Boipeba, luogo senza tempo

Non si passa per l’isola di Boipeba per caso: è un destino. E per arrivarci serve un poco di sforzo e di tempo. Tempo per rimanere. E pensare.

Il tempo sull’isola passa con una cadenza molto speciale, accompagnato dai ritmi implacabili delle maree che governano la maggior parte delle azioni quotidiane, regolamentato dalla luce abbagliante e dall’oscurità assoluta. E il tempo umano è fatto di gesti, riti, saggezze e parole antiche. Sono poesie quotidiane, saperi di altri tempi e luoghi, un tempo di memorie. Ogni istante è differente e come una fotografia è unico.

Boipeba è un’isola tropicale, come tante altre: il mare, le palme, la vita semplice dei pescatori. Natura infinita, che, insieme alle maree, è la vera padrona del luogo. Nessuna automobile, solo barche, canoe intagliate negli alberi, cavalli.

Nonostante questo, Boipeba, per chi la sa capire, guardare, vivere, respirare, diventa qualcosa di profondo, languido e vitale. È così per chi è nato qui, i più vecchi che l’hanno mantenuta fino ad ora, per i giovani che cercano di migliorarla e proteggerla; è così per i “gringos” che hanno deciso di vivere qui lasciando la città, conforto e amici, non per fuggire, ma per esplorare una vita più a contatto con la natura e con se stessi.

Per una vita meno legata alle cose materiali, che, comunque, non esistono nell’isola: per avere quello che vuoi, bisogna andare a Valença (un’ora di motoscafo a volte troppo veloce), o a volte bisogna aspettare che qualcuno da Salvador, São Paulo, Roma o New York possa portare quello che vuoi. Non è un acquisto il tuo: è una conquista, il semplice pensiero è un’avventura. Così, per far passare il tempo, ti siedi, ti calmi, guardi il mare e le nuvole, studi il vento, pensi in un’altra cosa. Impari a non avere “tutto qui e ora”, ma a godere “quello che c’è, ora”. Impari ad aspettare.

I nativi sono orgogliosi della loro isola, la chiamano paradiso. Capisci il loro amore quando li vedi seduti contemplando il mare, quando parlano dei fiori, quando raccontano che già hanno vissuto in città e, alla fine, hanno deciso di tornare “a vivere” qui. Ti portano a visitare le spiagge più belle, la foresta più folta e si incantano, una volta di più, vedendo una luce particolare di questo oceano che li alimenta di una forma quasi spirituale.

Ci sono luoghi molto lontani, quasi inaccessibili dove anche i cavalli hanno difficoltà ad arrivare, ma dove qualcuno va per cogliere frutta, fiori, legna. Luoghi per “persone di razza”, che hanno lo stomaco forte, che non hanno paura della natura generosa e terribile. Probabilmente, non conoscerò mai questi posti, ne sentirò la mancanza e coglierò l’essenza dai loro racconti. È una visione un poco romantica, lo so. Ma attraverso le voci di queste persone posso interpretare i loro segreti, la loro vita quotidiana.

E le loro radici, con le tradizioni degli indios, i veri nativi, che racchiudono la saggezza originaria, e il sangue Africano dei loro antenati che sono arrivati qui come schiavi. A Boipeba le persone sono orgogliose di questa discendenza, è una forza in più e la vivono con la loro pelle, i corpi, il cibo, le piante, la religiosità fatta di messe cattoliche e dei misteri del candomblé (*), in un incontro perfetto tra sacro e profano, con la musica di tamburi ossessivi, con suoni presi dalla natura e riprodotti con strumenti semplici.

I fiumi sono indispensabili e accompagnano le coste dell’arcipelago. Sono centinaia di grandi fiumi e piccoli canali che si incrociano tra loro e con il mare quando la marea cambia. Mentre scrivo, i fiumi stanno correndo in direzione dell’oceano, stanno uscendo diventando il mare che, accogliendoli, si ritira. Fra sei ore la natura invertirà il suo corso e sarà il mare a penetrare tra le isole con forza. È un fluire poderoso, è un movimento incessante, uno scambio di acque, di umori, di flussi: è come un abbraccio intenso, una lotta appassionata e ardente, è come fare l’amore.

E navigando il fiume di notte, nell’oscurità totale, ti senti ancora di più parte di questa natura superba: puoi percepire la presenza delle mangrovie, di molti animali e di pochi esseri umani. Potresti essere a centinaia di anni fa, quando tutto, alla fine, era come adesso: un vivere, un “esistere” che non si è mai fermato, ma che non è mai cambiato.

A Boipeba cerchi l’isolamento in maniera naturale, circondato appena da un silenzio che, di fatto, non esiste: ti sembra di essere immerso nella calma più totale e all’improvviso avverti il ruggito del mare, il richiamo di animali, il vento tra gli alberi. Ti rendi conto che stai parlando con te stesso e stai facendo rumore anche tu.

Nella notte profonda, allora, impari ad ascoltare i suoni. È un altro mondo, un altro mistero, una vita a parte. Non parlo solo del mare, dei suoi cambiamenti di umore e della voce della sua marea implacabile. O della musica del vento e della pioggia. Parlo soprattutto della voce umana, la voce del lavoro.

I pescatori escono di notte con le loro barche di legno costruite, forse, con i pezzi e le memorie di altre barche, a volte così rattoppate da chiedersi come riescano ad affrontare questo oceano. Tra le 3 e le 5 di notte escono. E tra le 3 e le 5 di notte, puoi sentire mogli che sfaccendano in cucina, bambini piagnucolando, uomini bisbigliando, motori che girano con il loro “po-po-po-po” ritmico e profondo, le barche che si chiamano l’una con l’altra, ognuna con la sua voce, la sua personalità. Allora si sente il mare solcato da questa flotta che, tutti i giorni, tutte le notti, costruisce e racconta una storia. Dopo, ancora il silenzio, il silenzio della notte fatto di animali, vento, pioggia, maree.

Alla fine, non ho detto nulla di decisivo per spiegare Boipeba. Perché, in fondo, Boipeba è un’isola, come tante altre: mare, palme, vita semplice.

È l’atmosfera che è speciale, quello che senti che è essenziale, la vita di questi uomini e queste donne che è una scuola permanente. Come un mistero profondo, non puoi tentare di spiegare: devi solo accettare ogni momento che trascorri qui, lasciarlo entrare nella tua pelle, trattarlo con cura, viverlo, amarlo perché è tuo. E dell’isola.

Il giorno in cui arriverai a Boipeba lascia dietro di te tutti i tuoi preconcetti, le idee che hanno marcato la tua vita: lasciati guidare dall’istinto, dalla natura, dalle onde e non chiedere all’isola più di quanto ti può offrire. Non tentare di cambiarla.

E, per favore, rispettala, perché, forse, è questo il fine ultimo e vero di ogni viaggio.


(*) candomblé: è la religione tradizionale africana, portata in Brasile e nel Nord America dagli africani schiavizzati. Nel candomblé esiste un Essere Supremo, Olorum, e il culto è diretto ad antenati, chiamati Orixás, divinizzati sotto forma di forze della natura.

Foto del libro © “Boipeba luogo senza tempo” di Cristina Cenciarelli, Solisluna Editora, prima edizione 2018, seconda edizione 2019.


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright © Cristina Cenciarelli




MISERIA E NOBILTA’*

Via Riscatto. È questo il nome di un viottolo che costeggia la Cattedrale di Matera. L’ho notato subito, il primo giorno che sono arrivato: striscia lungo il fianco sinistro dell’edificio, dalla parte opposta di Piazza Duomo, fino ad affacciarsi sul meraviglioso belvedere che domina il Sasso Barisano.

© Alberto Manno

Via Riscatto, cioè percorso di liberazione, strada per la rinascita, viatico di redenzione. Curioso che un nome così altisonante e denso di significato sia stato dato ad una piccola stradina della Civita, la parte della città che giace tra i due Sassi e li sorveglia dall’alto. Ma poi, riscatto da chi? Da quale condizione morale, economica o sociale? E, soprattutto, riscatto di chi? Di un singolo, di una città e della comunità che la abita, o di un popolo intero?  Per capirlo, ho dovuto aspettare il giorno successivo, quando sono andato a visitare la Casa Grotta. Durante questo viaggio mi aspettavo di avvertire costantemente ed unicamente quel misto di stupore ed ammirazione che si prova di fronte allo spettacolo della bellezza in tutte le forme in cui si manifesta. Entrando in questo minuscolo antro, gli unici sentimenti che provo sono un’infinita tristezza ed una profonda commozione. Più guardo gli oggetti che riempiono questa grotta buia e angusta scavata nel tufo e più penso, con sconcerto, alle persone che vi hanno abitato, alle sofferenze che hanno sopportato, a tutto quello che la miseria ha loro sottratto. Non c’è nulla di pittoresco o caratteristico in questo luogo. È la testimonianza di come il degrado fisico e morale possa portare alla perdita della speranza e all’accettazione di un’ineluttabile condizione di sofferenza. La Casa Grotta è uno struggente museo della rimembranza, con tutto il suo valore di monito per questa e per le generazioni a venire, affinché quello che è accaduto non si verifichi più. Era dunque da questo che bisognava riscattarsi, dalla miseria materiale e spirituale, e questo ha fatto il popolo di Matera, in poco più di sessant’anni. Lo ha fatto per se stesso e per tutti noi, con le proprie forze e con l’aiuto di una riforma coraggiosa ed illuminata, la “Legge Speciale per lo sfollamento dei Sassi”, portata avanti dai vertici della politica italiana nazionale e locale nei primi anni cinquanta. Il viottolo da cui sono scaturite queste riflessioni, con il suo nome altisonante e fortemente evocativo, nel suo serpeggiare per pochi metri di fianco alla cattedrale, non dà certamente l’idea del tempo e della fatica che sono stati necessari per ottenere il riscatto delle genti di Matera. Me ne rendo conto riflettendo sulle date e sui traguardi raggiunti: sessantasette anni, dal 1952 al 2019, da vergogna d’Italia, come fu definita da Togliatti, a Patrimonio Mondiale dell’Umanità fino a Capitale Europea della Cultura 2019. Di questo vertiginoso upgrading materiale, spirituale e culturale trovo parecchie testimonianze nel mio girovagare tra i Sassi, insieme a turisti provenienti da ogni dove. Un’altra grotta, per esempio, un’altra casa, ma questa volta riqualificata e rimodellata dalla mano sapiente di architetti locali sotto la spinta di realtà culturali illuminate, che l’hanno fatta risorgere dall’antico stato di fatiscente testimonianza di un triste passato a luogo dove si celebra il presente più entusiasmante. Chi si immaginava, entrando con un gruppo di congressisti multietnici nella Casa Cava, di ritrovarsi nell’unico centro culturale ipogeo del mondo, dove gradinate di legno e vetro, sapientemente utilizzato per lasciar intravedere il passato, portano ad un palcoscenico anch’esso trasparente, davanti al quale si apre una platea di sedute avveniristiche, su cui occhieggiano schermi al plasma incastrati sulle pareti di tufo

© Alberto Manno

Una confortante, gratificante e inaspettata realtà che lascio a malincuore agli indaffarati congressisti immersi nel loro dibattito solo dopo aver scattato, o meglio rubato come un navigato street photographer, molte immagini con la mia fotocamera.

Eh, già, la fotografia, la mia passione. Desidero ardentemente soddisfarla anche durante questo viaggio a Matera. Reflex in mano e zaino fotografico in spalla cercando la mia immagine della città. Il compito è arduo: Matera è un landmark fotografico per dilettanti e professionisti. È stata fotografata in tutte le condizioni climatiche, di giorno come di notte, all’alba ed al tramonto, in ogni suo angolo o recesso e secondo le più varie chiavi interpretative. Ma questo spicchio di mondo, dove l’identità ancestrale si mescola sapientemente con la modernità, mi affascina, sento che devo celebrarlo anch’io con i miei scatti, e non mi intimidisce la consapevolezza che molti anni fa lo abbiano già fatto i padrini della Magnum Photos. Quei grandi maestri, con le loro immagini hanno svelato al mondo la miseria e la desolazione che regnavano in questi luoghi fino ai primi anni cinquanta, io, con le mie voglio sentirmi partecipe della rinascita.

I Sassi nascono dal tufo, sono scavati nel tufo, emergono dal tufo.

© Alberto Manno

Un paesaggio fatto di bianchi e grigi mai troppo definiti, senza forti contrasti, e mi rendo presto conto che ritrarlo a colori non ne esalta il fascino. Dunque, per la prima volta nella mia carriera di fotoamatore appassionato, decido di lanciarmi nell’elitario mondo del bianco e nero. L’intreccio dei tetti, l’incrocio dei muri sgretolati, i vicoli angusti raggiunti percorrendo gradinate impervie, tutto è stretto, ravvicinato, quasi asfissiante.

Un’architettura di pieni che si incastrano in altri pieni, perché i vuoti, gli antri scavati nel tufo e ora garbatamente e spesso elegantemente riadattati al viver moderno, sono celati allo sguardo, chiusi da portoni o inferiate, forse anche, penso io, ad occultare con non sopita vergogna la loro triste passata esistenza.

© Alberto Manno

Non c’è scampo, la luce perpendicolare non potrà mai esaltare quest’architettura. I grigi diventeranno bianchi sfavillanti e neri luminosi solo all’alba o al tramonto: beh, ovviamente, scelgo il tramonto, ma per tutto il giorno, in realtà, si protrae questa faticosa ma inebriante shooting session. All’inizio rifuggo dalle panoramiche, determinato a non cedere alla tentazione dell’immagine cartolina, e mi concentro sui particolari, sui dettagli: piccoli edifici che si aprono, come minuscoli anfiteatri, su slarghi appena accennati di angusti viottoli di pietra; le chiese rupestri, con i loro interni riccamente arredati dalla semplice nudità del tufo in cui sono state scavate; le facciate delle case, che nel  loro sovrapporsi prospettico evocano l’intersecarsi dei quadrati e delle linee delle opere di Mondrian, solo private del gioco dei colori primari.

