Il Sol dell’Avvenire

La visione de Il Sol dell’Avvenire di Nanni Moretti mi ha confermato la correttezza intellettuale della mia linea di ottusa impermeabilità alle opinioni altrui. È un bel film intanto proprio come film. Che significa fotografia, scenografie, sceneggiatura, attori che recitano bene. Il che fa già una bella differenza con tutta la mondezza in circolazione. Ci sono alcune scene da antologia, incredibilmente mai citate, a proposito di ottusità non dichiarate, a differenza della mia, in nessuna delle furiose recensioni tutte incentrate sulla personalità di Moretti e non sul film, che parlano di cinema e costituiscono una delle critiche più sensate mai viste e sentite al mercato delle immagini che ci circonda. A parte quella sul mondo di Netflix, che scavalca a sinistra la satira di Boris sull’algoritmo e il pubblico, la riflessione sulla rappresentazione della violenza tramite il tentato sabotaggio del film che sta producendo la moglie cinematografica di Moretti, Margherita Buy, meriterebbe da sola di essere sviluppata in un altro film o in un corso d’arte drammatica con Tarantino, che pure amo, e tanti suoi emuli, Sollima compreso, sul banco degli imputati.
C’è poi la politica. Poca, secondo me. Il 1956 non è soltanto l’anno della rivolta d’Ungheria, che avviene sul finire dell’anno, ma quello del rapporto sui crimini di Stalin al XX congresso del Pcus con cui a febbraio i comunisti devono fare i conti. Quello è il momento in cui sarebbe stato possibile che la storia del movimento comunista, a noi interessa quello italiano, prendesse un altro corso. Così non è stato. Solo la finzione cinematografica può riscrivere la storia, esattamente come fa Tarantino in C’era una volta Hollywood, paradossalmente il riferimento è quello. Gli invasori, i sopraffattori, i prepotenti, gli imperialisti di sinistra o “socialimperialisti” (come, ricordava ieri su fb Chicco Galmozzi, i comunisti di sinistra e libertari definirono la politica dei carri armati di Mosca) hanno sempre torto. Non capirlo, non stare dalla parte degli oppressi, allora come oggi, segna una differenza esistenziale che va molto oltre la politica. Semmai il rimpianto, che traspare nel film, è per un’epoca di coinvolgimento civile fortissimo delle persone nella vita pubblica, ormai perduto per sempre. Il finale circense e il riferimento a Fellini è a mio avviso un auto presa in giro del regista, con tutti gli attori di tutti i suoi film che sfilano. Forse per l’addio di Moretti al cinema, forse per semplice gioco di una leggerezza ritrovata, voglia di stare insieme a quelli con cui stiamo bene. La sconfitta politica e umana, dentro o fuori al Pci, ci riguarda tutti. Tutti quelli che comunisti si sono definiti o si definiscono, chi è rimasto fedele nei secoli alla linea del partito come chi ha creduto, con varie declinazioni, da quelle elettorali a quelle lottarmatiste passando per quelle movimentiste, che un altro comunismo non autoritario fosse possibile, è stato sconfitto dalla storia. Ma ci ha provato, ha messo al centro soprattutto la propria convinzione che con l’impegno personale fosse possibile cambiare il mondo. Ed è stato giusto provarci. È questo che manca oggi, è questa l’elegia, il rimpianto che esprime Il Sol dell’avvenire, il rifugio dalla sconfitta politica nella mediocrità di vite borghesi in cui nemmeno ti accorgi delle esigenze e dell’insoddisfazione della compagna che ti sta accanto da decenni, rendendola oggetto delle tue nevrosi. Ci sono un paio di scene, mai citate da nessuno nemmeno queste, in cui viene riproposta l’omofobia del Pci. A testimonianza di un fortissimo limite umano oltre che politico, l’insopportabile bigottismo e perbenismo piccolo borghese che ha caratterizzato la visione della vita di quell’organizzazione. Insomma, c’è davvero tanta roba di cui discutere nel film di Moretti. Spostare il dibattito sulla persona Moretti, perché queste sono le recensioni prevalenti del film in giro, dimostra da quanta povertà siamo circondati, esattamente la tesi di Moretti. Ovvero che abbiamo perso molto, quasi tutto, della nostra capacità di partecipare della Storia nelle parti principali, relegandoci nel ruolo secondario, da caratterista, dell’amico pettegolo, criticone e insopportabile, che appena lo vedi da lontano cambi strada per non incontrarlo. 

