OSCAR NIEMEYER “L’architettura è il mio hobby, una delle mie allegrie”

Oscar Ribeiro de Almeida de Niemeyer Soares – Rio de Janeiro, 15 dicembre 1907

Dopo essersi laureato come ingegnere ed architetto nel 1934 all’Escola Nacional de Belas Artes presso l’Università Federale di Rio de Janeiro, si unisce ad un gruppo di architetti, tra cui Lúcio Costa, uno degli esponenti di spicco del Modernismo, nel cui studio inizia a lavorare ancor prima di concludere il percorso universitario. Questo incontro diventa un sodalizio che dura per tutta la vita e rappresenta anche la matrice della sua formazione professionale specialmente perché grazie a lui entra in contatto con Charles-Edouard Jeanneret, meglio conosciuto come Le Corbusier.

Quando il Movimento Moderno poteva già contare architetti e urbanisti di fama mondiale, era solito che gli stessi venissero invitati a studiare le diverse possibilità di riorganizzazione e di crescita dei centri urbani delle grandi città. A Rio de Janeiro, dopo Alfred Agache, architetto, urbanista e pittore francese, è la volta dell’architetto svizzero naturalizzato francese, che viene chiamato, nel 1929, a collaborare proprio con Lùcio Costa al progetto dell’Università di Rio de Janeiro. E quando Niemeyer e Lùcio Costa, insieme ad altri, ricevono l’incarico nel 1936 di realizzare la sede del Ministero dell’Educazione e della Sanità a Rio de Janeiro, decidono di rivolgersi proprio a Le Corbusier perché assuma il ruolo di consulente.

Questo progetto, insieme a quelli sviluppati nel decennio successivo, sono paradigmatici per la costruzione delle basi del linguaggio moderno in Brasile, tanto da essere considerati opere fondatrici dell’architettura moderna brasiliana e da conferire loro il pregio di essere esempio di una perfetta sintesi tra il linguaggio razionalista e la plasticità poetica autoctona.

“Oscar, tu hai le montagne di Rio negli occhi”

Le Corbusier

Le lezioni di Le Corbusier risultano facilmente accettabili ed appropriate al momento storico-politico che il Brasile sta attraversando: gli incentivi ed i sussidi del governo di Getúlio Vargas sono rivolti al controllo sociale piuttosto che alla libertà artistica, alla burocrazia in grado di stimolare la prosperità della Nazione invece di una visione futura di emancipazione culturale. Vargas è lo stesso che nel 1937, dopo aver revocato molte delle libertà alle singole persone, instaura una dittatura di ispirazione fascista che dura fino al 1945, fino a quando viene deposto da un colpo di stato militare che impone l’adozione di una nuova Costituzione democratica e federale. Niemeyer riveste un ruolo fondamentale come architetto nel processo di partecipazione per la trasformazione della città e cerca di superare il dilemma della dipendenza dello sviluppo artistico del Brasile alle forme e all’ideologia europea, applicando, alle teorie razionaliste di Le Corbusier, delle trasformazioni non sostanziali in virtù delle esigenze che il luogo richiedeva: i pilotis sono più alti; i brise-soleil mobili, per un’estetica più libera; il tetto giardino culmina con volumi puri curvilinei; l’inserimento dei rivestimenti in ceramica decorata e colorata, gli azulejos, tipica della tradizione coloniale portoghese. 

Indicato da Lúcio Costa nel 1938 per il progetto del Grand Hotel de Ouro Preto, nel centro storico di una delle città coloniali più importanti del Brasile, Niemeyer entra in contatto con le autorità di Minas Gerais e dell’allora sindaco di Belo Horizonte, Juscelino Kubitschek de Oliveira, figura politica che accompagnerà per molti anni la professione dell’architetto. La sintonia tra i due è talmente forte che culminerà, tra il 1957 ed il 1960, nella costruzione di Brasilia, la nuova capitale del paese, progettata nell’entroterra desertico del suo territorio nel momento in cui Kubitschek divenne presidente della nazione.

Ma Niemeyer, a differenza di Costa, che è molto legato alla tradizione artigianale portoghese, ha una vocazione che non tarda a palesarsi decisamente autorale e moderna, e progetta architetture che si rivelano identificabili per la libertà con la quale affrontano la relazione tra il volume e la struttura, tra l’architettura e la città. Come i suoi maestri è un Modernista ma la sua ricerca di architettura lo porta ad elaborare nuove forme ed “inventare lo spettacolo dell’architettura

“Ho sempre accettato e rispettato tutte le altre scuole di architettura: dal freddo e le strutture elementari di Mies van der Rohe all’immaginazione e al delirio di Gaudí. Devo progettare ciò che mi fa piacere in modo naturale legato alle mie radici e al paese della mia origine. La mia architettura ha seguito i vecchi esempi: la bellezza che prevale sui limiti della logica costruttiva. Il mio lavoro procedeva, indifferente alle inevitabili critiche mosse da chi si prende la briga di esaminare i minimi dettagli (…) Basti pensare a Le Corbusier che mi diceva una volta mentre ero sulla rampa del Congresso: “Qui c’è l’invenzione”.

riflessione di Niemeyer in merito alla sua poetica


Nel 1940, Kubitschek commissiona a Niemeyer il disegno di una serie di edifici, noti oggi come il complesso di Pampulha e con il progetto della Chiesa di San Francesco ad Assisi, Niemeyer mette a punto il proprio linguaggio architettonico, caratterizzato dall’uso in cemento armato a faccia vista ed il ricorso a forme curve e macchie di colore date dal blu.

“Non è l’angolo retto che mi attrae, né la linea diritta, dura, inflessibile, creata dall’uomo. Quello che mi affascina è la curva libera e sensuale: la curva che trovo sulle montagne del mio paese, nel corso sinuoso dei suoi fiumi, nelle onde dell’oceano, nelle nuvole del cielo e nel corpo della donna preferita. Di curve è fatto tutto l’Universo, l’Universo curvo di Einstein.”

Si legge che il prefetto, dopo aver visitato con Niemeyer il sito di Pampulha, gli abbia chiesto di consegnare il progetto complessivo del nuovo bairro per il giorno seguente e che Niemeyer vi abbia lavorato tutta la notte nella sua camera del Grand Hotel di Belo Horizonte, portando a termine in quella stessa notte il progetto d’insieme del complesso distribuito attorno al lago artificiale: uno yacht club; un casinò che, a causa della proibizione del gioco, durante il governo di Eurico Gaspar Dutra, viene convertito nella sede dell’attuale Museo di Arte Moderna; una sala da ballo. Niemeyer sorprese senza dubbio il prefetto che ricordava così il risultato della storica notte: “Mi sorprese con idee nuove, evidenti in quel mare di fogli di carta. Non avevo mai visto un edificio con una rampa al posto di una scala e ancor meno pareti di vetro invece che in mattoni. Accettai immediatamente lo schizzo.”

Lo studio dei volumi e la relazione che si crea tra le forme sono i primi passi verso il superamento del purismo in favore di virtuosismi costruttivi che caratterizzeranno le opere dell’architetto. La centralità del tema è il personale approccio integrativo al modernismo attraverso un’architettura che esplora la “forma libera”e plastica: la piastra ondulata di copertura, la facciata formata da due trapezi rettangolari di diversa altezza, la vitalità dei materiali e dei colori, diventeranno dei canoni del modernismo brasiliano. La dialettica tra gli elementi diversi e opposti, sarà uno dei caratteri inconfondibili della sua architettura: ortogonalità e curve, pieno e vuoto, opaco e trasparente, materialità e leggerezza, immagine reale e immagine riflessa.

Conjunto da Pampulha
Iate clube da Pampulha. La facciata formata da due trapezi rettangolari di diversa altezza, denominata “telhado borboleta” (telaio a farfalla), di impiego particolarmente appropriato in ambiente tropicale, a differenza della copertura piana di stretta osservanza del movimento moderno, diventerà uno dei canoni del modernismo brasiliano.
Chiesa di San Francesco d’Assisi. L’impiego di volte autoportanti in cemento armato ne costituisce il tema centrale: il materiale è usato per la prima volta con grande sicurezza plastica e strutturale. Alcuni elementi evidenziano ancora la chiara influenza di Le Corbusier, la scala elicoidale anzitutto. Un’opera chiave per il movimento moderno internazionale e un faro per la libertà di creazione.

Il tentativo di far convivere la radicalità del movimento moderno e la ricchezza simbolica- figurativa della tradizione barocca e della storia artistica brasiliana, è l’idea di modernità alla base dell’architettura brasiliana tra gli anni ’30 e ’50.

“Se si fanno opere in serie, ripetitive, non si è architetti, ma operai: e questo perché, dal mio punto di vista, l’architettura è invenzione e, in quanto invenzione, è arte.”

Oscar Niemeyer

La linea curva inizia a prendere forma.

La sua sperimentazione si impone a livello mondiale negli anni ’50-’60 con opere come l’Edificio Copan a São Paulo e l’Edificio Niemeyer a Belo Horizonte in cui l’originalità delle sue linee rotonde e la ricerca sulla funzione mista di giganti oggetti urbani che si inseriscono nel tessuto urbano trova il suo culmine.

Il continuo inno alla curva non va interpretato come un imperativo formale, al contrario, esso va inteso come una perenne indagine attenta alla forma e la relazione visiva che essa produce negli occhi di chi la guarda. Niemeyer ha sempre volto il suo sguardo verso un’architettura della distanza, del territorio, della città. Una delle sue più grandi lezioni è l’attenzione per l’uomo e la fiducia nell’architettura che, pur non essendo una panacea a tutti i mali, rappresenta una possibilità per il futuro.

“Uno dei problemi più gravi dell’architettura attuale è quello dell’unità urbana. Si tratta dell’armonia tra gli edifici, volumi, altezze e spazi liberi che costituisce l’architettura della città”

Oscar Niemeyer

Niemeyer spiega bene nei suoi scritti come le relazioni tra l’edificio e la città vengano prima del linguaggio delle singole parti e questo dovrebbe chiarire una volta per tutte l’equivoco che ha accompagnato le sue opere per decenni, ossia l’essere lette come un insieme di forme libere, citazioni alla terra e alla donna.

Lo stesso vale se ci si concentra sull’oggetto. Nonostante sia stato aspramente criticato da parte di architetti e teorici europei legati al Razionalismo, dietro la sua architettura c’è un’intelligenza costruttiva fuori misura.
Le sue forme conferiscono rigidezza alla struttura e stabilità all’intera costruzione.
Le sue forme libere non sono mai delle mere leziosità plastiche o decorativismi.

Con capolavori quali le opere progettate e costruite a Brasilia, Niemeyer ha dimostrato di non essere solo un maestro della modernità ma anche un pionere del post-moderno e, a tutti gli effetti, un architetto contemporaneo.

Brasilia, Congreso nacional, 1958

Il rapporto tra Niemeyer e la politica è sempre stato molto forte e la grandiosità monumentale dei suoi progetti concedeva un’immagine moderna a uno Stato che promuoveva lo sviluppo. Da sempre è un intellettuale impegnato e nel 1945 entra nel partito comunista brasiliano restandone fedele fino alla morte, è vicino a Luís Carlos Prestes e Fidel Castro e questa scelta politica si riflette anche sulla sua professione tanto che il suo lavoro viene spesso duramente criticato ed osteggiato soprattutto durante la dittatura militare brasiliana. È proprio nel 1964, anno del golpe militare che darà origine alla dittatura per vent’anni, che l’architetto è costretto, anche se volontariamente, ad abbandonare il Brasile ed emigrare in Francia, dimostrando che mentre i movimenti artistici nella musica, nel teatro, nel cinema e nella pittura sfociano in aperte contestazioni al regime, l’architettura, senza un patrocinio dello Stato, entra in crisi. Brasilia diventa il simbolo del potere militare lasciandosi alle spalle il motivo per cui è nata, ossia quello di essere un laboratorio di un nuovo modello di società.
Il ministro dell’aeronautica dell’epoca riportò il fatto dicendo che “il posto per un architetto comunista è Mosca“.
Fidel Castro una volta disse: “Niemeyer ed io siamo gli ultimi comunisti su questo pianeta

Durante l’esilio scrive un libro: “Il mondo è ingiusto” edito Mondadori e costruisce importanti opere nel mondo tra cui la sede del Partito Comunista Francese a Parigi e la sede della casa editrice Mondadori a Segrate.

«L’architettura dovrebbe poter essere goduta da tutti, ma spesso soltanto i ricchi hanno l’opportunità di farlo. L’architetto lavora per i ricchi, per i governi, per le imprese, un tempo lavorava al servizio di prìncipi e re, e i poveri sono segregati nelle favelas in condizioni di vita assurde […] L’architettura è solo un pretesto. Importante è la vita, importante è l’uomo, questo strano animale che possiede anima e sentimento, e fame di giustizia e bellezza»

Oscar Niemeyer, Il mondo è ingiusto

Al suo rientro in Brasile, le sue opere si spostano per lo più a San Paolo, divenuto centro industriale finanziario del Paese. Tuttavia, lo spirito meno populista e il manierismo poco tollerato in favore del contestualismo regnante, fanno di Niemeyer il rappresentante di un mondo moderno ormai sepolto. Le contraddizioni sociali sempre più evidenti e l’estrema povertà che dilaga nel Paese, trovano uno spiraglio di luce nella chimera di uno sviluppo più razionale ed organizzato delle città.