© Alberto Manno
© Alberto Manno

Non è facile far percepire il fascino di questo paesaggio riprendendolo dall’interno, scendendo negli ipogei, nelle grotte e nei cortili degli antichi palazzi secenteschi al cui interno, inaspettato premio al mio ossessivo girovagare, si rivelano alla mia ammirazione i tesori della scultura contemporanea del MUSMA° o le opere dei fotografi professionisti celebrate nella mostra del World Press Photo 2019.

© Alberto Manno

Via via che passano le ore e poi i giorni, questo addentrarsi sempre più spinto all’interno dei Sassi mi provoca una sensazione fastidiosa di esaurimento, di claustrofobia, e mi convinco che devo uscire fuori da questi vicoli, per cercare una prospettiva più ampia. Ripercorro allora in salita le impervie stradine fino a raggiungere le gradinate e gli spiazzi più alti dei Sassi, o i magnifici belvedere che li dominano, e da lì lascio spaziare lo sguardo e poi scatto. Spero di poter immortalare sul sensore, e quindi per sempre nel mio ricordo, quel misto di stupore ed ammirazione che tanto mi aspettavo di provare fin dall’inizio di questo viaggio di fronte allo spettacolo della bellezza, che ora si manifesta di fronte a me in tutta la sua potenza.  Mi sento tuttavia un po’ in imbarazzo quando mi rendo conto che questa sequenza di scatti ritrarrà proprio quella Matera da cartolina da cui mi ero riproposto di rifuggire.

© Alberto Manno

Ma alla puntuale verifica di ogni singolo fotogramma sul piccolo schermo LCD della reflex, routinaria consuetudine di ogni fotografo che si rispetti, cresce in me la consapevolezza, o forse la presunzione, di aver capito, di aver trovato la chiave interpretativa giusta: per ritrarre un luogo come questo bisogna abbandonare ogni desiderio di stupire, perché lo stupore nasce dalla semplice constatazione. Le inquadrature ardite, l’esaltazione del dettaglio, la trasformazione dell’immagine concreata in astratta, che hanno sempre caratterizzato il mio modo di ritrarre il paesaggio, questa volta rischiano di rivelarsi inefficaci nell’obiettivo di esaltare il fascino di questo luogo. Fotografiamo tutti Matera come un presepe perché Matera “è” un presepe. Un presepe vivente però, salvato dall’oblio grazie alla saggezza e alla lungimiranza di alcuni ed alla forza e al coraggio di molti.  E questo a cui penso stanotte affacciato al belvedere, dopo l’ultimo scatto al presepe che si illumina della luce di mille piccole lampadine.

© Alberto Manno

Chissà chi avrà attaccato la spina e premuto l’interruttore…


*Resoconto di un viaggio fatto un anno fa, quando la maggior parte di noi pandemia non sapeva neanche cosa significasse.

°Museo della Scultura Contemporanea Matera


Tutte le immagini sono coperte da copyright © Alberto Manno




OTTANTA METRI SOTTO IL LIVELLO DEL MARE AI CONFINI DEL MONDO.

Roy’s Cafe © Alberto Manno

Ho ricevuto un messaggio da Riccardo qualche tempo fa. Conteneva l’immagine sbiadita della copertina di un’edizione paperback di On the Road. Il sottotitolo recitava: ricordi. La sensazione del déjà vu è stata immediata: dove ho già visto questa foto che ritrae il Roy’s Cafe sulla ROUTE 66? Ma sì, l’ho scattata io durante lo Scenic Landscape Photo Workshop nella Death Valley della scorsa primavera.

È come se il mio maestro di fotografia, con l’aiuto di Jack Kerouac, mi avesse svegliato dal letargo dicendomi “Ehi, ma ti sei reso conto di dove ti ho portato qualche mese fa?” Si Riccardo, lo so bene dove mi hai portato, dove sono arrivato, il limite che ho toccato. Da Roma al confine del mondo, dalla realtà al mito. Abbiamo attraversato, ammirato e fotografato il “nulla” più solido, colorato e potentemente reale che si possa immaginare, attraversato spazi immensi, ammirato la neve sulle montagne da sterminate distese di sale poste ad ottantasei metri sotto il livello del mare, on the road ma anche off the road a bordo di quattro Truck Campers, in una sorta di parentesi atemporale. L’informativa sul viaggio era stata, come sempre, molto chiara e quindi sapevo a cosa andavo incontro. Mi aspettava un’immersione nella natura selvaggia molto più intensa e in una realtà logistica molto più precaria rispetto a quanto avessi mai vissuto in passato.

Il prologo dell’arrivo a Los Angeles dunque, non poteva che costituire un antefatto, un preambolo allo svolgimento della storia. Città incomprensibile Los Angeles, soprattutto ad una visione così fugace come è stata la mia, limitata al tragitto dall’aeroporto all’hotel, ma spesso, mi dicono, indecifrabile anche per chi ci ha vissuto per lunghi periodi ma non ci è nato. Un’immensa distesa di strade, luci ed agglomerati di edifici. Non ho visto altro. Uno spazio indefinibile che ho preferito non considerare. Non ero lì per esplorare il Sunset Boulevard o passeggiare tra i pattinatori palestrati di Venice Beach. Il viaggio per me inizia la mattina successiva con il trasferimento in una delle tante cittadine dei sobborghi per ritirare i Truck Campers, curiosi ibridi tra mezzo di trasporto e casa, che hanno lasciato vagamente perplesso ed inquieto chi, come me, annovera come unica esperienza di campeggio due giorni in roulotte nei pressi di Maratea all’età di tredici anni circa, e di quel soggiorno non ha un entusiasmante ricordo. Per fortuna il mio compagno di equipaggio è Stefano e la sua allegria e il suo entusiasmo per l’impresa presto contagiano anche me e vogliamo solo partire: check mezzi, check equipaggiamento, check walkie-talkie per comunicazioni di servizio (evviva, nella Death Valley non c’è copertura per i cellulari!) e si accendono i motori. Siamo ben consci che il fascino di ogni meta raggiunta sarà amplificato dalla fatica fatta per conquistarla.

Tanto per iniziare, bisogna percorrere quattrocentoventi chilometri da Los Angeles per arrivare a Furnace Creek, il luogo da cui tutti cominciano, dove ancora puoi pensare di essere in un territorio che ti appartiene, che puoi descrivere. Già qui, comunque, in questo desolante campeggio pseudo-organizzato, inizio ad essere pervaso da una strana irrequietezza, perché sento che a breve mi addentrerò in una realtà indecifrabile, attraversando un luogo-non luogo al di là delle Colonne d’Ercole. Per il momento però sono ancora sulla terra ed il primo paesaggio che mi si para davanti agli occhi è inaspettato, affascinate ma ancora comprensibile: una distesa di sabbia e dune, le Mesquite Flat Sand Dunes, appunto.

Mesquite Flat Sand Dunes © Alberto Manno

Il riverito maestro Riccardo sa dove portarmi a fotografare per farmi entusiasmare. Impazzisco ad entrare con il mio 300 mm nell’indolente susseguirsi delle onde di sabbia dorata, sforzandomi di esaltare nell’inquadratura l’intersecarsi di ombre e luci, inseguendo l’idea di trasformare con le mie foto il concreto in astratto, così che gli elementi nella natura si trasformino ai miei occhi, e quindi sul sensore della mia fotocamera, in macchie, figure, pennellate di colore. Questo è il mio modo di fotografare, così interpreto la fotografia di paesaggio. Solo così nello scatto vedo rappresentata la mia emozione e mi sento appagato. Il grande vantaggio che hanno i fotografi, non importa se dilettanti o professionisti, nei confronti degli altri viaggiatori secondo me è proprio questo: possono immortalare la loro sorpresa, congelare in eterno la meraviglia, fermare l’attimo e inorgoglirsi del possedere un’immagine che ricorderà loro per sempre l’emozione provata. Questo soprattutto se la foto è buona e, purtroppo, almeno nel mio caso, non è la regola. Ma Riccardo è stato ed è un bravo maestro e la passione è forte in me. Per questo continuo il mio apprendistato fotografico con entusiasmo durante questi pellegrinaggi attraverso luoghi fantastici, sopportando con serenità il continuo richiamo alle ferree regole della buona tecnica fotografica.

Ma quanto si deve essere bravi per raffigurare con efficacia il mito? Questa domanda mi frulla in testa dall’inizio di questo viaggio, perché so che una delle mete che mi attende è un landmark per chi è stato giovane negli anni ‘70 o ha amato il cinema e la cultura che quegli anni hanno raffigurato e descritto: Zabrinskie Point. Quando uscì il film di Michelangelo Antonioni, io ero un ragazzino di sei anni appena trasferitosi da Potenza nella capitale e, come tale, poca contezza potevo avere del clima di cambiamento sociale e culturale di cui i giovani di allora si facevano interpreti. Dunque, la visita a Zabrinskie Point non sarebbe stato per me un flash back verso esperienze vissute o atmosfere già assaporate, ma il film di Antonioni l’ho visto e la potenza evocativa di alcune sequenze me la porto dentro. L’immagine di quella specie di altipiano dalle mille fenditure rocciose su cui decine di corpi di giovani si abbracciano nella celebrazione dell’amore libero in una scena che tanto clamore ha suscitato all’epoca della sua proiezione sugli schermi, è entrata nel mio immaginario.

Zabrinskie Point dawn © Alberto Manno

Tuttavia, quando arriviamo, l’alba è appena sorta e l’immagine del deserto riarso, polveroso e abbagliante nella luce del sole allo Zenith in cui si celebra la storia d’amore onirica tra i due giovani protagonisti del film non è quella che ho davanti ai miei occhi. Piuttosto, il rosso del cielo sovrastante le rocce che lentamente si manifestano nelle loro mille tonalità di bianco, giallo, ocra e marrone, mi suggeriscono una confortante idea di concretezza. Così è fatto il mondo, penso. Il mondo vero, da cui veniamo e su cui ci muoviamo, non quello che ci abbiamo costruito sopra nel corso dei secoli nel segno del progresso della nostra civiltà, vero o presunto che sia. All’intensificarsi della luce del giorno che nasce, l’agglomerato roccioso che ho davanti agli occhi sembra però perdere via via la sua immutabile solidità, per assomigliare sempre di più ad un enorme creme caramel. Ma chi mi conosce lo sa, io sono molto goloso, e quindi in questo meraviglioso budino mi ci tuffo dentro senza indugi con la mia fotocamera, per fissare indelebilmente il ricordo di questa incursione in un paesaggio la cui bellezza è amplificata dall’evocazione di un clima storico e culturale che, nel bene e nel male, è stato cruciale nell’evoluzione della nostra società.

Zabrinskie Point © Alberto Manno

Le emozioni della giornata non finiscono con questo affascinante flashback negli anni ’70 tra gli scenografici calanchi di borace e lava di Zabrinskie Point. Nel pomeriggio è prevista la visita ad un altro luogo delle meraviglie, la contemplazione di un nuovo incredibile panorama, dell’ennesimo inaspettato scenario. Per conquistare la meta dobbiamo continuare a scendere, sempre di più ed ancora di più, fino a raggiungere il luogo più profondo degli Stati Uniti. Ad ottantasei metri sotto il livello del mare si trova infatti il Badwater Basin, la terza tappa del nostro pellegrinaggio nell’altrove, il primo impatto con qualcosa di inaspettato, con un paesaggio indecifrabile. Incamminarsi zaino in spalla e cavalletto in mano su questa immensa pianura di sale, divisa in grandi zolle che costituiscono un ordinato mosaico, mi è più che mai necessario per stabilire delle coordinate che guidino il mio sguardo, per identificare o almeno ipotizzare la presenza di un confine. La vastità infinita mi affascina ma mi mette a disagio come fotografo. Io ho bisogno di creare una cornice, di rinchiudere quello che voglio ritrarre in una composizione ordinata. Attendo il declino della luce pomeridiana concentrandomi nel tentativo di individuare un punto di ripresa efficace. Le ombre calano con lentezza inesorabile sulle montagne che circondano questa vastità bianca, luccicante e polverosa che vista da lontano sembra un lago ghiacciato, finché la luce quasi scompare. Scattare ora è quasi proibitivo, ma sento che questo è il momento giusto. Il palcoscenico delle zolle azzurre si distende verso il fondale delle montagne blu che si ergono in lontananza. Il paesaggio sottomarino sconcertante ed alieno ora mi accoglie. Questo luogo adesso è anche mio e, sereno, premo il pulsante di scatto. Quando mi siedo al posto del passeggero nel Truck Camper non ho molta voglia di parlare. Sono sopraffatto dall’emozione, stanco anche fisicamente. Non riesco a staccare il pensiero da quell’immensa distesa di sale, dalla scacchiera infinita di caselle bianche e bianche su cui le uniche pedine che si muovevano eravamo noi sette ed altri tre o quattro turisti, felici e sconcertati come noi. Mi convinco che questo spicchio di mondo così diverso da tutto ciò che si possa definire terreno non appartiene agli esseri umani e sorrido tra me e me al pensiero che, appena allontanatici con i nostri traballanti mezzi di trasporto, re e regine, alfieri e cavalli e torri e pedoni provenienti da un pianeta sconosciuto, nascosto nel cielo blu notte che ho fotografato, piomberanno sulla scacchiera di sale per combattere un’epica battaglia in nome della libertà e della giustizia, attestando così il loro dominio su questi luoghi.