 





ANCORA SU ALDO BRAIBANTI

Le considerazioni di Fabio Troncarelli a partire dal film di Gianni Amelio

L’ombra a mezzogiorno. Braibanti ieri e oggi

«Il signore delle formiche» di Gianni Amelio è appena uscito sugli schermi. Il film rievoca la storia dello scrittore-filosofo Aldo Braibanti, accusato nel 1964 di aver manipolato il giovane Giovanni Sanfratello e processato nel 1968 in base all’articolo 603 del Codice Penale. L’articolo prevedeva allora l’accusa di “plagio” che indicava lo «assoggettamento di qualcuno in proprio potere, privandolo di ogni libertà di giudizio e di iniziativa». Questo provvedimento assurdo, sancito dall’ articolo 603 del Codice Rocco nel 1930 e scivolato in quello repubblicano, era stato invocato in tribunale solo in qualche rara occasione senza risultato (come nel processo dei Savoia contro Maurizio Arena che avrebbe “plagiato” Maria Beatrice di Savoia). Ma spuntò fuori come per miracolo in quell’occasione. In realtà il ragazzo, in fuga da una famiglia ultraconservatrice e bigotta, raggiunta la maggiore età, era andato a vivere a Roma con Braibanti di sua volontà, una decisione che non rinnegò mai durante il processo. Le sue parole non furono ascoltate e neppure furono credute quelle dello scrittore accusato. Era un ex-partigiano, un ex-comunista, un irregolare «un intellettuale disorganico», di tendenza anarchica e dagli interessi più disparati, dalla poesia alla saggistica, dalla pittura al teatro, dalla lavorazione delle ceramiche allo studio della vita e dell’organizzazione sociale delle formiche. E soprattutto omosessuale. Ed era proprio questa propensione sessuale che gran parte della società di allora, pienamente rappresentata dal tribunale romano, gli rimproverava. Inutilmente il professor Leopoldo Piccardi, che difendeva l’imputato insieme con l’avvocato Ivo Reina, ricordò alla corte che l’ultimo processo celebrato in Europa per omosessualità era stato quello a Oscar Wilde, nell’Inghilterra vittoriana. Il «piccolo e stortignaccolo Braibanti», come lo definì l’avvocato Taddei, di parte civile, fu condannato [il 14 luglio 1968] a nove anni di reclusione (Giuseppe Loteta, «Ricordo del caso Braibanti», “Il dubbio”, 11 settembre 2022). Quanto al ragazzo, prima che cominciasse il processo fu letteralmente rapito dai parenti e chiuso prima in una clinica privata di Modena, in cura presso lo psichiatra Romolo Rossini, amico di famiglia, che lo avrebbe sottoposto a una serie di elettroshock (che a dire il vero non risultano sulla scheda di ricovero ma erano pratica corrente). In seguito fu trasferito al Manicomio Provinciale di Verona, diretto dal cattolicissimo Cherubino Trabucchi (fratello del democristiano Giuseppe, ministro delle Finanze) e dismesso molti mesi più tardi, dopo aver subìto altri elettroshock e iniezioni che inducono il coma insulinico (ma le testimonianze e la scheda clinica non sono concordi tra loro).

Aldo Braibanti nel 2013

Può sembrare strano, ma perfino gli stessi bravissimi attori del «Signore delle formiche» (Elio Germano e Luigi Lo Cascio) hanno dichiarato che non conoscevano la vicenda prima di girare il film (“Corriere della Sera”, 6 settembre 2022). Come loro, molti altri hanno detto ieri e oggi che Braibanti è una figura «sconosciuta» (A. Cassin, Aldo Braibanti, scrivere come mestiere di vita, sul quotidiano “Il manifesto”, 9 aprile 2014; R. Tavani, Il caso Braibanti, “Stampacritica”, 30 settembre 2020). Una simile incomprensibile ignoranza ha suscitato immediatamente reazioni vivaci nei pochi che hanno conservato una memoria dei fatti, emerse con chiarezza nelle recensioni del film di Amelio: molti hanno protestato contro questa “rimozione”, ricordando che Braibanti fu coinvolto in un processo degno dell’Inquisizione e che non è possibile cancellare l’accaduto dalla nostra coscienza. La reazione è comprensibile ma forse non coglie nel segno. E’ difficile dire che il “caso Braibanti” sia stato «rimosso», se diamo a questa parola un significato specifico e non la usiamo, impropriamente, solo per dire che ci siamo dimenticati di qualcosa. La vicenda non fu mai “rimossa”. Mentre si svolgeva il processo lo scrittore fu difeso da Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco, Cesare Musatti, Marco Pannella, Marco e Piegiorgio Bellocchio e molti altri ancora, con interventi di ogni tipo, che vanno dalle deposizioni in aula ad una serie di articoli su quotidiani e periodici, poi riuniti in volumi (Sotto il nome di plagio, Milano 1969; La sentenza Braibanti, Bari 1969). Del caso si è continuato a parlare in altre occasioni che suscitarono clamore, come ad esempio nel 1972 durante il processo per diffamazione contro Marco Pannella, Mario Signorino e Giuseppe Loteta che avevano difeso Braibanti su giornali e riviste; o in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale che dichiarava illegittimo il reato di plagio l’ 8 giugno 1981.

