DELLA PACE DOMESTICA

La tata aveva il giorno di libertà e lei era stata costretta a sterilizzare i poppatoi. Avvertiva ancora l’odore acuto del disinfettante. Per distrarsene aveva deciso di smaltarsi le unghie dei piedi. Seduta sul divano, china sulle gambe stese sul tavolino, attingeva lo smalto da una boccetta a forma di lacrima. Stendeva quel rosso con metodo, dal basso verso l’alto, preoccupata di non formare grumi.

     L’appartamento, in un momento di tregua insperato, era silenzioso, come non accadeva da tempo. Poi un rumore di serratura: lui era tornato. Oltre la soglia, si era poggiato col gomito al pilastro della scala interna e l’aveva osservata in silenzio.

‘Stai calma,’ si era detta ‘stai calma’ e si era costretta a guardare la stanza intorno a lei: i libri, allineati in ordine decrescente d’altezza, nella libreria; la confezione di Seroxat, aperta sul mobile, accanto a un bicchiere vuoto; le cornici d’argento, disposte in modo da poter essere viste entrando, con le foto di loro due sorridenti. Era stato lui a imporre quelle scelte nell’arredamento; lei le aveva sempre subite.

     Non era riuscita a calmarsi, anzi sconforto e confusione, se possibile, erano cresciuti. Lo sguardo di lui, fisso sui suoi piedi nudi, la metteva in soggezione e le appannava il cervello. Con pudore li aveva seppelliti sotto un cuscino del divano, lo smalto, ancora fresco, l’aveva macchiato con uno sfregio rubino, simile a una ferita. 

«Non possiamo continuare così» lui aveva detto. 

«Sei tu che hai deciso di tradirmi».

Era stata in silenzio per tutto il giorno, da stupirsi del suono della propria voce.

«È la tua immaginazione».

«Se non è così perché sparisci e mi lasci sempre più sola?»

«Io lavoro».

«Non puoi lavorare venti ore al giorno. I sabati. Le domeniche».

«Se non lo facessi non avresti questa casa, la bambinaia, le carte di credito».

«Puoi riprenderti tutto e darlo a quelle che ti porti a letto».

«Non vado a letto con nessuna».

«Non mentire. Torna dalla tua segretaria o dalle sciampiste che ti fanno l’occhietto».

«È assurda questa gelosia».

«Quando è stata l’ultima volta che abbiamo fatto l’amore?»

«Non lo so. Sei sempre piena di astio. Da quando è nato Sergio, pensi solo a lui. Sei così sciatta».

«Sto tutta la giornata appresso al bambino. Non ho il tempo per fare la mantide. Inventa altre scuse per giustificare i tuoi tradimenti».

«Ottavia, non puoi essere convinta di questo. È solo la depressione post parto», lui aveva detto e le si era avvicinato.

Ottavia, gli occhi sgranati, si era alzata, gli aveva opposto in avanti le mani rabbrividendo per il contatto dei piedi nudi col parquet.

Erano rimasti a fronteggiarsi in silenzio, ciascuno ai confini dello spazio vitale dell’altro e lei aveva percepito l’odore della sua acqua di colonia: sapeva di fiori morti.

     Aveva passato una mano tra i capelli e gridato con astio a quell’effluvio: «Hai detto che eri a Milano per lavoro, l’altra settimana. Ma nella valigia ho trovato una ricevuta dell’Hotel delle Terme di Sciacca e, tra le tue mutande sporche, un capello biondo. Basta bugie. Torna dalle tue puttane».

«Avessi detto che andavo in una clinica del benessere per stare lontano dall’atmosfera di questa casa, avresti montato un casino dei tuoi. Non so di chi sia quel capello, se c’è veramente» lui aveva risposto, il viso di pallido, trasformato in una smorfia rugosa.

Poi, senza voltarle le spalle, aveva fatto due passi indietro, urtando lo spigolo del cassettone, quello di noce scuro comprato insieme in Umbria, perdendo quasi l’equilibrio. Si era mantenuto in piedi aggrappandosi con la sinistra al bordo del mobile, mentre afferrava con la destra, tra i sopramobili disposti sulla superficie lucida, un taglia carte d’avorio. L’aveva guardata, spostando lo sguardo, d’un azzurro avverso, da quell’oggetto acuminato a lei per uno, due, lunghissimi secondi, poi, tenendolo per le estremità, lo aveva spezzato e la casa si era riempita dell’eco di quel gesto.  Aveva gettato sul pavimento i pezzi d’osso e era uscito.

Il tonfo della porta richiusa si era fuso col pianto di un neonato.

Ottavia allora aveva portato le mani alle orecchie, scuotendo più volte, a destra e a sinistra, la testa.

‘Arrivo’ aveva pensato ‘mamma sta arrivando’.

     Su, in camera da letto, si era chinata sulla culla del figlio, lo aveva rigirato su un fianco e accennato una ninna finché non si fu riaddormentato. Ottavia, allora, gli aveva rimboccato le coperte, non serrandole ai lati: temeva sempre potesse soffocare.

     Era tornata in salotto, scendendo rapida le scale, tolto dalla parete un quadro, armeggiato con i pomelli della cassaforte. Il ticchettio dentato degli ingranaggi si confondeva con il tonfo accelerato del suo cuore. Aveva tuffato la mano nel buio, oltre lo sportello corazzato aperto ed estratto un balenare d’acciaio.

Si era precipitata al balcone, il pugno serrato intorno al calcio della pistola. Dall’alto aveva individuato la sagoma di lui, ferma a parlare con una donna. E era stato come se fosse di un’altra il braccio che, sollevandosi fino all’altezza dello sguardo, aveva puntato il naso metallico dell’arma sulla schiena di lui e sparato. Intorno alla figura del marito subito si era alzati sbuffi di bitume, neri come un’eruzione, lui si era voltato in direzione degli spari, l’aveva vista ritta dietro la ringhiera e con un grido si era nascosto, rotolando su se stesso, dietro un cassonetto, insieme all’altra donna. Ottavia aveva fissato inebetita la scena, poi senza un pensiero era rientrata in casa. Poggiandosi al corrimano aveva risalito turbata i gradini verso la zona notte, della casa, accompagnata dalla percezione crescente, di urla e sirene a graffiarle l’udito. Un baluginio di luce bianca e azzurra l’aveva avvolta roteando sui muri.

     Il piccolo non si era svegliato. Soltanto dopo che Ottavia si era chiusa con lui in bagno, Sergio aveva cominciato a lamentarsi con piccoli gorgoglii musicali. Ottavia avvertiva i battiti del cuore aumentare: da adesso tutto sarebbe cambiato.

Sergio si agitava e piangeva. Lei aveva poggiato le spalle alla parete e puntellandosi con i piedi cominciato a scivolare verso il pavimento, fino a trovarcisi seduta.

Nella mano destra stringeva la pistola, col braccio sinistro sorreggeva il peso del bambino. Le dita nude dei piedi inquadravano la parte inferiore del lavabo: una convessità oscena e paurosa.

Sergio continuava a piangere, lei lo cullava ondeggiando avanti e indietro col busto. Quando Sergio aveva smesso di piangere tutto era di nuovo in silenzio. Qualunque cosa potesse accaderle, non aveva più importanza. In quel momento le andava bene così: finalmente senza di lui.

Soltanto aveva freddo; molto. La mano destra, stretta sul calcio, le tremava e la canna della pistola picchiettava sul pavimento. Era come ipnotizzata da quel suono tondo e continuo.

A scuoterla, inaspettato, lo squillo del telefono.

‘Purché non svegli Sergio’ aveva pensato precipitandosi in corridoio e passato istintivamente la pistola sulla sinistra, cercando di tenerla lontana dal corpo del figlio. Questo gesto la portò a pensare che era inutile rispondere perché il bimbo era con lei, al sicuro. Ma era troppo tardi: stringeva già il portatile nella destra.

«Non riattacchi. Mi ascolti, per favore» una voce d’uomo diceva.     

«Ho già parlato con troppi dottori. No».

«Non sono medico. C’è il suo accanto a me. Se non vuole parlargli, possiamo farlo noi due. Il bambino è con lei? Mi dica almeno questo».

«Dorme. Chi sei e perché mi telefoni?»

«Mi chiamo Lupo, sono un ufficiale dei carabinieri, voglio aiutarla».   

A quelle parole, sbigottita, aveva rivisto se stessa sparare e il marito che si rivoltava sul selciato come una frittata.

Sergio si agitava nel sonno. Un rivolo di saliva gli scivolava dalla bocca, fino alla guancia. Ottavia aveva cercato di asciugarlo con il polso della camicetta e nel farlo aveva pressato un tasto del ricevitore e la comunicazione si era interrotta in un bit metallico. Era di nuovo sola. Non ebbe il tempo di arrendersi a una crisi di pianto, perché il telefono risquillò disperato.

«Capisco come ti senti» aveva ascoltato Lupo.

«Cosa ne sai. Stai mentendo; come lui».

«Sono stato malato anch’io, come te. A volte desideravo avere un tumore. Almeno sarebbe finita».

«Nessuno può capire come ci si sente» gli aveva risposto, poi continuò con veemenza: «E quelli che credi più vicini, quando trovi il coraggio di parlare, dopo un po’ non ti ascoltano più. Faceva così anche lui».

«Calmati, adesso calmati» la voce di Lupo la esortava dal ricevitore e per Ottavia fu come se ne avesse conosciuto il timbro da sempre.

«Gli facevo paura con la mia malattia, ma non aveva il coraggio di lasciarmi».

«Sei confusa e stanca. Fatti aiutare».

«Ho solo freddo» aveva risposto, mente avvertiva le ginocchia flettersi. Si era poggiata ancora una volta al muro e il freddo della parete si aggiunse a quello che provato e, ancora una volta, i pensieri e le immagini delle ultime ore l’avevano assalita. Il cuore a mille. Soltanto la voce di Lupo le impediva di sentirsi ancora più disperata e sola; la immaginava, quella voce, partire da un luogo lontano, trasformarsi in impulsi, imbucarsi dentro fasci di cavi e raggiungerla.

Sergio dormiva, ma Ottavia avvertiva il braccio su cui era steso intorpidirsi. Ebbe paura di non riuscire a reggerlo e lo strinse più forte; il piccolo aveva riaperto gli occhi azzurro liquido e cominciato a piangere.

‘Lupo non può non sentirlo’ aveva pensato.

«Penserete a lui?» Ottavia aveva chiesto alla voce.

«Stai sicura».

«Cosa vuoi che faccia».

«Sono dietro la porta, fammi entrare. Non devi avere paura».

‘No,no,no’ Ottavia pensava scendendo  verso il salone dentro una vertigine di confusione. Più di una volta ebbe la certezza di non farcela, ma ogni volta aveva trovato la forza di poggiare il piede nudo su uno scalino, poi su un altro e su un altro ancora.

«Ottavia, ci sei? Ci sei? Per piacere, ci sei?» la voce implorava dal ricevitore, mentre lei lottava con l’equilibrio, la fatica, i contorcimenti di Sergio e il peso della pistola.

Sull’ultimo gradino, prima del parquet del salone, si era fermata. Tutto intorno a lei tremolava. Gambe e occhi le dolevano per lo sforzo.

«Non ci riesco. Non ce la faccio a aprire la porta» aveva bisbigliato dentro il cordless.

«Stai calma: va benissimo così. Sei molto coraggiosa» Lupo disse «ho un passepartout. Entro io. Stai calma».