Ma se gli alieni giocano a scacchi nel Badwater Basin, il luogo dove si svolgono le partite del loro campionato di calcio è un altro, è a centociquantasei chilometri di distanza e si chiama Racetrack playa. È un’immensa spianata di fango secco perfettamente liscia, divisa in piccole zolle dalle fenditure formatesi ad opera del sole, circondata da tribune di rocce. Impegnato nel tentativo di esplorarla in lungo e in largo, senza peraltro riuscire a raggiungerne il confine tanto è vasta, cantando a squarciagola in un impeto di libertà che mai ho provato prima e di cui nessuno mai potrà raccontare, visto che non c’è nessuno tranne i miei colleghi d’avventura che neanche vedo più tanto sono distanti, all’inizio non le noto. Ma poi, volgendo lo sguardo sul tappeto di fango su cui sto camminando, mi imbatto in piccole rocce, sassi perlopiù, poste a distanza variabile le une dalle altre in un ordine che non sembra casuale, ciascuna ferma al termine di una piccola scia scavata nel terreno. Queste pietre si sono spostate: come? Cosa o chi ha provocato il movimento? Un cartello spiega il mistero: in caso di pioggia abbondante, la playa può trasformarsi in un lago poco profondo. Con il gelo della notte l’acqua si trasforma in ghiaccio, che avvolge anche i sassi che vi si trovano sparsi. Il calore del sole scioglie il ghiaccio lasciandone solo un velo intorno ai sassi che, quindi, spinti dal vento impetuoso, pattinano sul terreno spostandosi anche per molti metri, lasciando lunghe e stupefacenti scie dietro di essi. Sarà, ma mentre ammiro questo luogo, incredibile nella sua perfetta proporzione tra spazi orizzontali e verticali, con le piccole rocce sapientemente collocate quasi a decorare la vasta pianura, sono sempre più convinto che sia un’arena, creata per accogliere i giocatori e gli spettatori provenienti dal mondo fantastico e sconosciuto a cui appartiene. Appena conclusa la shooting session mi metto quindi comodo sul Grandstand, l’enorme roccia che altro non è se non la tribuna d’onore dello stadio, perché tra poco, ne sono certo, una di quelle piccole rocce diventerà il pallone che si disputeranno in un’esilarante partita di calcio gli animali fantastici arrivati direttamente dall’isola di Naboombu; io però, dopo averli ammirati, andrò via a bordo di un Truck Camper e non su un letto che vola dopo aver fatto fare al pomo d’ottone della testiera un quarto di giro a sinistra.

Al confine del mondo ci arriviamo l’ultimo giorno. L’ultima meta del tour, quella più agognata, suggestiva e misteriosa. E la più lontana e difficile da raggiungere: circa duecento chilometri di strada impervia e sterrata, che nell’ultimo tratto si trasforma in un viottolo di sabbia e sassi a stento praticabile dai Truck Camper. Il paesaggio è stupefacente ed inquietante ancora prima di arrivare alla meta. Ai due lati della strada, le catene montuose che la circondano hanno caratteristiche totalmente differenti, tanto che sembrano appartenere a luoghi diversi, geograficamente incompatibili. Sulla sinistra, colori caldi, vegetazione e rocce che variano dal viola al verde, dall’aspetto rassicurante; sulla destra, montagne nere, striate di bianco dai resti della neve, avvolte in una nuvola di vento e sabbia. Lo Yin e lo Yang. La notte ed il giorno. L’Inferno ed il Paradiso.

To Eureka Yin © Alberto Manno
To Eureka Yang © Alberto Manno
Eureka Land © Alberto Manno

Rimaniamo in questo strano limbo per almeno tre ore ad attendere che la tempesta di sabbia che ci ha colto all’improvviso si plachi quel tanto che ci consenta di proseguire fino alla nostra meta. Perché i vortici di vento sabbioso partono proprio da lì, dal luogo che dobbiamo raggiungere, dalla madre di tutte le dune, la più alta di tutta l’America del Nord, quella il cui nome non potrebbe essere più evocativo di un obiettivo raggiunto, di un esperienza conclusa: Eureka Dunes.

La parola Eureka si usa per esprimere gioia per aver trovato una cosa cercata o la soluzione di una questione o di un problema. Proprio questo è il significato che questo luogo ha per me. Inizio ad esplorarlo alla luce calante del tramonto, quando le onde di sabbia prendono i colori delle ombre e i marroni si alternano ai blu. Ma l’emozione più forte la provo il mattino successivo. È molto presto, il sole è appena sorto. Ancora una volta mi ritrovo solo, zaino in spalla e cavalletto in mano. Bisogna salire, scalare la duna ed entrare nelle onde di sabbia, sinuose, morbide e lisce come seta perché le poche impronte lasciate dai nostri predecessori il giorno prima sono state spazzate dal vento notturno. Quando il mio punto di osservazione diventa sufficientemente alto, mi rendo conto che questa non è una duna, è un’isola galleggiante su un mare di sabbia, terra e sale e circondata da montagne di oltre quattromila metri d’altezza, tanto da rendere questo paesaggio incomprensibile e paradossale. La salita è lenta e faticosa, le pause per fotografare con gli occhi e poi con la fotocamera continue e profondamente appaganti. Mi sento come sulla vetta dell’Everest, anche se la vetta della duna non riesco a raggiungerla, data la scarsa forma fisica. Ma rimanere lì, seduto sulla sabbia tiepida a guardare e pensare mi apre la mente e mi mette in sintonia con il mondo passato, presente e futuro.

Ogni pensiero negativo se ne va. Mi sento improvvisamente e inaspettatamente ottimista sul mio destino: Eureka! Ho trovato me stesso!


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright ©Alberto Manno




Una gita in Cornovaglia.

La Cornovaglia, già dal nome questa penisola ha qualcosa di intrigante: probabilmente sarà l’ultima volta che abbiamo calpestato il suolo di Sua Maestà, molto probabilmente il prossimo viaggio sarà agli antipodi.

Il motivo è presto detto: il primogenito si è trasferito per lavoro prima in UK e ora si sposterà in Australia con compagna e cane. Da qualche anno abbiamo la consuetudine di riunire la famiglia nell’occasione di un compleanno, e così è stato anche in questo 2019.

La Cornovaglia: sembra facile, è lì a sud della Gran Bretagna…in realtà per raggiungerla è necessario – per me che parto da Palermo – un cambio di aereo a Londra.

The Headland Hotel

Praticamente due giorni di viaggio, uno all’andata ed uno al ritorno.

E da Londra bisogna fruire dei costosi servigi di una compagnia locale, che utilizza aerei ad elica di piccole dimensioni, e che consente il trasporto a bordo di un trolley di dimensioni lillipuziane, di modelli in commercio forse solo nelle città dove vivono i Puffi.

Cominciamo con Newquay, abbiamo stabilito la nostra base qui anche per via del fatto che la spiaggia di Fistral – a Newquay – è conosciuta come il paradiso dei surfisti: intendiamoci, dei surfisti nordici che affrontano le onde con la muta felpata anche in estate, e che possono vedere spuntare tra i frangenti la testolina di una foca. Parlavo dei surfisti, siccome il primogenito ha una seconda vita da Mercoledì da Leoni, ecco chiarita la scelta.

L’albergo – in stile vittoriano ma funzionale – si erge su uno sperone di roccia sopra la spiaggia, che cambia larghezza (anche di centinaia di metri) al variare delle maree: una location molto cinematografica, ed anche confortevole, dalla quale si raggiunge in pochi minuti a piedi il centro di Newquay.

Fistral Beach alla mattina presto, con la bassa marea.

Per noi, non abituati al fluire delle maree, lo spettacolo era veramente interessante, così come è stato interessante scoprire che il deflusso delle acque non lasciava sulla battigia residui di plastica: in quella zona non si vendono bottiglie o bicchieri usa e getta.

Ciò che al mattino si trova sulla spiaggia sono poche alghe, qualche piuma e qualche impronta di uccello marino, o orme di cani: sappiamo che il miglior amico degli inglesi è il cane, e in effetti praticamente tutte le famiglie ne possiedono almeno uno, che portano ovunque.

Nell’Hotel di Newquay, ad esempio, il breakfast del mattino ci veniva preparato spostando il tavolo in una sala attigua alla sala colazione, con i medesimi comfort, in modo che Otto – il cane di famiglia – e gli altri cani non venissero disturbati dai bambini o dal passeggiare nervoso degli ospiti ai buffet.

Tracce sulla battigia

È stato interessante scoprire come, dopo la marea, sulla battigia non si ritrovassero rifiuti ma solo alghe, piume, sassi, qualche medusa spiaggiata, orme di uccelli e di altri animali.

Probabilmente la forte propensione degli esercizi commerciali di questa zona ad essere plastic free contribuisce a far sì che la plastica non finisca in mare, a frantumarsi e a inquinare.

A Godrevy Towans abbiamo visto le foche, che nuotavano liberamente nelle gelide acque sotto la scoscesa scogliera. Anche qui, un comodo parcheggio, dei sentieri segnati e una ragionevole passeggiata per raggiungere luoghi di sicuro interesse fotografico.

Truro è una cittadina, praticamente la capitale della Cornovaglia, con belle strade larghe e un buon numero di fricchettoni. C’è una gran cattedrale e come sempre tanti parcheggi che non ti obbligano a camminare per chilometri per raggiungere il centro storico.

Truro

Ci sono, come in molte altre città, negozi che fanno vendite attraverso le quali vengono sovvenzionate attività che il rigido welfare inglese ha eliminato, come le eliambulanze: praticamente quelle che soccorrono le vittime di incidenti stradali o in montagna sono gestite da una sorta di onlus.

St ives è un altro di quei porti di pescatori che partivano a sfidare l’Atlantico a caccia di sardine e merluzzi: oggi è un luogo dove le piccole case sono diventate esclusive residenze per ricchi, e tutto sommato la zona ha un nonsoche di mediterraneo. Abbiamo provato anche “il miglior fish&chips” della Cornovaglia, non so formulare un giudizio perché non sono esperto di fish&chips. Anche qui, un tot di freaks e un putiferio di gabbiani affamati davano colore al borgo. 

A Tintagel il mito locale colloca la sede del castello di Re Artù: si fa una bella scarpinata (il servizio a pagamento di Land Rover era sospeso) e si arriva a godere del panorama di un bel promontorio, che però quando siamo andati noi era inaccessibile a causa del crollo del ponte che lo congiunge alla terraferma: i lavori erano in corso e so che ad agosto sono stati completati. Sicuramente una visita guidata avrebbe saputo ricreare l’atmosfera magica di Ginevra e Lancillotto.

A Padstow abbiamo festeggiato una occasione importante in un ristorantino stellato collocato dentro una tipica abitazione locale, arredata con opere d’arte moderna e dal servizio affettuoso e familiare, ci hanno fatto sentire a casa e poi anche qui abbiamo scoperto che una delle ragazze che ci lavora è italiana (una costante).

Osservate l’altezza delle mura e dei moli, per avere un’idea del movimento delle maree, veramente impressionante!

No, non ho sbagliato le foto del viaggio: esiste un Mount St. Michel pure qui, e si assomiglia anche all’altro collocato sulla costa opposta del continente europeo. Quando garba alla marea, la stradina lastricata si scopre, e si può raggiungere a piedi l’isolotto dove risiedono alcuni fortunati benestanti. Non so come ci si viva in inverno, dato che a fine luglio non era esattamente caldo.

Portreath è una piccolissima baia, situata allo sbocco di un fiume, dove come ovunque qui in Cornovaglia hai un parcheggio, la consueta tabella con le indicazioni meteorologiche ad uso di bagnanti e surfisti e diversi localini dove aspettare chi decide di fare una sosta e surfare per un po’. E così abbiamo fatto pure noi, dato che il figlio con tavola al seguito voleva provarle proprio tutte.

Island’s end: il punto più a ovest dell’isola britannica. Naufragi rovinosi e passaggi di cetacei, e un gran panorama, condito da tanto vento. Peccato che abbiano ricreato una specie di orrendo luna park che toglie tanto alla “wilderness” dei luoghi e prova a spillare sterline tramite l’acquisto di paccottiglia e l’accesso a sale dove vengono proiettati cartoni animati e improbabili documentari. Però se ci si accontenta di fare un giro per scattare qualche foto, l’unica spesa sarà quella del parcheggio.

Uccelli ne abbiamo visti tanti: i gabbiani non sono particolarmente ben visti, e viene suggerito da numerosi cartelli di non dar loro da mangiare, di non abbandonare cibo in strada e comunque di non consentire loro di avvicinarsi: al di là della maestosa bellezza possono diventare aggressivi e procurare ferite agli imprudenti. Sotto, una inquietante taccola dagli occhi azzurri.

Una Taccola dagli occhi azzurri, fissa il fotografo riportandogli alla mente Hitchcock.

Titoli di coda…

Gita effettuata l’ultima settimana di luglio: abbiamo volato fino a Londra e poi da Londra a Newquay con una compagnia locale low-cost. Abbiamo girato con la macchina del figlio inglese, che aveva sempre la tavola da surf cinghiata sul tetto, tre uomini, due donne e Otto, il cane.

In Cornovaglia non si spende molto per mangiare e si mangia a qualsiasi ora, durante il giorno: di sera se entrate in un ristorante dopo le 21 vi potrebbero dire che la cucina è chiusa, d’altro canto loro cominciano a mangiare e bere poco dopo le 17.

(dopo la gita il figlio inglese ci ha annunciato che lui, la compagna e il cane si trasferiscono in Australia, dove una università più importante e più ricca ha bisogno di lui. Quindi aspettatevi a breve un altro reportage dal titolo “gita in Australia”).


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono soggette a copyright  © Antonio Musotto




Vancouver.

Vancouver città dei murales, opere d’arte a cielo aperto, insieme a cavi elettrici confusi e pendenti, ti chiedi se fanno male alla salute mentre sotto ci passeggi.

Vancouver così grigia e colorata assieme, un concentrato di grattacieli che svettano – come Boston, Londra, Tapei – e piccole aiuole di fiori e piante officinali quando meno te lo aspetti, come le piccole arnie nella terrazza di un hotel, a pochi metri dagli ospiti che impavidi si tuffano in piscina.

Vancouver rilassata sul porticciolo che è mare ma non te ne accorgi, nell’insenatura che prima o poi sfocia nel Pacifico, così lontano e ad un tratto così vicino, come i mitili che giri lo sguardo e sono lì ad asserragliare i pali della banchina.

Vancouver, sullo sfondo le montagne innevate, in metropolitana un ragazzo in canottiera con gli sci sottobraccio, l’eco dell’esploratore nel nome e la scritta sul marciapiede a ricordarci che “colonialism does not spark joy/il colonialismo non provoca gioia”.

Vancouver, ritrovo per senza fissa dimora da tutto il Canada: il clima è mite e, forse, la città accogliente o semplicemente indifferente. Del resto l’Economist sostiene che sia la città più vivibile al mondo. Di sicuro scivola via leggera, come i suoi ciclisti nel sali scendi delle sue colline.