Ma da buon combattente, Niemeyer aspetta e rinasce con una vitalità ancora più forte, proprio quando la lezione modernista è in tempi di ripresa, all’inizio del nuovo millennio. Riesce a recuperare il suo prestigio nazionale ed internazionale.

Negli Stati Uniti vince nel 1988 il premio Pritzker, il Nobel dell’architettura.
Nel 1996, riceve il Leone d’Oro della Biennale di Venezia e la Gold Metal del Royal Institute of British Architects nel 1998.
Nel 2000 disegna il progetto dell’auditorium di Ravello, inaugurato nei primi mesi del 2010.
Nel 2001 riceve l’UNESCO alla Cultura.
Nel 2004 gli è conferito il Praemium Imperiale per l’architettura.
Nel 2005, è stato inaugurato dalla Tim l’auditorium del Parco Ibirapuera a San Paolo, un progetto del 1954 rimasto per anni chiuso nel cassetto.

Ha esercitato la professione per più di 70 anni ed ha progettato più di 500 opere architettoniche. È stato scultore, designer e scrittore.

Oscar Ribeiro de Almeida de Niemeyer Soares – Rio de Janeiro, 5 dicembre 2012

Oscar Niemeyer nel suo ufficio sulla spiaggia di Copacabana a Rio de Janeiro nel 2003.
Foto Sergio Moraes. Reuters

“L’architettura è il mio hobby, una delle mie allegrie: creare la forma nuova e creatrice che il cemento armato suggerisce, scoprirla, moltiplicarla, inserirla nella tecnica più d’avanguardia. Questo è per me inventare lo spettacolo dell’architettura”.


La maggioranza delle immagini contenute in questo articolo sono state prese da Fundacao OSCAR NIEMEYER e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright.




La Qualità del Progetto è un valore

Sembra che in molti, compresi noi  progettisti, lo abbiano però dimenticato.

Infatti, la logica che oggi purtroppo guida molte operazioni speculative legate alle trasformazioni urbanistiche del territorio, possiamo dire che è sempre la stessa. Prima si certifica l’impossibilità di recuperare e riqualificare quartieri, in particolare quelli delle tante disastrate e dimenticate periferie italiane che, qualche anno fa, si erano meritate anche l’attenzione dell’architetto Renzo Piano con un progetto/programma denominato e poi diventato famoso come “il rammendo delle periferie”. Poi naturalmente, dopo i primi mesi di entusiasmo e di annunci con roboanti casse di risonanze per la comunicazione, non sappiamo più che fine ha fatto questo programma. Mentre continua a succedere tranquillamente tutto quello che è sempre successo. In poche parole si giustifica una inattuabile operazione di recupero con il pretesto dei costi eccessivi, non sempre reali, per poi sostenere, invece, una più remunerativa e completa demolizione e ricostruzione o la realizzazione di nuovi insediamenti “compensativi”, in altri luoghi da urbanizzare. Una logica che permette al potere politico di chiamare al capezzale del territorio ammalato, i medici delle grandi società di costruzione, che poi sono quasi sempre i proprietari di questi terreni. Soluzioni che, noi pensiamo, non abbiano più nessuna ragion d’essere di fronte ai disastri odierni compiuti dal potere economico-finanziario che spesso si immola al dogma neoliberista della crescita infinita. Queste soluzioni non possono più trovare giustificazioni dal punto di vista urbanistico ed architettonico perché in un nuovo modello di sviluppo o in una nuova idea di città non dovrebbe essere più consentito disattendere le aspettative di qualità della vita di quelle persone che, come tutti, hanno il Diritto di vivere degnamente i luoghi e gli spazi delle nostre città, al di là della loro collocazione sul territorio. In nome di quei sacrosanti diritti, alcuni sanciti anche dalla nostra Costituzione, ma soprattutto di quelli che potremmo chiamare Diritti per vivere degnamente la propria vita.

 

Diritto ad una Sostenibilità Ambientale.

Diritto ad un Risparmio energetico con l’uso delle Energie Rinnovabili.

Diritto ad una Riqualificazione di territori e strutture dismesse o abbandonate.

Diritto ad una Qualità diffusa dell’Architettura.

Diritto ad una migliore qualità della vita.

 

Inoltre siamo fermamente convinti che questo grande processo di rinnovamento, prima di tutto culturale, debba per forza coinvolgere il Progettista (Architetto, Ingegnere, Urbanista) che da sempre, con o senza complicità, ha avuto il compito di rappresentare, attraverso l’architettura, il “potere dominante”,  sia esso politico, finanziario che religioso, come la storia ci ha testimoniato. Ma purtroppo oggi le sorti di interi Paesi dipendono invece dal PIL e dall’ammontare del Debito Pubblico, Grecia docet, per cui prima o poi potrebbe toccare anche noi come Comunità europea, in questo momento alle prese per esempio con il Corona Virus e con tutto quello che comporterà. Quindi possiamo affermare che non c’è più nessun aspetto (culturale, etico, sociale e soprattutto politico) in grado di contenere o condizionare il potere economico-finanziario. L’unico capace, nonostante la crisi in cui ci ha fatto precipitare, di orientare scelte di natura architettonica ed urbanistica. Ecco perché diventa assolutamente necessario parlare di “qualità della Progettazione” per cercare di combattere “l’ingiustizia distributiva” che affligge le nostre città. Ecco perché, facendo appello ad una assunzione di responsabilità connaturata alla sua figura, il Progettista rimane l’ultimo “baluardo” che, con la bontà e la qualità del progetto, può porre un argine a questa deriva. Anche per recuperare, all’interno di qualsiasi percorso progettuale, quel ruolo di protagonista che spesso, con la sua complicità, gli è stato cancellato dalla Committenza Pubblica-Politica-Affaristica, prima e da quella Privata-Economico-Finanziaria adesso.

 





IL RUOLO DELL’ARCHITETTURA [Post Covid-19]

Da tempo il ruolo dell’architettura si è andato man mano
restringendo verso direzioni considerate poco credibili se non, addirittura,
superflue. Schiacciata dalla continua pressione economica, la categoria
professionale degli architetti sta soffrendo un depauperamento del proprio
ruolo in un contesto così ampio che va dal design di interni alla progettazione
urbana a grande scala.

Perché sia accaduto questo non è chiaro. Si potrebbe pensare
alla continua e silenziosa perdita di idee in chiave progettuale o anche
all’estrema velocità del tempo di trasmissione dei dati che fa sì che un
prodotto diventi obsoleto dopo soli due anni e che si vadano sempre ricercando
isolati fenomeni spettacolari a discapito di un’architettura intesa come
organizzazione umana, come capacità di fruizione da parte del cittadino, come
dialogo, come supporto alle condizioni di vita e di lavoro dei singoli.

Il tema dell’ultima Biennale di Architettura 2018 è stato Freespace e, dalla visita dei Padiglioni, è emerso chiaramente che la tendenza dell’architettura oggi sia quella di concentrare l’attenzione sulla qualità dello spazio generato da opere costruite o non costruite, materiali o immateriali, tutte, comunque, rivolte a riconsiderare l’Oggetto costruito non più come una scatola chiusa bensì come uno sfondo che regola ed agisce sulla dimensione urbana in cui si inserisce. Basti pensare a City Life a Milano in cui gli “Oggetti” vanno al di là del progetto stesso che li ha generati e fanno da sfondo alla partecipazione attiva della comunità promuovendo l’incontro e definendo la forma del luogo in cui sono inseriti. Penso alle parole dell’architetto Gio Ponti che, nel suo libro Amate l’Architettura, parla dei grattacieli di Mies van der Rohe a Chicaco (che lui chiama “blocchi”) come dei “meravigliosi cristalli ad elementi ripetuti che possono essere sublime ingegneria. L’architettura è nella loro composizione che determina una figura finita, immodificabile”

Sembra fuori contesto in questo momento storico parlare di Freespace, di luoghi di incontro, di invito alla socializzazione, di immodificabilità della forma, di promozione dell’interconnessione tra le persone. In una certa misura lo è, e lo è in quella in cui forse è arrivato il momento di capire che noi professionisti dobbiamo rientrare nell’Oggetto e dobbiamo rioccuparci dell’Architettura con un approccio che “aderisca alla legge del mutamento e privilegi gli spazi interni” come ci insegna Bruno Zevi, dove un approccio inorganico e classicista che parte da schemi e volumetrie prefissate, lasci il posto a una visione dell’Architettura che “rispettando e potenziando l’individuo, stimoli il pluralismo”.

Perché, se da una parte è insindacabile che l’architettura
si occupi di dare forma ai luoghi in cui viviamo, è altrettanto certo che sia
essa stessa uno strumento sociale, un mezzo che si interpone tra l’agire privato e le relative conseguenze pubbliche e lo fa a cominciare dall’Oggetto
stesso che, per primo, deve rispondere alle necessità del singolo e della
collettività.  

RITROVARE IL PROPRIO RUOLO

Gli architetti, ma non solo, tutti i professionisti che hanno a che fare con la progettazione sono chiamati in questo momento storico di emergenza pandemica a ritrovare il proprio ruolo e a riflettere su quello che sta accadendo. Se c’è un aspetto fondamentale, in questa situazione di emergenza e di isolamento in cui il mondo intero versa in questi mesi, è quello di saper cogliere quanto ci si debba mettere in discussione e quanto si possa fare per dare al progetto la capacità di affrontare in maniera seria i problemi logistici a cui ci siamo trovati di fronte. In questo senso il ruolo dell’architettura ha modo di riacquistare il valore che ha sempre avuto e cioè quello di delineare e regolare il complesso rapporto tra l’idea e l’etica, tra la bellezza e la funzionalità, tra la forma e lo spazio, tra la struttura e la funzione. Leggo molti articoli riguardanti il lavoro dell’architetto ai tempi della quarantena ma, al di là di tutto, ricordiamoci che siamo inseriti in un mondo in cui la digitalizzazione ha mosso i suoi passi ormai più di venti anni fa e nel quale ci siamo piegati prima, e adattati dopo, nello sfruttamento massimo dei sistemi di aggiornamento. Io direi di cominciare a parlare di quello che sarà il lavoro dell’architetto post Covid-19, di quanto cambieranno le abitudini delle persone e di quanto sarà necessario leggere, in prospettiva, le odierne attuazioni che non solo tarderanno a scomparire, ma regoleranno le future interconnessioni sociali.  

Quello di cui parlo è ripensare alle diverse forma di
socialità e di controllo della stessa, al rapporto che cambierà tra il pubblico
e il privato, alla scoperta, ri-scoperta e ri-adattabilità degli spazi. Le
dinamiche degli spazi comuni
cambiano quando il contatto tra le persone è negato e la realtà a cui siamo
sottoposti richiederà un ripensamento della rigenerazione dei luoghi sia sotto
il profilo urbano sia sotto quello di fruizione dell’Oggetto. Partendo dalla
condizione di isolamento, la prima casa,
il luogo che per molti di noi ha avuto un ruolo di appoggio quasi fugace dopo
intere giornate passate fuori al lavoro, in linea con questi anni di
accelerazione ed estrema mobilità, assumerà una nuova attenzione in termini di
vivibilità degli spazi che per molti diventeranno multiuso grazie allo sviluppo
dello smart working. I servizi
scolastici necessiteranno di nuovi investimenti per le infrastrutture digitali in modo da rendere possibile un adattamento
in accessibilità. Molte delle strutture monofunzionali dovranno essere
ripensate e riutilizzate in vista di un approccio alla funzione che sia mutevole e mutante. Le strutture ristorative, quali bar, ristoranti e tutte quelle di
aggregazione sociale, lì dove la “shut-in-economy” (ossia l’economia al chiuso)
non sarà sufficiente a garantire un volume di affari proporzionato ai costi di
gestione del locale e del personale, vedranno una riprogettazione dello spazio
pubblico pensato per un numero limitato di persone   e saranno regolate da norme
igienico-sanitarie più restrittive che dovranno tenere conto di zone filtro tra
quelle di servizio e quelle dei clienti. Il fermo della mobilità ci ha posto di fronte alla riappropriazione da parte della
natura di luoghi che le erano stati negati dall’uomo; di contro, sta
dimostrando che non è influente sul tasso
di inquinamento
che ancora si sta registrando nelle principali città, come
Roma e Milano, e che a fare la differenza sono le temperature ancora basse che
richiedono l’utilizzo degli impianti di riscaldamento. Non solo, consideriamo
che gli stessi edifici rappresentano
un potenziale elevatissimo nel raggiungimento degli obiettivi di contrasto al
cambiamento climatico, è bene che una volta per tutte sia chiaro che
l’architettura ha una grande responsabilità in merito e che è arrivato il
momento che gli investimenti siano rivolti all’utilizzo di materiali e
tecnologie adeguate al raggiungimento dell’abbattimento delle emissioni di CO2
.

L’architettura dovrà far fronte a tutte queste necessità,
dovrà rivedere le priorità e ripensare alle soluzioni.

