitori, clan manouche, etnia Romanì (o Rom) gli avevano dato, col significato di “Son sveglio”. Il cognome variava, a seconda delle trascrizioni della gendarmeria e dei territori attraversati che trascrivevano secondo la grafia del luogo, o, qualora fossero per qualche circostanza in fuga o solo un po’ accorti e defilati, con le varianti che essi dettavano. Famiglia di musicisti e circensi, giravano per fiere e mercati, rimanendo stanziali per mesi con il loro carrozzone tra la Francia e il Belgio. E in Belgio, a Liberchies era nato Django, celebrato in quanto primogenito con una festosa manifestazione che aveva coinvolto l’intera popolazione della cittadina con il sindaco a fare da padrino. Erano tempi in cui l’arrivo dei nomadi Rom era visto con interesse e curiosità, come rottura della monotonia quotidiana. Quando gli abitanti dei villaggi vedevano arrivare i loro carrozzoni tirati dai cavalli si sapeva che avrebbero potuto far aggiustare le pentole di rame e gli utensili da lavoro, avrebbero potuto comprare cestini intrecciati e bigiotteria, assistere per pochi spiccioli a spettacoli e concerti. Passava quasi in secondo piano e tollerabile persino la sparizione al loro passaggio tra le fattorie, di alcune galline, operazione in cui lo stesso Django bambino divenne esperto.

Django, poco propenso allo studio, analfabeta per tutta la vita, nonostante la presenza di un volenteroso maestro che si impegnava negli accampamenti, sin da piccolissimo si era guadagnato l’indipendenza nonostante la costante attenzione di sua madre, chiamata Negros per la sua mora bellezza. Cacciava, pescava, rubacchiava, tanto da diventare il principale procacciatore di cibo quando suo padre lasciò la famiglia prima che lui compisse dieci anni. Prima ancora, affascinato dai musicisti che suonavano la sera nei loro accampamenti, aveva voluto uno strumento tutto per sé, insistendo fin quando non gliene fu regalato uno che aveva la cassa di un banjo e il manico di chitarra, strumento molto diffuso tra i Rom di quell’area e soprattutto tra i manouche.

L’indipendenza di Django e la sua bravura con il banjo erano cresciute notevolmente durante gli anni del soggiorno all’accampamento alla Zone, periferia di Parigi, forse il più grande e organizzato villaggio ambulante di tutta Europa. A dieci anni si era già inoltrato da solo o in compagnia del fratello più piccolo per le strade di Parigi tirando su piccole somme con le sue esibizioni agli angoli di strade trafficate. A dodici anni aveva iniziato a suonare ufficialmente nei locali, bettole dove si ballava e si incontravano persone più diverse. Mamma Negros, sera dopo sera, andava a prendere a fine serata Django, già da allora diviso tra fedeltà alla cultura libera e aperta dei manouche e il mondo dei Gadjè, il resto della popolazione non Rom, più ricca ma meno autentica, legate a restrizioni materiali e mentali.

Django aveva orecchio, intuizione ed era un attentissimo osservatore. Si era educato da solo ai misteri del suono e dell’arte musicale, cercando di imitare le posture, i movimenti che i più grandi assumevano e le posizioni delle loro dita sulla tastiera per formare gli accordi. Lo strumento, il suo banjo gli forniva la possibilità di improvvisare. Una volta assimilate tecniche e melodie le personalizzava, continuava a variare, aggiungere come per mettersi alla prova e combattere la ripetitività. Aveva capito come accompagnare il suono della fisarmonica, strumento principe nelle sale da ballo, introdotta dagli italiani all’inizio del secolo, sostituendo il monopolio precedente delle meno duttili cornamuse dei musicisti dell’Auvergne. Tra tutte le fisarmoniche le più adatte per il pubblico dei bistrot e delle sale da ballo erano quelle coi tasti a pulsante, che permettevano arpeggi veloci ai musicisti più popolari come Emile Vacher, la cui orchestra aveva già inserito i nuovi strumenti usati oltreoceano dai musicisti neri dell’hot jazz: batteria e banjo, solitamente suonato da musicisti Rom, come i ben presto famosi Mattéo Garcia e Gusti Malha, compositori e beniamini del pubblico.