Successivamente di Braibanti si è parlato molte volte negli ultimi anni, in trasmissioni televisive, radiofoniche, drammi teatrali (M. Palmese, Il caso Braibanti, 2011), convegni (Conversazione su Aldo Braibanti, 30 novembre 2018, Roma, Teatro Torlonia), libri (G. Ferluga, Il processo Braibanti, Torino 2003), documentari, suscitando forti reazioni nel pubblico: si pensi solo che il documentario Il caso Braibanti di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese ha vinto nel 2020 il premio «Cinema in piazza» della “Mostra Internazionale di nuovo cinema di Pesaro” e nel 2021 il “Nastro d’Argento” nella sezione “Docufiction”.

Ma se questo è vero, come è possibile che tante persone ancora oggi dichiarino di non sapere nulla di questa vicenda? Secondo me esistono una serie di cause diverse, ma convergenti, che contribuiscono ad attutire la nostra percezione degli eventi e alla fine, senza che ce ne avvediamo, ci portano a dimenticare cose che non dovrebbero essere dimenticate. E’ un fenomeno curioso, che tuttavia si ripete in molti altri casi ai giorni nostri. Da un lato il Non-Pensiero Unico ci costringe a interessarci solo dell’effimero e a rottamare la storia. Dall’altro, sommersi da una valanga di informazioni, siamo noi stessi che trascuriamo molte vicende, soprattutto quelle che sembrano più confuse o predilette dai “confusionari di mestiere”.

La prima cosa da osservare è che le vittime di questa storiaccia hanno più volte chiesto di non parlarne. Si pensi che l’8 novembre 1996 furono invitati in televisione da Sandro Curzi, per partecipare a una trasmissione sul processo, preceduta da un documentario di Franco Bernini, e rifiutarono entrambi. Anzi, il Sanfratello fece ricorso al tribunale per impedire la trasmissione che fu poi autorizzata dal giudice Franca Mangano della Prima sezione del Tribunale Civile di Roma. E’ evidente che chi ha subìto traumi devastanti non abbia alcun piacere nell’esibirli, contrariamente a quello che pensano molti oggi, a cominciare da tanti giornalisti televisivi. Non si tratta solo di pudore, un sentimento che sembra sconosciuto a tanti mostri che popolano la nostra società. Si tratta anche dell’esigenza di non essere fraintesi o strumentalizzati. E c’è di più. Braibanti era un personaggio estremamente schivo e ha vissuto quel dramma a modo suo, come una vicenda irreale, completamente estranea alla sua vita: una tragedia umiliante, ma anche assurda e ridicola. Perfino essere finito in prigione gli sembrava una specie di sogno senza fondamenti reali. Da giovane era stato rinchiuso e torturato in carcere dai fascisti e conosceva bene gli effetti della brutalità. A confronto, il presente sembrava solo una follia. Come dice il protagonista del film di Amelio: «Il fascismo era reale: deportavano, torturavano, uccidevano. Tutto questo invece mi sembra una farsa».

Non era il solo a pensarla così. Piegiorgio Bellocchio, uno dei più autorevoli sostenitori di Braibanti, ha scritto nel 1968: «Se tutto questo è potuto avvenire impunemente, fino alla folle sentenza di condanna, di ciò è gravemente responsabile la stampa… Ma anche noi dobbiamo fare l’autocritica… Non riuscivamo a concepire l’ipotesi di una condanna. Eravamo furiosi e umiliati che un amico fosse in galera per un reato inesistente e dovesse sopportare la tortura gratuita di un processo, ma concludevamo: “Non saranno mai tanto pazzi da condannarlo.”. Avevamo fretta di uscire da questo incubo.» (P. G. Bellocchio, Perché è stato condannato Aldo Braibanti, “Quaderni Piacentini”, VII, numero 35 del 1968, pagina 91).