IL TEMA DELLA CITTÀ. UNA NUOVA GESTIONE DEI PROGETTI TERRITORIALI

Se da una parte è vero che viviamo in ambienti più ricchi di
“dati aperti”, i cosiddetti data urban,
frutto di una tendenza all’urbanizzazione sempre più diffusa nel mondo,
soprattutto nei paesi in via di sviluppo, come l’Africa e l’Asia, è altrettanto
vero che “la città che dopo mezzo secolo
di accuse e critiche era stata rivalutata come luogo primario della nostra
evoluzione, sembra non essere più il contenitore adatto per la gestione
strategica di progetti territoriali complessi
” – dice Giacomo Biraghi,
esperto internazionale di strategie urbane. La città andrà ripensata non solo
sulla base delle visualizzazioni interattive, che rivelano come le metropoli si
comportano e come le persone interagiscono con l’ambiente urbano in cui vivono,
o del concetto di “Smart City”, incentrato sull’efficienza e le prestazioni
ottimali legate ad essa, perché le azioni umane non sempre sono quantificabili
e prevedibili; senza alcuna demonizzazione in merito, ritengo che nessuna
tecnologia intelligente sia in grado di valutare gli effetti sociali della
cultura e della politica, né valutare l’importanza dell’impegno civico ed etico
delle persone, tantomeno in questo momento, in cui l’effetto sociale della
pandemia cambierà in maniera importante il modo del vivere comune. Quello che
si dovrà progettare nel potenziamento, invece, sono le aree esterne alle città,
di cui molte, ad oggi, non dispongono neanche di una connessione Wi-Fi stabile.

La gestione dei progetti territoriali dovrà interessare soprattutto la mobilità, il monitoraggio e il ripristino di tutte le infrastrutture a supporto della stessa, magari studiata per appoggiarsi maggiormente alle fonti rinnovabili”- dice Stefano Boeri.
Le statistiche degli ultimi giorni dicono che nell’immediato post coronavirus, quando la quarantena sarà finita, non ci sarà una repentina ripresa delle attività legate al tempo libero e, dal punto di vista economico, questo sarà un problema per le imprese. Solo il 3% degli intervistati ritiene plausibile l’idea di viaggiare all’Estero a breve termine, se non costretti dal lavoro, e questo in prospettiva potrà essere letto come una possibilità di potenziamento della rete di collegamento tra le varie Regioni d’Italia, delle loro strutture ricettive, degli interventi integrati per la crescita e l’interconnessione tra esse. Dedichiamoci a ricostruire i territori, ripartiamo da lì.

LA PROGETTAZIONE DEGLI EDIFICI

Gli edifici sono responsabili del 36% di tutte le emissioni, del 40% di energia, del 50% di estrazione di materie prime nelle Ue, del 21% del consumo di acqua”, dichiara la GBC Green Building Council Italia nel cui Manifesto pone in evidenza il peso che il settore delle costruzioni ha nelle emissioni di CO2 . Dal momento che l’Europa è impegnata concretamente a rendere l’impatto ambientale pari a zero, è bene che il New Green Deal, il nuovo patto verde, sia il punto di partenza per fare in modo che gli obiettivi energetico-ambientali si integrino con quelli economici-sociali. In Italia abbiamo bisogno di monitorare le prestazioni degli edifici e di adottare un protocollo energetico ambientale che detti delle regole e che sia assolutamente alla base delle nuove progettazioni e del riutilizzo delle esistenti. L’architettura ha bisogno di potenziare la cultura dell’efficienza, della sostenibilità, della gestione circolare dei materiali, dei componenti, del cambiamento e delle trasformazioni climatiche.
L’architettura ha un ruolo sociale e sociologico e quando l’architettura crea l’Oggetto, disegna il luogo, dà un contributo all’ambiente e fa contemporaneamente qualcosa per le persone, allora l’architettura ha trovato la propria essenza, l’espressione evoluta per cui è nata, il proprio ruolo.

Racconta
David Chipperfield, nuovo Guest Editor di Domus per l’anno
2020, dopo aver incontrato Renzo Piano nel suo studio a Parigi: “L’interesse per le prestazioni, la
tecnologia e la costruzione non è fine a se stesso. Piano ha sempre considerato
il ruolo sociale dell’architettura come sua ragione d’essere
”.

Fare architettura significa costruire
edifici che respirano, che non consumano troppa energia, anzi, che vivono in
simbiosi con l’ambiente. Siamo di fronte ad una nuova frontiera espressiva del
progetto. Fatta di leggerezza, trasparenza e sensibilità
” – dice lo stesso Renzo
Piano in un’intervista al Corriere della Sera.

RIENTRARE NELL’OGGETTO

Tanti sono gli edifici di cui si potrebbe parlare, ma visto il momento che stiamo vivendo, parto dal tema della sanità e nello specifico dal tema degli ospedali. In questi giorni sono state tante le persone a cui ho sentito dire che il problema più grande dell’emergenza sanitaria è costituita dagli enormi tagli alla sanità che il Governo ha fatto negli ultimi venti anni. È innegabile che sia così ma non credo che sia questo il problema del collasso delle strutture sanitarie. Nessuno poteva prevedere una pandemia del genere e nessun Paese sarà in grado di gestire dei numeri così alti con le sole forze che hanno regolato, fino ad oggi, le dinamiche quotidiane in fase di “normalità”. Quello che può cambiare, invece, in assenza di un numero elevato di terapie intensive, è la riorganizzazione interna dello spazio ospedaliero in cui le sale possano assurgere a diversi tipi di trattamento in base alle necessità.

Converto in idee progettuali un’interessante intervista che Mario Cucinella ha rilasciato al Sole 24ore: gli spazi delle sale operatorie devono rispondere al cambiamento di utilizzo così da essere agevolmente spostate, così come gli spazi delle sale delle degenze, in modo da potersi adattare facilmente alla necessità del cambiamento delle cure in fase di emergenza; la flessibilità nella riconversione dei reparti è fondamentale per la gestione da parte del personale sanitario e di conseguenza per la gestione ottimale del paziente; quando un Pronto Soccorso si sviluppa tutto su un piano, al piano terra, chi entra è accolto in base alla gravità della situazione e trova subito cura perché l’intero piano è dotato delle svariate specialità di emergenza, si rende il lavoro di gestione più fluido e si fa un dono del “tempo” al paziente, che a volte si traduce in secondi e non in minuti o ore; le entrate e le uscite devono avere percorsi separati in modo da non far entrare in contatto le persone malate con quelle sane, questo riduce di gran lunga le possibilità di contagio.

Questi sono solo alcuni degli aspetti che un progettista deve prendere in considerazione e forse rientrano anche in quelli più banali ma quello a cui voglio arrivare è che, ancora una volta, ci troviamo di fronte al concetto che quando l’architettura crea l’Oggetto o ne ridisegna il contenuto agendo  contemporaneamente anche sulla fruizione da parte delle persone, allora l’architettura ha trovato la propria essenza, l’espressione evoluta per cui è nata, il proprio ruolo.

Una buona progettazione può favorire la gestione delle grandi emergenze? La risposta è sì.
La flessibilità è una questione morale, non un solo un fatto tecnico”. R.P.


In Copertina Visiera protettiva ©Aaron Hargreaves / Foster + Partners
Anche il mondo dell’architettura e del design si mobilita per fronteggiare la pandemia da coronavirus.
Numerosi studi di progettazione si sono infatti improvvisamente trasformati in centri di produzione per la realizzazione di visiere protettive e mascherine dimostrando che l’arma vincente in questa situazione di emergenza che non vede confini geografici, è il potere della collaborazione e della condivisione per cui talvolta il sapere e la tecnica di un singolo diventano strumento di ulteriore approfondimento per molti. È il caso di due big dell’architettura come lo studio BIG di Bjarke Ingelse lo studio Foster+Partners fondato da Sir. Norman Foster, che hanno studiato dei prototipi di visiere protettive per poi decidere di divulgare schemi e modelli sul web per chiunque, da ogni parte del mondo, avesse mezzi o creatività per reiterarli partecipando a questa grande realizzazione collettiva

Fonte: Archiportale articolo del 10/04/2020


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright. Copertina: ©Aaron Hargreaves / Foster + Partners




1996 L’Incontro con un maestro

L’Arch. Giorgio Mirabelli con il Maestro Umberto Mastroianni

L’Amministrazione che in quegli anni governava Roma, guidata dal Sindaco Francesco Rutelli, promuove un Concorso Internazionale di Architettura denominato “Le Piazze di quartiere”, più conosciuto come “Le cento Piazze”, che si propone, appunto, di recuperare un numero importante di piazze ben definite e conosciute, ma anche alcuni spazi e luoghi molto diversi e meno noti, all’interno dell’area metropolitana di Roma. Luoghi da riqualificare e da riportare verso quell’idea di spazio pubblico più o meno attrezzato e quindi di Piazza, come spazio deputato all’incontro e ad un uso collettivo e condiviso dei cittadini.

Proprio qualche settimana fa l’Ordine degli Architetti di Roma ha ricordato con un incontro quel Concorso, con la presentazione anche di un libro realizzato dalla Casa Editrice dell’Ordine, con tutti i progetti vincitori, curato dallo stesso Ordine di Roma. Erano presenti, naturalmente, l’ex Sindaco Rutelli ed il suo ex Assessore all’Urbanistica Cecchini. C’era anche l’ex Presidente dell’Ordine di Roma Schiattarella e l’attuale Assessore all’urbanistica di Roma Montuori, in una sala più o meno numerosa tra ex partecipanti come noi e di vincitori di quel Concorso, in un clima di revival anche un po’ nostalgico, da “amarcord” e pacche sulle spalle, condito da un generoso buffet finale, che non guasta mai, ed è sempre garanzia di partecipazione.

Nonostante tutto devo ammettere di avere un bellissimo ricordo di quel Concorso, pur non avendo ricevuto nessun premio o riconoscimento. Perché partecipammo con un gruppo alla cui guida, in qualità di capogruppo, c’era l’amico Arch. Francesco Mazza e composto oltre che dal sottoscritto, dagli Architetti Lucilla Brignola, Giorgio Datseris e dal giovane collaboratore Emiliano Del Frate. Per quanto riguarda la figura di Consulente artistico richiesta nel Bando, il Capogruppo Mazza mette a segno quello che in tutti i sensi possiamo chiamare un vero “colpo da maestro”. Attraverso una sua amicizia riesce ad avere un appuntamento con Umberto Mastroianni, uno dei più grandi scultori ed artisti italiani del Novecento.

Nato a Fontana Liri, provincia di Frosinone, dopo aver girato e vissuto in varie parti d’Italia e dell’Europa, alla bellissima età di 86 anni, viveva a Marino nel Casino di caccia della famiglia Colonna che era diventata la sua casa ed il suo laboratorio. Artista dotato di grande personalità, ma anche di sottile ironia, si divertiva spesso a dire che lui era più conosciuto per essere lo zio di Marcello Mastroianni uno dei più famosi attori italiani. Cosa del tutto vera, ma sapeva benissimo di essere diventato famoso e di essere un punto di riferimento nella storia dell’arte italiana e non solo, perché, come scrisse Maurizio Calvesi nel 1993, su un inserto del giornale Il Messaggero di Roma, tutto dedicato a lui:

“Umberto Mastroianni nella forma astratta ha espresso una poderosa forza plastica, tipica della grande scultura di tutti i tempi. La sua forza non è affatto indegna dello stesso ricordo di Michelangelo, a cui si può persino ricondurre, idealmente, il contrasto di “finito” e “non finito”, che Mastroianni ha reinventato negli anni dell’Informale. Il celebre “non finito” di Michelangelo altro non è che il drammatico affiorare della materia allo stato grezzo, in alcune parti della scultura, mentre altre si presentano compiutamente modellate. Mastroianni alterna a lucide forme astratte, geometricamente definite come piani che riflettono la luce, zone matericamente informali, scabrose e intrise d’ombra, in una grandiosa evocazione di processi genetici e formativi, di quasi vulcanica irruenza”.

Dopo i convenevoli di rito e relative presentazioni, spieghiamo al Maestro quale era la nostra idea di riqualificazione dello spazio che avevamo scelto e che si trovava in una zona periferica di Roma tra Via Palmiro Togliatti e la via Casilina con attacco diretto a Viale dei Romanisti, nella zona di Torre Spaccata. Uno spazio ampio e mostriamo al Maestro, anche con un certo timore, una prima idea di sistemazione di questo spazio/piazza. Un’area in parte pavimentata che veniva divisa in due zone, con destinazioni e funzioni diverse, rompendo il disegno regolare di tutto quello spazio, la cui parte centrale diventava il punto d’incontro più importante di tutta l’area.

A questo punto Mastroianni si alza e ci invita a seguirlo.

Attraversiamo una parte della casa per poi uscire all’aperto in un giardino posto sul retro. Un’area che nello stesso tempo fungeva da laboratorio all’aperto ma, soprattutto, da museo all’aperto, dove erano custodite delle opere, quasi tutte in metallo, insieme a frammenti e parti di sculture, sempre in ferro, in fase di elaborazione. Per qualche secondo rimanemmo in silenzio, colpiti da questa esposizione a cielo aperto, in quanto alcune sculture, quasi tutte in ferro, erano già completate, ma altre erano in fase di elaborazione con pezzi sparsi all’interno di questo giardino all’aperto rigoglioso e verde. Un contrasto quello tra la vitalità del verde e delle piante del giardino e le forme, alcune imponenti, delle sculture in metallo.

Un contrasto solo apparente perché mentre ci avvicinavamo alle sculture sembrava quasi che quelle forme prendessero vita rispondendo alla nostra curiosità ed al nostro stupore.

Arch. Giorgio Mirabelli davanti alla scultura del Maestro Umberto Mastroianni

A questo punto Mastroianni si avvicina ad una scultura, la cui forma astratta, da lontano, non so per quale motivo mi aveva fatto pensare ad un cavallo, anche se non c’era niente che poteva avvalorare questa ipotesi.