A dodici anni Django Reinhardt era stato notato e ingaggiato da un capo orchestra e fisarmonicista, Vetese Guerino, che ogni sera teneva concerti in vari locali: il giovanissimo ragazzo gli era sembrato più che promettente. E più che promettente lo era di sicuro, ma anche indisciplinato e dissipatore dei guadagni che gli venivano dalla musica. Dopo aver contribuito alle spese della famiglia Django non tratteneva nulla, sin da allora amava il gioco, le scommesse e condividere la sua piccola fortuna economica con le decine di cugini e amici. E così sarà per tutta la vita.

La musica del giovanissimo Django era virtuosismo e potenza, spontaneità e precisione, improvvisazione e puntualità. Prima ancora di conoscere il jazz, ne aveva lo stile, l’attitudine, lo swing. Spesso strabiliava, a volte spaventava il suo oltrepassare non previsto il limite canonico della musette e i suoi assoli non concordati. A quindici anni il maestro Maurice Alexander gli aveva fatto una proposta economica migliore, ma poi il ragazzo sempre irrequieto e ribelle alle abitudini (e ai suoni scontati) aveva preferito l’orchestra di Fredo Gardoni, per poi tornare più volte con Alexander. Ormai era un musicista conteso dalle migliori orchestre da ballo, nonostante l’indisciplinatezza che lo portava a saltare alcune serate quando preferiva la compagnia degli amici e della sua fidanzata. Talvolta al suo posto compariva il fratello o un qualche cugino. Ma era anche ambizioso e sicuro delle proprie capacità e della volontà di non porre limiti alla sua personale ricerca.

Gli stava stretto anche il ruolo di accompagnatore, anche se già dodicenne gli avevano assegnato il posto più vicino al fisarmonicista. Anche come compositore si era segnalato, anche se ufficialmente, tra i 12 e i 18 anni sappiamo di soli quattro valzer da lui composti e venduti ad altri musicisti. Come si usava allora, meglio un po’ di soldi (da spendere) subito, che registrare i diritti e intascare chissà quando. Così si comportavano tutti i più quotati musicisti zingari, lontani dall’idea di possesso di quanto creavano.

Nel mentre in tutta Parigi iniziava a diffondersi la nuova musica americana, portata dalle orchestre militari dell’esercito USA, arrivate alla fine della Grande Guerra. L’accoglienza riservata ai musicisti neri li aveva convinti a piccoli gruppi a tornare nei primi anni Venti del Novecento. Il gruppo dei musicisti si rinfoltiva, c’era meno razzismo e paghe migliori e migliore considerazione da parte del pubblico francese.

I ritmi sincopati e dinamici del jazz annunciavano un clima di ribellione alla consuetudine della musica europea, classica o popolare. I musicisti europei erano abituati a leggere la musica, molti l’avevano studiata, ora il jazz era facile da capire nella sua essenza, l’improvvisazione e la fusione dei suoni. Ben più difficile realizzarlo. A Django Reinhardt la cosa sembrava più che naturale ed aveva iniziato per conto proprio a esercitarsi e a eseguire incursioni jazz dentro le musiche delle serate da ballo.

La sua vita pare cambiata, Django innamoratissimo si è appena sposato e ha una nuova roulotte vicino a quella della madre e dei suoceri e una svolta sembra imminente. Si presenta nella persona di un impresario inglese, Jack Hylton, arrivato a Parigi alla Java proprio per ascoltare quel suonatore di banjo che improvvisava jazz sopra un altro tipo di musica.  L’offerta è tremendamente buona per non essere accettata e il suo stesso capo orchestra, Alexander lo invita a provare il grande salto, riservandogli comunque un posto al suo fianco qualora fosse tornato.

La notte, Django torna all’accampamento e alla sua roulotte. Bella, la moglie incinta, dorme già. Ha lavorato tutta la sera a preparare addobbi in carta e celluloide che le sono stati ordinati. Basta un gesto inopportuno e sbadato e una candela cade nel pavimento di legno, tra i fiori appena realizzati. Tutto va a fuoco. Django ha la prontezza di far alzare e mettere in salvo Bella, poi si copre con una coperta per uscire prima che tutto prenda fuoco. Quando ci riesce ha parte del corpo in fiamme con i vestiti che bruciano e la mano che aveva tenuto la coperta piagata e coi nervi e tendini lesionati irrimediabilmente.