Forse la «fretta di uscire da questo incubo» gioca ancora oggi un ruolo nel fenomeno di parziale oblio del processo e della sua mostruosità che ha travolto tutti, a cominciare chi ne era stato vittima, tanto più che pochi anni dopo il reato di plagio è stato cancellato dal codice e riparlarne sembra solo una perdita di tempo.

Aveva dunque ragione Braibanti a pensare che fosse tutto un farsa?

Niente affatto. Con tutto il rispetto per i suoi sentimenti privati, non si trattava di una squallida commedia e sarebbe ora di comprenderlo. Ancora oggi, infatti, gli spiriti più illuminati ripetono quello che dissero a suo tempo gli avvocati difensori di Braibanti: che la sua fu «una vicenda medievale» senza senso, «un processo montato dalla destra più reazionaria del Paese in combutta con esponenti del clero e della “psichiatria di regime” per un “delitto inesistente”». Come ha scritto Massimiliano Palmese, autore di un ottimo dramma e un ottimo documentario su questo tema: «Nel ’68, mentre il mondo si trasformava in un luogo meno repressivo, in Italia bastò una “cricca” di avvocati, di psichiatri e di preti, per trasformare una storia d’amore in un “Romeo e Giulietta” omosessuale, in cui i padri per punire i figli non esitano a denunciarli per “plagio” o a sottoporli a coma insulinici ed elettrochoc» (M. Palmese, Presentazione del dramma “Il caso Braibanti”, 19 marzo 2012, Napoli, Sala Assoli).

Le reazioni emotive e l’indignazione non aiutano chi vuole capire: e questo vale nel caso di reazioni emotive conservatrici e nel caso di reazioni emotive progressiste.

Non è affatto vero che si trattò di una «vicenda medievale», né che bastò “una cricca” di corrotti per mettere in ginocchio un’Italia arretrata e spaventata dal nuovo. Purtroppo le cose andarono diversamente e proprio per questo è così difficile ancora oggi liberarsi da queste catene.

Cominciamo dal concetto di “plagio”. Formulato com’era nel Codice Rocco a noi sembra un’assurdità. Del resto la Corte Costituzionale nel 1981 lo ha giustamente definito un’assurdità, con una lunga e approfondita analisi del termine e della sua storia nei secoli. Eppure il problema non finisce lì. Non a caso nel 1988 gli onorevoli Jervolino e Vassalli, nel 2001 il senatore Meduri insieme ad altri, nel 2002 la senatrice Alberti Casellati, nel 2007 l’onorevole Pisicchio hanno presentato diverse proposte per reintrodurre articoli di legge sulla manipolazione mentale che somigliano al vecchio “plagio” e il 7 gennaio 2022 Massimo Giletti, durante la trasmissione Non è l’arena, si è fatto portavoce di una simile istanza. Eliminando il principio assurdo del “plagio” si crea infatti una involontaria carenza, sul piano giuridico, che non ci permette colpire in modo adeguato fenomeni criminali che sfuggono alle leggi vigenti. Si pensi a esempio al problema internazionale della prostituzione minorile, che include anche i casi in cui minorenni di ambo i sessi vengono “venduti” dalle famiglie di appartenenza senza che la cosa sia considerata reato nel Paese da cui provengono; oppure si pensi al traffico internazionale di prostitute definite “consenzienti”, reclutate in Paesi del terzo mondo nei quali la possibilità di autoderminazione e di scelta come la intendiamo noi non esiste. Un altro caso aberrante di possibile influenza criminale su minori è quello emerso a Bibbiano: un sistema illecito di affidamento di minori sottratti alle famiglie di appartenenza estorcendo ai bambini presunte confessioni di abusi mai avvenuti. L’inchiesta ha coinvolto 27 persone, alcuni appartenenti alla comunità terapeutica La cura di Reggio Emilia, altri membri della Onlus Hansel e Gretel diretta dallo psicoterapeuta Claudio Foti, luminare dei casi di abuso ai minori, confinato immediatamente agli arresti domiciliari. La sentenza del Tribunale del Riesame, che pure ha liberato temporaneamente Foti, ha sottolineato che il suo operato: «appare di per sé connotato da elementi di forte pressione e forzatura nonché ingerenza nella vita privata dei minori».