Poi aveva percepito un graffiare metallico intorno alla serratura e il ruotare dei cardini. La porta blindata si era scostata quel tanto da permettere a un uomo di entrare. E Ottavia lo aveva visto: appesantito e scuro di capelli. Infagottato dentro un giubbotto blu.

«Ottavia» l’aveva chiamata, come se anche lui la conoscesse da sempre, almeno il suo malessere, lei aveva pensato. E mentre Lupo le si avvicinava, con le braccia in avanti e le mani rivolte verso l’alto, non si era chiesta se quel gesto era un modo per non mostrarle ostilità o per offrirle un abbraccio: si era sforzata di recuperare le sue ultime forze e gli era andata incontro. Quando gli fu vicinissima aveva poggiato la fronte sulla sua spalla.

Lupo, senza gesti bruschi, le aveva sorretto il braccio su cui Sergio si agitava e soltanto allora Ottavia lasciò cadere la pistola sul pavimento; aveva affondato il viso nella tela del giubbotto di lui e pianto a dirotto.




Il punto d’incontro di due rette parallele

    Era in piedi, le spalle alla parete, al riparo. Guardò oltre la finestra: lo scirocco soffiava sulla campagna, i muretti a secco, le masserie, i filari di vite; tutto si confondeva in un’aurea da miraggio. Al centro del cortile vide una macchina ferma sotto l’ombra del grande ulivo e si confortò: ormai un cordone di sicurezza circondava l’agriturismo: non erano più in pericolo.

     «Mi stordisce questo posto, comandante Lupo» lei disse «dopo quello che abbiamo passato».

    Alle spalle di Lupo il condizionatore combatteva monocorde la battaglia contro la calura. Nella stanza un tavolo, due sedie, un fornello su cui gorgogliava una moka, due tazze di porcellana; anche se la fuga era finita i suoi sensi, però, rimanevano vigili: avvertì espandersi l’odore del caffè e sul filo di quell’aroma, i ricordi del loro recente passato si ripresentarono non invitati.

    E fu di nuovo a Tel Aviv, al tavolino di un bar, ad aspettare.

    Il suo mestiere era fatto d’attese e paura: dell’attesa di un segnale che confermasse la riuscita di un’operazione; della paura per la propria vita, per quella degli altri; per la missione sempre sul punto di abortire. Ma poi eccola arrivare; sedere, senza guardarlo, a un altro tavolo, giocare con gli occhiali da sole, ordinare un caffè e scacciare, con la sua presenza, ansia e tensione. 

    In Lupo la certezza di portare avanti l’operazione e il sollievo di rivederla si sovrapponevano. Perché, anche se disciplina e mestiere gli impedivano di ammetterlo, lei era diventata importante quanto la riuscita della missione. E adesso era lì, a tre metri; al collo i grani di una collana di corallo. Un codice: confermava l’invio, nell’ufficio import-export usato dal Servizio come base operativa, di un pony express. Chi nota un fattorino nell’atrio di un grattacielo commerciale? Avrebbe consegnato una busta con dentro un foglio fitto di numeri e conti bancari. Un altro tassello al tradimento di lei.

    Lupo avrebbe voluto parlarle, rassicurarla e rassicurarsi, ma erano in pubblico, costretti dalla copertura. Per tutti lui era un organizzatore culturale e lei la frequentatrice, poco assidua, di conferenze e mostre: tra loro doveva apparire soltanto una cordialità distaccata e formale. Lei, perfetta nella parte, gli dedicò un sorriso accennato e un saluto col capo. Poi si alzò passandogli vicino. Lo sguardo di Lupo la seguì fino alla Mercedes, guidata da un arabo robusto, con cui andò via.

    Come sempre si scoprì turbato da lei e desiderò smettesse il doppio gioco, sempre più pericoloso, e si salvasse. Era stata per Lupo, fino ad un anno prima, soltanto una figura sullo sfondo della caccia a Saled Katami, il padre/padrone di un’organizzazione travestita da austera finanziaria internazionale, ma sempre pronta a sostenere con uomini e mezzi il terrorismo internazionale. Un’appariscente bellezza dai capelli ramati e dal corpo florido; arrivava alle mostre, con l’aria barocca delle donne mediorientali laiche e abbienti quando indossano abiti occidentali, scortata a distanza dall’autista arabo. Tutti la accoglievano e la corteggiavano, perché era il giocattolo personale di Katami. 

     A Lupo appariva lontana dal quel mondo e mai avrebbe pensato potesse rivelarsi l’anello debole della catena. Invece un giorno era arrivata in Istituto, col pretesto di iscriversi a un corso di cucina e gli aveva consegnato un foglietto.   

     «Ho copiato questi numeri dal pc di Saled. Non so. Forse possono esserti utili» gli aveva detto; a Lupo erano bastati pochi secondi per rendersi conto: quel foglietto manoscritto con numeri satellitari, e-mail e nomi di società, era la prima crepa alle difese di Katami. Aspettava quel momento da anni, ma non aveva avvertito nessun senso di trionfo, si era sorpreso, anzi, a fare i conti con la paura per il coinvolgimento di lei. Per arginare la deriva dei pensieri si era rifugiato nell’ortodossia del mestiere. Brusco aveva intascato il biglietto, sforzandosi di non pensare. Si era limitato a guardare le rughe d’espressione ai lati degli occhi di lei e a pensare che mai si sarebbe perdonato, se le fosse capitato qualcosa.

     Lei ne aveva retto lo sguardo e indicato un poster promozionale.

     «Ho imparato la lingua dalle suore. Sono cresciuta in istituto, sai. Ora voglio vederlo di persona il tuo paese» aveva detto, Facendo tintinnare i braccialetti al polso.

    «Ci andrai, quando sarà finita. È un impegno».

    Per mesi le sue informazioni avevano dato lavoro agli analisti e guidato l’azione del Servizio. Almeno fino a quando Lupo non l’aveva vista, sulla terrazza di un locale sul Mediterraneo, pallida in viso, portare a tracolla una borsa gialla. Un segnale concordato di pericolo. Mi sospettano e ho paura, diceva quel codice. Lupo aveva avvertito lo stomaco accartocciarsi e compreso: l’unica soluzione era la fuga. Via da Tel Aviv. Verso casa.

    In poche ore – secoli al suo senso d’urgenza – la finestra di fuga venne ristudiata, ricontrollata, attivata.

     La mattina dopo Lupo fu di fronte una palazzina grigia, pregando perché quel giorno lei rispettasse il consueto appuntamento dal parrucchiere. Quando l’aveva vista scendere dalla Mercedes seguita dall’autista e da un altro giannizzero aveva dato il via agli uomini, con rabbia e sollievo. Nel ricordo l’azione gli sembrava essersi svolta come al rallentatore, sovrastata dal battito anomalo del suo cuore; per entrare nel negozio occorreva attraversare un atrio: avevano agito lì e sorpreso i due mastini. Lui stesso aveva colpito, con un calzino pieno di monete, l’autista alla nuca, sferrandogli poi un calcio ai testicoli.

    Era salita sulla loro macchina muta, pallida e stupita. Lui le si era seduto accanto.

    «Hai paura?» le aveva chiesto, mentre le palme del lungomare scorrevano dal finestrino. Lei aveva intrecciato le dita delle mani, s’era addossata allo schienale, socchiuso gli occhi e ispirato forte, senza rispondergli.

        Insieme l’agente e la sua fonte, nascosti nella stiva di una petroliera Eni, avevano raggiunto Malta. Da lì, con un catamarano di linea, Pozzallo, mischiati alla torma dei frequentatori del casinò.

A Ibla, di fronte al duomo di San Giorgio, come due escursionisti qualunque tra gente qualunque. Seguendo una procedura mandata a memoria da sempre, Lupo era entrato nell’ufficio turistico della piazza e chiesto informazioni su un particolare arredo del castello di Donnafugata. Gli avevano consegnarono una busta; all’interno vi aveva trovato il cartoncino pubblicitario di un agriturismo, la casa sicura scelta per loro, e le chiavi di una macchina. Doveva portarla là e ricominciare ad attendere, come sempre aveva fatto in tutta la sua vita di spia. Succube di un riflesso pavloviano aveva percorso il basolato al braccio di lei e raggiunto un’utilitaria posteggiata appena oltre la zona pedonale.

    In macchina, assecondando i tornanti della collina, tra camion e station wagon di gitanti, non avevano parlato; assorbiti ciascuno dal sollievo che sembrava spingere avanti la vecchia Uno.

 Lo sfrigolio della moka allontanò quei ricordi. Il caffè era pronto. Lo versò nelle tazze. Lei era in piedi e lo guardava intensa.

    «Perché stai così lontano da me?» chiese.

    «Per non spaventarti».

    «Sei sempre così premuroso?»

    «È una regola: mai turbare una fonte».

    Lei prese la tazza, vi soffiò sopra. Lupo rivisse nella memoria tutte le volte in cui, durante gli appostamenti, l’aveva vista compiere quel gesto: nei night o seduta ai tavolini di un caffè. Con lo sguardo di chi non vuole essere carina lei bevve un lungo sorso e lui non poté trattenersi dal guardarle le labbra: una stilla di caffè si distribuiva a delta tra i solchi che le percorrevano quando assumeva quell’espressione dura.

    S’era cambiata d’abito e Lupo scoprì di avere di nuovo di fronte la donna di sempre e non più, come durante la fuga, il suo clone infagottato. 

     La fissò come fosse la prima volta: la giacca del tailleur le conteneva con difficoltà le forme, affondò lo sguardo nel solco dei suoi seni e avvertì un desiderio d’intimità e tenerezza, ma era in azione e non poteva permettersi fantasie. Arginò la carica del testosterone e si costrinse a guardare altrove.

    «Sono abituata a questi sguardi e a quello che viene dopo» lei disse.

     Lo sguardo di Lupo si posò sulla forma delle labbra di lei stampate dal rossetto sul bordo della tazzina. ‘Non sei più quella che ho sorvegliato per tante notti’ pensò ‘non è indelebile il tuo rossetto. Non avresti usato cosmetici di cattiva qualità prima’.

    «Perché hai scelto noi per tradire Katami?» le chiese d’istinto. Teneva la tazza di caffè tra le mani e il tepore lo confortava.

     «Sei stato tu» lei rispose sparandogli addosso gli occhi nero vino «vivevo con Saled e non m’importava da dove venisse il suo denaro. Poi sei arrivato tu e ho cominciato a chiedermi se fosse giusto continuare a non vedere. Ho seguito te».

    «Hai tradito Katami perché avevi già deciso a farlo» Lupo rispose d’impulso, maledicendo ancora una volta se stesso: mai disilludere una fonte. Ma con lei in quella stanza, scopriva di non essere più in grado di difendersi.

    «Mi confondi, comandante Lupo» lei riprese, come se comprendesse i pensieri di lui «mi parli e m’innamoro di te. Poi segui i tuoi pensieri e diventi un’altra persona e anche di questa m’innamoro. Ma tu non smetti e cambi di nuovo. Sei così con tutte le tue donne?»

    «Tu non sei una delle mie donne, signorina Schiraz».

    «Perché mi hai portata qui allora, perché mi hai salvato la vita?»

    «Perché i Servizi di mezzo mondo vogliono usare le tue informazioni contro Kaled, perché Forza 17 vuole ucciderti, il Mossad interrogarti prima che questo accada e  anche noi vogliamo la nostra parte e perché questo non è un gioco tra gentiluomini. Vuoi altri perché?»