All’ospedale, quello riservato agli indigenti, vorrebbero amputargli la gamba, ma la famiglia lo porta via, lo curano in casa, e la gamba non va in cancrena, ma le ustioni non guariscono. Si fa una colletta al campo e gli pagano il ricovero temporaneo in una clinica specializzata privata, poi il ritorno in quella per indigenti.  Il miglioramento è lento, l’umore sotto i piedi. Django ha perso l’uso dell’anulare e del mignolo della mano sinistra. Non solo è sfumato il contratto con l’orchestra inglese, è sfumato tutto. Gli portano comunque una chitarra e Django ci prova e riprova fino a capire che qualcosa si può fare, si possono fare gli accordi in un’altra maniera, utilizzando molto più velocemente le due dita utili e facendole scorrere diversamente sulla tastiera.

Dopo mesi è di nuovo in giro, il rapporto con la moglie raffreddato, si lasciano consensualmente e lei si risposa e il loro bambino viene adottato dal nuovo marito. Il rapporto con Joseph, Nin-Nin sempre più solido e infine il ritorno dall’Italia della sua prima fidanzata, Naguine.

I tre cominciano a girare per la Francia, per lo più a piedi, anche per grandi distanze. Sono poveri ma non arrendevoli. Django e Nin-Nin, riprendono a suonare in paesi e città per stabilirsi secondo le stagioni, tra la Costa Azzurra e Parigi. Tutto riprende a girare, nuove prospettive, persone che amano il jazz che li ospitano e che mettono a disposizione album delle Big Band americane e alloggio per loro e per tutta la parentela di passaggio.

Infine a 22 anni Django incontra Louis Vola e il 28 maggio del 1932 incide con lui tre brani per la Gramophone. Il resto sarà un crescendo di opportunità, spreco, gioia, avventatezza, fortuna e sciupio, e soprattutto genialità, innovazione e creatività.

Il suo lascito rimarrà per sempre nella musica popolare e nel jazz, diventando quasi un’etichetta quella che richiamava il nome della sua gente: musica manouche, gipsy jazz.

video: Django Reinhardt & Louis Vola – Carinosa – Toulon, 28.05.1931

 


RIPRESO da www.bizarrecagliari.com ovvero «Storie della Beat Generation, della Controcultura e altro»: da gennaio racconta OGNI GIORNO vicende, persone, movimenti che il pensiero cloroformizzato e sua cugina pigrizia preferiscono cancellare. 




All that jazz

Oggi è lunedì, e per me è giorno di riposo, dunque mi concedo le classiche abluzioni mattutine come fosse domenica, poi mi vado a comprare uno sgombro, se ne trovo uno che non ha ancora fatto il compleanno. Avete notato quale compostezza ha lo sgombro, che eleganza affilata, quale perturbante signorilità, pure al cospetto di certi pesci più blasonati che arrossiscono o imbruniscono, all’uopo? Ma non è di questo che intendo parlarvi, magari ci torno un’altra volta. La prendo larga, che il dono della sintesi non l’ho mai avuto. Insomma, ho memoria vaga d’un prozio, non consanguineo, tale dunque per incroci matrimoniali ibridi. Ad ogni buon conto, faceva l’ufficiale medico nell’esercito regio, quando le bombe cascavano a grappoli. Una di quelle colpì in pieno il palazzo dove viveva e lo squarciò catapultandolo immobile e privo di sensi su un cornicione, dove rimase appeso per chissà quanto tempo. Non si riprese più, se ne rimase muto e zitto, chiuso in un autismo definitivo da lì a che sarebbe campato. E gli anni dopo la guerra erano quelli d’una psichiatria ancora antica. A chi manifestava segni di squilibrio evidenti, che ne so, patteggiava per le mobilitazioni contadine, non s’arrendeva al tubo catodico, gli facevano l’elettroshock. A quelli come il vecchio prozio, invece, si diceva, bisognava fargli provare uno shock di pari brutalità come quello che l’aveva incarcerato nel suo intimo assoluto. Così, mi raccontavano, diceva il luminare svedese (che quelli erano anche anni in cui il luminare, se non era svedese, difficile fosse tale, luminare intendo). Il poveretto non si riprese, semmai parve peggiorare. Me lo ricordo già vecchio e con un cruciverba in mano che risolveva, correttamente e in pochi frangenti, gli incroci più complessi, azzeccando ogni definizione. Due volte sole, dal terribile incidente, parlò. La prima, quando morì mio nonno, e vedutolo così disteso sul letto di morte, e lasciando di stucco ognuno dei presenti, tirò fuori la caritatevole preoccupazione del suo giuramento d’Ippocrate: “Gliela avete data la penicillina?”. La seconda, mentre, intento a svolgere il suo cruciverba, dalla televisione non venne fuori una cosarella orchestrale di Strauss. Sollevò gli occhi e, per lo stupore della sorella e della cognata, disse: “Oh, i bei valzerini viennesi”. Poi zitto, fino alla morte. E se l’avessero curato con la musica? Mah, chissà, che a me tutto possono dirmi, fuorché svedese o luminare. E però che la musica sia curativa, lenitiva, oltre che semplicemente piacevole, non è che sia una novità. Io non ne faccio a meno, anche se ai valzerini viennesi, che un po’ mi stuccano, preferisco il jazz. Ed anzi, ve lo voglio raccontare il jazz, così, come mi viene, in sei passaggi.