Questi e altri simili casi non giustificano affatto il ricorso a uno strumento assurdo come quello di “plagio”, ma ci fanno comprendere la difficoltà di agire in questo campo: una difficoltà che ha impedito a giudici e uomini politici nel passato di sbarazzarsi del fantomatico reato di “plagio” previsto dal Codice. E’ ovvio che nel caso di Braibanti non erano questi i problemi sollevati ed è altrettanto ovvio che si trattasse di una squallida e vergognosa montatura: è però altrettanto vero che considerare la legge di allora solo un residuo medievale è un pregiudizio illuministico che ci porta fuori strada. Molti giuristi hanno sollevato il problema in diverse sedi, mettendo in guardia la società civile: non è impossibile che si possa ritornare a nuove norme più o meno liberticide, simili nella sostanza al reato di plagio, perché non si riesce a contrastare reati assai difficili da circoscrivere (si veda ad esempio V. Musacchio, Il concetto di schiavitù nel diritto penale, “Diritto e diritti”, febbraio 2002 in Diritto.it nel sito https://www.diritto.it/il-concetto-di-schiavitu-nel-diritto-penale/; M. Alfano, La nuova formulazione dell’art. 600 c.p.: reintroduzione del reato di plagio?, “Giustizia penale”, numero 2 del 2004, pag. 673). L’unico modo per opporsi a simili limitazioni della liberà è riuscire a formulare la legge in maniera adeguata, aggiornandola rispetto a reati che non erano così frequenti nel passato, senza ledere i diritti degli individui. Qualcosa a cui bisogna pensare con molta cura, con calma, con intelligenza: tutto l’opposto dell’indignazione e delle reazioni isteriche di chi urla e non riflette.

Ci porta altrettanto fuori strada indignarsi, come hanno fatto tutti a partire da Moravia, perché il giovane Sanfratello è stato ricoverato in manicomio, senza possibilità di parlare con nessuno e sottoposto a elettrochoc. Su questo punto l’unico che abbia detto una cosa intelligente è stato un grande psichiatra, Giovanni Jervis, il collaboratore di Basaglia a Gorizia, che ha scritto un lucido articolo su “Quaderni Piacentini”: «Il ricovero coatto avviene secondo la legge con una ordinanza della Questura… Il fatto che per iniziativa dei familiari un individuo maggiorenne possa venir rapito, sequestrato e sottoposto a terapie di shock , rinchiuso 15 mesi in un manicomio e infine dismesso …e consegnato sotto la minaccia di un nuovo ricovero… non ha nulla di abnorme, ma rientra nell’esperienza di tutti i giorni per chi lavori negli ospedali psichiatrici.». (G. De Matteo alias Giovanni Jervis, Una lezione di violenza, “Quaderni piacentini”, VII, fascicolo 36, pagg. 71-79). Infatti, fino all’abolizione dei manicomi con la “Legge Basaglia” il 13 maggio 1978 – la legge 180 – era in vigore la legge 36 del 14 maggio 1904 che prevedeva il ricovero coatto di persone affette da squilibrio mentale in base a un solo certificato medico e un atto di notorietà. Con questo sistema centinaia di persone deboli furono ricoverate in manicomio: in particolare moltissime donne che non si assoggettavano alla disciplina del patriarcato, come è tristemente noto a tutti (si veda ad esempio Malacarne. Donne e manicomio nell’Italia fascista, Roma 2017).

Ma tutto questo Moravia sembra ignorarlo. Per il suo illuminismo egocentrico esiste solo il mondo degli eletti, degli intellettuali, dei “migliori”, come il suo amico ingiustamente accusato. Le altre vittime non intellettuali non si sa bene chi sono. Invece di protestare a vuoto, Alberto Moravia e gli altri come lui avrebbero fatto bene a conoscere meglio il Paese in cui vivevano. E a conoscere meglio la legge e saperne sfruttare le contraddizioni.