“Ecco” disse Mastroianni “questa è l’ opera giusta per stare al centro di quello spazio da voi disegnato, capace di calamitare tutte le forze positive dell’intera Piazza e poi di rimandarle con forza verso l’esterno. La scultura si chiama “FURIA SELVAGGIA. Se vincerete il Concorso come vi auguro, non vi preoccupate che un accordo con l’Amministrazione di Roma lo troveremo.

Rientrati in casa, in preda ad una più che giustificata euforia, poco dopo ci siamo salutati con il Maestro, ringraziandolo per averci concesso l’onore di partecipare al concorso in qualità di Consulente artistico, ma soprattutto per averci dato addirittura la disponibilità di inserire nel nostro progetto una sua scultura scelta personalmente da lui.

Ma il Maestro volle ringraziarci a modo suo, regalando ad ognuno di noi una copia-stampa di un suo dipinto firmata personalmente da lui in quel momento. Non potevamo chiedere di più.

Copia-stampa di un dipinto del Maestro Umberto Mastroianni

Solamente a titolo di cronaca e per esaudire la comprensibile curiosità di chi avrà avuto la pazienza di leggere questo pezzo:

  • Non abbiamo vinto il Concorso, né ricevuto alcun riconoscimento.
  • Umberto Mastroianni ci ha lasciato due anni dopo alla bellissima età di 88 anni.
  • La scultura “Furia selvaggia” dopo la morte del Maestro è stata donata dagli eredi del grande artista, all’Università di Salerno. 

Tutte le immagini contenute in questo articolo sono soggette a copyright © Giorgio Mirabelli




Anche Roma ha una Stalingrado

In estate ti sembra di “sentire” la città in un modo differente.

Il perenne rumore di fondo, al quale ci si crede abituati al punto di ritenere che faccia parte della stessa natura intorno a te come quello di una cascata africana in lontananza, quasi scompare. Ancor più evidente, nel silenzio generale, arriva la solita moto che scorrazza disturbante e indisturbata su e giù anche in piena notte con la sua marmitta insolente. A parte queste interruzioni che però quasi confortano ricordandoti che la vita umana, pur nelle forme più fastidiose, non è andata via, ti accorgi che la rarefazione dei suoni crea un diverso stato d’animo. Uno svuotamento della mente che ti costringe a guardarti intorno con un atteggiamento diverso dal solito, come se fosse cambiato qualcosa, come a cercare di sostituire i rumori con qualcos’altro. Le voci degli “umani” non più sovrastate dal frastuono del traffico escono dai cortili dei palazzi popolari per riportare nella giusta lunghezza d’onda i rapporti con i tuoi simili e fra di loro.

Nella “fortezza proletaria di Stalingrado”1 gli abitanti protetti dalle loro case utilizzano i cortili e i giardini come se fossero a Villa Borghese, cercando un po’ di frescura al caldo agosto romano. Un enorme condominio su via di Valle Melaina, che occupa un’area consistente del quartiere che da sempre mi ha affascinato e che più volte, anche se con molta fretta, avevo attraversato. La definizione di fortezza proletaria di Stalingrado non fu data a caso. Sin da quando fu edificata qui, come in tutto il quartiere del resto, il regime fascista ebbe filo da torcere. Fu rifugio di ricercati politici e di fuggiaschi e luogo di lotta e di sedizione tra i più irriducibili e valorosi. Nel dopoguerra rimase un quartiere “difficile” e non sembra aver perso questa connotazione poco “conciliante”. Proprio all’angolo tra Via Scarpanto e Via Gran Paradiso c’era, fino a poco tempo fa, un circolo politico intitolato a Teresa Gullace, la martire del fascismo cui si ispirò Rossellini per il personaggio femminile di Roma Città Aperta interpretato da Anna Magnani.

Nato tra il 1930/’32 con il sostegno dell’Ifacp (Istituto Fascista Autonomo Case Popolari), allora diretto da Calza Bini e Costantini conta circa 534 appartamenti con 14 scale, individuate dalle torri che emergono dall’edificio, per un’altezza di 7 piani. A questo complesso di case popolari alla fine degli anni quaranta ne furono aggiunte altre a fianco ma di diversa tipologia.

In questi edifici ci sono frammenti di storia nelle lapidi sparpagliate all’interno e all’esterno: nel 1933 le suore Orsoline di S. Girolamo di Somasca iniziarono la loro opera educativa inserendo anche un asilo all’interno del comprensorio, un’altra lapide posta in su uno dei muri perimetrali in Via Scarpanto ricorda i quattro antifascisti Riziero Fantini, Filippo Rocchi, Antonio Pistonesi, Renzo Piasco catturati dopo i rastrellamenti del 1943 e condannati a morte, nel 1948 in via del Gran Paradiso vennero girate alcune scene del film di Ladri di biciclette di Vittorio De Sica (https://www.youtube.com/watch?v=SmI1kAdZzAY) fino ad arrivare al 1968 Il medico della mutua di Luigi Zampa, 1968, con Alberto Sordi.

Insomma un bagno di storia, di umanità e di architettura in una Karl Marx Hofe capitolina in un afoso pomeriggio d’estate tra un racconto e l’altro strappato agli abitanti che si godono il fresco nei cortili e che ti accolgono con la frase: “Qui c’è Storia! È una giornalista”? Nel sentire che sono un’architetta restano un po’ interdetti. Forse volevano parlare dell’eroica difesa di Stalingrado fatta dai genitori o dai nonni ma qualche utile notizia la danno volentieri e ti salutano con semplicità. Buona passeggiata!

1.Le Borgate del fascismo. Storia urbana, politica e sociale della periferia romana

Luciano Villani (https://books.openedition.org/ledizioni/108)

 





IL PERIODO ESPRESSIONISTA DEL BAUHAUS DI WEIMAR.

vai all’articolo LE PREMESSE DEL STAATLICHES BAUHAUS

Building of the School of Art in Weimar, architect: Henry van de Velde built from 1904 to 1911 / photo: Louis Held, c. 1911. L’edificio oggi è la sede dell’Università di Weimar.

Il primo periodo di vita del Bauhaus è caratterizzato dalla volontà di riprendere il lavoro che l’architetto, pittore e arredatore belga Henry van de Velde aveva iniziato non solo nel Deutscher Werkbund (DWB), nato nel 1907, ma anche nella Scuola di Arte e Artigianato Artistico di Weimar, nata nel Granducato di Sassonia-Weimar nel 1906 a seguito di un seminario sull’arte applicata da lui tenuto nel 1903 e di cui lo stesso fondatore aveva indicato Walter Gropius come suo possibile successore quando, per problemi di xenofobia, è costretto a lasciare la Germania.

Come già detto nel precedente articolo, nella querelle che nasce all’interno del DWB, Henry van de Velde si trova in posizione opposta rispetto al concetto di Typisierung (sviluppo di forme standard e di forme tipizzate) espresso dai suoi colleghi e, insieme ad altri artisti appartenenti all’associazione tedesca, tra cui Bruno Taut, rifiuta ogni tentativo di limitare la libertà dell’artista trovando nel Kunstwollen l’espressione fattiva della libertà della forma come espressione individuale. È noto che la formazione artistica e la progettazione architettonica di Henry van de Velde sia frutto dell’eredità dell’Arts and Crafts e dell’Art Nouveau di Victor Horta ed è altrettanto noto di quanto diventeranno, nel corso degli anni, tra i riferimenti più importanti del movimento di avanguardia dell’Espressionismo.

Sulla base di queste premesse, seppur introducendo alcune modifiche nella struttura didattica della Scuola di Arte e Artigianato Artistico e nel metodo di insegnamento adottato, Walter Gropius fonda il Bauhaus a Weimar in cui, dal 1919 fino al 1923 circa, si esercita una fortissima e quasi assoluta influenza formale espressionista.

L’attività del “costruire”, Bauen, da cui deriva la denominazione Bauhaus, che significa “casa della costruzione” (termine coniato da Gropius con riferimenti alla parola medievale Bauhütte indicante la loggia dei muratori) assume caratteri sociali, intellettuali, simbolici e soprattutto collettivi: gli artisti e gli artigiani, fino ad allora divisi, sono chiamati ad erigere insieme la “Casa del futuro” sotto la guida del Meister artigiano e del Meister artista.

Questa è la prima grande novità.

La costruzione è lo scopo ultimo di tutte le arti figurative, le Arti si fondono tra di loro senza alcun limite o confine ed il lavoro manuale si sviluppa in assoluto equilibrio creativo, senza alcuna gerarchia e differenza di classe.

Manifesto del Bauhaus, Xilografia di Lyonel Feininger, 1919. La cattedrale assume un valore simbolico di unità sotto il profilo sociale, è sormontata da una torre in cima alla quale si incontrano tre raggi ad indicare le tre Arti maggiori: la pittura, la scultura e l’architettura.

Un’altra novità che introduce il Bauhaus sta nel fatto che fino ad allora all’esterno, cioè nelle Accademie, si insegnava a riprodurre fedelmente ciò che si studiava e ciò che si guardava, al contrario, nella didattica svolta all’interno della scuola, si insegna ad esplorare le singole sensazioni ed esperienze, intese come solide basi che costituiscono la vita interiore di ogni uomo, ognuna con un proprio ritmo, una propria personalità ed un proprio equilibrio creativo.

Non è da sottovalutare un aspetto che pochi prendono in considerazione e cioè cosa rappresentasse la fondazione di una Scuola così progressista in una città in cui i cittadini erano ancora molto legati all’epoca precedente ed alle etichette del Granducato di Sassonia-Weimar – costituitosi nel 1572, con capitale proprio a Weimar, appartenente al Sacro Romano Impero e di religione evangelista, diventa Stato libero solo dopo la caduta della monarchia avvenuta proprio a ridosso di quegli anni, nel 1918. 
Questo contrasto tra la formale popolazione locale e l’informale comunità che entra a far parte della scuola e comincia a vivere anche la città è molto evidente, tanto che, il corpo docente del Bauhaus tenta di tenerlo sotto controllo attraverso severi rimproveri per cattiva condotta. Si raccontano svariati aneddoti legati a questo aspetto tra cui quello di quando i giovani neo-iscritti decidono di farsi il bagno nudi nel River Ilm creando non solo scompiglio ma anche scandalo tra i cittadini di Weimar. In questo caso, così come in altre situazioni che si presentavano regolarmente, la direzione minacciava gli alunni con quello che era evidentemente l’avvertimento peggiore che si potesse fare loro in quel periodo:

“Se non ti comporti bene, sei fuori dal Bauhaus”

Questo contrasto è anche il riflesso di quanto accade in quel periodo storico; infatti, se da una parte l’anima riformatrice del Bauhaus subisce continui attacchi dal mondo accademico prebellico e dall’establishment culturale del tempo, la stessa che, tagliando i fondi alla Scuola di Weimar per motivi strettamente politici legati ai partiti della destra istituzionale, ne decreta la chiusura nel 1925, dall’altra, naturalmente, diviene la testimonianza concreta di quanto le correnti progressiste dell’epoca abbiano trovato terreno fertile nell’orientamento artistico espressionista che, in questa prima fase, la caratterizza.

In tal senso, Johannes Itten, pittore, designer e scrittore svizzero, è, senza dubbio, la figura chiave in qualità di educatore d’Arte e maestro di insegnamento, tanto che la sua concezione pedagogica diventa la base ed il fondamento di tutte le attività della scuola e quando, nel 1923 circa, ci sarà un impulso decisivo al superamento della fase espressionista, sarà lo stesso Itten a dare le sue dimissioni perché profondamente contrariato da tale scelta. Il suo approccio pedagogico unisce l’intuizione al metodo, la percezione alla capacità e non a caso si legge tra gli scritti che lo riguardano che, prima dell’inizio delle lezioni, gli allievi dovessero praticare degli esercizi di respirazione e concentrazione fisica volti ad allentare la tensione e a dare il giusto flusso alle sensazioni e alle idee. Si pensi però anche a quanto detto prima e a quanto il carattere spirituale dei suoi insegnamenti sia, senza dubbio, in assoluta sintonia con le correnti esoteriche che si sono sviluppate tra il XIX ed il XX sec., ma allo stesso tempo molto lontane e distanti dai princìpi evangelisti e conservatori a cui la città e la cultura del luogo faceva riferimento.

A destra: Johannes Itten con la testa rasata e abiti monkish fotografati con la sua stella colorata che ha usato nei suoi insegnamenti al Bauhaus, 1920, photo: Paula Stockmar, Itten-Archiv Zürich / © VG Bild-Kunst, Bonn 2018. A sinistra: Itten guida i suoi studenti in esercizi di respirazione e concentrazione fisica.

Schema compreso nello statuto pubblicato da Gropius nel 1922 dove viene illustrata la distribuzione degli insegnamenti del Bauhaus. Il primo semestre è dedicato all’insegnamento preliminare a cui si univa un insegnamento formale solo dopo nella frequentazione per tre anni di uno dei laboratori che sono contrassegnati con i materiali usati, ad esempio il legno rinvia alla falegnameria ed al laboratorio di scultura lignea. Il costruire, indicato come l’ultimo e più alto gradino del processo formativo, rimane nel periodo in questione soltanto su carta. Il corso di Itten è il primo livello di conoscenza ed è rappresentato nel cerchio più esterno.

I suoi princìpi teorici diventano fondamentali per gran parte delle Arti del Novecento: la Teoria della forma e dei colori, la composizione e la creazione artistica attraverso lo studio della natura, del nudo e della complessità dei materiali e della loro trasformazione.