Tutte le immagini contenute in questo articolo, lì dove specificato, sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright © Barbara Bonomi Romagnoli




Cammino nelle Terre Mutate.

https://www.facebook.com/agostinomarzoli/videos/10218425165967842/?t=41

Giorno 1 del #CamminoNelleTerreMutate

Fabriano – Matelica
Ore 8, ci si raduna tutti nella piazza di Fabriano. La maggior parte dei camminatori è arrivata ieri, alcuni invece hanno raggiunto il gruppo la mattina stessa. È bello vedere persone che hanno già fatto il cammino negli anni passati abbracciarsi come fossero fratelli e sorelle. Foto di rito nella piazza di Fabriano e si parte. In breve imbocchiamo un sentiero caratterizzato da grandi querce. Si incomincia a fare due chiacchiere col vicino di cammino. I nomi sono tanti da ricordare perché il gruppo è composto da una cinquantina di persone, ma in breve si comincia a riconoscere i visi. Ci sono persone dalla Sicilia al Trentino ed è bello vedere questo gruppo eterogeneo camminare insieme mosso dalle più disparate motivazioni, ognuno con le proprie aspettative.
La maggior parte di loro sono camminatori abituali. Io e pochi altri invece siamo al nostro battesimo per un cammino. Da qui il mio timore nel non sapere come sarà quest’esperienza e la paura di non farcela. Ma sento che le gambe reggono bene, i piedi non sono affaticati e questo mi dà coraggio. Chiacchiero con più persone e racconto del perché ho voluto fare proprio questo cammino (a voi lo spiegherò un’altra volta).
È metà mattina e si giunge al monastero di San Silvestro, dove padre Armando ci accoglie e ci racconta un po’ di cose e della sua fede. È bello ascoltarlo. Ci si rincammina e i sentieri nel bosco si alternano a quelli nei prati. Pranziamo e ci riposiamo un po’. Arrivati nel pomeriggio ad Esanatoglia ci fermiamo questa volta nell’unico bar aperto per rifocillarci un po’. I paesani ci guardano incuriositi ma mai con sospetto. A chi ce lo chiede spieghiamo chi siamo e cosa facciamo e che siamo partiti da Fabriano per arrivare, 14 giorni dopo, a L’Aquila. Da Esanatoglia a Matelica è un alternarsi di colline coltivate a grano, prati, campi di lavanda. In lontananza vediamo Matelica, la mèta di questa prima tappa. Sono passati una ventina di km, i piedi cominciano ad essere stanchi ma non mi fanno male, hanno solo bisogno di riposo. Finalmente l’arrivo all’agriturismo Deimar, dove veniamo accolti calorosamente. Monto la tenda e faccio la doccia. Dopo una giornata così anche i gesti più semplici come togliersi le scarpe o farsi una doccia diventano belli e importanti. La cena è buona ed abbondante.
A pancia piena si sta meglio ed ora la stanchezza comincia a farsi sentire. Entro in tenda e cerco di fare ordine nella mente. Spero di riuscire a riposare, perché quella che più temo è la seconda tappa. Ma oggi sono stato bene e non c’è motivo perché non debba andare bene anche domani.
Qui il terremoto si è sentito forte ma non ha fatto molti danni. Da domani, a Camerino, i segni del sisma saranno tangibili ed emotivamente sarà un’altra storia che spero di potervi raccontare come ho fatto oggi. 
Buona notte!

… continua

https://www.facebook.com/agostinomarzoli/videos/10218431854095041/?t=31

Giorno 2 del #CamminoNelleTerreMutate

Matelica – Camerino
L’appuntamento di stamattina è nella bella piazza di Matelica. Nel mentre che ci raduniamo tutti, ci armiamo di volantini e li distribuiamo nel bar e alla gente che incontriamo per strada. Questo è un Cammino giovane e le persone del posto hanno bisogno di sapere che sul proprio territorio d’ora in poi vedranno passare donne e uomini con zaino e scarponi che molto probabilmente consumeranno qualcosa al bar, nella pizzeria o semplicemente avranno voglia di conoscere più da vicino questa realtà e chi la vive quotidianamente.
Abbandoniamo il paese e ci addentriamo nel verde dei campi e soprattutto nel giallo delle ginestre, sempre abbondantemente presenti. Ad un certo punto decidiamo di fermarci sotto ad una grande quercia e di stare 10 minuti in totale silenzio, ascoltando semplicemente gli uccelli o il fruscio del poco venticello che ogni tanto muove le foglie. Il silenzio e l’ascolto sono armi potenti, in grado di riallinearci con la natura di cui, ce lo dimentichiamo spesso, siamo parte.
Giungiamo in un piccolo paesino, Castel S. Angelo, frazione di Castelraimondo, dove facciamo una lunga pausa pranzo e dove un simpatico signore ci apre la chiesetta, di cui è il custode.
Il percorso di oggi purtroppo passa per buona parte sull’asfalto, che indurisce e stanca le piante dei piedi. Anche il caldo e l’umidità non ci aiutano.
Passiamo vicino, ma non ci entriamo, al paese di Pioraco. Beatrice, che ci vive e che è in cammino con noi, ci racconta di quando, la notte del 26 ottobre 2016, nella cartiera, si è sfiorata la tragedia perché i pesanti macchinari della fabbrica, con la scossa di terremoto, sono usciti fuori dai binari tirando giù tutta la struttura. Solo per una fortuita combinazione di eventi, in quell’istante gli operai della fabbrica non erano nella postazione di lavoro. Forse una casuale combinazione di eventi, come ce ne sono state tante. Forse è il caso di parlare di miracolo.
Ci fermiamo nella frazione di Seppio, dove l’unico bar è chiuso. Si affacciano però dalla finestra prima il parroco che ci dice che ci ha visto in televisione e poi la signora del bar, la quale ci dice che avrebbe aperto più tardi, ma visto l’eccezionalità ci apriva subito. Una birra è un buon integratore di sali minerali e un meritato premio.
Ancora tanto asfalto e Camerino appare sempre più vicino. Beatrice inizia a cantare la canzone di Jimmy Fontana “Che sarà” perché, mi dice, è stata scritta riferendosi a Camerino. Ci fermiamo alle pendici della città perché stanotte si dorme nel palazzetto dello sport. Domattina avremo la possibilità di visitarla.
Mentre finisco di scrivere questo diario mi trovo in ristorante e non so se è più grande la fame o il sonno.
Sono stanco, ma le gambe hanno retto e l’entusiasmo non manca.
Alla prossima tappa… Passo dopo passo.

… continua

Giorno 3 del #CamminoNelleTerreMutate

Camerino-Fiastra
“RICOSTRUIRE ORA CASE E COMUNITÀ”. È questa la frase che portiamo in giro con uno striscione per le strade e i paesi che incontriamo. Se c’è qualcosa che possiamo imparare dalle zone colpite dal sisma è che non basta ricostruire le case, ma è fondamentale ricucire la comunità. Ed è ciò che ci dice anche Roberta Grifantini, che ci accoglie calorosamente nella città di Camerino. Roberta viveva nel centro storico di Camerino e aveva una parafarmacia. Il palazzo dove viveva ora è inagibile e completamente imbragato con cavi di acciaio e chiavi di ferro. Per due anni la sua attività si è svolta in una tensostruttura: gelida d’inverno e asfissiante d’estate. Ma ha resistito e quello che ci ha chiesto è di parlare con chiunque della situazione di queste terre stravolte dal terremoto. Gli edifici messi in sicurezza a Camerino sono ancora pochi e buona parte del centro storico è ancora zona rossa. Roberta, nonostante tutto, non perde l’entusiasmo quando parla della sua città. Ci ha raccontato della storia gloriosa di Camerino e, commossa, di quando, pochi giorni fa, è venuto il Papa che ha incontrato sindaci, comuni cittadini e ha celebrato una messa. Si scusa con noi per non avere il timbro da apporre sulla credenziale del Cammino, ma ci dice che il suo timbro sarà uno spruzzo di un profumo da lei creato sulla credenziale.
Ci dispiace salutarla e, con la promessa di rispettare la sua richiesta (ovvero parlare delle zone terremotate ai nostri conoscenti) ci incamminiamo in questa nuova tappa. 
Oggi il caldo si è fatto sentire, ma il panorama ricompensava ogni fatica. La vista di un ciliegio pieno zeppo di squisiti frutti è stato motivo di grande soddisfazione per le nostre bocche affamate.
Arrivati a Polverina abbiamo pranzato e poi intrapreso un cammino abbastanza impegnativo in direzione Fiastra.
La rabbia e la frustrazione degli abitanti di queste terre è palpabile e viene esternata in eloquenti scritte addosso agli edifici inagibili.
L’ottima cena completata dai prodotti dai distillati offerti dalla signora Varnelli in persona è stata la giusta conclusione a questa impegnativa giornata che si è conclusa, per i più temerari, a mezzanotte, parlando e discutendo con persone che si stanno attivando per ricucire le ferite del territorio.
Vorrei raccontarvi molto di più, ma è mezzanotte inoltrata e domani la sveglia suonerà presto per affrontare una nuova tappa che si prospetta piuttosto impegnativa. Passo dopo passo…

… continua

Giorno 4 del #CamminoNelleTerreMutate

Fiastra-Ussita
Stamattina siamo stati avvisati che la prima parte del nostro percorso sarebbe stata molto impegnativa e così è stato. Ho dormito poco e male e la ripida e lunga salita nel bosco si fa sentire. È necessario ogni tanto fare una piccola pausa per riprendere fiato, ma alla fine tutti riescono a svalicare la montagna. A metà della salita però la nostra guida ci consiglia di voltarci… Dietro di noi si palesa un panorama incantato, con il lago di Fiastra ai piedi delle montagne. Poco più avanti il panorama si apre ulteriormente e si vede in lontananza, sopra una collina, la città di Camerino. Ci si stupisce sempre voltandosi, perché si rimane increduli di quanta strada si sia percorsa con la sola forza delle proprie gambe.
Superato il monte che sovrasta Fiastra si apre un altro tipo di paesaggio. Stavolta entriamo sempre più nel cuore del parco dei Sibillini e l’imponente Monte Bove si mostra in tutta la sua bellezza. 
Pranziamo nel posto meno ospitale che potessimo augurarci: l’erba è secca e non c’è un metro quadro di ombra. Si riparte così in direzione Ussita, immettendoci in un sentiero in discesa in mezzo al un bosco. Arrivati a valle entriamo nella frazione Sasso di Ussita e il contrasto con il bosco appena percorso è notevole. La prima cosa che vediamo è una casa che sembra esplosa da dentro. Via via che percorriamo la strada asfaltata gli edifici abbattuti o fortemente danneggiati non si contano più. Passiamo di fianco alle SAE, le casette provvisorie dei residenti, e una signora ci chiede da dove veniamo e ci ringrazia dicendo che è una gioia vedere tutta questa gente che passa a piedi. Arrivati a Ussita ci fermiamo al bar per il “terzo tempo” fatto di birre e gelati. I gestori ci accolgono calorosamente e ci raccontano la loro storia, di quanto sia stato difficile durante l’emergenza del terremoto e di quanto sia difficile ora che dovuto ricominciare da capo.
Ma Ussita, come altre terre colpite dal terremoto, è anche la storia di donne tostissime, che non si arrendono e che fanno di tutto per stare sul territorio e ricucire le comunità. C’è Chiara, originaria di Pioraco ma residente da anni a Bologna, che subito dopo il terremoto ha deciso di venire a vivere a Frontignano (frazione di Ussita) e a dare vita insieme ad altre persone a C.A.S.A., acronimo che sta per Cosa Accade Se Abitiamo, una residenza per artisti, studiosi e persone interessate a lavorare sul e per il territorio.
C’è anche Patrizia, una di quella manciata di persone che durante i giorni delle scosse violentissime di fine ottobre 2016 ha deciso di non mollare, di resistere arrangiandosi per mesi in una roulotte.
Questa sera dormiamo al campeggio Colorito. Il signore che ci accoglie ci racconta del giorno della scossa di terremoto: “sembrava una bomba atomica! Dal Monte Bove si sono staccate delle rocce che cadendo hanno creato una nuvola di polvere incredibile. Sembrava la fine del mondo!”
La serata si conclude con un concerto di musica celtica.
Domani si va a Campi di Norcia passando per la mia amata Visso.
Sono stanco e spero di riposare un po’ stanotte. Passo dopo passo…

P.S.: come ci è stato chiesto dai residenti, non pubblicherò, se non in via eccezionale, foto di macerie e distruzione. La spettacolarizzazione non serve. Serve che la gente venga a visitare questi posti di persona e che faccia qualche chiacchiera con i residenti.