Primo step

Succede così, sono quelle cose che non ti aspetti. Cioè, ti aspetti senz’altro che un povero contadino di un piccolissimo paese della Sicilia salga su una nave a vapore nella seconda metà dell’Ottocento e, dopo un viaggio estenuante durato settimane, sbarchi con la famiglia a New Orleans per fare il calzolaio, il manovale o chissà ché. Il biglietto da Palermo, poi, costava assai meno di quello delle tratte di Napoli e Genova. Roba che certi barconi sul Mar d’Africa quella traversata sembra che la rifacciano pari pari, comprese certe privazioni estreme. E “quel mare color del vino” di contadini siciliani ne vomitava a migliaia nel Delta , tanto che in certe strade pareva di starsene alla Conca D’Oro o su un moletto dello Ionio. Te lo aspetti che qualcuno cerchi un orizzonte diverso per fuggire alla fame, alla guerra. Quello che non ti aspetti mai, e forse nemmeno Girolamo La Rocca con sua moglie Vittoria Di Nino immaginavano, è che in quella terra avrebbero dato vita al “Cristoforo Colombo della musica”. Era così che si definiva Nick, il loro secondogenito, il primo ad incidere un disco jazz nel 1917, con la sua “Original Dixieland Jass Band”, proprio con due esse e senza zeta. Nick non era un virtuoso, ed aveva anche la testa matta, come l’hanno certi di quelli che lasciano un segno, ma anche un labbro così duro da fare certe sparate alla tromba che chi lo ascoltava si metteva ginocchioni.

Ecco, questo non te l’aspetti, ma questo è il jazz, esattamente quello che non ti aspetti. Pure se certo, al di là d’un certo ego smisurato del vecchio Nick, il jazz aveva già diritto di cittadinanza su questo pianeta da mo’, non altrettanto chi lo suonava, generalmente d’un colore diverso del nostro di cui sopra.

Secondo step

“Cos’è il Jazz? Amico, se lo devi chiedere, non lo saprai mai.” diceva Louis Armstrong. La cosa migliore è mettere su un disco e cominciare ad ascoltarlo. Se dopo un po’ ti sembra di sentire l’odore di chi sta suonando, il suo alito caldo, se la musica comincia a strisciarti sotto la pelle e hai la sensazione che scappi fuori da ogni parte di te, e che tu sei lì, tra quelli della band, allora l’hai scoperto, il jazz intendo.

Terzo step

Insomma, ora sai cos’è il jazz, l’hai ascoltato, ne hai capito il senso profondo, fai parte della band. Possiamo parlarne se vi va. John Coltrane diceva che “Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C’è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra”.

 

Quarto step

Fratelli della stessa band, non possiamo dimenticarci di nessuno perché, come dice Wynton Marsalis, “Il jazz è un’arte collettiva e un modo di vivere che allena alla democrazia” è l’arte del timing: ti insegna il quando. Quando cominciare, quando attendere, quando farti avanti, quando prendere il proprio tempo”. Ti insegna che devi ascoltare, che non ha senso che sia solo tu a parlare ma che quello che dici ha un senso solo se prima o poi toccherà a qualcun altro di dire la sua perché

“nel jazz tutti vogliono suonare in modo differente. Devi imparare ad ascoltare modi diversi di fare le cose. E siccome suoni con gli altri, devi accordarti. Ed è quando sei a tempo che sai quando startene quieto e quando essere assertivo. Sai stabilire quando il tuo suono è la risposta a quello dell’altro e quando far partire l’invenzione”.