A destra: Colour Sphere in 7 Light Values and 12 Tones, author: Johannes Itten, in: Adler, Bruno: Utopia. Dokumente der Wirklichkeit, Weimar 1921. A sinistra: Farbkugel bandräumlich, Fascia spaziale colorata, 1919-20.

A destra: Johannes Itten, Waldrandblumen, Fiori di bosco, 1919. Si racconta che il cardo era spesso disegnato durante il corso perché Itten lo considerava adatto ai suoi scopi didattici grazie alla sua forma particolarmente espressiva. A sinistra: Moses Mirkin (Design), Alfred Arndt (Reconstruction), Contrast study in various materials, 1920, rekonstruktion 1967 / Bauhaus-Archiv Berlin, Photo: Fotostudio Bartsch © VG Bild-Kunst

Negli anni in cui Walter Gropius cerca di attirare artisti famosi a Weimar per lavorare come insegnanti – tra i quali troviamo, solo per citarne alcuni,  Wassily Kandinsky, Lyonel Feininger, Josef Albers, Paul Klee e Oskar Schlemmer –  il Bauhaus rappresenta un vero e proprio luogo di incontro tra le menti più influenti dell’avanguardia europea ed il tentativo di realizzare le visioni di cosmopolitismo e di diversità internazionale che tanto li animavano: un grande laboratorio creativo per la sperimentazione di diversi materiali, forme, colori ed un motto alla base di tutto

“Il gioco diventa festa,
la festa diventa lavoro,
il lavoro ridiventa gioco”

Gelatin Silver Print by Edmund Collein – Image of Bauhaus Students, tratta da https://dc.etsu.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1057&context=honors

Parallelamente gli studenti erano visti come degli apprendisti che dovevano imparare la tessitura ed altre tecniche che li avrebbero aiutati sia nelle decorazioni sia nell’articolazione degli spazi interni con la spinta, da parte di Gropius, di creare un “nuovo uomo”.

Tutto questo dura fino a quando arriva, dall’esterno, un decisivo impulso al superamento della fase espressionista per influenza di Theo van Doeusbourg, teorico dell’architettura e delle arti figurative, pittore e architetto, che si trasferisce a Weimar nel 1921 e nel 1922 tiene un corso sul De Stijl per i giovani artisti della scuola. È necessario ricordare che Theo van Doeusbourg fonda nel 1917, in Olanda, insieme a Piet Mondrian, la rivista De Stijl che prendeva le basi dall’omonimo movimento artistico conosciuto anche con il nome di Neoplasticismo. Sin dalle prime pubblicazioni, i due fondatori, redigono il Manifesto De Stijl che, oltre a codificare i princìpi artistici del movimento, decantava il radicale “rinnovamento dell’arte” e ne descriveva una nuova forma: astratta, essenziale e geometrica.

Theo van Doeusbourg al Congresso Internazionale degli artisti Progressisti, Düsseldorf, 1922

A destra: Theo van Doeusbourg , Stained glass composition “Woman”, Original Title: Glas in lood compositie “Vrouwenkop, 1917. La pittura deve essere di aiuto all’architettura. A sinistra: Piet Mondrian, Composition A, 1923

Cartolina con l’edificio del Bauhaus che Theo van Doeusbourg spedì ad Antony Kok, poeta, scrittore e mecenate olandese. Era uno scrittore sperimentale, in particolare nella poesia sonora, e co-fondatore dell’innovativa rivista De Stijl.

A seguito del Corso De Stijl I, tenuto da Theo van Doeusbourg, il nuovo movimento prende così piede che, nonostante Itten sia ancora nella scuola come insegnante, avviene una sorta di sommossa studentesca tanto che si racconta che alcuni studenti cominciano a dipingere il soffitto e le pareti del Residenz-Theater di Weimar e, prima di dare inizio al lavoro, tolgono tutti gli elementi ornamentali predenti e li sostituiscono con illuminazioni moderne. Peter Rohl, uno studente fervido seguace di van Doeusbourg, scrive sulla rivista:

“I colori del Teatro brillano, e la manifestazione dei colori deve essere una bandiera in onore del suo condottiero, il pittore Theo van Doeusbourg.
Forza unita e concorde.
Lo spirito del nuovo mondo saluta il suo nuovo condottiero e amico”

A destra: Oskar Schlemmer, progetto complessivo per la decorazione dell’edificio ed i laboratori del Bauhaus di Weimar, 1923. A sinistra: Oskar Schlemmer, progetto per l’atrio dell’ala dei laboratori del Bauhaus di Weimar, 1923.

Così, nel 1923, Johannes Itten, ovviamente contrariato da questo nuovo impulso e dalla relazione con Gropius che si fa sempre più combattiva, rassegna le sue dimissioni ed il suo posto viene preso dal meno radicale László Moholy-Nagy che, insieme a Josef Albers, segnano la svolta per un nuovo indirizzo pedagogico in cui l’approccio è più pratico, il singolo individuo perde la propria assoluta centralità e ci si avvia alla creazione  di nuovi prodotti in linea con l’esigenza dell’industria: tipo (forma) e funzione, nuove tecniche e new media.

Ha così fine il periodo espressionista del Bauhaus e la scuola si prepara ad essere il luogo dove lo studio delle forme nello spazio di Moholy-Nagy ed i corsi tecnico-pratici di Josef Albers definiscono le basi per una nuova unità tra Arte e Tecnica e, senza dubbio, detteranno le regole dell’odierno concetto di Design.





Azulik Uh May. L’Architettura organica a servizio dell’Arte.

“Kindly remove your shoes upon entering the gallery to fully experience the space”.

“Si prega gentilmente di togliere le scarpe al momento di entrare nella galleria per godere di un’esperienza totale dello spazio”.

Azulik Uh May, Ph. © Alessandro Devito

Nasce a Tulum, in Messico, il Centro d’Arte Contemporanea Azulik Uh May progettato da Jorge Eduardo Neira Serkel, imprenditore, artista e architetto autodidatta argentino.

Per chi non fosse mai stato a Tulum sarà utile capire che stiamo parlando di una delle mete più blasonate della penisola dello Yucatán; immersa e sviluppatasi intorno al Parque Nacional da anni detiene il primato di essere una delle più importanti destinazioni turistiche di statunitensi, europei e sudamericani, e sede di un’antica città portuale dei Maya, di cui rimangono le rovine, devo dire, in buonissimo stato di conservazione: arroccate su una scogliera, dominano a tutto tondo la lingua di costa caraibica, offrendo uno spettacolo diverso rispetto alle rovine Maya di Chichén Itzá, Uxmal e Palenque, solo per citarne alcune. Tornata a distanza di dieci anni, la sensazione di cambiamento avvenuto nella città è stata molto forte, quasi da riconoscere solo nella zona archeologica la continuità del pueblo che tanto mi aveva colpito, per il resto, Starbucks è approdato anche lì.

Immerso in questo scenario di Resort e Posadas, lungo la Carretera che porta alla Zona Hotelera, nasce il primo progetto di Eduardo Neira, l’eco-resort Azulik, un labirinto di palafitte rigorosamente costruite a mano, collegate attraverso passerelle di legno che si articolano attorno alla vegetazione, ponti sospesi e nidi fatti di giunchi da cui poter osservare l’alba e guardare le stelle solo con candele e torce date a disposizione.

Eco-Resort Azukil, ph. https://www.azulik.com

Svoltando verso la Quintana Roo 109, direzione Francisco Uh May, incontriamo l’altro grande progetto di Eduardo Neira, il Centro per le Arti Azulik Uh May.

Centro per le Arti Azulik Uh May, Masterplan

La poetica alla base della progettazione di Eduardo Neira è quella di invitare il fruitore alla connessione con la natura e con il territorio circostante attraverso un universo in cui riconnettersi con se stessi. Ed è la stessa poetica che ispira la realizzazione di Azulik Uh May, dove il White Box delle Gallerie d’Arte lascia spazio a pareti di corteccia e cemento curvilineo, soffitto di fronde, alberi locali ed illuminazione naturale.

La struttura è alta circa 16 metri e termina con una cupola di cemento rinforzato e legno di Bejuco, una pianta rampicante di provenienza locale originaria della regione, coronata dal Fiore della Vita la cui forma geometrica, composta da cerchi sovrapposti disposti in un motivo simile a un fiore, si sviluppa alla base secondo le proporzioni della famosa sequenza di Fibonacci.

Azulik Uh May, ph. © Alessandro Devito

Tre diramazioni compongono la struttura irregolare del soffitto a fronde che ricopre l’intero spazio espositivo ed in cui si inseriscono diagonalmente, qua e là, dei rami più piccoli che permettono alla luce naturale di filtrare attraverso le fessure. Lo spazio è illuminato anche da aperture di forma e dimensioni diverse, inserite a differenti altezze, che hanno la duplice funzione di guardare i dintorni naturali selvaggi che dialogano con la struttura.

La pavimentazione in cemento è sopraelevata rispetto al terreno, in modo da non interferire con il paesaggio naturale in cui si inserisce la struttura ed è naturale anche il passaggio, reso libero, della vegetazione esistente dove nessun albero è stato tagliato per fare strada al progetto. I percorsi sono formati da lingue di cemento sospese alle quali si intrecciano arbusti, giunchi e piante rampicanti.

Azulik Uh May, Ph. © Alessandro Devito

Uno spazio che nasce come un organismo naturale posatosi sul terreno da dove prende linfa vitale e da cui attinge energia per trasmetterla poi, a sua volta, quando si cammina a piedi nudi sulla pavimentazione ondulata in cemento levigato e sopra tappeti di viti curvate. Non esiste, in questo caso, un dentro ed un fuori, uno spazio delimitato dalla materia in cui si sviluppa una forza centripeta, una visione prospettica data dalla presenza di una fuga e dall’assenza di una cerchialità armonica. Lì dove le fronde degli alberi si muovono al vento sembra quasi di essere all’aria aperta.

La natura stessa del progetto rende leggibile il percorso narrativo che la caratterizza attraverso la chiarezza degli intenti e le regole chiare e assolutamente decifrabili in cui si struttura. Questo è a mio avviso il merito del progetto. Il rapporto tra le forme antropomorfe costituisce la base della forma delle relazioni che si instaurano tra la persona e la materia. Sicuramente si può parlare di un approccio all’architettura di tipo antropocentrico, in cui lo spazio è configurato secondo modalità costruttive democratiche, senza un ordine gerarchico ed in armonica proporzione tra di loro.

Lì dove Azulik Uh May è lui stesso definito un’opera d’arte (in questo dissento e poco mi adeguo a tale definizione perché non ritengo ci sia una ricerca estetica fine a se stessa) siamo di fronte ad un approccio progettuale di Architettura Organica, dove l’equilibrio tra ambiente costruito e ambiente naturale integra perfettamente gli elementi artificiali propri dell’uomo con quelli naturali dell’ambiente in cui si inserisce.  Siamo, altresì, di fronte ad un tentativo estremo di dare all’Architettura il compito di ridefinire la relazione tra l’arte e l’ambiente in cui vengono esposte le opere, il tutto nell’equilibrio totale con “la madre natura, così da permettere un’esperienza olistica dell’arte che coinvolge tutti i nostri sensi e non soltanto la vista”. Questo è il caso in cui l’Architettura si mette al servizio dell’Arte, ridefinendo i princìpi di dialogo che intercorrono fra loro attraverso la configurazione di spazi che coinvolgano sia sotto il profilo materiale sia su quello spirituale e psicologico. 

Scrive Frank Lloyd Wright, ritenuto il fondatore dell’Architettura Organica: “…Io vi porto una nuova Dichiarazione d’Indipendenza ….Architettura Organica vuol dire né più né meno, società organica. Gli ideali organici rifiutano le regole imposte dall’estetismo epidermico o dal mero buon gusto, e la gente cui apparterrà questa architettura ricuserà le imposizioni che sono in disaccordo con la natura e con il carattere dell’uomo…Troppe volte nel passato la bellezza ha contrastato il buon senso…Nell’era moderna l’arte, la scienza e la religione s’incontreranno, sino ad identificarsi: tale unità sarà conseguita mediante un processo in cui l’architettura organica eserciterà un ruolo centrale”. Bruno Zevi, massimo studioso di Frank Lloyd Wright è esplicito a proposito dell’Architettura Organica: “Il dinamismo organico rispecchia e promuove i reali comportamenti dell’uomo, punta sui contenuti e sulle funzioni” e quindi il compito dell’architettura organica è “…di far discendere la configurazione dell’edificio dall’insieme delle attività che vi si svolgono, ricercando negli spazi vissuti la felicità materiale, spirituale e psicologica degli utenti, ed estendendo tale esigenza dal campo privato a quello pubblico, dalla casa alla città ed al territorio. Organico è quindi un attributo che si fonda su una idea sociale, non su di una intenzionalità figurativa; in altre parole, si riferisce ad una architettura tesa ad essere, prima che umanistica, umana”.


Risultati immagini per azulik uh may

“AZULIK Uh May is a holistic center for human vision and evolution created in the jungle of Tulum by Roth (Eduardo Neira), social entrepreneur and founder of AZULIK.
Reconnecting individuals and tribes –both native and contemporary – with one another, with others and with the environment”.

 

Architetti: Roth-Architecture (Eduardo Neira) 
Posizione: Grulla 23 Francisco Uh May,
77796 Franscisco Uh May, Quintana Roo
Opening hours: Tuesday – Sunday, 12pm to 6pm

https://www.azulikuhmay.com/ 


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright © Alessandro Devito




Ma: Repetita iuvant?

Comincio a dubitare che questo metodo della ripetizione alla fine porti un qualche giovamento.