… continua

https://www.facebook.com/agostinomarzoli/videos/10218454023409260/

Giorno 5 del #CamminoNelleTerreMutate

Ussita-Campi
Ci sono giorni che quando la sera ripensi al mattino appena trascorso, questo sembra essere appartenuto al giorno prima. Questo è uno di quelli. La tappa è stata lunga e faticosa ma ricca di emozioni.
Abbiamo lasciato Ussita in direzione Visso. Siamo passati per la montagna finché la vista del maestoso Monte Bove non ci ha abbandonato per dare luogo ai territori di Visso. Arriviamo alla grande torre che sovrasta il paese ed entriamo nel centro abitato col solito striscione. Per me Visso non è una sorpresa: lo conoscevo bene prima degli eventi sismici e ci sono stato più volte in seguito. È uno strazio sapere che oltre quelle barriere che delimitano la zona rossa una volta c’era uno dei borghi più belli d’Italia.
Dopo aver pranzato partiamo alla volta di Campi di Norcia. Abbandoniamo la regione Marche per entrare nell’Umbria percorrendo una lunga strada sterrata tutta in salita. Il caldo asfissiante non aiuta per niente a sopportare la fatica, ma una fonte di acqua fredda rianima improvvisamente lo spirito di noi camminatori. Finalmente riusciamo a raggiungere i pratoni sopra le creste dietro il Monte Cardosa. Di nuovo una pausa per mangiucchiare qualcosina e ci tuffiamo lungo un ripido sentiero in discesa dal fondo ghiaioso che mette a dura prova le nostre ginocchia. Finalmente riusciamo a vedere il borgo di Campi. Il paese vecchio, arroccato in alto, è praticamente tutto distrutto. Il nostro campo base per questa sera è il bellissimo agriturismo Fonte Antica il cui proprietario ci accoglie con entusiasmo. La cena è invece organizzata dalle splendide persone della proloco di Campi. La loro struttura è stata soprannominata l’arca di Noè di Campi. Costruita con i migliori criteri antisismici, la struttura nel primo periodo post terremoto ha fatto da casa ad oltre 60 residenti. Oggi, il loro progetto “Back to Campi” è un esempio di forza di volontà, collaborazione e trasparenza. Le signore della proloco ci preparano un’ottima cena e io presidente ci dice che possiamo tornare sempre a Campi e che riceveremo sempre un sorriso e un piatto caldo.
Nella tragedia emergono storie e persone incredibili.
Quindi, se passate da queste parti, venite a visitare Campi di Norcia, andate alla proloco e andate a dormire all’agriturismo Fonte Antica, ne tornerete pieni di positività.
La stanchezza questa sera è davvero tanta. Domani sarà una tappa defaticante che dovrebbe concludersi per pranzo. Ci attende la città di Norcia!
Passo dopo passo…

… continua

https://www.facebook.com/agostinomarzoli/videos/10218461423594260/

Giorno 6 del #CamminoNelleTerreMutate

Campi-Norcia
È mattina e dopo aver fatto colazione presso la struttura della proloco di Campi ci incamminiamo verso Norcia. Campi e i loro abitanti ci sono davvero rimasti nel cuore.
Quella di oggi è una passeggiata defaticante. Infatti prima di pranzo siamo già alla nostra mèta. Entriamo a Norcia come al solito col nostro striscione che recita “Ricostruire ora case comunità”. La gente ci guarda incuriosita, ma quando capisce chi siamo e cosa stiamo facendo spende parole di incoraggiamento e ringraziamento.
Norcia è diventata il simbolo del terremoto di ottobre 2016. Entrare nel centro storico ha un forte impatto emotivo. Aver visto il paese prima del 2016 e rivederlo oggi così ferito è duro da accettare. Ci sono tante cicatrici ma anche tante ferite ancora aperte. La rabbia della popolazione è anche qui evidente. Ci si lamenta per essere stati dimenticati, per aver ricevuto tante promesse non mantenute. Il proprietario del ristorante Nemo, presso cui ceniamo, ci dice che la frase che più odiano è quel “non vi lasceremo mai soli”.
Ora che l’emergenza del primo periodo post terremoto è finita è necessario venire in queste terre, che hanno ancora tanto da dare, e fare sentire agli abitanti la propria vicinanza. Credetemi, ciò ha un valore grandissimo.
Domani sarà una delle tappe che più temo dal punto di vista fisico. Si arriverà a Castelluccio, uno dei miei posti del cuore. Sarà bello e malinconico, lo so.
Spero di immergermi in tutta quell’energia che quel paradiso mi ha sempre dato.
Passo dopo passo…

… continua

https://www.facebook.com/agostinomarzoli/videos/10218476302926234/

Giorno 7 del #CamminoNelleTerreMutate

Norcia-Castelluccio
La tappa che temevo di più dal punto di vista fisico si è oggi rivelata molto meno faticosa di quanto pensavo. Sarà che ormai siamo allenati o sarà che non c’era il caldo asfissiante dei giorni scorsi, ma i 1100 m di dislivello sono passati tutto sommato senza troppa fatica. A farci compagnia quattro simpatici asini.
La salita ci regala un panorama stupendo sulla piana di Norcia. Ma è quando scavalchiamo la montagna che l’impatto della vista è mozzafiato. Davanti a noi, enorme, maestoso ed elegante c’è il Redentore che domina il Piano Grande e tutta la catena dei Sibillini. Sullo sfondo, alla nostra sinistra, spicca quel che rimane di Castelluccio. Il paese, un tempo gioiello inestimabile, è per buona parte polverizzato.
Scendendo nel Pian Grande, una tavolozza di colori ci invade e ci lascia estasiati. È la famosa fioritura di Castelluccio, uno spettacolo che si ripete ogni anno e che attrae migliaia di turisti.
Per me non è una novità in quanto questi sono i miei luoghi del cuore, ma lo stupore e la meraviglia sono sempre gli stessi, come fosse la prima volta.
Stanotte dormiamo in Val di Canatra, dove abbiamo allestito le tende. Mia nonna, classe 1912, mi raccontava che in questo posto gli sposi dei paesi vicini venivano a passare la luna di miele. E ora capisco perché! La volta celeste è uno spettacolo senza uguali, in questo posto in cui i prati si alternano ai boschi.
Qui non c’è connessione internet e questo è un bene. La buonanotte ci viene data dalle melodie del violino di Francesco, che si è unito a noi oggi pomeriggio.
Stanotte penso che sono un uomo fortunato, perché ho già visto e vissuto una parte di Paradiso.

… continua

https://www.facebook.com/agostinomarzoli/videos/10218478939192139/

Giorno 8 del #CamminoNelleTerreMutate

Castelluccio-Arquata del Tronto
Svegliarsi in Val di Canatra ha tutto un altro sapore, come le crostate preparate da Rubinia. C’è chi ha dormito male, chi poco, chi ha avuto freddo e chi, come me, era talmente stanco che non ha avuto modo di provare sensazioni durante il sonno pesantissimo. Nonostante ciò l’atmosfera è sempre positiva e si sorride sempre perché felici di stare facendo questa avventura.
Il giro di boa è stato fatto ed entriamo nella seconda settimana di cammino stanchi ma felici. Ci sono nuovi camminatori che si aggiungono al gruppo e altri, ormai divenuti amici, che purtroppo se ne vanno. Tempo di abbracci e di scambio di telefoni e si parte per questa nuova tappa. Anche oggi il Pian Grande di Castelluccio ci regala uno spettacolo unico con i suoi campi in fiore. Si arriva a Forca di Presta, dove ci rifocilliamo bevendo la fredda acqua del fontanile e riposando un po’. Oggi è tornato il caldo asfissiante, che rende le cose più difficili. Da questo punto in poi ci buttiamo in una discesa a picco per più di 1000 m di dislivello. A volte la discesa è più faticosa della salita, soprattutto se il sentiero ha un fondo sconnesso, la vegetazione lo rende a volte poco percorribile e il caldo non dà tregua. Alle nostre spalle, con le sue rocciose pareti a picco, c’è il Monte Vettore, il re indiscusso dei Monti Sibillini. Il pranzo è leggero e abbiamo modo di conoscere i gestori del progetto Monte Vector, che vi consiglio di vivamente di visitare. Anche loro ci chiedono di farci testimoni di queste terre, dei loro problemi e delle loro bellezze.
Finalmente la discesa finisce ed entriamo a Pretare, frazione di Arquata del Tronto. L’impatto è tremendo. Macerie su macerie caratterizzano ciò che un tempo era il paese. L’unica cosa che sembra rimasta intatta è in realtà l’unica che forse non avrebbe meritato di sopravvivere: un orribile campanile in cemento armato che sovrasta quello che doveva essere un bellissimo borgo. È difficile descrivere tutto ciò che vediamo; sembra uno scenario di guerra. 
A Piedilama la proloco ci dà un caloroso benvenuto facendoci trovare un bel rinfresco che divoriamo in pochi minuti. Anche qui la gente è tosta e resiste contro tutto e tutti.
È sera e la stanchezza sembra sommarsi a quella dei giorni precedenti. Domani si cambia regione e si entra in territorio laziale.
Passo dopo passo…

… continua

https://www.facebook.com/agostinomarzoli/videos/10218486119131633/

Giorno 9 del #CamminoNelleTerreMutate

Arquata del Tronto-Accumoli
La giornata dei contrasti.
La giornata non inizia nel migliore dei modi. Nella notte c’è stata talmente tanta umidità che la tenda è zuppa e i panni che avevo steso li ritrovo più bagnati di quando li avevo lavati. Il mio umore non è dei migliori. Ma in cammino non c’è tanto tempo per lamentarsi; i problemi in qualche modo si risolveranno e, dopotutto, non sono questi i problemi. Passo dopo passo si va avanti verso la nuova mèta.
Giungiamo alle porte di Pescara del Tronto ed entriamo in assoluto silenzio. Non ci sono parole per descrivere cosa si prova nel vedere un cumulo di calcinacci immenso che è venuto giù dal versante della collina. Entriamo nel parco giochi del paese che è diventato il monumento alla memoria delle 52 vittime di Pescara. Ci mettiamo in cerchio stringendoci la mano. A stento si riesce a trattenere le lacrime. Una frase sullo striscione commemorativo recita: “Ora che siete cielo ricordarvi significa avervi accanto e credere che quei momenti non passeranno mai”. Vedo poi la fotografia in un cartello di Pescara prima del terremoto; gli faccio una foto, l’unica che scatto, per ricordarmi com’era un tempo il paese che non c’è più.
Continuiamo per la strada asfaltata con il groppo in gola e nessuno ha voglia di interrompere il silenzio.
Arriviamo a Capodacqua, dove alcune persone di gran cuore ci accolgono calorosamente. Non è solo tempo di pranzo, ma anche di riflessioni.
È tempo di ripartire e ci incamminiamo per un bellissimo sentiero nel bosco fino a giungere, nel comune di Accumoli, presso l’agriturismo Alta Montagna Bio. Qui ci offrono un’ottima birra artigianale locale e Katia ci offre degli squisiti taralli appena sfornati e gustosi assaggi di formaggi e salumi locali. Sarà per via dell’alcool, o perché abbiamo tutti voglia di rilassarci dopo la tensione accumolata, o per l’incredibile positività che ci trasmettono Katia e la sua bella famiglia, il pomeriggio si conclude tra balli, canti e abbracci.
Stasera dormiamo al B&B Lago Secco di Illica e prima di gustare un’ottima gricia, ascoltiamo uno psicologo che si è occupato delle ferite dell’anima di queste comunità.
Anche domani sarà sicuramente una giornata emotivamente impegnativa: si arriverà ad Amatrice, simbolo della tragedia del sisma di quel maledetto 24 agosto 2016.
Passo dopo passo…

… continua

https://www.facebook.com/agostinomarzoli/videos/10218493402753719/

Giorno 10 del #CamminoNelleTerreMutate

Accumoli-Amatrice
Dopo giorni di interminabili salite e discese, oggi una giornata tranquilla: siamo partiti più tardi del solito e il percorso è stato più dolce e breve degli altri giorni. 
Il tragitto si è articolato in un bellissimo sentiero nel bosco. Nelle nostre pause ci sono stati momenti di testimonianze e riflessioni, come la lettura di un estratto del libro “Filosofia del paesaggio” di Paolo D’Angelo.
Giungiamo nel territorio di Amatrice passando di fianco a pavimenti di cemento dove un tempo sorgevano case e vivevano persone. Sono talmente tanti che il rischio è che ci si faccia l’abitudine. Interi agglomerati di case ora hanno solo un basamento circondato dalla rete rossa da cantiere. 
Giungiamo alla frazione S. Angelo e ci sistemiamo nei pressi delle S.A.E.. Franco, presidente della sezione CAI di Amatrice, ci racconta dei soccorsi durante le concitate ore successive a quel maledetto 24 agosto 2016.
Abbiamo modo di visitare la chiesa di S.Angelo, i cui lavori di ristrutturazione erano terminati pochi giorni prima del terremoto e che ora è completamente crollata, portandosi giù anche il prezioso tetto e le numerose opere artistiche al suo interno.
Ma la meraviglia, quella positiva, si ha quando visitiamo il più grande e vecchio cerro d’Europa: una pianta di 640 anni e dal diametro di più di sei metri. Abbiamo un senso di rispetto assoluto verso quell’essere che è sopravvissuto a intere epoche. Quando ci accingiamo ad abbandonare il sito incontriamo un signore in macchina con un bambino: ci dice che suo figlio è il primo nato dopo il terremoto!
Ad allietare la squisita cena preparata dagli abitanti di S.Angelo (manco a dirlo con una superlativa amatriciana), la presenza di Paolina, amatriciana di 102 anni!
Domani si parte presto e si visiterà Amatrice capoluogo. Sarà ancora una giornata ricca di forti emozioni.
Passo dopo passo…

… continua

https://www.facebook.com/agostinomarzoli/videos/10218501366432806/

Giorno 11 del #CamminoNelleTerreMutate

Amatrice-Campotosto
Oggi la nostra camminata inizia nella città simbolo del terremoto del 24 agosto 2016. Ci raduniamo intorno al monumento dedicato alle vittime: sono più di 200 ed è difficile far fronte alla commozione quando Franco intona il “Signore delle Cime”. Nel paese tante macerie ma anche tanti cantieri in funzione che fanno sperare.
Il cammino prosegue nel bosco con l’incantevole cornice dei Monti della Laga alla nostra sinistra. La meraviglia però si ha quando si apre definitivamente il panorama con il lago di Campotosto in basso e il massiccio del Gran Sasso sullo sfondo. 
Entriamo nel paese di Campotosto e sembra passeggiare in uno scenario da film horror: tutto è decadente e abbandonato. Le macerie si alternano ad edifici che vengono tenuti in piedi da scheletri di legno e ferro. Di Campotosto e degli ingenti danni subiti dal terremoto nessuno ne parla e nessuno ne ha parlato a suo tempo, quando, il 18 gennaio 2017, delle forti scosse distrussero il paese. In quei giorni, però, l’attenzione pubblica era tutta rivolta su Rigopiano. Giungiamo in quella che ora è la piazza di Campotosto dove i lavori a maglia di Assunta fanno bella mostra. 
La serata finisce nel migliore dei modi, tra vino, pasta e stornellatori.
I rapporti tra noi si stringono sempre di più ma comincia a nascere un po’ di malinconia perché questa avventura sta volgendo al termine.
Ho trovato nuovi amici e spero di trovarne altri, sempre in cammino, passo dopo passo.