    Lupo finì il caffè. Ne avvertì il gusto amaro precipitargli in gola e per un attimo s’illuse di avere ristabilito i ruoli: lui il controllore, lei la fonte da proteggere e sfruttare. Solo questo, niente di più. 

    «Cosa c’entra questo con noi due» Schiraz gli rispose, scrollò le spalle, proseguì:

«Ho avuto paura quando Saled mi ha scoperta e quando mi avete portato via. Ma adesso è finita. Sono stata povera. Non sai le violenze ho sopportate per uscirne. Non erano gentiluomini neanche quelli con cui andavo a letto. Ho sopportato e sono sopravvissuta. Ci riuscirò anche questa volta» disse con decisione.

    Lupo guardò dentro la tazza: alcune linee marrone, simili a lacrime, convergevano verso il fondo mischiandosi tra loro.

     ‘Come nella vita’ pensò ‘ciascuno per la sua strada ma tutti attratti da uno stesso centro di gravità’. E forse quella stanza era il loro.

    Fu sul punto di chiederglielo, ma Schiraz lo prevenne: «La mia vita è cambiata e da adesso voglio essere io a scegliere».

   Poi gli s’avvicinò e Lupo scoprì di volere attraversare la distanza tra loro, qualunque fosse. Si abbracciarono e in quel gesto, transitò tutta la loro vita passata, le paure, le ansie e i sentimenti che li avevano condotti tra quelle mura. Ma nessuno dei due, per quanto lo desiderasse, riuscì a liberarsi della soma trascinata fin lì.

    «È stata una cosa da fidanzati» le disse nella penombra.

    «È stata solo la passione tra due adulti. Non ha senso una storia tra noi» Shiraz disse.

    L’agente dentro di lui non poté darle torto. Non aveva parole. Quanto accaduto tra loro era soltanto un altro conto pagato alla vita: l’intersecarsi di due esistenze subito allontanate. La guardò negli occhi in silenzio.

     Poi gli squilli del telefono interno, annunciarono l’arrivo degli inquisitori.

        Erano in tre, guidati da una donna: giovane e sottile, non un filo di trucco. Indossava un pantalone minimal chic, da kapò; parlò per tutti: da quel momento, sottolineò, la testimone – così chiamo Schiraz – era sotto la loro tutela. Lupo comprese di essere  superfluo: l’operazione passava ai ‘regolari’. Gli era sempre stato difficile sopportarli, ma anche loro non sbavavano per gli ‘amici’. Interessi di bottega nel naturale ordine delle cose. Non dissimulò un ghigno di disgusto.

    Schiraz li guardava tutti come se nulla potesse più importale.

    «Sarai sola da adesso. Bada a te» Lupo le disse

    «Saprò guardarmi» lei gli sorrise.

    «Ne sono certo, signorina Schiraz» Lupo rispose e uscì; continenti interi ormai li separavano.

    Guidò nell’afa verso le luci di Modica.

     Doveva ancora officiare l’ultima liturgia della missione: il rapporto a Ulisse.  

    Camminò a piedi lungo la strada principale, a metà del viale giunse al portone di un edificio appena restaurato, all’altezza del suo sguardo la targa d’ottone di un ristorante; all’interno non più di sei tavoli imbanditi, su ciascuno una candela accesa.

    Ulisse era a un tavolo d’angolo. Gli sedette di fronte.

    «Ho ordinato per due» disse a Lupo e poi, come a concludere un discorso pensato tra sé: «È stato un buon lavoro».  

     Servirono una mousse decorata da chicchi caffè tostati, a Lupo ricordarono i capezzoli di Schiraz.

    «Voglio continuare ad occuparmene» disse, mentre Ulisse penetrava la gelatina col cucchiaio.

    Ulisse strinse le labbra, le arricciò, scosse il capo.

    «Sei troppo coinvolto» disse.

    «Lascerò il Servizio, altrimenti».

    «Puoi farlo, ma non la riavrai per questo. Incastrerà Katami e noi la nasconderemo. Sono le regole. Dovrai accettarle».

    «Andrò via lo stesso. Sono troppo stanco».

    «Hai solo bisogno di tempo».

    La parte razionale di lui, condivideva le ragioni di Ulisse: se avesse lasciato, col tempo avrebbe cominciato a odiare Schiraz: il loro era stato soltanto l’incontro casuale di due parallele.

    Lupo avrebbe voluto urlare, rovesciare il tavolo in terra, ma: «Non sarà una cosa breve, lo capisci» si limitò a dire.

    «Abbiamo tutto il tempo del mondo» Ulisse gli rispose, pagò il conto, andò via.

    Lupo si preparò a passare la notte in città. Il Servizio gli aveva prenotato un albergo affacciato sui vicoli.  Dette al portiere documenti falsi e un nome d’arte. Una prassi di sicurezza ripetuta da sempre in automatico, ma questa volta nel farlo avvertì una solitudine indicibile.

     Una volta in camera, uscì sul balcone a fumare. La brace della sigaretta tremava davanti ai suoi occhi. Non riuscì a resistere e fu di nuovo sulla strada.

    Camminò a testa bassa per il corso, attratto dall’insegna luminosa dell’unico bar ancora aperto. All’interno pochi avventori silenziosi. Nessuno si meravigliò del suo ingresso, né lo guardò con curiosità: l’ora tarda e l’aria pesta facevano di lui un membro d’elezione del club. Un giovane biondo reggeva in mano un bicchiere con all’interno un liquore rubino. Scuoteva la testa, sussurrava a se stesso. Lupo, senza capire perché, gli si sentì sodale.

‘Non c’è età per perdere la partita della vita’ pensò. Accese una sigaretta, ne seguì con lo sguardo il consumarsi. Tutto era immobile. Acquistò il giornale locale da un extracomunitario. Lo spiegò sul tavolo: la crisi economica avanzava, ma il governo annunciava provvedimenti; una nuova sopraelevata avrebbe decongestionato il traffico in città. La banalità di quelle informazioni lo sconvolse e comprese come il mondo andasse avanti lo stesso, indifferente alle disperazioni di ognuno. Vide su una pagina interna del giornale, di spalla a molte colonne, la foto in bianco e nero di una donna. Non ebbe bisogno della didascalia per riconoscere la donna a cui aveva consegnato Schiraz. A lei, magistrato in trincea si dovevano, raccontava l’articolo, gli arresti di alcuni esponenti mafiosi. Da domani sfruttando le informazioni di Schiraz, sarebbe diventata un eroe, pensò. Ma tutto questo aveva una vita autonoma, ormai. Non serviva combattere: le cose andavano avanti lo stesso.

    Guardò il ragazzo biondo a pochi passi da lui: aveva le lacrime agli occhi e lui, in quelle lacrime, misurò tutta la propria impotenza. Avrebbe voluto andargli vicino, consolarlo per la sua pena, qualunque fosse. Ma ormai sapeva: non ci sarebbe riuscito. Tutto sarebbe andato come doveva e quel dolore era inutile.

    Rimase seduto e ordinò un espresso, lo condì con molto zucchero: l’unica dolcezza che poteva permettersi ormai.

 




Io, le scuole di scrittura creativa, due biblioteche e un falò

Leggendo sempre più avvisi sui corsi di scrittura che si tengono in giro mi rendo conto di avere avuto una fortuna sfacciata nella vita. Proprio non ci riesco, questo sì è molto snob, a ritenere che si possa insegnare a scrivere. È una polemica, inutile e quindi più gustosa perché con un unico esito già scritto, che porto avanti da tempo, al punto che avevo anche stilato le regole per un corso di scrittura noiosa da contrapporre ai tanti e troppi corsi di scrittura creativa.

La scrittura è un sottoinsieme del racconto, una tecnica di racconto, ma l’abilità è affidata sempre più al racconto che all’oratore o allo scrittore, il raccontatore è un mezzo che si mette al servizio del racconto. Ma questo è soltanto uno dei tanti modi di guardare alla scrittura.

Un po’ sì, naturalmente, si può imparare a scrivere meglio, si può migliorare la forma, o come esprimere un concetto, si può imparare a modularlo, anche a costruire una struttura più complessa del semplice racconto, ma credo che l’utilità vera di questi corsi sia in realtà condividere con altri la tua passione, scambiarsi esperienze, sperando di avere la fortuna che le persone da cui impari siano oneste nello spiegarti che per dire qualsiasi cosa devi avere qualcosa da dire.

Perché il fine, almeno il mio fine, nello scrivere o più precisamente nel raccontare, che come accennato è questione più complessa della semplice scrittura e che andrebbe esaminata in un contesto di cui la scrittura è solo una parte, su cui non ci sono scuole efficaci, è la costruzione di universi paralleli in cui polemicamente vivere a parte, finché la realtà non si sarà adeguata alla mia idea di piacere.

Raccontare è un rito sciamanico, che per quanto tu cerchi di capire razionalmente come funzioni, quale sia la tecnica, quali i passaggi, rimane sempre appeso a un incanto che nessuna scuola può insegnare, a meno che come un rabdomante la scuola t’insegni a cercare la sorgente dei racconti, il luogo dove stanno tutti radunati in attesa di essere presi e sviluppati.  Tutte idee opinabili naturalmente, ma volevo condividere la fortuna che ho avuto a nascere in una casa con due biblioteche distinte e separate, con una sorgente che scorreva sempre da cui attingere. Tra i tanti motivi di attrito nelle nostre vite di questo non potrò mai rendere abbastanza merito ai miei genitori.

Scaffali separati

La prima biblioteca, quella paterna, era terribile, tutto ciò che un ragazzo non vorrebbe mai trovare come intralcio lungo la strada per feste, bevute, fumate, amori e avventure di vita vera. Oltre quattromila testi accumulati in cinquant’anni da mio padre, che si piccava di parlare in greco antico e partecipava a una sorta di olimpiadi del latino che si tenevano in quegli anni lontani, credo si chiamassero le Ciceroniadi, tutti i classici latini e greci (senza olive), tutti i principali autori italiani e stranieri dal settecento a ieri, uniti poi da una serie di enciclopedie e dizionari universali comprensivi di regionalismi. È stato difficile deludere mio padre ma ci sono riuscito con grande sforzo, dedizione e costanza verso l’obiettivo. Ho iniziato a leggere quella roba lì, al netto degli impegni scolastici, dopo essere entrato nei quarant’anni, quando finalmente la vita mi ha lasciato un po’ di tempo libero per nascondermi agli altri, per mangiare a casa, per fare finta di non essere in casa, per preferire libri a persone, soprattutto per godermi quello che leggevo.

Ma in quel frattempo lungo molti anni ho saccheggiato senza ritegno la seconda biblioteca di casa, quella di mia madre. Lauretta aveva soltanto la licenza elementare perché non stava bene a quell’epoca che le donne studiassero. Il padre picchiò lei e la sorella nascoste in bagno a leggere perché si distraevano dalle faccende di casa, e non è leggenda, anche questa è una storia di famiglia, ma era una lettrice di grande attenzione per variegati autori, come difficilmente ne ho conosciute in seguito.