Mi sembra che così non è stato almeno negli ultimi anni dove, addirittura, ho l’impressione che ci sia stato un peggioramento specialmente su alcuni atteggiamenti e comportamenti che sembrano sedimentati nel modo di vivere la nostra attività di architetti e progettisti.

Argomenti e fatti che avvengono e poi si ripetono e che noi accettiamo con la rassegnazione di chi pensa, appunto, che oramai non c’è più alcuna speranza.

Per esempio: il matematico Piergiorgio Odifreddi, nell’Agosto del 2009, intervistò per “la Repubblica”, una figura importante del panorama architettonico contemporaneo come Peter Eisenman, guru del decostruttivismo.

In quella intervista alla domanda: Come e cosa rispondere alle critiche che gli erano state rivolte da chi abitava nella House VI da lui progettata?

 

HOUSE VI (http://www.idesign.wiki/house-vi-1975/)

Eisenman rispose: L’idea era di mettere in dubbio il concetto che il piano orizzontale debba per forza essere il fondamento di una casa. In quel progetto l’elemento pervasivo è diagonale, il che rende la casa più topologica che euclidea: naturalmente, se si continua a guardarla con occhio euclideo, non sembra avere alcun senso. Mentre dal punto di vista topologico la casa è perfettamente simmetrica, solo che l’asse di simmetria non è né orizzontale e né verticale, ma obliquo.

Una risposta che, scusandomi per l’irriverente ironia, la si potrebbe paragonare alla Supercazzola di Tognazziana memoria.

Anche perché, alla successiva domanda di Odifreddi – Se lui vivrebbe mai in una casa simile?

Eisenman rispose: Io no! Non vivrei in nessuna delle case che progetto. Io posso parlare del progetto, ma non della reazione della gente: non realizzo le mie opere preoccupandomi di cosa ne dirà il pubblico, così come Joyce non scriveva Finnegans’ Wake preoccupandosi delle reazioni dei lettori.

Solo uno sprovveduto potrebbe immaginare che Eisenman non sapesse la differenza tra un’architettura ed un libro. Ma le sue risposte evidenziarono l’autoreferenzialità presente allora come oggi, a vari livelli, nella nostra professione in generale, ma in maniera preoccupante in molti di coloro che, a torto o a ragione, sono riconosciuti e si pongono come punto di riferimento nell’architettura contemporanea.

Con tutto il rispetto, credo che il compito dell’architetto rientri in una “dimensione” diversa. Aldo Rossi, che stranamente era uno degli architetti più stimati da Eisenman, “…distingueva sempre le raffinate esercitazioni sintattiche dal prodotto artisticamente finito…Se si fa dell’arte per l’arte si potrà anche dare forma a cose supreme, ma resteranno legate allo stretto ambito degli intenditori in una ingiusta implosione egoistica”.

Nello stesso periodo, siamo sempre tra il 2009 ed il 2010, in occasione dei primi 10 anni di vita della Tate Modern Gallery reinventata dagli architetti Herzog e de Meuron in una ex centrale elettrica sulle rive del Tamigi, Alain de Botton uno scrittore svizzero, sempre molto attento e consapevole dell’importanza del valore delle opere di architettura all’interno delle città, non solo dal punto di vista tecnico-artistico, ma anche, se non soprattutto, da quello sociale, in un articolo sul Daily Telegraph scriveva: La società britannica affronta ancora diversi problemi sociali, dal vandalismo al degrado dei mezzi d’informazione e del sistema politico, ma non per questo dobbiamo rinunciare a progettare edifici che propongono ideali alternativi. Al contrario questi problemi sottolineano il bisogno di un’architettura ispirata, proprio come la Tate Modern Gallery, che rappresenta uno strumento di difesa contro la corruzione e la scarsa immaginazione. Al di là della sua funzionalità, l’architettura contemporanea dovrebbe spingere i cittadini che si riconoscono nelle sue qualità a migliorare la realtà. L’edificio della Tate è un faro che indica doti dimenticate nella vita di tutti i giorni: la progettualità, la riflessione, la calma, la gentilezza e il coraggio. Si esce dal museo con la sensazione di aver ritrovato, anche se solo per poco tempo, qualità essenziali dell’essere umano.

Anche in Italia ci sarebbe piaciuto leggere, almeno qualche volta, o che si parlasse sui mass media di architettura come ne ha parlato Alain de Botton. Tanto più che le occasioni non sono mancate per farlo. Solo a Roma negli ultimi 15/20 anni abbiamo inaugurato il MAXXI di Zaha Hadid, il MACRO di Odile Decq, l’AUDITORIUM di Renzo Piano, la contestatissima ARA PACIS di Meier e di recente il nuovo Centro Congressi LA NUVOLA di Fuksas. Probabilmente nessuna di queste opere forse meriterebbe delle considerazioni così profonde dal punto di vista ideale, architettonico e soprattutto da quello sociale, come quelle pronunciate da de Botton per l’edificio della Tate Gallery.

Questo per uno spostamento della percezione che si ha oggi e che si è diffusa, specialmente negli ultimi anni, sulle opere di architettura e che vede l’attenzione incentrata principalmente sull’aspetto esteriore, sui volumi e sui materiali usati. Rispetto a quello che i grandi maestri da Bruno Zevi a Wright per non parlare di Gropius e di Mies Van de Rohe, hanno sempre considerato il vero “cuore” dell’architettura e cioè gli spazi, sia quelli esterni con i quali misurarsi e dialogare, sia quelli interni, i vuoti e tutto quello che è vivibile e fruibile di una costruzione. Ma se fosse veramente così, allora noi architetti e progettisti in generale forse qualche domanda ce la dovremmo fare e qualche risposta dovremmo pure provare a darla, proprio come dice il “nottambulo” Marzullo nelle sue recensioni letterarie/cinematografiche: “si faccia una domanda e si dia una risposta”.

Penso veramente che sia arrivato il momento, per i progettisti in generale, ma per noi architetti in particolare, di cominciare a cambiare rotta, magari volando un po’ più in basso e vicino alla terra. Forse dovremmo finirla di parlarci addosso e, troppo spesso, solo tra di noi, attraverso riviste e libri che oramai non compra più nessuno, anche perché oggi si trova tutto on line. Oppure in Convegni e mostre dove il senso reale dell’architettura non si riesce a cogliere dietro una sequenza di sole immagini che ti lascia sconcertato.

Sembra che la fotografia, prodotto importantissimo dal punto di vista divulgativo, artistico e della conoscenza, sia diventata, purtroppo, l’unico mezzo capace di narrare e far comprendere un’opera di architettura. Ma non è così come testimoniato purtroppo dall’uso e dall’abuso di questo straordinario strumento che è la macchina fotografica, soprattutto sui social e non solo.

Come qualcuno con evidente e notevole lungimiranza aveva denunciato già un po’ di anni fa: “…Purtroppo, oggi, sia nelle riviste specializzate che nelle pubblicazioni riguardanti i grandi temi dell’architettura e dell’ambiente, i testi vengono di solito supportati e corredati da bellissime immagini fotografiche, raramente da disegni, tanto meno originali, attraverso i quali sia possibile effettuare una “lettura grafica” approfondita dell’organismo architettonico, per meglio comprendere il concetto di luogo, di funzione, di spazialità, di realizzabilità, in unica parola di architettura, intesa come costruzione fruibile dall’uomo, che rispetti i vincoli estetici, funzionali e costruttivi”. Il Disegno della Palazzina Romana, C.Mezzetti, Ed. Kappa, 2007.

Forse proprio noi architetti dovremmo provare ad uscire da questo recinto, in cui ci siamo rinchiusi, per comunicare alla gente comune, ma soprattutto alle nuove generazioni, quelli che sono i valori ed il significato dell’architettura. Valori che attengono anche, se non soprattutto, alla sfera delle istanze etiche e sociali ed a quella della responsabilità e non solo al raggiungimento di visioni estetiche, spesso effimere, che non bastano a migliorare la qualità della vita delle nostre città.

Il punto di riferimento per i giovani che vogliono abbracciare la nostra disciplina non può essere l’architetto “artista” che declina ogni responsabilità perché “…il problema è politico: i politici devono combattere l’ingiustizia distributiva che affligge le città” (Fuksas, 2008).

Oppure l’architetto “ideologico” e pieno di sé che afferma io lo Zen di Palermo lo rifarei così com’è” (Purini, 2007).

In un bellissimo articolo sul «Giornale dell’Architettura» (Marzo 2009) Zvi Hecker scriveva: “…Ossessionata soltanto dalla massima visibilità, l’architettura si è affidata alla visione “dell’architetto artista”, tenuto a rendere conto solo delle proprie ispirazioni e desideri;…Senza più bisogno di seguire le regole della logica, la coerenza e la chiarezza dei piani, l’architetto architetto è presto diventato irrilevante sul vero cuore dell’architettura: soluzioni per housing, pianificazione urbana, integrazione degli emarginati sociali, temi che sono stati la base del Movimento Moderno”.

Certo che la Pianificazione del territorio spetti soprattutto alla politica, ma questa oramai con prassi consolidata decide tutto da sola con i grandi proprietari terrieri e con i grandi costruttori che, quasi sempre, sono la stessa persona.

La storia dello Stadio della Roma a Tor di Valle, che con alterne vicende anche giudiziarie, dura da circa 5 anni, è l’esempio forse più calzante che si possa citare. È stata emarginata ed in qualche caso esautorata la figura dell’urbanista che aveva il compito di ricercare la sintesi e l’equilibrio tra i due soggetti primari, senza dimenticare i problemi legati allo sviluppo della città e del territorio.

Il caso sempre di Roma e del suo PRG mi sembra emblematico. Il nuovo Piano Regolatore Generale, redatto nel 2000 dal Prof. Giuseppe Campos Venuti, ed approvato definitivamente dopo lunga gestazione nel 2009, nasce già vecchio.

Quelle che dovevano essere le Nuove centralità urbane, vengono trasformate in agglomerati urbani come “Bufalotta-Porta di Roma” e “Ponte di Nona-Roma-Est” e nascono, già in deroga all’appena nato PRG con i famosi Veltroniani Accordi di programma, intorno a dei grossi Centri commerciali (i cosidetti “non luoghi” come li ha definiti l’antropologo Marc Augé) che oramai dettano le nuove linee di sviluppo delle città. Spariscono tutte le altre attività e diventano “brani di territorio” di sole residenze che dovranno aspettare anni per essere chiamati Quartieri vista l’assenza totale o quasi di infrastrutture e servizi e dove la qualità della vita è pessima.

Ma noi (architetti, ingegneri, urbanisti) con queste trasformazioni che, naturalmente, non riguardano solo Roma, non abbiamo nulla a che fare? Non abbiamo alcuna responsabilità? È solo colpa della politica e dei grandi costruttori? Ma alla fine qualcuno li firmerà questi progetti? Nella patria del “tengo famiglia”, come bravi soldatini siamo uso ad obbedir tacendo?

 

 

Foto copertina tratta da https://www.moma.org/collection/works/82748




LE PREMESSE DEL STAATLICHES BAUHAUS

Nel corso dell’anno che celebra la nascita di una delle scuole delle Arti più famose al mondo, cominciamo questo viaggio esplorativo iniziando a capire quale siano state le motivazioni che hanno portato alla fondazione del  Staatliches Bauhaus, da quali basi Walter Gropius, chiamato ufficialmente nell’aprile del 1919 a dirigere l’Istituto, abbia costruito la propria filosofia di scuola e quali siano state le componenti politiche di quegli anni, sviluppatesi in Germania e che hanno avuto un ruolo fondamentale sull’apertura della scuola.

Gli antecedenti del Bauhaus vanno fatti risalire al secolo
XIX, a quando  la prima potenza
industriale europea era l’Inghilterra
e a quando il paese, favorendo un processo di razionalizzazione e di riduzione
dei prezzi delle merci, dà avvio ad un rapido processo di industrializzazione
con, a volte, conseguenze negative sulla qualità e sul livello di produzione.

Come accade sempre quando un processo così fondamentale si
avvia, l’Inghilterra diventa luogo di un lungo dibattito caratterizzato da
differenti teorie ed opposte visioni sul concetto di progettazione e di
produzione delle merci.

Siamo circa nel 1850, e da una parte echeggiano le teorie di  John Ruskin, letterato e critico d’arte,  che propone di favorire il miglioramento del processo di industrializzazione in atto attraverso delle nuove riforme sociali e la rinuncia a qualsiasi forma di meccanicizzazione. Ruskin, ispirato dalle teorie di Augustus Pugin, si ispira a sua volta ai modelli di lavoro medioevali ritenendoli modelli esemplari per le riforme della società contemporanea e, nel 1851, in The Stone of Venice, promuove il Gothic Revival, come summa  degli studi condotti sull’architettura e la scultura e su quanta connessione vi sia tra l’opera d’arte e lo stato della società.

Dall’altra parte, contemporaneamente, in Inghilterra si attuano delle riforme nelle Accademie e nei Centri di Formazione Professionale, dove l’interesse economico della produzione delle merci  diventa assolutamente vincolante ai fini dell’Arte Applicata, anche lì dove si stimola e si invita ad interagire nella progettazione anziché limitarsi alla fedele riproduzione del pezzo.