… continua

https://www.facebook.com/agostinomarzoli/videos/10218508897101068/

Giorno 12 del #CamminoNelleTerreMutate

Campotosto-Mascioni
Oggi è stata una delle tappe più belle e appaganti dal punto di vista paesaggistico. Lasciato il paese di Campotosto ci siamo incamminati fino a salire su un promontorio con una vista a 360 gradi mozzafiato. Intorno a noi le quattro cime più alte di Umbria, Marche, Lazio e Abruzzo: rispettivamente Redentore, Vettore, Gorzano e Corno Grande. Ai nostri piedi il lago di Campotosto.
C’è stato poi un momento speciale, in cui abbiamo condiviso le nostre emozioni e impressioni di questo cammino. Ognuno di noi porterà nel cuore questa esperienza, consapevole di aver fatto qualcosa di molto speciale.
Domani sarà una tappa impegnativa, ma ormai non ci ferma più nessuno. Passo dopo passo…

… continua

https://www.facebook.com/agostinomarzoli/videos/10218521228289340/

Giorno 13 del #CamminoNelleTerreMutate

Mascioni-Collebrincioni
La penultima tappa è stata, come previsto, lunga e impegnativa. Ma è quando i piedi non ne vogliono più sapere e le gambe implorano riposo che si ha ancora la forza di cantare e di scherzare. Perché siamo tutti fratelli e sorelle, protagonisti di un’esperienza unica. 
La tappa è estenuante, ma la vista ripaga ampiamente gli sforzi. Le foto rendono solo minimamente la bellezza dei luoghi che calpestiamo e i panorami che ammiriamo.
Arriviamo a Collebrincioni stanchi morti ma carichi di voglia di festeggiare. Già, perché ormai il cammino sta volgendo al termine e questa è la serata dei festeggiamenti. La cittadinanza ci accoglie con un grande striscione di ringraziamento e ci offre una cena nel campo sportivo. E così ecco che la stanchezza sembra scomparire improvvisamente. È solo stato servito l’antipasto che già ci si scatena in balli sfrenati, che proseguono per tutta la cena e fino a notte inoltrata. C’è poi un momento per celebrare i camminatori che hanno effettuato almeno 8 tappe ai quali viene conferito un attestato: siamo ufficialmente dei “partigiani della terra”. L’orgoglio è alle stelle!
La cena e i festeggiamenti sarebbero finiti ma non si sa come i più temerari riescono a trovare ancora un po’ di benzina per giocare a pallone e ballare fino alle 3 del mattino.
Domani si arriva a L’Aquila e sarà il momento della gioia ma anche della malinconia. Vorremmo che tutto questo non finisse mai.
Passo dopo passo.

… continua

Giorno 14 del #CamminoNelleTerreMutate

Collebrincioni-L’Aquila
Conclusioni e riflessioni sul Cammino Nelle Terre Mutate.

Ho atteso un po’ di tempo prima di scrivere la pagina di diario di quest’ultima tappa del cammino. Le tante emozioni e i tanti pensieri avevano bisogno di un tempo di decantazione.
Più di una persona, al mio annuncio che avrei fatto questo cammino, mi chiese il perché avevo deciso di fare questa esperienza. Camminare nella natura e in montagna è l’unica attività fisica che faccio volentieri. Da sempre strenuo sostenitore della staticità, trovo nel trekking un valido motivo per muovermi, in quanto posso godere di paesaggi che altrimenti non potrei ammirare. Ma fare un cammino è un’esperienza per certi versi molto differente dal semplice escursionismo in giornata a cui ero abituato. In cammino bisogna fare i conti non solo con la fatica fisica, ma anche con quella psicologica. Finita la camminata non si torna svelti a casa per una doccia ed una meritata dormita. Bisogna pensare a montare la tenda, a lavare e stendere i panni, a farsi una doccia, a cenare. E così la mattina seguente bisogna disfare la tenda, risistemare il bagaglio ecc. Il cammino ti dà anche la possibilità di passare molto tempo con te stesso e con gli altri e quindi a conoscere, conoscersi e condividere. Ma perché ho scelto di fare proprio questo cammino? Mesi fa, su internet, lessi un articolo che parlava di questo Cammino nelle Terre Mutate: era un nuovo cammino, che percorreva la dorsale appenninica passando per le zone colpite dai terremoti degli ultimi anni e che si concludeva a L’Aquila. Comprai subito la guida e sentii come una chiamata, una voce che mi diceva che dovevo fare quell’esperienza. Ho un amore viscerale per i monti Sibillini, dove ho trascorso molte vacanze della mia vita e dove ho le mie radici. Gli eventi sismici che hanno colpito quei posti magici hanno rafforzato il mio rapporto con loro. Ho pensato che ho ricevuto tanto da quelle terre e dai loro abitanti e che questo cammino potesse essere un mio umile e piccolo modo per sdebitarmi e fare la mia parte. Ma ancora una volta sono stato io a ricevere tanto da queste terre. Il fatto poi che il cammino si concludeva alla basilica di Collemaggio era come la chiusa di un cerchio: nel 2009, anno del terremoto a L’Aquila, ero studente del conservatorio la cui sede era proprio di fianco a quella basilica. Ricordo ancora benissimo lo sgomento, la disperazione e il dolore provati in quei giorni successivi al terremoto. Ricordo i miei compagni di studio che improvvisamente si trovarono senza più un tetto sotto cui dormire e che piangevano la perdita di un amico o di un parente.
Dovevo in qualche modo dare una risposta a questa chiamata. Ho così deciso di partire, aggregandomi a questa Lunga Marcia. L’entusiasmo era a mille, ma anche la paura faceva la sua parte: “sarò in grado di fare questo cammino?” era la domanda che più mi tormentava. Ma per una volta ho deciso di buttarmi in un’esperienza totalmente nuova. Anche dormire in tenda per me era una novità.
Chi ha seguito questo mio diario quotidiano del Cammino, può essersi fatto un’idea delle sensazioni che ho avuto e di come sia andata. Ogni mia aspettativa è stata ampiamente superata. Personalmente non credo di aver superato i miei limiti, ma semplicemente ho capito che i miei limiti sono molto al di sopra di quanto pensassi. Ho imparato tanto dagli abitanti di quei posti, che amano la propria terra, le proprie radici, le proprie tradizioni sopra ogni cosa e che non mollano nonostante l’indifferenza della politica e dell’opinione pubblica, nonostante i mille problemi, nonostante tutto. Troppe volte si litiga per delle sciocchezze, si è attaccati in modo morboso alle cose materiali. Queste persone mi hanno insegnato che sono poche e semplici cose che davvero contano per vivere serenamente. 
Ho avuto anche l’occasione di condividere questo cammino con persone straordinarie. Vorrei citarle una ad una, ma rischierei di fare torto a qualcuno dimenticandomelo, per cui mi limito a ringraziare di cuore tutti i miei compagni e compagne di avventura che mi hanno dato tanto. Ma un ringraziamento speciale lo devo a tutte quelle persone che hanno organizzato e lavorato fattivamente alla riuscita di questa Lunga Marcia: sono persone che hanno donato tanto del loro tempo e delle loro energie per la riuscita di questa esperienza. Cito solo le associazioni che hanno reso tutto ciò possibile: Movimento TelluricoFederTrek Escursionismo e Ambiente e APE ROMA Associazione Proletari Escursionisti Sezione di Roma.
A noi camminatori è stato conferito il titolo di “Partigiano della terra” di cui vado orgoglioso ma che comporta anche una responsabilità: essere testimone di ciò che è successo in quelle terre e di come è la situazione attuale e di dire a tutti di fare un giro da quelle parti, di parlare con i loro abitanti, di godere di quelle terre, di fare in modo che ci sia una sensibilità maggiore riguardo il tema dei terremoti e dei dissesti idrogeologici.
Spero che questo sia solo il primo di tanti cammini.
Passo dopo passo!

Agostino Marzoli

Tutte le immagini contenute in questo articolo, lì dove specificato, sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright © Agostino Marzoli.

Una delle immagini di copertina è stata presa dal post di Facebook di Cristina Menghini – Guida Ambientale Escursionistica – L’Italia nello zaino




I sette pilastri della saggezza reloaded.

Aeroporto Internazionale Queen Alia di Amman, Giordania. Sono arrivato ma non sono ancora giunto. È un avvicinamento a tappe, lo so. Sognare ma anche soffrire per raggiungere la meta agognata. Come al solito, però, non riesco a gestire l’ansia. Non sopporto il prologo allo spettacolo, lo scorrere dei titoli di testa. Ora in aeroporto e in un batter di ciglia su un dromedario bianco a scorrazzare sulle orme del colonnello Lawrence: no, questo è solo sognare, rassegniamoci, dunque, a soffrire. Prima tappa del percorso di avvicinamento un bruttissimo albergone alla periferia della città dove trionfa il kitsch e l’innegabile cortesia del personale tenta di supplire a piccole ma evidenti défaillances di professionalità, che contribuiscono al consolidarsi di una serpeggiante e disturbante atmosfera di incompiuto, approssimativo, sfavillante solo in superficie: sono ancora molto lontano da dove voglio essere. La mattina dopo continua la tortura. Mi sembra addirittura di allontanarmi ancora di più dal sogno, trovandomi in mezzo ad una caotica cittadina in cui la chiesa greco-ortodossa intitolata a San Giorgio custodisce i resti di un pavimento a mosaico di epoca bizantina che rappresenta in modo mirabile la prima mappa geografica del medio oriente. Non posso non subire il fascino di un rimando così potente alle origini della nostra storia e delle religioni ebraica, cristiana e musulmana, ma l’impressione è che tanto valore storico non sia associato ad un eguale valore artistico. A me questi mosaici non piacciono granché, ed il pensiero corre subito a quelli di Piazza Armerina, una delle tante meraviglie del nostro passato di incomparabile bellezza, stile ed eleganza ignorate dai più nel nostro paese, che ricordo molto più raffinati, meglio conservati ed enormi, se paragonati alle poche tessere che costituiscono il mosaico che sto ammirando sotto, o meglio, davanti ai miei piedi. Ma questa è tutt’altra storia e pensarci non fa che acuire il mio sotterraneo disappunto, la strisciante sensazione di star perdendo tempo, l’angoscia che monta dentro di me per non aver raggiunto ancora la meta e non saper come fare per abbreviare l’attesa. E l’attesa non si abbrevia, si prolunga. Ecco il colpo di grazia definitivo. La meta religioso-turistica per eccellenza. Il pellegrinaggio mordi e fuggi al Monte Nebo, dove Mosè ebbe la visione della Terra Promessa, morì e fu sepolto in un luogo sconosciuto nei dintorni. Al contrario di Mosè io qui la mia terra promessa non la vedo ma sono sicuro di spegnermi definitivamente come lui, qui ed adesso, seppellito dal peso di questo struggimento. Mentre seguo passivamente il gruppo scattando brutte foto dell’ennesima spianata di mosaici all’interno della basilica, come un Bruce Chatwin senza moleskine e senza fascino anglosassone mi domando: che ci faccio qui? Va bene, ora basta. Risalgo in minivan con gli altri e mi impongo serenità, certo che non ci saranno più ostacoli. E il minivan finalmente va, procede tra terre asfaltate e sterrate e al calar del sole la meta è raggiunta. Tutto diventa vero. Mi crogiolo al calore intimo che un misto di soddisfazione e serenità mi regala, calore che supera di gran lunga la calura esterna: si apre davanti a me il Wadi Rum.

Il primo appuntamento come al solito è all’alba. Io sono un fotografo, non un turista. Certo, apprendista fotografo, ma senz’altro non un semplice backpacker. Io qui, ancora una volta sotto la guida del prode e valente Riccardo, ideatore e tour-leader degli ScenicLandscapePhotoWorkshop, sono venuto per imparare a fotografare “l’infinito”, come dice lui. E io di lui mi fido. Franco Fontana, il più grande di tutti per me, non ha mai fatto mistero della sua scarsa propensione a fotografare alla pur splendida luce dell’alba. Vista la difficoltà con cui mi sono svegliato alle 4 del mattino, mi sento sempre più vicino al grande maestro, ma comunque tonico, concentrato e certo che proverò grandi emozioni. Le mie certezze non crollano nonostante il freddo pungente della notte desertica e la sofferenza del mio fondoschiena, continuamente sollecitato dagli sbalzi sulle panche esterne del pick up che si fa largo tra la sabbia e le rocce del Wadi Rum, che per il momento scorgo appena. Eh già, perché il pick up è il dromedario dell’epoca moderna. Il deserto del Wadi Rum, nel 2018, non è più la terra dei Beduini, affascinante popolo nomade che dal deserto ha saputo trarre la propria fonte di sussistenza attraversandolo in lungo e in largo a dorso di dromedario. O meglio, i Beduini ci sono ancora, ma sono perfettamente integrati nella macchina acchiappaturisti, come oggi è ridotto questo deserto millenario, e animano le tante attività ricreative ammantate di uno sbiadito alone di “autenticità” che si offrono al turista estasiato: tour sulle orme di Lawrence, concerti di esasperante musica araba, cerimonie del tè nel deserto, ecc. Quindi, pick up, jeep e SUV tanti, dromedari pochi e spelacchiati, tanto da sembrarmi loro fuori contesto, una reminiscenza posticcia di una realtà che non esiste più. Al sorgere del sole comincia lo spettacolo, anche se la luce non è eccezionale. Una velatura di nubi stratificate rende l’orizzonte lattiginoso, polveroso, piatto. Non mi scoraggio. Mi dedico soprattutto ad osservare, capire, interpretare. Questo è il valore aggiunto di questi workshops fotografici. Il fotografo paesaggista professionista cerca di farti vivere la meraviglia del suo mestiere. Ti spinge innanzitutto a conoscere il paesaggio che vuoi ritrarre, camminandoci dentro, girando lo sguardo a 360° gradi, inquadrando prima con gli occhi e poi con la fotocamera. E tu capisci che una buona shooting session può nascere solo dopo questo processo di immersione nella realtà che ti circonda e ti affascina. Nella luce lattiginosa di questa prima alba nel Wadi Rum, mi incammino dunque lentamente, zaino in spalla e cavalletto in mano. In questo luogo maestoso, solido di rocce così imponenti da formare, susseguendosi le une alle altre, piccole catene montuose, vivo l’estraniante sensazione di essere contemporaneamente al centro della terra e su un altro pianeta, radicato nel presente, immerso nel passato e proiettato nel futuro. Sì, la caratteristica più sconvolgente di questo luogo è l’immutabilità. Ne sono convinto anche quando lo sguardo mi cade sugli emblemi della modernità che rendono oggi facile a chiunque, anche agli apprendisti fotografi, violentare con la propria presenza futile e passeggera questo immenso regno dell’eterno, dove tutto è cominciato e, forse, tutto finirà. Le automobili, al posto dei dromedari, i campi tendati con aria condizionata al posto dei ripari di fortuna dei Bedu e le bottiglie di plastica a mischiarsi con i sassi e ad insozzare la sabbia millenaria, non riescono minimamente ad indebolire la confortante serenità che l’immensa distesa di rocce e sabbia genera nel mio animo. Con l’irrompere della luce del sole, ora un po’ più vicino allo zenit, si squarcia la velatura caliginosa che ne aveva accompagnato il manifestarsi. Le rocce diventano color dell’oro, la sabbia si tinge delle mille sfumature del rosa, del bianco e del grigio.