 

Quinto step

Il padre di Wynton diceva: “Il jazz libera dalle catene. Ti farà apprendere un modo di pensare sofisticato”. E Wynton… “L’America democratica non ha ancora fatto propria la lezione del jazz. La imparerà attraverso quello che sta accadendo. È solo questione di tempo. La crisi, la mancanza di denaro sono i segni della svolta. Come una persona che dice di essere in forma ma non fa esercizio. Dopo molti anni senza praticare sport e riempiendosi di fritti gli arriva l’infarto. E se sopravvive si mette in forma davvero. Perché il dolore insegna. Lo ha insegnato il jazz.”

Per finire: Sesto step

“Il jazz ha lo stesso valore per i musicisti e per il pubblico perché la musica, legata com’è ai sentimenti, all’unicità dell’individuo e all’improvvisare insieme, fornisce risposte ai problemi fondamentali della vita. Più è alto il livello di attenzione, maggiori sono i benefici. Come in una conver­sazione, il musicista si accorge quando la gente ascolta: a un ascolto ispirato corrisponde un’esecuzione ispirata. Conoscere il jazz apre nuove prospettive alla percezione della storia. Ho letto resoconti della grande Depressio­ne e ho conosciuto e suonato con persone che l’avevano vissuta. Ma quando ascoltate Mildred Bailey o Billie Holiday, l’orchestra di Benny Goodman o Ella Fitzgerald con quel­la di Chick Webb, la vostra visione di quel periodo si fa più acuta e perspicace: il linguaggio che adoperavano, il modo in cui ricorrevano allo humour e agli stereotipi per colma­re il divario tra le razze, la loro concezione dei rapporti in­terpersonali…

Si sentiva che le persone stavano delineando un mo­do di intendere e celebrare la loro esistenza nonostante i tempi duri; anzi, se ne facevano beffe.

La musica può metterci in contatto con le nostre esistenze precedenti e prefigurare un futuro migliore. Ci ricorda qual è il nostro stadio nella catena delle conquiste dell’umanità, lo scopo primario dell’arte.

I più grandi artisti in ogni campo parlano attraverso i secoli di temi universali – morte, amore, invidia, vendetta, avidità, giovinezza, vecchiaia, i temi fondamentali, e quindi immutabili, dell’esperienza umana.

L’arte e gli artisti fanno davvero di noi “la famiglia dell’uomo” e molti dei grandi musicisti jazz incarnano quella consapevolezza.” (Winton Marsalis)

E se la musica è finita, fatela ripartire, meglio se jazz.

 


Articolo già pubblicato su Chiedo ai sassi che nome vogliono




Una rosa di tromboni per quel Rosa di Marcello

Di questa storia, con difficoltà, cercherò di essere un semplice cronista.

Marcello Rosa nasce il 16 giugno del 1935 ad Abbazia, città al tempo italiana passata poi alla Jugoslavia e dal 1991 alla Croazia.

Marcello scopre il trombone grazie a dei ruggenti glissati (tipici del modo di suonare “alla vecchia” – ? -) che ascoltò da ragazzino in disco di jazz regalatogli dalla madre. Amore a prima vista, o meglio a primo ascolto.

Da quel giorno di molti anni fa la sua vita si sviluppa in un vortice di esperienze musicali, e non, a dir poco strabilianti.

Chi lo conosce e frequenta la sua casa rimane ogni volta ammaliato dalle centinaia di testimonianze di una vita fuori dal comune. Dalle foto con Duke Ellington e Salvador Dalì, alle infinite locandine di concerti con i nomi più illustri del mondo del jazz fino alle sue stesse composizioni artistico – figurative, moderne ed eclettiche, che testimoniano la frequentazione del liceo artistico e un passato da grafico.

Qualcuno più grande di me potrà ricordare Marcello nei programmi radio – televisivi della RAI di una volta – “Quando in televisione si potevano fare cose di qualità!”, per citare un altro grande come Gianni Minà.

Comunque tanto per intenderci e per chiudere questa piccola ouverture caleidoscopica della vita dell’artista, Marcello è quel trombone inimitabile che risponde a tono e con stile al clarinetto di Baldo Maestri nel celebre tema di Amapola arrangiato da Ennio Morricone per il film C’era una volta in America.