La biblioteca di mia madre non aveva l’onore del soggiorno con le sue belle edizioni rilegate, era relegata in una stanzetta accanto alla cucina, immersa quindi negli odori che si levavano dai fornelli, cartaccia con copertine di cartone spiegazzato, apparentemente di “solo” mille titoli ma con un trucco essenziale alla loro infinita riproduzione: ogni tre mesi venivano rivenduti e altri venivano acquistati presso diversi comprotutto con cui negli anni si era stabilito un rapporto di fiducia. La biblioteca di mia madre era per il 90 per cento composta di gialli. Ecco, con quelli ho imparato più che a scrivere a credere nelle storie, nella loro importanza catartica sia per singole vite di merda che per i destini complessivi di merda dell’umanità intera: il senso della storia e di come raccontarla. Se c’è stato qualche giorno da grande in cui non ho fumato nemmeno una sigaretta non ce n’è stato nemmeno uno in cui non sono passato per la stanzetta a prendere un nuovo libro ed esaminare la questione arrivi e partenze dei libri. Come uccidere qualcuno in una stanza chiusa dall’interno senza lasciare tracce è stato per me un motivo di riflessione molto più profonda dei comandamenti cattolici.

Leggere di notte

Il via libera alla passione per la lettura arrivò intorno agli otto anni quando una zia mi regalò una lampada con il mollettone da mettere sulla testiera del letto in quanto non avevo il comodino; da quel momento in poi la notte è diventata un momento magico per leggere che ancora adesso mi tiene sveglio fino a ore incredibili, accompagnato da sempre dalla leggenda che dormo molto mentre in realtà dormo pochissimo e male, con amici, nemici e dialoghi immaginari che si svolgono tutta la notte sopra il mio letto. In tutti i miei traslochi, una ventina soltanto dentro Roma, portavo sempre con me queste innumerevoli scatole piene di libri, a cui nel frattempo si erano aggiunti altre migliaia di titoli della mia personale biblioteca, quella dei miei interessi, in prevalenza politici e di storia, migliaia di autori che forse soltanto le mamme sapevano che avevano scritto un libro, ma che magari un amico ti aveva detto che ci aveva trovato qualcosa della discussione che stavamo facendo ieri sera davanti a un vino buono e allora un occhio glielo butti. Nel 1999 ne avevo contati circa settemila.

Ed eccomi qua, nell’estate del duemila, davanti a un cassonetto sull’Aurelia, poco dopo il primo grande distributore uscendo da Roma, qualche signora in vendita poco più in là, con benzina e alcol in mano, che sto dando fuoco a tutta la carta accumulata da me, da mia madre e da mio padre nel corso di molti decenni. Sono completamente ubriaco, è vero, non ci metto molto a convincere gli agenti delle volanti accorse che non sono perfettamente lucido anche se so perfettamente che cosa sto facendo. Me la caverò con una sgridata e una multa, meglio di così non poteva andare. Ci sono ragioni profonde se sono arrivato a fare questo ma ho deciso tanto tempo fa che fb non è il luogo per parlare di sé, della propria intimità, e poi non è questo il centro della storia (come vi potrà spiegare uno di quelli che fanno i corsi per insegnare a scrivere).

La fine di un’ossessione

Il punto è che dopo lo choc dei primi giorni mi sono sentito liberato da questa ossessione. L’ossessione intanto di trovare un posto per sistemarli tutti negli scaffali. L’ossessione di non limitarmi a leggerli ma fissarli nelle diverse edizioni per capirli. L’ossessione di rimanere deluso da uno scrittore che amo. L’ossessione di trovare analogie e differenze. L’ossessione degli errori nei testi storici. L’ossessione di non ritrovare un’atmosfera come me la ricordavo durante la prima lettura. L’ossessione non c’è più.

E così da quel giorno sono l’unico contenitore per tutte le parole che ho letto, senza l’ossessione di tenerle in un archivio ma rendendole vive. Non le posso ritrovare più sulla carta e nemmeno le cerco. Grazie al digitale e ai continui furti su siti illegali ho lentamente rimesso in piedi una biblioteca con circa duemila titoli. Molto più varia, devo confessare, della precedente, molti meno passaggi e autori obbligati, più ricchezza e personalizzazione. Dove non c’è l’impatto visivo che mi fa ricordare non solo dove ho messo il libro ma cosa stavo facendo e cosa è successo tutte le volte che ho tirato fuori da lì quel libro.

Insomma le parole sono uscite dai confini della biblioteca paterna e materna, anche se ancora non riesco a dargli un filo interamente mio. Sono sempre in bilico tra dare a questa passione la forma di una costanza e quindi della fine di un gioco a cui invece voglio continuare a giocare o pensare che la scrittura, la letteratura è cosa troppo seria per giocarci. Ma le parole sono comunque quelle, mi attraversano, a volte per brani interi altre soltanto con periodi, spuntano sollecitate da una frase che sento sull’autobus o leggo sui social. Ho imparato ad aggiungere le mie di parole per rovesciare un punto di vista ritenuto oggettivo, sovvertire una realtà data, ridere di ciò per cui tutti piangono. Quelle parole lette in tanti anni sono ormai mie, non appartengono più agli autori, basta un ultimo atto di coraggio e puoi cominciare a raccontare, non soltanto a scrivere. Perché un altro dono che nessuna scuola di scrittura ti può dare è imparare a rubare brani ricomponendoli e aggiungendovi le parole che mancano. La tua scuola di scrittura sei tu, la tua vita e i tuoi pensieri, un’unità antisismica e antiatomica dove nemmeno il più feroce dei nemici che tu possa immaginare può mettere piede se tu non vuoi.

 





DELIRIO D’ONNIPOTENZA

      “Ich bin ein berliner” «Sono berlinese» così JFKennedy gli aveva gridato contro da un palco a ridosso del muro, la porta di Brandeburgo sullo sfondo; Jacqueline accanto a lui, aggrappata al manico della Dior. Con questa foto in bianco e nero fissata a calce nella memoria, per tutte le volte in cui l’avevo guardata sui libri, percorrevo, giovane promessa del management pubblico nazionale, il corridoio verso il volo. Berlino ovest, esclave dell’Occidente, non eccitava i colleghi, che avevano attivato tutte le raccomandazioni possibili per ottenere destinazioni migliori; per questo ci mandavano me, orgoglio di una madre sarta e di un padre commesso.  

     Nel 1980 verso Berlino volavano soltanto le compagnie aeree dei vincitori la seconda guerra. Lasciatomi alle spalle i sorrisi delle hostess Alitalia, fettucciate Trussardi – eravamo il quinto paese industriale del mondo e così dovevamo presentarci – mi ritrovai prigioniero del trattamento spartano della neo privatizzata British Airways e di due addette cloni della Thacher. Ma non m’importava: volavo sull’unico corridoio aereo d’avvicinamento all’Est. Lo stesso del ponte aereo del ’49. Ero dentro la Storia. Oltre il finestrino scorreva la cortina di ferro: un’oscurità percorsa da luci giallastre.

     A Tegel, appena sbarcato, si materializzò una valchiria bionda, interessata a sapere se il viaggio di herr Doktor era stato piacevole. E, accidenti, ero io herr Doktor. Si, lo era stato e herr Doktor al momento era in overdose da testosterone e lei ne era la causa. Ai controlli di frontiera, Shengen era ancora sul grembo di Giove, il fremito orgoglioso dei glutei della fraulein mi introdusse nel miracolo della mia nuova vita: il passaporto diplomatico mi esentava da dogane e burocrazia. Superai al volo i mortali in coda per ritrovarmi poco dopo in una bolla di privilegi, per me inimmaginabili soltanto poco tempo prima quando, sorretto dagli zabaioni di mammà, deperivo sulla tesi di diritto internazionale. In un mondo di stipendi in dollari, di uffici direzionali, di stilografiche per siglare documenti e di segretarie che pensavano a tutto. Anche al ritiro delle camicie in lavanderia, guardandoti come un semidio. Quell’Eldorado stava al 185 di Kunfusterdamm: l’Istituto Italiano del Commercio Estero. Tra una konditorei, con in vetrina enormi fette di torta, e Kaiser William Churche, detta da me, neoberlinese, la “chiesa vecchia”.

     Il mio arrivo confortò il Direttore: poteva, affidandomeli, affrancarsi dai lavori marginali e concentrarsi sugli inciuci per essere trasferito. Io scrivevo tabelle e relazioni o facevo la ruota a signore, infagottate in tailleur rosso Valentino e in pelliccioni di volpe, al seguito dei politici nostrani in visita pontificale. Tutte volevano fossi io a guidarle perché giovane, educato e sempre in grado di indicare, durante lo shopping, dove far pipì. Questo però, soltanto dopo aver prenotato per i consorti un tavolo al “Bel Amì” o al “Cupido”.

     Erano anni formidabili. Vendevamo di tutto: dalle scarpe fuori moda, ai corpetti elasticizzati per donna, li chiamavano “body” cambiano significato a una parola inglese e sbigottendo gli anglosassoni.  Eravamo i cinesi d’Europa.

     Io ero entusiasta e super eccitato per tutto questo. Credevo potesse continuare sempre così.

    All’incrocio tra Ku’damm e ZooBahnof, su un’altana, un agente della Statd Polizei dirigeva il traffico. Come nei libri di Le Carrè.

     Nonostante il personale miracolo economico avevo preso casa in una zona periferica popolata da immigrati, lontana dalle luci e dai negozi del centro: TurkenStrasse, vicino check point Charlie e Postdammer Platz sfregiata dal Muro. Potevo vederlo il Muro dalle mie finestre: una landa popolata da cavalli di frisia, camminamenti, torrette e dall’uggiolare dei cani, delimitata da due barriere di cemento. Lo attraversavo spesso, orgoglioso del passaporto blue della Repubblica. Sorridevo al marine di turno a Charlie e ascoltavo il gutturale accento dei “vopos” e una volta oltrepassata la terra di nessuno, le postazioni militari e il filo spinato, precipitavo in luoghi più sorprendenti di quelli che lasciavo: facciate diroccate mi venivamo incontro ammorbate dall’odore ubiquo di cavoli bolliti e margarina cubana; ancora persistente nel ricordo. Anche il faccione di Lenin, nel giardino dell’ambasciata sovietica, ne sembrava disgustato.

     Da “loro” il privilegio mi veniva dal denaro, dai vestiti, dalle scarpe italiane, dalle sigarette di marca. Al Praha caffe, ad Alexander Platz, cercavo con l’immaginazione, agenti segreti a tramare tra i tavolini di formica incontravo però soltanto ragazze, felici di venire a cena con me per consolarmi poi dalla solitudine. Davanti gli “intershop”, i negozi speciali con merci di importazione, dove avevo accesso grazie al passaporto diplomatico della cara Repubblica, alcuni passanti mi chiedevano spesso di acquistare per loro prodotti occidentali. Io guardavo le desolate vetrine del socialismo reale ed entravo. Ne uscivo con in mano il Graal: confezioni industriali di shampoo o saponi, da consegnare agli interessati dentro androni scuri. Tutto questo mi piaceva. Una volta, per due pacchetti di MS, ho potuto visitare da solo il Pergamon Museum: sono salito sull’altare di Pergamo e ho toccato la porta di Babilonia. Chi era, mi chiedevo, tra i miei amici, anche tra quelli iscritti fin dalla nascita all’ordine notarile a poterselo permettere?

    Sotto gli alberi di Unter den Linten, verso Alexander Platz, non camminavo: lievitavo. Mi sentivo felice e invincibile. Sarebbe stato bello se tutto fosse durato all’infinito.