Ne volete una prova? Jervis ricorda i nomi di molti testimoni che si erano offerti di parlare a favore di Braibanti che non furono ammessi a deporre. Ricorda anche i nomi dei pochi che furono ammessi: Cesare Zambonini, Vittorio Fermi, Ugo Lussardi. Costoro negarono con molti dettagli le accuse contro lo scrittore-filosofo, ma non vennero presi in considerazione in tribunale e neppure la stampa si occupò di loro. Il giudice nella sentenza finale privilegiò solo le parole di due testi dell’accusa: un ragazzo che diceva di aver subìto la stessa manipolazione mentale del Sanfratello, che si chiamava Pier Carlo Toscani e il fratello del Sanfratello che sosteneva di essere stato corrotto da Braibanti e di essere fuggito da lui (“Il foro italiano”, numero 4 del 1969, pp. 153-192). Ora, nella richiesta di revisione della sentenza in appello, gli avvocati difensori trascurarono completamente sia i testimoni ammessi nel dibattito, sia quelli esclusi e continuarono, come Moravia, a protestare contro l’assurdità delle accuse, sostenendo che con il concetto di “plagio” si sarebbero dovuti incriminare anche i maestri di scuola e i sacerdoti. La petizione di principio era giusta, ma inutile visto che la legge sbagliata esisteva e non c’era nulla da fare, a meno di non richiedere alla Corte Costituzionale di pronunciarsi sulla sua legittimità (procedimento che portò alla sentenza del 1981). Il risultato fu che l’appello, in base alla legge allora vigente, venne respinto con la motivazione che la suggestione malefica è ben diversa dall’influenza benefica degli educatori: poiché il reato di plagio prevedeva la condanna della suggestione malefica il ricorso non aveva senso (“Il Foro Italiano”, numero 95 del 1972, pp. 1-18). In questo modo, perdendo tempo con le proteste di principio e trascurando i fatti reali, il ricorso in appello non servì a niente e le testimonianze a favore di Braibanti non vennero ascoltate. Gli avvocati e gli intellettuali che protestavano si dimenticarono dei testimoni a loro favore e neppure provarono a farli conoscere alla stampa (ne parlò solo una volta Angelo Greco sulla rivista “Abc” il 14 luglio 1968, ma purtroppo quando era ormai tardi, poco prima della sentenza). Eppure i testimoni a discarico avrebbero avuto molte cose da dire: tanto per fare un esempio, Romano Donati dichiarò al giornalista che lo intervistò che il Toscani non era stato per nulla “corrotto” da Braibanti ed aveva manifestato in vari modi la sua omosessualità molto prima di conoscere lo scrittore: «almeno due o tre anni prima del ’60, epoca della conoscenza con Braibanti». Questa testimonianza avrebbe potuto smentire quella avversa di Toscani. Ma fu lasciata cadere. Non solo in tribunale dal giudice prevenuto: ma anche e soprattutto dagli avvocati di Braibanti e dall’opinione pubblica. Il punto è che a nessuno andava di parlare in questo modo delle accuse: lo scontro era fra innocentisti e colpevolisti come se il caso Braibanti fosse il caso Dreyfus.

Chi abbia visto qualche “legal-thriller” sa che gli avvocati devono utilizzare le testimonianze a favore, una per una, contestando con umiltà e pignoleria le accuse, una per una, scendendo dall’iperuranio sulla terra, sporcandosi le mani. Se gli avvocati di Braibanti l’avessero fatto forse avrebbero dato filo da torcere ai loro avversari. Allo stesso modo se invece di fare proclami e arringhe memorabili avessero fatto tesoro delle osservazioni psichiatriche dei periti dell’accusa, ne avrebbero tratto qualche vantaggio. Jervis osserva, a ragione, che: «La copia della cartella clinica [del Sanfratello presunto “plagiato”] non fornisce indizi chiari di malattia mentale» (p. 73) e che questo era stato ribadito perfino dai periti del tribunale, pur essendo capitanati da un personaggio spregevole e sinistro come Aldo Semerari, colluso con il terrorismo nero e la Banda della Magliana. Infatti: «Secondo i periti [dell’accusa] e sulla base di argomentazioni, colloqui e prove clinico-psicologiche che appaiono convincenti il Sanfratello non è e non è mai stato malato di mente» (pp.74-75). Una simile contraddizione doveva essere sfruttata, mettendo in discussione il comportamento di coloro che avevano denunciato Braibanti. Se il Sanfratello non era malato di mente perché era stato ricoverato con questa diagnosi, sbandierata ai quattro venti dai genitori? Se i genitori avevano mentito sullo stato di salute del figlio, che valore avevano le loro accuse a Braibanti? Non erano forse un insieme di menzogne?