Nel periodo del grande boom economico durante il quale l’Italia poteva rimostrare le sue sfaccettature migliori, dove c’erano opportunità e dove la parola orchestra era ancora contemplata in un fantomatico vocabolario culturale, Marcello rifiutò più volte il posto da orchestrale per rincorrere il suo sogno. Un sogno fatto di tempi in levare, schiocchi di dita, locali fumosi e grandi festival. Un sogno rincorso costantemente col trombone in spalla rinchiuso in una di quelle custodie in pelle scura semplici, calde ed eleganti che in tutto si distaccano da quelle orripilanti opzioni odierne e figlie del petrolio in carbonio, fibra di vetro o qualche tipo di plastica.

Dopo queste riduttive ma dovute presentazioni arriviamo ad oggi, in questo periodo sfortunato, ma che ha visto realizzarsi una sorta di piccolo miracolo.

Proprio nell’anno del suo ottantacinquesimo genetliaco Marcello ha realizzato uno dei suoi sogni di più vecchia data e magnificente fattura.

Per chi ama il jazz, e soprattutto il trombone, sono di sicuro indispensabili gli ascolti dei grandi Jay Jay Johnson, Kai Winding, Urbie Green, Bill Watrous ed altri insieme a grandi gruppi di energetici tromboni. Così, sulla scia dei suoi colleghi ed amici americani, è nato il suo ultimo lavoro discografico intitolato The World on a slide.

Questo lavoro, prodotto dall’etichetta romana AlfaMusic, è una vera e propria testimonianza di amicizia da parte di diciotto trombonisti – oltre allo stesso Rosa – tra i più quotati d’Europa. Alle registrazioni hanno preso parte solisti di jazz come Andrea Andreoli, Massimo Morganti, Mario Corvini e Roberto Rossi nomi che sono preceduti dalla loro chiara fama. Pur essendo un disco di jazz hanno contribuito importanti musicisti dell’ambiente della musica classica come Andrea Conti, Diego Di Mario, Devid Ceste, Vincent Lepape, Matteo De Luca, Gianfranco Marchesi e Luigino Leonardi che con i loro suoni impreziosiscono le compagini orchestrali più importanti d’Italia e d’Europa. Non bastando Marcello ha dato l’opportunità a molti giovani di prender parte a questa meravigliosa avventura. Oltre al sottoscritto, Giovanni Dominicis, Gabriele Sapora, Francesco Piersanti, Elisabetta Mattei, Stefano Coccia e Federico Proietti sono la rosa di nuovi trombonisti che hanno donato tutto il loro entusiasmo per la realizzazione del sogno di Marcello.
 La ritmica non poteva anch’essa essere da meno e così vede tra le sue file Paolo Tombolesi al pianoforte, Roy Panebianco e Luca Berardi alle chitarre, Marco Siniscalco al contrabbasso e basso elettrico, Cristiano Micalizzi alla batteria e Filippo La Porta alle percussioni.

Il disco conta sedici tracce che vedono duellare flotte di trombonisti in battaglie musicali su ritmi funky e latini, swinganti blues che che incappano in melodie leggere, semplici e geniali, testimonianza che il buon Pop ancora resiste.

Marcello è così. In lui convivono sacro e profano, genialità e semplicità, pacatezza ed esuberanza, popolo ed aristocrazia. Una persona che non si vergogna di essere umana mettendo da parte il falso e borghese politically correct che lascia credere che tutto – o niente – possa essere detto riuscendo ad insegnare il valore reale della democrazia attraverso la “violenta vitalità” delle note che scorrono nei suo pentagrammi.

Fantasticando un po’ lo si potrebbe definire un musicista che fa della musica moderna il proprio romanticismo usandola come profonda espressione del suo stato d’essere riuscendo, oltretutto, a trovare in essa l’eterno rifugio di amori, delusioni, gioie ed incertezze.

Insomma Marcello ripone la sua stessa vita in quell’andamento sincopato, energico e rilassato, che, con dolce ed ingenua presunzione, scivola leggero senza tempo, con ritmo, proprio come la coulisse del suo trombone.

Se per caso, passeggiando per la capitale nel quartiere Prati, vi capita di incontrare un uomo elegante di nobile statura e bella presenza, quello è Marcello Rosa. Senza timore chiedetegli qualcosa sul jazz e aprirete la porta della conoscenza sensibile ad un immobile infinito in continua evoluzione. A me è successo così.