    A metà di un Aprile ogni giorno più tiepido il direttore entrò nel mio ufficio, accennò l’inizio un discorso, cercò tra le tasche qualcosa che non aveva, piantò lì, avvolse l’aria con l’indice come a rimandare, uscì; poi, durante una pausa pranzo a base di curry wrust sulla piazza del Ka.De.We. mi confidò il proprio dramma in tutti i suoi aspetti umani: l’Istituto era stato delegato ad assistere tre suore, studentesse dall’Università pontificia, durante la loro permanenza in città,  in arrivo proprio negli stessi giorni in cui herr Direktor aveva un appuntamento irrinunciabile a Roma col proprio “politico raccomandante” a cui chiedere la sede di Londra e, per quanto ci avesse provato, non era riuscito a rinviare l’arrivo delle monache perché la Direzione generale non voleva scontentare il Vaticano.

     «Posso seguirle io. Ho imparato da lei» dissi con sicurezza.

     «Credevo non te la saresti sentita» rispose.

     «Ho portato in giro così tanta gente su e giù per Ku-damm, perché dovrei preoccuparmi per delle monache?» risposi. Non c’erano limiti alle mie capacità, pensavo.

     Il Direttore assenti, sorrise quasi paterno, pagò in contanti senza addebitare il costo all’ufficio.

     Partì di lì a poco, ventiquattrore in resta, lasciandomi signore incontrastato dell’Eden: controllavo il lavoro degli altri, concedevo le ferie agli impiegati, eccitato dal potere. Mi sentivo invincibile e invulnerabile. Non dimenticavo le monache, però. Mi sarei impegnato allo spasimo con loro per dimostrare a tutti di cosa ero capace.

    Il giorno del loro avvento le attesi in aeroporto; azzimato e profumato come credevo dovesse presentarsi un dirigente del mio livello. Le vidi arrivare lungo il corridoio degli arrivi: tre coni neri dal passo sostenuto, con le gonne ampie e le tese laterali delle cuffie fluttuanti come ali bianche d’uccelli. Un naif vivente, sullo sfondo della pianura prussiana appena oltre le vetrate.

     Ordinaria amministrazione, avevo pensato e, senza dubbi né timori, avviai la liturgia: tra monumenti, chiese e visite ad associazioni di ricamatrici emigrate, tutto si procedeva al meglio. Le venerande ospiti si comportavano come in gita premio e assimilavano soddisfatte. Io, ogni giorno di più, avevo la certezza di riuscire a dominare tutto. Tra loro non c’era una leader, solo una più curiosa delle altre: un giorno, mentre indicavo le macerie del Reichstag appena oltre la porta di Brandeburgo, in una botta di trasgressione, mi chiese di andare di là. A vedere.

     Non c’erano limiti alle mie capacità, né al trattamento a cinque stelle che le suore dovevano ricevere, perché testimoniassero al mondo le mie capacità. Potevo tutto e le avrei accontentate.

     Vaticano e “l’altra parte”, si parlavano soltanto tramite la struttura diplomatica svizzera e non era facile per noi, paese Nato, ottenere visti temporanei per l’ingresso a est. Ma per me non era un problema: esibendo la mia migliore aria da bravo ragazzo corteggiai la moglie del console elvetico: come avrebbe potuto negarmi di intercedere sul marito perché ottenessi i visti?  Herr Seitz, il marito, era contrario, ma non resistette all’assedio coniugale. Le suore ebbero i pass.

Io non sarei andato con loro avevo già perso troppo tempo dietro quei gonnelloni, pensavo. Avevo tutto sotto controllo.

      Per un insondabile mistero della diplomazia soltanto le persone di nazionalità turca potevano transitare liberamente tra i due mondi e il mestiere più praticato tra i turchi di Berlino era quello del taxista; erano anche i meno cari e io stavo nel budget. Mi rivolsi allora a Mohammed, un baffuto immigrato, di cui a volte ci servivamo per incarichi di fiducia e insieme andammo a prendere le suore al loro albergo. Il taxista guidando silenzioso assorbì il tono autoritario delle mie istruzioni sul percorso da seguire dall’altra parte. Le suore aspettavano nella hall, in completi pantalone grigi che anticipavano di anni il “minimal” chic di Armani. Consegnai a una di loro un piccolo registratore a cassette – allora il meglio della tecnologia, oggi soltanto un oggetto di modernariato –  bastava, arrivate dall’altra parte, pressare il pulsante di avvio e una voce attoriale avrebbe descritto i singoli monumenti. Andai con loro in macchina fino a Charlie e restai sul marciapiedi anche dopo che il taxi attraversò la frontiera.

     A casa mi assopii in un sonno di compiaciuto nirvana. Poi lo squillo del telefono riempì la stanza, graffiandomi l’udito. Risposi, i sensi avvolti dal torpore. Era herr Seitz. Parlava un tedesco gutturale senza pause che, per quanti sforzi facessi proprio non capivo, lo sentivo senza ascoltarlo, mentre nella nebbia della mia mente si facevano strada le parole Mohammed, taxi, suore e io pian piano recuperai le coordinate di me stesso; fu un risveglio violento; come se il cielo mi fosse caduto sulla testa. Il tassista una volta dall’altra parte aveva perso l’orientamento ritrovandosi lui, le monache e il taxi al centro delle prove della parata del 1° Maggio, la Volkspolizai li aveva fermati, avevano sequestrato il registratore a cassetta, convinti fosse una prova dell’attività spionistica delle suore.

     Il console parlava e nel mio cervello i pensieri si scontravano tra loro restituendomi panico.

     Presi un taxi al volo e gridai all’autista di fare di correre e correre. Ku’damm scorreva veloce dal finestrino: non era più la strada principale del paese delle meraviglie, ma solo un buio pieno di puttane.

    Nello studio di herr Seitz era accesa soltanto la lampada da tavolo, la luce si rifletteva sul ripiano di vetro della scrivania; non riuscivo a guardarlo negli occhi. Lo ascoltavo parlare al telefono, ora autoritario, ora rispettoso e non capivo il suo tedesco. Stavo in piedi di fronte a lui aspettando e quell’attesa non era misurabile col tempo, ma con la stretta d’ansia che provavo allo stomaco. Poi da dietro le sue spalle il bip di un fax in arrivo. Il console poggiò le mani sull’orlo della scrivania, con una spinta all’indietro avvicinò la poltrona alla macchina, ne strappò un foglio, lo lesse. Si alzò guardandomi con occhi grigi. Andava oltre il muro a prenderle, mi comunicò.

Feci per seguirlo, ma herr Seitz mi congedò. E fu come leggere i suoi pensieri: “Kaine. Kaine. Non è affare per ragazzini.”

     Passai la notte in attesa, fumando. Ero affranto; e deluso per il mio fallimento; e terrorizzato per le conseguenze del mio pressapochismo: come da protocollo avrei dovuto essere con loro su quel taxi, invece di abbandonarle al caso. E, di colpo, seppi di non essere mai stato un semidio dell’Olimpo, ma soltanto un ragazzino così assorbito da se stesso da non sapere distinguere tra fantasie e realtà; solo e perso dentro una città sconosciuta e ostile  

     Rividi le suore l’indomani in ufficio, in buona forma ed eccitate per quanto accaduto. Avevano avuto paura, certamente, ma a ripensarci adesso, che tutto era finito, si erano divertite; adesso avevano anche argomenti, avendola vissuta, per testimoniare la barbarie di “quegli altri”. Erano lì per salutarmi, il console aveva programmato il loro ritorno per quello stesso giorno, via Zurigo. Nonostante il sollievo, ero infastidito dalla loro presenza: prove viventi, come erano, della mia sconfitta. Con la forza del pensiero le spinsi fuori dall’Istituto.

   Herr Seitz, quando chiamai per ringraziarlo, fu paterno ma brusco: aveva altro da fare, quella storia per lui, era finita.

 Evitando gli sguardi dei colleghi, aspettai, barricato in ufficio, il ritorno del Direttore e le reazione della Direzione Generale.

     I giorni passarono pieni della solita burocrazia e quando, il Direttore tornò era allegro e disteso; come se le suore non fossero mai esistite e nulla fosse accaduto. Ma non era così per me: avevo il cuore sulle montagne russe, evitavo di guardarlo negli occhi.

     «Sei troppo agitato» mi chiese «cosa ti succede?»

     Sforzandomi di non balbettare affrontai l’argomento, scusandomi e scusandomi.

    Alle mie parole la sua allegria si moltiplicò, facendomi sentire ridicolo. Mi poggiò una mano sulla spalla, rise ancora.

     «Non hai di preoccuparti; le monache non ci riguardano più: se ne occupano gli Esteri, come avrebbero dovuto fare dall’inizio. Scrivi una relazione e dimentica. E in Direzione sono soddisfatti per come hai affrontato l’emergenza e attivato gli svizzeri»

  Tirò su col naso, passò una mano tra i capelli e, con aria complice, mi confidò di essere in partenza per Londra. Al Ministero gli aveva garantito il trasferimento. E questo, in parte, era anche merito mio che lo avevo sostituito. La smettessi di pensare alle monache e gli dicessi, invece, in che modo poteva ricambiare il favore.

     «Mi conceda un mese di ferie. Voglio tornare da mia madre» risposi.                    

 

 




Zerocalcare e lo spleen

Avvertenza.

Tra queste righe il demone dello spoiler regna sovrano, continuate a leggere sotto la vostra responsabilità.

Zerocalcare è andato in fissa con l’animazione, così tanto che Netflix ha deciso di dargli la possibilità di creare una serie tutta sua.

il risultato è Strappare lungo i bordi.

Partendo dallo storyboard de La profezia dell’armadillo, il nostro ci racconta a suo modo come sopravvivere al dolore e alla vita in tutte le sue sfumature. O forse no.

Se nel libro la protagonista è Camille, che soffre di disturbi alimentari, nella serie è Alice.

Alice è una ragazza come tante altre, come ognuno di noi. Nata all’interno di una società che non ha scelto, si trova a subire la precarietà e l’insicurezza.

Alice è uno specchio (e non mi stupirei se il nome scelto fosse per quello) nella quale ognuno di noi può specchiarsi.

Immedesimarsi in lei è così naturale che si arriva a comprendere la sua scelta.

Zero racconta la sua storia, il suo essere incompatibile con la vita stessa, senza dimenticare di farci ridere e usando tutta una serie di meravigliose citazioni (vi invito a scoprirle tutte)…

Queste due vite si incontrano e si legano, poi apparentemente si perdono.

Fino al viaggio in treno per il funerale di Alice in realtà si ride, e parecchio. Ma ben presto si tramuterà in un pianto impossibile da fermare.

Non voglio svelare altro.

Ma non è un mistero perché lui e questa serie hanno avuto successo.

Perché è sempre riuscito, pur mantenendo la sua identità geografica, a raccontare la mia generazione precaria. E molto, troppo di ognuno di noi.

Questa serie fa lo stesso, ti rovista l’anima senza pietà.

Come farebbe un ottimo psicologo.

Questa serie è un gioiello, uno di qui regali talmente preziosi da essere dolorosamente reali.

E che proprio per questo merita di esistere.