Quello che accomuna le differenti posizioni è, comunque,
l’esigenza di introdurre delle riforme sociali all’interno degli Istituti delle
Arti Applicate, siano esse orientate alla razionalizzazione della produzione o
all’interazione nella progettazione escludendo qualsiasi forma di
meccanicizzazione, ed in questo senso, il più importante allievo del
riformatore sociale John Ruskin, è Willam
Morris
, anch’egli poeta, artista ed agitatore
sociale
inglese. La sua spinta verso l’odio contro la civiltà moderna ed il
rapido processo di industrializzazione, che conduce, per lui, inesorabilmente
allo scadimento del gusto, lo porta a ritenere che “qualsiasi oggetto vada
reinventato”  e fonda, nel 1861, la fabbrica
Morris, Marshall, Faulkner and Co,
che progetta e realizza oggetti decorativi per la casa: carta da parati,
tessuti, mobili e vetrate. Così come il suo maestro, cerca di estendere l’arte
medioevale, ed in particolare il gotico, come spirito alla base delle arti,
della morale e delle dottrine sociali e queste stesse idee diventano
fondamentali per la nascita del movimento delle Arts and Crafts, sviluppatosi in quegli anni ma il cui nome è
coniato, però, solo nel 1887.

Le teorie di Morris, assolutamente traducibile in un vero e proprio movimento morrisiano, divengono uno stile: l’Arts and Crafts Stil i cui principi sono l’esaltazione della tradizione  artigianale medioevale,  la creazione di forme semplici ed il tendere a stili romantici e a decorazioni popolari.

Immagini tratte dal web, La Red House di Upton, nel Kent, che Morris commissionò all’amico e architetto Philip Webb nel 1859 e che egli stesso curò nei particolari e nella decorazione

William Morris riesce a realizzare e a mettere in pratica
un’utopia sociale e  la prima esposizione della Arts and
Crafts Exhibition Society
 avviene nel 1888, ma ben presto si rende
conto del poco successo che gli oggetti che produce hanno sulle masse, a causa
dei costi molto alti che mantengono un carattere elitario della produzione e ne
impediscono l’integrazione con la realtà del mondo industriale.

Nonostante ciò, a lui si devono, senza dubbio,  i successivi movimenti di rinnovamento dell’architettura e delle arti applicate e la formazione e la diffusione dell’ Art Nouveau, il movimento che rappresenta il punto più acuto della tendenza fitomorfica del modernismo europeo e che vedremo, poi, verrà superata, a favore dell’utilizzo di linee più strutturali, proprio in Germania con la fondazione dell’associazione Deutscher Werkbund (“Lega tedesca artigiani”) fondata nei primi anni del ‘900, ed in cui Walter Gropius entrerà a far parte nel 1912.

Contemporaneamente allo svilupparsi delle teorie di John
Ruskin e William Morris, nascono delle nuove Fondazioni che hanno l’ambizione
di essere delle comunità di lavoro e
delle comunità di vita
. A partire da questi anni, l’esigenza comune diventa
quella di creare una cultura del popolo
e per il popolo
ed attraverso i Movimenti di rinnovamento culturale, la
Riforma politica scolastica e la creazione di nuovi Centri di Formazione
professionale con laboratori annessi, dal 1870 in poi, l’Inghilterra cerca di esportare il modello delle riforme inglesi nel
resto dell’Europa
.

Questo clima rappresenta il primo antecedente dello Staatliches Bauhaus.

Tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 l’Europa è un ambiente molto fervido per la produzione del nuovo e per la diffusione di nuove idee, molto più dell’America, seppur legata alla matrice europea e che influenzerà, a sua volta, dal primo decennio del secolo XX, soprattutto in ambito architettonico. Si dettano in questi anni le premesse di quello che sarà il movimento più complesso ed articolato dei tempi, il Movimento Moderno, e si può parlare senza dubbio di Protorazionalismo, cioè il Razionalismo di preavanguardia, come di un fenomeno europeo, le cui componenti sociali, tecniche, costruttive, storiche, ideologiche e stilistiche, nate a cavallo dei due secoli,  si svilupperanno  in maniera ed in tempi differenti in base alle diverse aree europee. Nel Protorazionalismo tutte queste componenti si intrecciano e si stratificano trovando la loro espressione nel razionalismo sociale e critico di William Morris, Henry van de Velde e  Karl Marx, nel razionalismo storicistico dell’Art Nouveau, nel razionalismo utopistico e societario alla formulazione della disciplina urbanistica di Robert Owen, Charles Fourier, Jean Baptiste Godin e Ebenezer Howard, o, anche, nel razionalismo tecnico-costruttivo di Charles Robert Ashbee, per il quale “la civiltà moderna poggia sulla macchina, e non è possibile incoraggiare validamente l’insegnamento artistico senza conoscere questa verità”. È proprio Ashbee che invita Frank Lloyd Wright in Inghilterra nel 1908, ma è solo nel 1909 che viene in Europa, a Berlino, per preparare la famosa mostra della raccolta dei suoi  disegni, che viene pubblicata, poi, nel 1911, dall’editore tedesco Ernst Wasmuth Verlag.

Il libro Ausgeführte
Bauten und Entwürfe von Frank Lloyd Wright
  è stata una delle
pubblicazioni sull’architettura più influenti del XX secolo e la
conoscenza delle sue opere si trasformerà in diretta influenza su molti dei
maestri europei, tra cui, Mies van der Rohe e lo stesso Gropius.

Il motivo per il quale Frank Lloyd Wright sceglie di andare a Berlino piuttosto che in
Inghilterra è che, già dal 1890 in poi, lo scettro del paese più
industrializzato d’Europa passa alla Germania
 dove, in un clima già fortemente nazionalista,
lo scopo principale è quello di dare vita ad un proprio linguaggio stilistico.
Così, mentre l’Arts and Crafts
rifiuta la produzione meccanica in favore dell’unicità del pezzo prodotto
artigianalmente e mantiene l’impronta ottocentesca, Bruno Paul, a
Berlino, progetta delle vere e proprie unità standard di mobili.

L’ondata riformista
di fine ed inizio secolo vede i maggiori stati europei  al centro dei dibattiti mondiali: l’Art Nouveau in Francia, lo Jugendstil in Germania, Il Modern style in Gran Bretagna, l’Arte Jóven o Modernismo
in Spagna, il Sezessionstil in
Austria, lo Style Sapin in Svizzera
ed infine lo Stile Liberty in Italia.
Nonostante le prime avanguardie anteguerra non siano state mai soffocate
in tutta l’Europa, è in Germania che avviene davvero la svolta che detterà i
principi base sui quali si rifaranno tutti i movimenti del primo dopoguerra.

Centrate sulla teoria del Sachlichkeit, alla cui base troviamo concetti legati all’oggettività, alla razionalità ed alla praticità, le opere Protorazionaliste sorgono nei paesi di lingua tedesca ed i lavoro di Wagner, Hoffmann e Van de Velde, mostrano una scarna nudità che rompe con il linguaggio dell’Art Noveau. Il periodo dal 1905 fino alla Prima Guerra Mondiale segna l’ulteriore antecedente del Staatliches Bauhaus e precisamente nel 1907, quando si fonda  il Deutscher Werkbund (DWB),  un’associazione tedesca fondata a Monaco di Baviera nel 1907 che diviene l’istituzione culturale prebellica più prestigiosa in Europa.

Nella prima
assemblea che si tiene al DWB, il discorso chiave è pronunciato da Friz
Schumacher
, professore di architettura alla Technische Hochschule di Dresda, seguace delle idee politiche di
Friedrich Naumann: riformare le arti applicate tedesche attraverso un
autentico riavvicinamento tra artisti e produttori
sottolineando come il
progresso dell’industrializzazione e della meccanizzazione fosse irreversibile
e come il Werkbund dovesse cercare in ogni modo di respingere l’eccessivo
materialismo e razionalismo che ne erano le conseguenze, senza tuttavia
rinunciare ai benefici positivi della modernità.

L’ architetto tedesco Hermann Muthesius, il politico tedesco Friedrich Naumann e l’architetto, pittore e arredatore belga Henry van de Velde, possono senz’altro essere considerati  i  fondatori del Deutscher Werkbund e, seppure la loro provenienza appartenesse ad ambienti molto diversi fra loro, concordano tutti e tre sugli obiettivi che doveva raggiungere l’associazione tanto che, tra il 1908 ed il 1914, i princìpi del DWB si trasformano in un vero e proprio “programma di azione”.

Il Werkbund sviluppa un’organizzazione su scala nazionale ed esercita un’enorme influenza sui modelli di gusto e di design. Nel 1914 organizza una grande esposizione, la quale, da giugno sino allo scoppio della guerra, in agosto, trasforma la città di Colonia in un centro propulsore per visitatori tedeschi e stranieri, desiderosi di osservare i prodotti migliori dell’artigianato e dell’industria della Germania.

Manifesto disegnato da Peter Behrens in occasione dell’esposizione del 1914

Sono circa cento i Padiglioni espositivi, progettati tutti dagli appartenenti al DWB, ma emergono non poche divergenze sia di temperamento sia di cultura. Soprattutto tra conservatori e innovatori che, dando voce alle proprie idee, realizzano i padiglioni con una quasi caotica diversità di stili.

Il Glaspavillon (Padiglione di vetro) di Bruno Taut, 1914 –  edificio in cemento che si articola con una pianta circolare assializzata da una scalinata e da una rete di vetrate a forma romboidale di diversi colori.
Teatro del Werkbund (Henry van de Velde) – Edificio di importanza classica se lo si vede sotto il profilo dell’impatto visivo ma ascrivibile, per alcuni elementi, all’Art Nouveau: utilizzo di una linea quasi continua, esclusione dell’angolo retto in favore di un angolo stondato, rinuncia della geometria cartesiana, i volumi si sviluppano in maniera piramidale accordandosi perfettamente con il paesaggio circostante.
Fabbrica Modello (Walter Gropius e Adolf Meyer) – edificio convenzionale risolto con la divisione delle diverse funzioni, la parte amministrativa e quella produttiva. La classicità della simmetria del fronte, delle colonnine e di un basamento si contrappone all’utilizzo barocco della tripartizione dell’avancorpo e della presenza dei differenti volumi sviluppati come bracci. Soluzione dualistica mai accettata da Behrens.
Festhalle (Peter Behrens) – chiaro impianto classico con una simmetria, scansioni delle finestrature e volumetria tipica del neoclassico.

È chiaro che dibattito sulla collaborazione tra arte ed industria è molto fervido ed attivo e che crea una vera e propria frattura ideologica sempre più evidente proprio in questi anni e proprio tra gli stessi fondatori del Werkbund.  

Da una parte Hermann Muthesius esortava i progettisti tedeschi a concentrarsi sullo sviluppo di forme standard e di forme tipizzate, in cui Typisierung è il termine che più indica il concetto di produzione di grandi quantità di un numero limitato di forme tipizzate, scelta adatta non solo ad una esportazione su grande scala ma anche affine alle esigenze dell’industria. Dall’altra, un gruppo di artisti rappresentati da Henry van de Velde, tra cui anche l’architetto Bruno Taut, si pongono in assoluta contrarietà nei confronti di ogni tentativo di limitare la libertà dell’artista e rifiutano l’obiettivo stesso dell’unità stilistica e e nel Kunstwollenesprimono la volontà della forma come espressione individuale.

Esemplifico con un piccolo schema in modo che le differenze ideologiche del DWB siano più chiare a tutti.

CORRENTE ARTISTICA

Henry van de Velde
È un progettista totale e, da erede dell’Art Nouveau belga di Victor Horta, conserva la linea continua che non abbandona nella progettazione architettonica, nella mobilia e negli utensìli, dando luogo, così, ad uno dei riferimenti più importanti del movimento di avanguardia dell’Espressionismo. Le sue radici culturali ed il modo di fare design affondano nel movimento morrisiano delle Arts and Crafts.

CORRENTE INDUSTRIALE

Monumentale Peter Behrens
L’industria assume una visione quasi templare e mira alla sua esaltazione economica, politica e sociale attraverso la partecipazione emotiva non solo del progettista ma anche della popolazione e dei cittadini. L’edificio diventa retorico, uno strumento di affermazione culturale, monumentale, quasi un tempio dell’industria che ha in sé un’aura sacrale.

Stabilimenti AEG – Berlino – 1909/1912
Farben Industrie – Frankfurt-Hochst – 1920

Razionale Walter Gropius e Adolf Meyer
Nella corrente industriale razionale l’architettura non richiama ad una partecipazione emotiva da parte di chi la guarda perché si ritiene che il mondo industriale è il mondo della fredda razionalità e non dell’esaltazione: un corpo perfetto con forme asciutte che prende forma da un pragmatico utilizzo dei materiali. 
Il grande merito di Gropius è quello di ribaltare il concetto di fabbrica: è la funzione che fa la forma e non il contrario, concetto che sarà l’essenza del nascente Movimento Moderno e del Bauhaus.

Fabbrica Fagus – Alfed an der Leine – 1911

È in questo clima che trova la sua più grande aspirazione l’allora ventottenne giovane artista Walter Gropius, entrato a far parte del DWB nel 1912 e che, in questa querelle si schiera dalla parte dei più anziani individualisti dello Jugendstil – Henry van de Velde, l’architetto tedesco Agust Endell e lo scultore svizzero Hermann Obrist – e dei quali Muthesius deplorava le eccentricità ed aveva ormai da tempo condannato i metodi e lo stile.