Ogni cosa è illuminata. Jonathan Safran Foer è venuto nel deserto del Wadi Rum per ispirarsi? Non credo, ma sarebbe stato felice, penso, di constatare qui, come in nessun altro luogo, la manifestazione inequivocabile, fisica, tangibile della sua intuizione: il presente delle nostre vite è illuminato dalla luce del passato. E cosa c’è di più fisico, di più tangibile, concreto e, allo stesso tempo, evocativo dei Sette Pilastri della Saggezza? Sì, esistono davvero. Non sono solo il titolo di un romanzo o di un film. Non sono stati creati in cartapesta dalla maestranze di Hollywood. Eccoli di fronte a me in tutta la loro maestosità e precisione architettonica. Sembrano infatti costruiti. Sette guglie di una cattedrale neolitica. Il santuario, il luogo sacro dove è custodito lo spirito del Wadi Rum.

È tutto qui, in questo momento: passato-presente-futuro con me stesso nel mezzo, anch’io parte di questo paesaggio millenario insieme a rocce grandi, piccole e minuscole, vortici di sabbia, e sparuti cespugli.

La figura grande circondata da mille piccoli oggetti come in un disegno di Pericoli, cartone animato con la potenza descrittiva del più crudo dei reportage, incrocio tra sogno e realtà.

E mentre guardo, fotografo. Con calma, con accuratezza, cercando di includere il mondo in un mirino. E magicamente, con l’ultimo scatto, nel mio mondo entra una mongolfiera, che sorvola indolente le rocce e la sabbia e mi aiuta a salutare con un sorriso l’alba che se ne va.

Ma non c’è tregua per il fotografo professionista. E nemmeno per chi aspira ad esserlo. Alba-Tramonto: questo è il binomio che scandisce il tempo. Si può scattare solo all’alba ed al tramonto. Si cerca la luce dell’alba e del tramonto. Tutto quello che conta succede all’alba ed al tramonto. Si riesce a sognare solo all’alba ed al tramonto. E se il Wadi Rum all’alba è lo spettacolo della luce che colora il mondo, al tramonto è il regno della solitudine e del silenzio assoluti. Me ne accorgo all’improvviso. Circondato da tanta maestosità, sono solo. Mi sono distaccato lentamente ma inesorabilmente dagli altri. È una solitudine che non rattrista, che appaga, che permette di concentrarsi sul sé per entrare ancora più in contatto con gli altri. Tutto intorno a me è molto più solido e compatto rispetto a stamattina. Metri e metri di sabbia uniformemente arancioni. Grossi massi simili a dolmen che sembrano piovuti lì dal passato più remoto e non siano più stati spostati, e probabilmente e così.

Non c’è un alito di vento. L’aria si rinfresca mentre il sole cala lentamente e le ombre delle rocce si allungano sulla sabbia, che ormai è ocra. Vorrei rimanere qui fermo, seduto, per sempre. Per un attimo mi immagino ad una piccola scrivania, uno scratch book sul piano di legno ed un tronchetto di grafite in mano, a disegnare un paesaggio che mi include mentre disegno, come negli immaginifici gorghi surrealisti di Magritte. Ma l’arancione quasi marziano della sabbia e delle rocce mi suggerisce di stare all’erta per non essere investito dai mostruosi insetti-elefanti di Dalì o da Matt Damon, che si dirige lentamente alla guida del suo router verso il Cratere Schiapparelli, da dove lascerà Marte per ricongiungersi ai suoi compagni di missione.

E penso, solo per un attimo, che qui vorrei sempre ritornare, come ha scritto Sven Lindqvist, a proposito del deserto del Sahara, da lui attraversato sulle tracce dei grandi esploratori del passato. Qui vivrei, lui scrive, senza essere disturbato dalle complicazioni umane, senza amore ma anche senza dolore. Il pensiero è fugace. Il delirio onirico presto si estingue, risolto dall’ineffabile guida bedu che richiama la mia attenzione sulla possibile presenza di serpenti in quella zona del deserto, e mi invita a riavvicinarmi al pick up per sorbire il profumatissimo che ha avuto l’onore ed il piacere di preparare per il manipolo di intrepidi apprendisti fotografi. Con malcelata ansia, ritorno velocemente sui miei passi e raggiungo il focolare su cui l’acqua per il bolle in un maxi-teiera, che sicuramente sarà stata maneggiata anche da Lawrence d’Arabia in una pausa delle sue scorribande nel Wadi Rum a dorso di dromedario per sostenere la causa della rivolta araba. Ed ora, nella calma del tramonto inoltrato, il silenzio interrotto solo dalle chiacchiere divertite e sommesse del gruppo davanti alla teiera fumante, mi sento improvvisamene vicino al grande condottiero: anch’io, come lui,  ho compiuto un’impresa e ho vinto una sfida, non contro l’oppressore ottomano ma contro me stesso. E chissà se anche lui, seduto al focolare a prendere il tè con il principe Faysal dopo la conquista di Aqaba, sarà stato felice come me.


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono soggette a copyright 
© Alberto Manno.




Dal “gelo” sovietico.

Era una rilassante giornata di settembre a Ischia. Isola che avevo preso l’abitudine di frequentare ogni anno, per dedicarmi a un totale relax dopo un anno lavorativo. Ma ahimè, nella fretta dei preparativi, non avevo portato con me nulla da leggere. Ok!  Senza perdermi d’animo, vado nell’unica e abbastanza scarna libreria vicina all’albergo. Osservo, guardo, memorizzo una serie di titoli ma nulla attirava la mia attenzione. Poi eccolo, la copertina lasciava poco spazio all’attrattiva e forse, proprio quello, attirò la mia curiosità. Non conoscevo l’autrice e accolsi la scommessa. Inutile dire che è uno dei miei romanzi preferiti. Quelli che non si dimenticano, che ti entrano dentro, quelli che il mio fidanzato (ora mio marito) è stato single per tutta la restante vacanza! Parlo di Il Cavaliere d’inverno” di Paullina Simons, scrittrice russa, ambientato nell’Unione Sovietica durante l’assedio di Leningrado.

Mi ritrovai immersa in un implacabile inverno, dove l’assedio nazista stringe la città in una morsa, riducendola allo stremo. Mi immedesimai in uno spaccato di vita di una famiglia sotto persecuzione, nel 1941, in una Leningrado comunista. Tra le poche parole pronunciate a mio marito in quella settimana, annovero: “Amore, ad Aprile andiamo a San Pietroburgo!”. Conoscendomi, si arrese alle circostanze.

Aprile è arrivato e, con ancora nel cuore le emozioni della lettura, mi accingo a prendere l’aereo diretto a Mosca, dove avrei soggiornato pochi giorni, per poi dirigermi a San Pietroburgo. Mi ricordo ancora quelle emozioni durante il volo. Avrei respirato la stessa aria di Anna Karenina, avrei visitato i luoghi di cui tanto avevo letto dei Romanov, l’ex famiglia imperiale sterminata nella rivoluzione di ottobre del 1917. Ero curiosa di conoscere questo grande popolo che ha avuto un significativo ruolo nella sconfitta del Terzo Reich e che ha osato sfidare la potenza degli Stati Uniti d’America. Il mio cuore era gonfio, direi tronfio, di una spasmodica necessità di immergermi nella fierezza e determinazione di una grande nazione.

L’impatto mentre mi dirigevo verso Mosca fu subito assai deludente. I primi palazzi incontrati furono i Kommunalki (appartamenti in comune). La coabitazione di estranei nello stesso appartamento è un fenomeno unico e tipicamente russo. Nell’osservarli un velo di tristezza mi avvolse. Arrivammo all’albergo che avevo scelto con novizia di aspettativa.  Il Grand Victoria, ex ministero comunista trasformato appunto in un hotel a 5 stelle. A parte gli enormi spazi, un odore strano aleggiava e tutto era vecchio e fatiscente. Ho pensato … cominciamo bene! Ok Barbara non perderti d’animo. Domani Mosca ti aspetta!

Il giorno è arrivato. Pronta per la giornata comincio il tour. Ogni angolo era pieno di militari, ogni metro che percorrevo era un riferimento alla due guerre mondiali. I parchi e le piazze erano zeppe di cannoni, carri armati, simboli comunisti e di pietre commemorative.

cannone

Il mio stato d’animo era abbastanza provato. Pensai … ma qualcuno li ha informati che la guerra è finita? Non parliamo poi dello spirito di accoglienza che ho trovato … rasente allo zero! Per porvi un esempio, un tassista tenne il finestrino aperto per tutto il tragitto (e vi assicuro che ad aprile a Mosca le temperature non sono propriamente estive). Beh caro, tu sarai pure russo ma noi romani ne abbiamo fatta di storia. Quindi, mantenendo il sorriso (aiutata dall’istantaneo congelamento facciale) pagai e salutai educatamente. Ed eccola davanti a me la Piazza Rossa.

Piazza Rossa

Respirai a pieni polmoni e cominciai a camminare pensando alle persone che l’avevano popolata in preda a uno spirito nazionalistico di tutto rispetto. A colpo d’occhio subito sono stata attirata dalla coloratissima cattedrale di San Basilio, una splendida testimonianza delle tante chiese ortodosse che abbelliscono la città.  

San Basilio

Anche qui, partecipando a una funzione, io e mia madre ci siamo ritrovate zuppe di acqua a seguito della benedizione con uno scopettino di saggina. Inutile dirvi che ormai avevo la sicurezza di tornare a casa con una polmonite fulminante.

Mi dirigo poi al Mausoleo di Lenin.

Ed anche qui non manca la locale calorosa accoglienza. Prima di entrare siamo stati controllati da poliziotti armati, così ligi che mancava mi togliessi anche i vestiti. Poi con fare arrogante ci indicarono un cartello “tenere un contegno rispettoso mentre si è all’interno del sepolcro, non scattare fotografie o effettuare videoriprese, non parlare, fumare, tenere le mani in tasca, indossare cappelli o guanti” (menomale avevo il cappuccio del k-way). Ho pensato: “va beh, dài, almeno puoi camminare eretta”. Si entra in un passaggio buio e angusto, con una scalinata stretta, dove a ogni scalino ai lati c’era un militare. Erano così immobili da sembrare di cera, tanto che nel mentre mia madre mi sussurrava qualcosa uno di loro fece “SHHH!” e ci partì un urlo terrificato. Ok calma, procediamo. Massimo rispetto per questo rivoluzionario politico che non immagini però essere nella realtà un uomo tanto minuto ed esile. Dopo queste non proprie rosee premesse decidiamo di andarci a svagare al GUM, imponente palazzo che occupa tutto un lato della Piazza Rossa difronte al Cremlino.

GUM

È un centro commerciale dove sono presenti molte marche di lusso e della moda. Come sempre l’aspetto fatiscente dei luoghi non manca e anche qui i russi danno una sana “botta di vitalità”. Ad ogni dieci metri, più o meno, al primo piano c’erano enormi teche con le foto dei dispersi nelle guerre mondiali mentre, giusto per dare leggerezza, al secondo piano quelli dei deceduti nelle diverse battaglie. Bene! Ma l’ottimismo non manca … Il giorno successivo, raggiante e curiosa mi dirigo al Cremlino.

Bello a livello architettonico, peccato che non ci abbiano fatti entrare. Menomale che all’esterno c’era la famosa campana dello zar, commissionata dalla sovrana Anna, nipote di Pietro il Grande. Almeno un senso lo abbiamo dato.  Ma non demordo. Ora è il momento di andare a sbirciare i vari spettacoli al teatro Bolshoi. A parte lo sporco, trascurato, ai limiti dell’abbandono, non c’era traccia di nulla. Chiediamo: chiuso non si sa fino a quando. Ed ecco che le mie immagini delle talentuose e flessuose ballerine russe scemano miseramente.

Mai arrendersi! Ora si gioca duro. Prossima tappa Museum of Cosmonautics, alla scoperta dei più importanti successi sovietici nell’esplorazione spaziale. Il tutto gettato alla rinfusa, sporco, pieno di polvere e cavolo … mettetecela una luce in più, così tanto per riuscire a vedere oltre le ombre dei vari oggetti. Anche il veicolo Sojuz, facente parte del programma russo Luna, è lì gettato in un angolo, abbellito da un inguardabile pupazzo raffigurante un astronauta tenuto da un fil di ferro.

Sojuz

Ho pensato … e che cavolo anche gli anni dell’esplorazione lunare sono andati a farsi benedire! Addio ai sogni di gloria della cagnolina Laika e al primo uomo a volare nello spazio Jurij Alekseevi? Gagarin.

Ed arriviamo all’esperienza più terrificante della mia vita. Prendere un Tupolev “bara volante”, con 100 incidenti e 3100 morti, come testimonianza della sicurezza della compagnia aerea (informazioni acquisite dopo).

Tupolev

Beh le cappelliere, non dotate di sportelli, hanno fatto sì che al momento del decollo ci sia stata la fluttuazione di ogni sorta di bagaglio che, una volta presa quota, ha generato la riconsegna tra i vari passeggeri delle rispettive borse e valigie. Almeno un po’ di spirito di comunità l’ho provato finalmente! Ci mancava il segno di pace e potevamo morire felici!