MURAKAMI: REALE E IRREALE SPESSO…

Già 3 volte (ma se ci penso arrivo a 4) ho tediato chi passa in “bottega” con il mio amore per Murakami. Adesso ho finito l’ultimo – mi pare – dei suoi 26 libri tradotti in italiano. Si tratta di 8 racconti riuniti sotto il titolo «Prima persona singolare» (150 pagine, 18 euro) pubblicato pochi mesi fa da Einaudi nella traduzione di Antonietta Pastore. Gli innamorati sono esigenti o permissivi? Fedeli ma permalosi o pronti a scivolare nel tradimento alla prima delusione? Non generalizzo ma per quanto riguarda il mio amato Haruki Murakami io sono rimasto freddo pochissime volte e più che altro per brevi racconti. In generale tutti i suoi libri – soprattutto quelli più surreali ma anche gli altri “realistici” – mi hanno sempre lasciato con il gusto di… proseguire: si trattasse di 150 pagine o di 800 all’ultima riga mi dicevo “già finito?”. E il mio amico Francesco Masala mi tiene bordone. Mentre le mie amiche Bianca e Fiorella un po’ mi prendono in giro perché per anni mi hanno “incalzato”… che DOVEVO leggere Murakami ma io rimandavo.
Nel pieno dell’amore cosa scrivo di «Prima persona singolare»?

È ancora “una cotta”?
Non so. Stavolta non so. Proprio non so.
Un racconto (quello sul baseball) lo giudico bruttarello e un altro («With the Beatles») annacquato. Quattro sono ben scritti ma non all’altezza del “mio innamoramento” e nel quartetto solo uno rimanda al Murakami che si muove fra universi paralleli (per questo alcune mie recensioni ai suoi libri sono apparse in “bottega” il Marte-dì che è il giorno dedicato, in parte, al fantastico); o meglio, come scrive lui, «avevo l’impressione che reale e irreale scambiassero posto a casaccio».
Però…  «La crema della vita» mi ha tenuto sveglio di notte perché anche io – come il protagonista – ho provato a immaginare «diversi centri, anzi infiniti centri, ma in un cerchio che non ha circonferenza»; il mio amico Fabio / Jolek – con il quale ho discusso del racconto – dice che il messaggio è chiaro … ma io «non ne ho la minima idea» (sì, come il protagonista). Comunque non farò spoiler.
Se avete tenuto il conto siamo a quota 7.
L’ottavo racconto è meraviglioso, vale da solo il prezzo del libro almeno per chi ama il jazz. Si intitola «Charlie Parker plays Bossa Nova»: sin dall’inizio “Bird” – il soprannome del sassofonista – torna a vivere. Ma altro non vi dirò.
«Ci potete credere?
Spero proprio di sì. Perché è una cosa accaduta davvero».

Regatevelo, magari il 29 agosto che è l’anniversario di Bird (e di un altro Francesco: quanti intrecci amicali oggi). Colonna sonora consigliata… beh non c’è bisogno di dirlo un album di Charlie Parker anche a casaccio: con una lieve preferenza per il qui citato «Relaxin at Camarillo» (un ospedale psichiatrico in California) e/o per «Lover Man» nella versione del 29 luglio 1946.
Sì, è ancora amore.

 

Questo articolo è stato ripreso da https://www.labottegadelbarbieri.org/?s=charlie+parker




Luglio 2001

Giovedì 19

La sveglia suona alle cinque e un quarto. Io odio il momento del risveglio, anche quando sono le otto e a richiamarmi è una carezza di Massimo. Oggi invece sono le cinque e un quarto del mattino, fuori è ancora buio, c’è l’aria fresca, e Massimo è già partito da un paio di giorni. Mi alzo e mi preparo, cercando di muovermi rapidamente, di essere veloce. Alla fine, arrivo in stazione, e arrivo in tempo: prendo il treno delle sei e zero sette. Il viaggio per Milano è lungo, non tanto per la distanza quanto per i due cambi di treno che mi aspettano lungo la strada. Mentre viaggio, guardo le persone che sono con me: studenti, o anche persone che per lavoro frequentano abitualmente proprio questi treni del mattino che io invece non prendo mai. Osservo anche il paesaggio: guardo la campagna settentrionale, a cui non mi sono ancora abituata, che si risveglia pian piano. Durante il tragitto, mi dedico anche alla lettura del quotidiano: seguo a distanza ciò che succede a Massimo, così come, da quando è partito, guardo in televisione ogni telegiornale, ogni speciale, ogni inchiesta. Lui è già a Genova, ma lì ancora tutto deve iniziare: i giornali riportano solo i dibattiti e le tensioni del pre-G8. A Milano arrivo verso le dieci e mezza del mattino: arrivo all’appuntamento con il dottor Minuto, dove i miei clienti, della Turismo&Viaggi di Roma, arrivano in netto ritardo, un’ora abbondante dopo di me. Mi sento ancora un po’ impacciata, in questi abiti da consulente. Oggi però va sicuramente meglio della settimana scorsa: mi sembra che il mio ruolo sia maggiormente riconosciuto, percepisco la stima del dott. Minuto, e poi ritrovo con i romani il clima di solidarietà quasi cameratesca che si era già creato in passato. Mi diverte sentirli parlare – io che a Roma ci ho vissuto per tanti anni senza esserci nata – mi diverte sentire l’accento della loro voce, ma anche il modo in cui si esprimono, così familiare alle mie orecchie. Pranzo con loro, poi pomeriggio ancora in riunione. Quando capisco che ormai il lavoro è finito, verso le cinque e mezzo, cerco di andar via più in fretta possibile: so che gli orari dei treni sono scomodissimi, e cerco di prendere il primo treno per Torino. Come le altre volte, invece, lo perdo: una breve attesa ancora in stazione a Milano, sapendo che questo vorrà dire passare un’ora intera a Torino ad aspettare la coincidenza e arrivare a casa alle undici di sera. Salgo sul treno un po’ demoralizzata, e provo a chiamare Roma dal cellulare. Il mio telefono è scarico, la linea cade continuamente. La voce di mamma è tesissima, brutta come poche altre volte. Cerco di capire come stiano andando davvero le cose, lì in ospedale, e mi sento impotente e stupida, a tormentarla con domande ingenue. La linea cade e la richiamo, più volte. Tra un’interruzione e l’altra, riesco a capire che oggi papà sta decisamente molto male, che la preoccupazione comincia a prevalere su tutto. Alla fine, il telefono si spegne definitivamente. Parto da Milano in lacrime, decidendo che andrò a Roma al più presto. Appena arrivo a Torino, compro una carta telefonica e mi attacco ad un telefono pubblico per richiamarla. Lei mi spiega meglio, e mi dice che le cose non vanno bene e che sì, forse posso andare a Roma, se voglio essere sicura di salutare papà. Mi dice anche che nell’incertezza che ha caratterizzato i medici sin dall’inizio del ricovero di papà, una delle mille ipotesi che si sono fatte è che si possa trattare di tubercolosi. Lo devo tener presente, mi dice mamma, se voglio andare a Roma. Devo informarmi e capire se rischio qualcosa, e soprattutto se può rischiare qualcosa il bimbo che cresce dentro di me. Dal telefono della stazione, cerco anche Massimo. Cerco di condividere con lui il peso d’angoscia che mi sento addosso, l’impotenza, l’incertezza – vado o non vado a Roma? Concordiamo un po’ di persone da sentire l’indomani per un consiglio. Non mi racconta molto, di Genova: lì c’è stato il primo corteo, tutto tranquillo, e le cose per lui procedono bene, in modo interessante.

Venerdì 20.

La mattina la passo a casa. Comincio a chiamare tutte le persone che ci sono venute in mente parlando con Massimo ieri sera. La metà non riesco a trovarla, in cambio il mio medico della mutua, uno dei pochi che riesco a contattare, esprime molte riserve sull’opportunità di andare. Mi sento sempre più confusa, persa tra il desiderio di andare e la paura di farlo. Accendo la televisione per il rituale appuntamento con il telegiornale: le immagini di Genova che si vedono parlano di scontri, di attacchi della polizia, di disordini. Un senso di paura irrazionale mi investe, e si somma istantaneamente all’incertezza, all’angoscia, all’ansia che già sentivo. Proprio in quel momento mi chiama Maria Luisa, mia suocera. Mi sfogo con lei, che mi tranquillizza; ci confortiamo a vicenda al pensiero di Massimo proprio nel centro della bufera. Riprendo i miei consulti telefonici: alla fine riesco a parlare con uno zio medico che mi rassicura, minimizzando i rischi di contagio per me e per il bimbo, ma che al tempo stesso mi incita a partire perché lui papà l’ha visto, e non crede che sia opportuno aspettare, se lo voglio vedere. Ho deciso: parto. Cerco di nuovo di sgomberare la mente da tutto e vado ad un appuntamento di lavoro. Mentre sono lì mi chiama Maria, dell’ufficio di Massimo: mentre era a Genova ha perso il cellulare, le comunicazioni da adesso diventano molto più difficoltose. Rientro a casa, accendo la televisione a caccia di un telegiornale pomeridiano. Il tiggì c’è, ma è un’edizione speciale. A Genova c’è stato un morto, il primo morto del movimento antiglobalizzazione. Guardo con uno sgomento assoluto le immagini di guerra che il telegiornale propone. Non sono una persona apprensiva, ma sento l’ansia mozzarmi il respiro. Accarezzo il bimbo, dentro la pancia da quattro mesi: cerco di tranquillizzare lui, per tranquillizzare me. Alla fine, esco. Vado a salutare Silvia in ospedale – è appena nata, ed è figlia di amici – poi passo nell’ufficio di Massimo a ritirare delle cose che devo portare a Roma per lui, e in stazione a farmi il biglietto. Partirò stasera. Mentre sono fuori mi chiama Massimo: mi racconta di essersi trovato a Piazza Manin, oggi pomeriggio, e di essere andato via subito prima che cominciasse la carica della polizia. Il cellulare l’ha perso mentre scappava da lì. La valigia la preparo in venti minuti, in uno stato di confusione che non credo di aver mai vissuto. Riesco infatti a lasciare a casa quasi tutte le cose indispensabili che si mettono di solito in un bagaglio. In cambio metto magliette e camicie rosse – nonostante tutto non sto pensando affatto a funerali. Il treno lo prendo per un pelo, e appena salita cerco il mio cellulare per una telefonata. Non c’è: l’ho lasciato a casa oppure l’ho perso per strada; in ogni caso, non è con me.

Sabato 21.