Per capire quanto
Gropius  fosse integrato in questo
ambito, basti pensare che già nel 1915, per scongiurarne la chiusura, chiede di
essere nominato direttore della Scuola di Artigianato Artistico che
Henry van de Velde ha fondato e diretto a Weimar, ma che, ancor prima della guerra,
è costretto a lasciare per problemi di xenofobia. La Scuola di Artigianato
Artistico viene comunque chiusa ma a Weimar c’è una seconda scuola,
l’Accademia delle Belle Arti
il cui direttore Franz Mackensen, volendo
aggiungere una sezione di architettura, pensa di affidarne la direzione a
Gropius. Rifacendosi in tutto e per tutto alle idee proposte dall’associazione
tedesca Walter Gropius, presenta delle proposte alle scuole basate sulla
stretta collaborazione tra la parte commerciale e  tecnica a quella artistica, e rifacendosi
all’ideale delle corporazioni edili medievali, propone un lavoro “in sintonia
di spirito” e con una grande “unità di intenti”.

Le esigenze della guerra hanno, però, dei princìpi che vanno al di là delle querelles e delle propensioni artistiche, tanto che è inevitabile l’ascesa della tendenza alla standardizzazione e alla produzione meccanica per far fronte alle condizioni economiche di disagio che si creano in questo periodo storico e in tutti quelli in cui la sopravvivenza diventa il fine ultimo. Nel 1917 si crea una commissione per la definizione degli standard produttivi, il Normenausschuss der deutschen Industrie, di ispirazione americana, con il quale il DWB, rappresentato da Multhesius e Peter Behrens, collabora in modo importante. Introdotta in Germania fra i provvedimenti dell’ economia bellica, dopo il 1918 la nuova normativa divenne parte integrante della prassi architettonica e della produzione industriale.  

Ma Gropius non si arrende e nel  1919 trova l’appoggio dall’autorità competente ed il governo provvisorio dell’allora Stato libero del Granducato Sassonia-Weimar e, alla fine di marzo, accoglie la sua richiesta di dirigere entrambi gli Istituti, l’Accademia delle Belle Arti (Hochschule für bildende Kunst) e la Scuola di Artigianato Artistico (Kunstgewerbeschule) che è stata chiusa, riuniti sotto la denominazione di Staatliches Bauhaus in Weimar, ed i cui due nomi originali appaiono inizialmente nel sottotitolo: Vereinigte ehemalige großherzogliche Hochschule für bildende Kunst und ehemalige großherzogliche Kunstgewerbeschule.

Il 12 aprile 1919 Gropius viene ufficialmente chiamato a dirigere l’Istituto e viene così fondata la più moderna scuola di Arte dell’epoca: il Bauhaus di Weimar, il Bauhaus espressionista.





COMPLESSO RELIGIOSO O SALOTTO BUONO? Il Tempio della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni a Roma.

Ingresso al Tempio. Immagine tratta da www.media-mormoni.it

L’occasione fornita da ALOA (Associazione Ludica dell’Ordine degli Architetti di Roma) il 19 gennaio scorso di visitare il complesso della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni edificato dalla Comunità Mormone a Roma, prima della dedicazione del Tempio agli scopi religiosi con conseguente sua chiusura al pubblico non praticante ma con accesso consentito a tutti negli spazi e servizi esterni, mi ha fatto tornare alla memoria la circostanza in cui sono entrata in contatto, anche se indirettamente, con il mondo di questa Comunità.

Mi riferisco al romanzo di Sir Arthur Conan Doyle, Uno studio in rosso (A study in scarlet), pubblicato nel 1887, in cui il celebre detective Sherlock Holmes, con la sua indiscutibile e quasi irritante abilità, riesce a districarsi nella risoluzione di un omicidio che aveva le sue radici nella lontana America, e, precisamente, nello stato dell’Utah, per poi avere un drammatico epilogo a Londra. Nonostante sia sempre stata un’appassionata di romanzi gialli devo dire di essere rimasta molto colpita dal clima di quel racconto forse perché l’omicidio aveva origine in un contesto un po’ oppressivo.

La possibilità di visitare il Tempio mi è sembrata una buona occasione per cercare di acquisire una conoscenza meno superficiale, attraverso un contatto diretto con la sua rappresentazione architettonica, di un clima culturale alquanto diverso da quello in cui sono cresciuta, approfittando di una manifestazione espressamente dedicata agli Architetti e, quindi, almeno nelle attese, volta a far conoscere le particolarità di quel mondo sotto questo profilo.

Il Tempio © Lucilla Brignola

L’ultimo complesso religioso, di notevole rilevanza, edificato a Roma era stato quello del Centro Culturale Islamico alla cui inaugurazione, nella giornata dedicata alle sole donne, avevo partecipato nel lontano giugno del 1995. Con questo nuovo imponente complesso Roma, sede per eccellenza della Chiesa Cattolica, aggiunge un altro esempio del profondo legame tra architettura e religione e, come accaduto per il complesso della Moschea, edificato con le risorse private della Comunità Islamica, anche questo è stato interamente finanziato dalla Comunità Mormone con grande profusione di mezzi come abbiamo potuto constatare.

L’intero complesso. Immagine tratta da www.media-mormoni.it

Appena entrati nell’Edificio polifunzionale facente parte dell’imponente struttura che si estende su una superficie di ben 6 ettari, siamo stati introdotti in una delle tante sale al piano terra, dotata di impianto televisivo, dove due serafiche ragazze, provenienti dallo Stato dell’Utah, si alternavano nelle spiegazioni di quello che avremmo visto con l’ausilio di un video molto curato che, peraltro, introduceva quasi esclusivamente alla loro cultura. Pura e semplice pubblicizzazione del loro credo. Uno spot pubblicitario. Dopo il video siamo stati presi in carico dalla nostra guida, un giovane e sorridente architetto, e abbiamo cominciato il tour nel Tempio vero e proprio, con divieto di fotografare e, ovviamente, guardati a vista. Ma sempre con il sorriso sulle labbra.

Edificio polifunzionale © Lucilla Brignola

All’entrata gentili, servizievoli e sorridenti signore ci hanno infilato ai piedi apposite soprascarpe di plastica per non sporcare, visto anche il tempo inclemente, pavimenti e tappeti, e siamo stati ammessi nell’edificio. Per chi, come me, non era mai entrata in un Tempio Mormone la sorpresa più grande è stata quella di non essere introdotti, dopo un ingresso che sembrava la reception di un albergo di lusso con espressi ed accentuati riferimenti decorativi che riproducono quelli della Piazza del Campidoglio di Roma, in un’unica sala grande di preghiera o di meditazione e di non vedere dall’interno la verticalità delle guglie, ma solo una serie di ambienti più o meno grandi, secondo la necessità, con profusione di decorazioni di vari stili e materiali che si sviluppano su tre livelli per una superficie di quasi 4.000 mq. Insomma un labirinto di stanze che mi è sembrato in evidente contrasto con l’imponente volumetria del Tempio, in granito sardo, visto dall’esterno.

Come ci ha spiegato la guida, dal 10 marzo in poi, quando l’edificio del Tempio verrà aperto ufficialmente al culto, l’ingresso al pubblico sarà vietato e consentito solo ai fedeli, i quali entreranno sempre con i loro migliori vestiti, per poi cambiarsi e indossare una veste bianca perché in questo luogo non ci devono essere distinzioni fra i gli aderenti alla Comunità.

Mentre ci introduceva alla nostra visita ci spiegava un po’ di tutto rispondendo alle nostre domande in modo affabile e sorridente come si fa con dei bambini che per loro natura sono pericolosi perché non si sa mai dove vanno a parare e schivando, non sempre in modo convincente, le domande che di volta in volta il gruppetto di noi ospiti poneva sollecitato anche dalle sue parole. Ci ha fatto notare che, man mano che salivamo verso i piani alti, i colori erano sempre più chiari come anche la luce sempre più abbagliante. Espresso ed ovvio riferimento al progressivo avvicinarsi alla Divinità. La luce artificiale è diffusa da enormi lampadari di Murano e di Swarovsky mentre quella naturale filtra da finestre, provenienti da laboratori americani, decorate con motivi floreali o vegetali. La giornata piovosa e grigia, secondo la guida, non era però favorevole ai riflessi delle vetrate sui muri che sarebbero stati invece, molto suggestivi in una giornata di sole. Tra le varie stanze la Sala Celeste, che certamente rappresenta la serenità dei cieli e luogo principe per la meditazione, è forse quella che abbonda di più delle altre in ornamenti, luci e decorazioni mentre quella che mi è sembrata avere un’imponenza maggiore delle altre è il Battistero. Un’enorme vasca sorretta da 12 buoi in vetroresina che simboleggiano le 12 tribù di Israele e nel quale è officiato il battesimo oltre che dei vivi anche degli antenati deceduti alla quale, la Comunità, da quello che si è capito, sembra tenere moltissimo. Provo una strana sensazione. Interpretare la volontà dei defunti?

Sala Celeste e Battistero. Immagini tratte da www.media-mormoni.it

Il tour prosegue. In tutti gli spazi interni si è cercato di rendere omaggio al Genius Loci con utilizzo massiccio e alquanto ridondante e quasi ossessivo di materiali e stilemi come il travertino romano, le forme concave e convesse prese in prestito da Bernini e Borromini e la ripetuta riproduzione del disegno della piazza del Campidoglio di Michelangelo su soffitti, pavimenti, tappeti e ovunque si presentasse la pur minima occasione di decorare. Tentativo apprezzabile ma superficiale.

La progettazione di tutto il complesso è stata curata dallo studio VCBO Architects nella persona dell’architetto Valentinier, mormone, come ha tenuto a sottolineare la nostra Guida sollecitato da una mia domanda. La provenienza del progettista dalle fila della Comunità facilita molto la realizzazione dell’opera, ma, ha aggiunto immediatamente che questa non è una regola…salvandosi in corner da una raffica di domande con le quali lo avrei sommerso! Ma un’altra ho dovuta fargliela lo stesso. Avevo notato che in tutte le rappresentazioni pittoriche non era mai mostrata la sofferenza né si erano visti Crocefissi. La sua risposta è stata che sì, esiste la sofferenza, ma è solo un momento che deve essere superato con la gioia di vivere e che non è necessario esibirla, nemmeno se è quella del Cristo.

Preso atto di questa impostazione filosofica generale sulla quale ognuno può fare le sue valutazioni e tornando agli aspetti più pertinenti allo scopo della visita, l’unica cosa che ha suscitato vivo interesse è stata la ricerca dell’imperfezione costruttiva sia all’interno sia all’esterno. Sembrava il gioco che si trova sui giornali enigmistici (indovina le differenze tra due figure), ma alla fine siamo stati rassicurati perché ci è stato detto dal nostro Vate che per la costruzione dei Templi Mormoni esiste un apposito e tassativo libro di specifiche al quale si devono attenere tutti quelli che realizzano le opere per loro e che, durante l’esecuzione dei lavori e in continuazione, veniva verificata l’assoluta perfezione e aderenza alle prescrizioni ivi stabilite. Devo riconoscere che effettivamente è così. L’impresa costruttrice, la Cg Edilcoop, con l’apporto di numerose altre imprese anche estere, ha fatto il miracolo che ogni architetto vorrebbe vedere in cantiere!

Di fronte al Tempio, collegato da un corso d’acqua, c’è il Centro Visitatori e, alla sinistra, la Foresteria. I due edifici, ovviamente, hanno un aspetto architettonico molto più sobrio, nell’uso dei materiali e nelle forme architettoniche rispetto agli ambienti e alla struttura architettonica del Tempio. L’utilizzo di porticati, di materiali come mattoncini e travertino per sottolineare l’identità romana, vegetazione autoctona e articolazione degli spazi molto equilibrata che infonde un’atmosfera di grande calma e serenità.

Che mi è sembrata somigliare al loro sorriso un po’ stereotipato.

In alto la Foresteria, in basso il Centro visitatori © Lucilla Brignola

Un altro momento di grande enfasi si vive all’interno del Centro Visitatori. Varcata la soglia, nella vetrata curvilinea il Cristo Risorto, circondato dai Dodici Apostoli, accoglie gli ospiti con lo sguardo rivolto verso il Tempio e, dulcis in fundo, altro particolare degno di nota, con tutto il rispetto, esilarante, è la presenza, all’interno del Centro, di una costruzione in stile vecchio casale dell’agro romano localizzato in una fantomatica “Piazza S. Giovanni”, che loro chiamano installazione interattiva.

Il Cristo risorto © Lucilla Brignola
Installazione interattiva © Lucilla Brignola

Sarà
forse una riflessione un po’ superficiale ma, osservando le immagini disponibili
dei Templi Mormoni attualmente esistenti nel mondo, si potrebbe dire che,
nonostante il tentativo di adattarli al luogo di appartenenza, ciò che risulta
più evidente, non tanto per il linguaggio architettonico utilizzato per gli
esterni quanto per gli ambienti interni, è che sembra si somiglino tutti. Una serie
di stanze, legate sicuramente ai riti, molto sfarzose con il quale loro
celebrano Dio, quasi come IKEA realizza, pur con le dovute doverose differenze,
i suoi centri vendita.

Passeggiando all’esterno, ormai senza guida, e volgendo lo sguardo alla piazza (il Foro Romano), circondata da aree verdi ben curate e osservando questi spazi, il pensiero che il luogo migliore per la meditazione e per avvicinarsi a Dio sia quello esterno piuttosto che quello degli ambienti interni sfarzosi e super decorati del Tempio forse è lecito. Anche se piove un po’.


Tutte le immagini contenute in questo articolo, lì dove specificato, sono tratte dal web e possono essere soggette a copyright, tutte le altre sono coperte da diritto d’autore © Lucilla Brignola