Ed eccoci arrivati a San Pietroburgo.

Osservare il Mar Baltico, camminare nei canali costeggiati da sontuosi palazzi. Osservare, dai suggestivi ponti, il fiume Neva, rendendo la città sinuosa ed elegante. Il campo di Marte, uno stupendo giardino che costeggia il fiume. Per poi arrivare a lui … l’Hermitage … il Palazzo d’inverno, edificio che faceva parte della reggia imperiale che per due secoli ospitò la famiglia degli zar Romanov.

Finalmente! Mi sono figurata la famiglia reale, ho scorso Anna Karenina che faceva parte dell’alta società di San Pietroburgo, ho intravisto Tatiana ed Alexander de Il cavaliere d’inverno e, perché no, non sono mancati i protagonisti di Guerra e Pace, sempre del mio adorato Tolstoj. Il cerchio finalmente si è chiuso. Missione compiuta! Ciò che si prova al suo interno è una magia che appartiene a ognuno di noi, nel privato, nel viaggio temporale che si vive. Tutto si anima, gli occhi si saziano e l’immaginazione viaggia senza frontiere, senza appartenenza. Le collezioni di arte, all’interno, scalfiscono tutte le differenze … si diventa il tutto nel tutto.





Impressioni dalla Birmania

Ci sono quei viaggi inaspettati e non programmati verso mete non considerate. Era il 2007 e, come di consuetudine, per aprile, ero alla ricerca di qualche buona offerta. Quell’anno avevo scelto la Thailandia di cui tanti racconti avevo ascoltato. Mi sono imbattuta in un’agenzia locale, che, lessi poi, organizzava anche tour per la Birmania. Qualcosa è scattato e mi accordai di ricevere un programma per questo paese tra i più poveri e meno sviluppati del pianeta, piegato da decenni di embarghi internazionali ed isolamento economico e sociale. Solo la mia testardaggine mi ha permesso di partire dopo lungaggini burocratiche, richiesta del visto, in un paese militare dove poco era lasciato al caso per entrare nel loro “mondo”. Eh già, perché un mondo a sé ho trovato dove tutto era alieno da quello a cui ero “assuefatta”. Non sto qui a parlare dei siti che ho visitato in venti giorni, per questo basta farsi un giro dei vari pacchetti su internet.  Ma ciò che mi ha sconvolto sono state le lacrime mentre ero in aereo per tornare a Roma.

Essere assorbita da quella umanità, bontà, gentilezza e genuinità. Guardare negli occhi quelle persone, ai limiti dell’indigenza, ma serene, pacate e curiose. Essere continuamente avvicinata da quel calore umano, ricevendo da tutti carezze e benedizioni. Quei bambini con i loro sorrisi sdentati ma con quegli occhi già adulti.

Barbara con i bambini

A ogni passo respiravo una strana sensazione di sacralità. Nei profumi, nei paesaggi cheti, silenziosi, con un fascino mistico. Dove tutto sembrava immobile e allo stesso tempo pregno di un viaggio interiore che purifica e rasserena. Tante volte mi son ritrovata seduta in qualche tempietto buddista a respirare, osservare e immagazzinare quanto più possibile quell’ “ossigeno” così sano e giusto.

Buddha
Donne giraffa Myanmar.

Il tempo si ferma. Tutto si svolge in tempi vitali in cui di tutto si gode, dove tutto si “riumanizza”. Dal pilota che si presenta in infradito e giacca di pelle. Nell’attesa degli aerei (ben 12 ne ho presi), dove si partiva quando a vista qualcuno decideva e dava l’ok. Dove se pioveva ok, valigie per terra, una sigaretta con i militari aereoportuali.

Sparita la frenesia, il legame con l’orologio un ricordo lontano. Internet vietato e linee  telefoniche mobili praticamente inesistenti. Ci si avvaleva di lunghe chiacchierate di storie di vita, di speranze di questa popolazione attratta dal nostro benessere, dalla nostra conoscenza, ma allo stesso tempo fieri e custodi fedeli del loro Paese con una storia difficile.

Relax

Passeggiare nei vari mercati, un’esperienza unica. Cibi tutti da scoprire (alcuni sinceramente non ce l’ho fatta, come i molto comuni lombrichi vivi da sgranocchiare per un veloce snack).

Lombrichi.

Colpisce la lavorazione antica di ogni cosa. Tutto quello che ho acquistato era preparato lì per lì, da artigiani e tessitori. Passavano le ore nell’osservare i vari procedimenti, metodici, lenti ma precisi, dei variegati prodotti, anche gastronomici.

Una tessitrice.

Le lunghe passeggiate silenziose al ciglio dei tanti canali di cui è composto il paesaggio.

I canali birmani.

Eh i fiori. Miriadi di fiori con i quali abbellivano ogni luogo sacro. Osservare quelle spose “bambine” emozionate e così dolci addobbate a festa per l’occasione. E gli sposi che avevo denominato “gli sbarbati”, ragazzetti giovani e pieni di vita, tronfi però della conquista e della nuova vita che si accingevano a iniziare.

Interminabili e scomodissimi spostamenti in macchina, con il naso perennemente rivolto al finestrino dove scorrevano tanti paesaggi, foreste, paludi. E sorridere del continuo strombazzare, perché sì, i birmani sono chiassosi quando guidano!

In viaggio.

La fatica è stata tanta ma avevo sempre modo di rifocillarmi di un po’ di forza. Anche il più sperduto dei residence era da mozzare il fiato per la cura dei particolari, della vegetazione e ruscelletti da cui erano caratterizzati.

Il ricordo indelebile del mio arrivo a Yangoon.

Yangoon
Una ragazza a Yangoon.
Templi a Yangoon.
Interno di un tempio ad Yangoon.

Dopo una soddisfacente colazione, zaino in spalla e occhiali da sole, pronti a proteggermi dal sole cocente, mi sento inondare di acqua. Acqua buttata a secchiate da tutti, ridevano, sghignazzavano che ridevano, sghignazzavano. Un momento di sconcerto e, non vi nego, celato di paura. Forse che i turisti erano così odiati in questa metropoli?  Tra gli scrosci e schizzi riesco a fermare dei ragazzi che tirandomi la maglietta da dietro mi avevano inondato la schiena … “ehi ma che succede“? Fortunatamente con un loro inglese molto approssimativo capisco … è il Capodanno Birmano.  Chiamo la mia guida, che ancora dovevo incontrare e, mi spiega, che per loro è la festa della liberazione, la più importante, il momento in cui si lava via, ci si purifica dei peccati dell’anno passato. E ho pensato … cari amici birmani anche questa volta non mi avete delusa. Con tutta l’acqua che ho ricevuto il paradiso è assicurato!!! La guida che una volta arrivata al luogo dell’incontro mi abbraccia e mi fa “sorpresa!”.

Potrei continuare all’infinito… Ognuno di noi dovrebbe percorrere questo viaggio ritrovando cosa sia la vita reale nelle sue piccole cose. Provare per credere! Quello che spero è che tutto ciò che vi ho raccontato sia rimasto intatto all’inevitabile apertura del Paese. Quindi due consigli mi sento di darvi: armatevi di forza di volontà e cercate di andare nei luoghi rurali, anche se scomodi da raggiungere. E andate per Aprile per vivere il fantastico Capodanno!

Buon viaggio!

Sulla strada, i bambini.

Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web e possono essere soggette a copyright, le altre sono coperte dal diritto d’autore © Barbara Bruno




Ho fatto un viaggio – LES SALINS DU MIDI

Ho fatto un viaggio in Camargue, un paesaggio surreale, a contatto con la natura.

In collaborazione con Artevitae, Diatomea è lieta di ospitare oggi Alessandra Bettoni con il suo articolo “Ho fatto un viaggio – LES SALINS DU MIDI”. Buona lettura!

ArteVitae è una rivista online che, come Diatomea, ha lo scopo di divulgare e promuovere l’arte in ogni sua forma e contenuto. L’idea della collaborazione nasce dalla volontà di offrire ai nostri lettori un’assortita selezione di argomenti e contenuti, attraverso la pubblicazione di articoli scelti dalla nostra redazione tra quelli già pubblicati o in via di pubblicazione su ArteVitae, con lo scopo di ampliare e variegare la già ricca proposta editoriale del Blog #diatomea, contaminandola attraverso una forte sinergia tra le due redazioni.


Ho fatto un viaggio. Non ho preso un aereo, non ho portato nemmeno il passaporto, non sono arrivata lì a piedi. Ma sì, ho fatto un viaggio come non mi accadeva da qualche anno a questa parte.

Viaggiare con un van Westfalia del ‘79 ha il sapore dell’avventura. È quasi impossibile fissare un itinerario preciso, si parte con un’idea di massima, possibilmente con una meta da raggiungere, il punto più lontano dal quale poi fare ritorno, e si calcolano le distanze lungo il percorso, in ore di viaggio e mai in chilometri.

VW Westfalia del 1979”

Questa volta la meta è la Camargue. È il sud della Francia, “le Midi”, che offre l’opportunità di immergersi nella natura, spingendosi in una terra ricca di paludi formate sul Delta del Rodano e oasi naturali protette all’interno del Parc Naturel Régional de Camargue.

“Rotolando verso sud” come dicevano i Negrita, si attraversano sterminati prati dove è impossibile perdersi visto che c’è una sola strada, quella strada che percorsa fino in fondo porta al mare. Considerata un’isola accessibile solo attraverso un ponte o via mare, la Camargue è una riserva naturale che si estende su 850 chilometri quadrati ed è l’ultimo tratto di terra che il Grande Fiume, il Rodano, attraversa prima di affacciarsi sul mare.

Si guida proprio fino alla fine della strada per arrivare a una lunga spiaggia dove sostano i camperisti. Il nostro percorso continua invece fino a Saintes Maries de la Mer. L’arrivo in città nel tardo pomeriggio è stato proprio come lo ricordavo.

Piante ornamentali e gazebo esteticamente arredati posti all’esterno del locale, introducono il consumatore in uno spazio dilatato dove domina al centro la macchina tostatrice, un bancone lungo una decina di metri anch’esso in marmo di Candoglia e i consueti tavolini per le consumazioni. Qualcosa che mi ricorda più che altro un’area ristoro aeroportuale, molto distante dalla nostalgica bottega del caffè; il tutto molto glam, naturalmente; un luogo nel quale si passa inosservati: potrei uscire senza pagare e non se ne accorgerebbe nessuno.

Il primo piano è adibito a bar denominato “Arriviamo”, destinato al bere alcolico e analcolico. Direi che non manca niente.

La luce, calda e avvolgente, il vento amabile figlio del più impetuoso Mistral, la chiarezza delle casette imbiancate a calce, il silenzio della città ancora assopita nella “siesta” pomeridiana. È una terra di confine e molto più di altri luoghi lascia assaporare l’incrocio di più culture e genti.

voyageurs tziganes che fino a pochi anni fa abitavano nelle carovane con cui si spostavano tra i mercati di Provenza e Spagna mediterranea si mischiano ai francesi meridionali con i quali convivono. E poi la Spagna, la cui vicinanza geografica è palpabile in ogni dove, tanto che a tratti si ha l’impressione di essersi lasciati la Francia alle spalle e di aver varcato il confine dei Pirenei.

“Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre,
Maria di Clèofa e Maria di Màgdala”.

Giovanni 19,25

La leggenda racconta che Maria di Clèofa e Maria Maddalena sarebbero arrivate in questi luoghi assieme alla serva Sara la Nera, portando il Cristianesimo in Europa. Le statue delle tre Marie a cui la città è intitolata sono conservate nella chiesa fortezza della città, ma è Sara, la Madonna Nera, che viene celebrata a maggio dai pellegrini gitani che da tutto il mondo si radunano qui per una festa, portando in giro la statua e danzando e ballando per le strade.

Un po’ più a nord della città gitana, oltre le bocche del Rodano, emerge dagli acquitrini della regione paludosa la città di Aigues-Mortes. Anche in una giornata infame, con un cielo plumbeo carico di nuvole e qualche scroscio estivo, il borgo circondato dalle alte mura in pietra che rievocano l’epoca dei Templari e delle Crociate riesce a svelare il suo tremendo fascino.

Dall’alto delle mura, percorribili a piedi partendo dalla torre principale di Costanza si può godere dell’affaccio sulle distese paludose circostanti con un primo scorcio sulla salina più grande del mediterraneo che riunisce le compagnie di produzione del sale della regione sotto il nome di Salins du Midi.

Forse vi sarà capitato di acquistare il sale da tavola, quello con la balena, ebbene il sale La Baleineviene prodotto proprio in questa regione, in questa salina che è una delle più antiche.

Le saline, quel luogo dove il mare è rosa. Sono uno spettacolo per gli occhi e per l’anima. Immense distese di acqua salata che per un particolare effetto di una micro-alga assumono questo colore rosa, molto intenso che contrasta con il bianco dei cumuli di sale sulle rive.

“E’ davvero un paesaggio surreale.

Ho fatto un viaggio, solo per questo. E per un soffio di Mistral”.

 


ArteVitae – Quotidiano di Fotografia, Architettura, Design, Arte e Cultura

ArteVitae è il blog collegato al gruppo di fotografia ArchiMinimal Photography e dedicato al variegato panorama artistico. I temi trattati spaziano dalla fotografia alla pittura, dall’architettura al design, dal teatro al cinema, dalla TV alla musica. Ogni giorno è live con notizie di arte, cultura, storia e lifestyle, novità e recensioni, attinte dalla quotidianità ma anche dal passato. Offre spunti di lettura ai suoi 7000 lettori ogni mese, attraverso l’approfondimento di argomenti impegnativi, trattati con la leggerezza e la semplicità che avvicinano e coinvolgono. Un ambiente sofisticato ed elegante aperto a tutti, agli addetti ai lavori come ai semplici amatori. http://artevitae.it/


Tutte le immagini ed i video contenuti in questo articolo sono disponibili per gentile concessione dell’autore, e sono coperte dal diritto d’autore ©Alessandra Bettoni