Arrivo a Roma con più di tre ore di ritardo: per il G8 hanno deviato le linee ferroviarie di tutto il centro nord, e il sistema è andato completamente in tilt. Vado a casa con i mezzi, in autobus mi leggo il giornale: si parla di Carlo Giuliani, il morto di Genova, e degli scontri del giorno precedente. A casa trovo Francesco e Valeria. Senza papà e mamma, questa casa è davvero troppo vuota. Ci abbiamo vissuto in sette, adesso Valeria e Francesco si muovono da soli in stanze immerse nel silenzio. Pranzo con loro, e poi con Francesco vado al Gemelli, a trovare papà e mamma. Papà è semi-incosciente. Dischiude appena gli occhi, sembra vedermi, e dice: Guarda chi c’è. Mia madre festeggia la frase e la sottolinea: Ti ha riconosciuto, hai visto?, ti ha salutato. Io penso che un mese fa non si festeggiava il fatto che riconoscesse e salutasse sua figlia, lo si dava per scontato, era normale. Le cose sono cambiate poco alla volta, ma velocemente. Penso che mi dovevano avvisare, che era in queste condizioni, poi mi dico che probabilmente c’è scivolato dentro senza che loro potessero rimarcare di giorno in giorno grandi cambiamenti, nulla da poter raccontare da lontano, per telefono. Lo saluto e mi siedo sul divano, mi tengo comunque a distanza, visti i dubbi che ci sono. Papà si rianima di nuovo, e alla mamma chiede: Ma non è qui per parlare di lavoro, vero? Io non ho mai lavorato con mio padre, e lui è in pensione da più di dieci anni. Non so più nemmeno se era vero, che mi aveva riconosciuto. Mi sforzo di mantenermi serena, parlo con mamma. Nonostante tutto, lei riesce anche a far festa alla mia pancia, appena visibile. Papà riapre ancora un po’ gli occhi: Dov’è Valentina? La mamma gli risponde: È qui, Paolo, non se ne è andata. Allora forse sa che ero io. Sento il bisogno di piangere, di sfogare l’angoscia che mi dà vederlo così. La mamma mi viene incontro, in bagno. Papà non c’è già più, le dico. È già andato via. In ospedale rimango tutto il pomeriggio, fino a sera. Prima con Francesco, poi con Valeria. Nel frattempo, non ho alcun modo per parlare con Massimo: io sono senza cellulare, e lui ha perso il suo a Genova e non sa che anche io non sono rintracciabile. Cerco tutti i modi per comunicare con lui: lascio messaggi destinati a lui a casa dei suoi, provo a chiamare a Genova nel posto in cui dorme, tento altri contatti indiretti, tutto senza risultato. In ospedale, mi affaccio alle otto nella sala comune: il TG1 mostra ancora scontri, teste insanguinate, macchine in fiamme, vandali incappucciati. Sono le prime immagini che vedo in tutta la giornata: dopo l’overdose di informazione, adesso sono in completo blackout. Di sera, riesco a parlare con la mamma di Massimo. Lei mi dice di avergli parlato, che sta bene, che è tutto a posto. Mi sento già meglio. Le chiedo anche di avvisarlo del fatto che sono senza cellulare, e di chiamare dai miei, per contattarmi.

Domenica 22.

Di mattina, vado a Messa in parrocchia. Valeria viene con me, a differenza del solito. Dopo, passo a salutare i nostri amici e inquilini Lucia e Paolo, e rimango a pranzo con loro: mi fa un po’ effetto vederli nella nostra casetta, ma al tempo stesso mi fa piacere che ci sia qualcuno dentro, e che non sia un estraneo. Mentre sono lì, chiama Massimo: la telefonata è rapidissima, ma intanto gli parlo, ed è da più di ventiquattro ore che non riuscivo a farlo. Mi chiede di papà, gli chiedo di Genova. Di pomeriggio, sono di nuovo in ospedale. Io vado con Valeria e Francesco e lì c’è anche Silvia; Maria Letizia nel frattempo è fuori Roma, chiama spesso, riconosco l’ansia di chi segue da lontano le cose. Papà sta decisamente peggio di ieri: si lamenta spesso, o almeno emette dei suoni che sembrano lamenti. Poi dice anche delle cose, che spesso non riusciamo a capire. Forse non sono farneticazioni, forse ci sta parlando, però non riesce ad articolare le parole, così come non riesce a deglutire, a ingoiare le medicine, a muoversi da solo nel letto. Il pensiero che lui stia cercando di parlarci mentre noi non riusciamo a capire ci fa sentire impotenti. La mamma è molto scoraggiata, medici e infermieri oggi si sono espressi in modo del tutto disperato. Restiamo lì tutto il pomeriggio, fino a sera. Vado via alle nove di sera, e saluto mamma che mi dice: Non pensavo che sarebbe arrivato fino a stasera. Percorrendo i corridoi dell’ospedale, verso l’uscita, sento dei dolori alla pancia. Mi tengo il bimbo, e gli dico: Non preoccuparti, stai tranquillo, andrà tutto bene. Per la serata, il programma è di andare con un po’ di amici a vedere Francesco che suona in concerto. Arriviamo in piazza Santa Maria in Trastevere in ritardo, e il colpo d’occhio è fenomenale: la piazza è piena, c’è tantissima gente, persone di tutti i tipi che cantano e ballano ascoltando Franz e i suoi amici. Non posso fare a meno di pensare alle sue prime esibizioni, con un pubblico ristrettissimo fatto di amici e fratelli e fidanzate. Penso anche a papà, a come ne era fiero, nonostante le perplessità iniziali, a come seguiva la sua attività, i suoi concerti. Papà ne sarebbe contento – penso allargando lo sguardo nella piazza. Mi commuove, stasera, questa folla. Non c’è dubbio, sono diventati bravi. La musica è bella e trascinante, e in tanti si sono messi a ballare. Per finire, suonano Everybody needs somebody to love. È una canzone che papà aveva ben presente: ne storpiava il titolo, per prenderci in giro. È il colpo finale: anziché alzarmi e mettermi a ballare anch’io, mi metto a piangere piano, cercando di nascondere le mie lacrime. Torno a casa tardi, e prima di andare a dormire sento rientrare anche Francesco. Gli vado incontro per dirgli quanto mi sia piaciuto il concerto. Restiamo a parlare a lungo, delle cose più disparate. Parliamo anche di papà, perché io gli faccio un po’ di domande. In ogni caso, è nel fondo di ogni discorso, ed è nel modo stesso in cui ci siamo fermati a parlare stanotte, nel modo in cui cerchiamo di tenerci vicini. È molto tardi, quando vado a letto. Ma non rinuncio alla lettura del giornale che ho preso e non ho ancora letto; scopro così, alle tre di notte, quello che è successo la notte prima a Genova: l’incursione notturna nella scuola-dormitorio, le botte, i feriti, le polemiche. Lunedì 23. Mi sveglia Valeria, alle sette e venti del mattino. Ha appena chiamato mamma, mi dice, papà non c’è più. Il mio primo pensiero è: Sono venuta a Roma in tempo, l’ho visto. Poi mi alzo, stordita. Andiamo a svegliare Francesco, poi chiamo Massimo, che nel frattempo da Genova è arrivato a Pisa. Come omaggio, faccio un giro per casa: la camera da letto di papà e mamma, il soggiorno, la sua poltrona, i suoi occhiali, i suoi cruciverba. La casa è piena di papà.

(21 ottobre 2001)




Genova per me

Nel 2014, in un capitolo di Irriverenti e libere, scrivevo così:
“Primo pomeriggio. Ci dividiamo in gruppi di lavoro e fra i pochi uomini presenti c’è Tano D’Amico che saltella qua e là fra le colonne di un cortile, fotocamera ben stretta in mano a scattare istantanee, mentre con Lidia e Nicoletta discutiamo dell’ordine sentimentale della globalizzazione, ossia di come gli intrecci economici, culturali, politici e tecnologici influenzano la vita quotidiana delle persone, le loro relazioni e le loro emozioni. 
Parliamo della paura, a partire dai nostri corpi e dal loro sentire, nonostante viviamo in un mondo apparentemente aperto e senza confini. Cosa c’entrano adesso i sentimenti con la globalizzazione? Qualcuna borbotta, poi il discorso si accende e i dubbi svaniscono. Siamo a Genova, a Palazzo San Giorgio, un mese prima che – nella stessa città e dopo tre giorni di forum, dibattiti, assemblee e manifestazioni pacifiche – si scatenasse l’orrore di una piazza repressa nel sangue. I sentimenti c’entravano, e sono stati travolti”.
Dopo questo incipit davo la parola a Laura Guidetti e Monica Lanfranco, alcune delle protagoniste di “Punto G: Genova genere e globalizzazione”, evento che si era svolto a Genova un mese prima esatto del G8, con oltre mille donne in rappresentanza di centoquaranta associazioni e movimenti femministi e femminili da tutto il mondo. 

 

Oggi, nel 2021, i sentimenti che provo sono soprattutto di smarrimento e amarezza, con un groppo in gola che non va giù. A Genova nel 2001 ci sono stata due volte. A giugno a Punto G dove ho respirato un’aria di cambiamento, anche dentro le dinamiche delle relazioni fra donne, ci siamo riconosciute fra femminismi diversi ed eravamo forti di una visione sul futuro del mondo che arrivava da lontano.
Poi a luglio, come cronista in erba, i miei occhi hanno visto, fra l’altro, due scene agli antipodi: il calore e i colori della manifestazione dei migranti del giovedì e il sangue sotto ai termosifoni della Diaz e le prove, tutte, della mattanza avvenuta. 
Il giorno prima, nel vedere la violenza cieca delle forze dell’ordine avevo cercato con lo sguardo un sampietrino, manco fossi a Roma, mi dicevo che forse avrei dovuto usarlo per difendermi, cosa mai fatta o pensata in vita mia, e continuavo a ripetermi che avevamo sbagliato a essere lì. Che eravamo cadute tutte e tutti nella trappola preparata con sapienza da tempo. 
A Punto G avevamo visto giusto, avevamo ipotizzato di fare diversamente: spiazziamoli, avevamo detto, andiamo altrove con i nostri corpi, loro ci aspettano sotto la zona rossa? noi andiamo al mare e facciamo sentire al resto del mondo il nostro potente messaggio per una società non sessista, equa, sostenibile, solidale, pacifica e democratica.
Invece, chissà se nel 2021 si può finalmente dire, è prevalso il testosterone e la retorica maschilista, a vari livelli, di affrontare il conflitto, e anche il dissenso all’interno della società civile. Del resto a nessuno piaceva essere definito “no global” ma leader sì. E non ho ancora sentito i maschi leader di quei giorni dire: (forse) abbiamo sbagliato. E, attenzione, ammettere questo non toglie nulla alla violenta, inammissibile, atroce reazione dello Stato, ma significherebbe dare un senso ai sentimenti che hanno travolto la maggior parte delle persone, ma si sa che i sentimenti son roba da donne. 
Ecco, oggi dopo 20 anni, l’amarezza torna su in ogni articolo che leggo, ogni podcast che sento, ogni video ricostruzione che vedo, dove c’è tutto di quelle tre giornate, la ricostruzione puntuale, come giusto che sia, di ogni minima violenza, ma nessuna/nessun collega, neanche le migliori, che abbiano immaginato, nelle loro ricostruzioni, di dover sentire anche il punto di vista delle donne, delle femministe. Ecco, di questo mi rammarico, perché significa che ancora si racconta la storia a metà, come se le donne non ci fossero, come se le loro pratiche politiche non contassero, come se le loro parole non valessero.


Immagine di copertina © Tano D’Amico




Scuola, architettura, capitale

Un piano di adeguamento edilizio delle strutture scolastiche è ormai divenuto assolutamente necessario, ma, su questo, l’unanimismo che si registra, mi pare frenare la sua attuazione anziché determinarne la concreta realizzazione. Del resto, nella prospettiva del PNRR (una diligenza che passa tra anfratti e nascondigli ottimi d’agguati), non c’è chi ne parili. Tuttavia, in attesa di riscontri fattuali, vale la pena provare a metter su una riflessione più approfondita sulla cosa, poiché, se è evidente l’impellenza di dotare la scuola di strutture efficienti– e la pandemia ne ha dimostrato tutta l’ineluttabilità –, questo non può prescindere da un’analisi attenta e profonda sul modo con cui si è determinato il riassetto urbanistico del paese e di come la scuola, dunque, vi si possa inserire inserirsi nel nuovo contesto.

 

La città, l’architettura, le trasformazioni sociali.

Lo spazio urbano assembrato, diventa fantasma della sua crescita indiscriminata, sempre più privato, sempre meno pubblico, sociale, definitivamente distanziato, come si compete nei giochi d’ossimori, tanto più è affollato. Il reale, trasformato in immagine spettacolare (come nei fantasmagorici skyline di Dubai, ma senza andare troppo lontano, certe periferie di grandi città, da nord a sud), è quinta scenografica d’una rappresentazione farsa, in cui le mura cingono d’assedio gli assedianti, e non sono più le mura di Campanella dov’è la storia della scienza, il progetto educativo condiviso dei destini magici e progressivi dell’uomo. Le mura s’attrezzano a prigioni da cui non s’evade, ma dentro cui ci si rinchiude spontaneamente, sovvertendo l’ordine mentale costituito, quello che cerca l’orizzonte libero e di vertigine dello sguardo dell’animale in gabbia. Ma se l’agnello o l’orrendo porco s’avvedono del loro imminente sacrificio all’altare della tavola imbandita, con lacrima ed urlo straziante, il residuo umano vi s’immola con fanciullesca indifferenza. Le immagini degli eloquenti muri della città ideale di Platone, sono ora grate elettrificate e luminescenti, gli orrori della merce che trabocca dalla caricatura d’una cornucopia di svendite morali e materiali. Pure l’effimero, in quanto concetto, sparisce nelle celle delle fiumane umane, diventa superfluo necessario, vocazione definitiva. Le architetture/prigioni delle periferie commerciali, e di dormitori, pure quelle di centri storici divenuti non luogo di relazione ma turistifici, non sono innocenti oggetti devitalizzati, ma espressione urlante del potere sociale del mercato che reclama le sue vittime. Le mura cittadine, anche quelle dei centri più piccoli, s’attrezzano a prigioni da cui non s’evade, ma dentro cui ci si rinchiude spontaneamente, si ha quasi il desiderio di farlo. Una sindrome della capanna ante litteram. Rinchiudersi diventa principio identitario, quando si cerca di definire quello come identità culturale da difendere contro l’altro, l’invasore, lo straniero. Dunque, vi si legge una dimensione quasi caricaturale.

La progressione verso la forma estrema del mercato, il narcisismo individualista, ha soppiantato persino le gerarchie dei rapporti di produzione convenzionali. Ed il consumo diventa una sorta di dogma definitivo. Le città si sono attrezzate per assecondare questo processo. Le città prese d’assalto hanno perso ormai persino quel flebile richiamo al modernismo, financo superato le creazioni monolitiche della dittatura ceauseschiana, le volontà di Marinetti di deviare canali per affogare la vetusta Venezia, o Le Corbusier che anelava l’autostrada che spaccasse in due Parigi. Gli spazi vitali non esistono se non nel sentire, ormai folle, di chi deraglia dalla “normalità” di chi è persona e non gente.

 

Il ruolo dell’architettura scolastica

La scuola pare però soggetto passivo di questo processo, non ne è l’esatto contraltare, non torna al centro dell’ambiente urbano per riaffermare il suo ruolo di fondamentale istituzione di formazione sociale, di luogo della partecipazione e di pratica democratica. Se, dunque, vi è la necessità del suo ammodernamento strutturale, questa è condizione non sufficiente per ri-pensare una scuola protagonista negli spazi del quotidiano. Gli architetti progettano i nuovi edifici scolastici senza avvertire il bisogno di un confronto innanzitutto con la collettività, nemmeno con la natura trasmissiva ed inclusiva da attribuire alla scuola. Piuttosto accettano la mediazione con la politica, assecondano e/o rincorrono il taglio dei nastri, le fasce tricolore. Scuole d’eccellenza diventano nell’immaginario i poli scolastici progettati dalle archistar, sganciati dal proprio contesto sociale ed urbano, corpi estranei che contribuiscono a cementificare, a consumare territorio, dunque antiecologici per definizione. Ubicati in un altrove ancora più periferico, diventano altro rispetto alle condizioni sociali di chi le frequenta, dagli alunni ai lavoratori. Non partecipano al recupero dell’esistente, al rapporto con la comunità. Sono organizzazioni separate e burocratiche, con una fortissima gerarchizzazione dei rapporti che non lascia esprimere compiutamente prospettive creative, non sono nel corpo vivo delle città e dei territori, quali laboratori permanenti di partecipazione. Va quindi ripensata l’architettura scolastica come strumento di crescita per l’intera società, che ponga al centro i processi educativi e la maturazione della personalità dei cittadini, ma anche occasione di creazione di spazi aperti e condivisi, dialettici, se occorre, senz’altro democratici, improntati alle forme più alte dell’ecologia ambientale e sociale. È piuttosto evidente che i maghi del cubo di cemento magico non apprezzano una scuola che recupera l’esistente, che collabora alla riscrittura dell’ambiente sociale in termini partecipativi e solidali. Temono un nuovo protagonismo dei lavoratori della scuola, un rilancio della democrazia interna, poiché l’efficacia dei percorsi educativi e l’attenzione per essi non si misura solo costruendo edifici funzionali, ricchi di belle aule, ampie ed attrezzate, ma, dentro questi, amplificando il ruolo formativo e pedagogico della scuola, eliminando la pletora di orpelli burocratici il cui proliferare l’ha mortificata, impedendone l’osmosi necessaria con l’ambiente urbano.

Per ciò che attiene l’architettura stessa dell’edificio, dello spazio scolastico, infatti, il consumo del territorio stride con il ruolo formativo della scuola. La costante aggregazione dei plessi, sino alla creazione di immensi ed affollatissimi edifici, rema contro i percorsi di inclusività, poiché va gestito in modo opposto alla creazione di sistemi di relazione tra chi frequenta la scuola – a qualsiasi titolo – e tra questi e l’ambiente sociale. La necessità di recuperare gli spazi urbani esistenti, anche con le opportune strategie di adeguamento antisismico, energetico e funzionale (da questo punto di vista vi sono stati passi in avanti notevolissimi nelle pratiche ingegneristiche e architettoniche), sarebbe un punto di partenza per ridare centralità alla scuola, oltre ad essere, alla lunga, anche economicamente vantaggioso per il pubblico. Riduce i costi per gli spostamenti, ha impatto ambientale minore, crea isole di salubrità culturale in luoghi che ne sono privi, consente a chi vi abita di riconoscersi nelle azioni formative della scuola. In definitiva, crea “identità” autentica, non un suo artificio retorico. E si comprende come nel PNRR questi aspetti appaiano lontani e marginali. Mica si vorrà stemperare la natura di centri commerciali di certi centri storici, mica si vorrà creare discontinuità strutturale nei dormitori per consumatori, mostrando loro le vie della cultura e dell’istruzione?

Questo articolo esce in simultanea su www.labottegadelbarbieri.org




ANARKIKKA, SOPHIE LAMDA, EMMA DANTE OVVERO …

… mai mettere lucchetti ai destini

Barbara Bonomi Romagnoli su «Smettetela di farci la festa», «L’amore non basta! Come sono sopravvissuta ad un manipolatore», «E tutte vissero felici e contente»

 

Il tratto prima di tutto mi ha colpito, quando anni fa mi imbattei in una vignetta di Anarkikka, nome d’arte – mai più azzeccato – di Stefania Spanò: un segno geometrico e al tempo stesso morbido, il bianco e nero alternato a spruzzate di colori e l’essenzialità, anche nell’uso di un lessico puntuale e mai banale per i messaggi trasmessi.
Nella raccolta ragionata edita da People dal titolo «Smettetela di farci la festa» – con l’eloquente sottotitolo “Di discriminazioni in genere” – si ritrovano molte delle sue storie in pillole, vignette ma anche brevi riflessioni sui temi a noi cari, dall’uso dei linguaggi violenti alle molestie e discriminazioni negli studi e nel lavoro. Alcune istantanee sono sempre attuali, altre “datate” perché riferite a notizie del momento, come quella del 2 settembre 2016 in cui Anarkikka sottolinea lo stupro all’italiana caratterizzato dal commento «se l’è andata a cercare», commento che sentiamo anche oggi ma in quel caso era riferito allo stupro di una ragazza violentata per tre anni, dai tredici ai sedici, da nove uomini. Ma ovviamente il giudizio della comunità è ricaduto sulla ragazza, con tutte le attenuanti del caso riferite ai maschi coinvolti. È proprio alla cronaca che spesso Anarkikka fa il controcanto, per contrastare narrazioni retoriche sulla violenza e sui femminicidi ancora dominanti sui media. E per «disinnescare alla base la cultura maschilista e patriarcale di cui i media si fanno specchio» come ricorda Giulia Siviero nella prefazione. Perché Anarkikka fotografa dettagli e comportamenti generalizzati «con la leggerezza di un battito d’ali sa ‘planare sulle cose’, per poi inchiodarle al muro. Sa, soprattutto, levare macigni: e le sono grata, per questo» chiosa Siviero. E, aggiungo, dobbiamo esserle grate anche per la sua arguta ironia e la sua capacità di dialogare e tessere relazioni, una delle pratiche femministe più importanti che Anarkikka ha saputo ripensare anche nell’epoca del mordi&fuggi dei social media.

 

Accanto al testo di Anarkikka, è uscito un altro fumetto che merita attenzione: «L’amore non basta! Come sono sopravvissuta ad un manipolatore», 294 pagine disegnate da Sophie Lamda, giovane illustratrice francese al suo primo libro, già bestseller in Francia, in Italia edito da Laterza. Lamda racconta la sua storia, si mette a nudo consapevole che quanto le è accaduto può succedere ad altre persone e che sia importante disegnare anche i sentimenti non sani, relazioni distruttive in cui la persona che amiamo è narcisista e manipolatrice al punto da farci ammalare, anche solo per sostenere la vergogna di doverne parlare. Anche l’autrice francese ha il dono dell’ironia e il fumetto scorre veloce in un lungo flashback che ripercorre la storia del suo amore malato, in uno sdoppiamento fra cuore e cervello, fra la parte di lei che cade nei tranelli del partner – in una altalena continua di autosvalutazione, autocommiserazione e depressione – e quella che inizia ad avere dubbi e intesse un divertente dialogo con il pungente Chocolat, orsetto di peluche che diventa la “voce” della sua coscienza, facendole capire che non è lei il problema. Il testo mantiene una forte godibilità anche quando si trasforma in una sorta di manuale d’uso, con riferimento esplicito alle teorie e agli studi scientifici che possono aiutare a capire chi si ha dinanzi, prima che sia troppo tardi e che la sindrome della crocerossina accechi più dell’amore romantico.

 

Anche perché, come ha ben riscritto Emma Dante, regista e drammaturga di fama internazionale, in «E tutte vissero felici e contente» [La nave di Teseo] chi lo dice che si debbano avere come modelle di riferimento le protagoniste tradizionali delle favole: perché non immaginare nuove personagge a cui ispirarsi che non hanno bisogno di principi o salvatori, di amori a immagine e somiglianza degli uomini? Dante non solo reinterpreta le classiche Cappuccetto Rosso, Rosaspina, Biancaneve e Cenerentola con l’ausilio di bellissime illustrazioni di Maria Cristina Costa ma vi aggiunge anche uno sguardo contemporaneo: «dal soggiorno arrivano le voci della televisione e nella penombra del corridoio la matrigna e le figlie, in vestaglia e tappine, camminano avanti e indietro. In fila. Sembrano tre pazze». Come le tante donne della porta accanto omaggiate da Alda Merini che continuano a ribellarsi a chi mette lucchetti ai loro destini.