Gli avvocati dell’accusato non si curarono di queste parole, né delle parole dei periti contrari (che probabilmente neppure lessero) e rimasero attaccati alla perizia che avevano chiesto ad Adriano Ossicini, secondo cui il ragazzo mostrava tendenze psicotiche sin da prima di conoscere Braibanti, senza accorgersi che in questo modo, pur scagionando l’accusato dal ruolo di malefico manipolatore, davano legittimità al ricovero e all’idea che egli fosse un “malato di mente” come volevano i genitori. Indubbiamente il giovane Sanfratello, imbottito di psicofarmaci dai genitori, aveva dato più volte segni di squilibrio, come quando il 5 agosto 1962 era fuggito da tutti ed era stato ritrovato dalla polizia su una panchina a Venezia, lacero e affamato dopo quasi un mese di ricerche, nelle quali avevano collaborato in perfetta concordia Braibanti e i genitori di comune accordo (incredibile ma vero!). Tuttavia insistere su questo punto era controproducente: non a caso il giudice non terrà conto di questa contro-perizia e definirà l’intervento di Ossicini poco perspicace, ripetendo coi periti del tribunale che il Sanfratello era solo un po’ nevrotico, un po’ esaurito, ma non del tutto malato, e che la sua vera “malattia” era solo l’influsso malefico di Braibanti che lo riduceva a uno straccio. In questo modo però si sorvolava su una contraddizione evidente: il giovane era stato ricoverato in clinica dai genitori evocando lo spettro della malattia mentale; se veniva dichiarato “sano di mente” il giudice avrebbe dovuto dire, formalmente, che la sua detenzione di quindici mesi era stata illegittima (e addirittura perseguibile legalmente) e i suoi genitori mitomani avrebbero dovuto perdere ogni credibilità. Il giudice sorvolò sulla questione e del resto il dubbio sull’attendibilità delle accuse a partire da questa contraddizione non aveva sfiorato neppure gli avvocati difensori.

In realtà la spocchia degli avvocati non era casuale: erano dei grandi principi del foro capaci di fare discorsi roboanti ma poco attenti alla realtà concreta. A loro del destino di Sanfratello non importava nulla: era ormai tornato a casa e perduto alla causa. Non serviva a nulla parlare di lui. Quello che bisognava dire invece era che il processo era un obbrobrio medievale, una cosa indegna. Non un dibattimento pieno di insidie, che bisogna respingere con astuzia, come in qualsiasi altro processo.

Si potrebbe sollevare l’obiezione: sarebbe stato inutile farlo perché l’esito del processo era già scontato in partenza. I giudici e testimoni erano corrotti e la condanna era già stata scritta prima di essere pronunciata. Una simile tesi è contraddetta dagli atti della causa. E’ vero che tutto sembra grottesco e assurdo: però tutto si svolge nel rispetto di una serie di regole giuridiche che non sono quelle di una dittatura, nella quale ci sono solo processi-farsa. D’altro canto, se gli avvocati difensori avessero pensato che era tutto una buffonata perché avrebbero dovuto spendere tesori di eloquenza cercando di contrastare i loro avversari? E perché avrebbero dovuto schierarsi pubblicamente gli intellettuali che si schierarono? E’ evidente che i giudici erano prevenuti: ma non è detto che l’esito del processo fosse scontato. Come ha scritto Piergiorgio Bellocchio: «Abbiamo peccato di superbia intellettuale, di leggerezza politica» (p. 92). Gli fa eco Jervis dicendo: «Questa battaglia è stata perduta perché non la si è voluta combattere» (p. 79).

Non abbiamo ancora finito. Il peggio arriva adesso. Non è vero che il “caso Braibanti” è stato solo «una follia». E’ stato molto di più. Per comprenderlo bisogna consultare opere di specialisti ben informati. Prendiamo, solo per fare un esempio, l’articolo di un professore della UCLA, Barry A. Fisher, Devotion, Damages and Deprogrammers: Strategies and Counterstrategies in the Cult Wars, “Journal of Law and Religion, 9, No. 1 (del 1991), pp. 151-177. Scopriremo che dall’epoca della Guerra di Corea si è scatenata una seconda guerra per contrastare il cosiddetto “lavaggio del cervello”, promossa in prima istanza dalla Cia con un apposito programma segreto. In realtà negli Usa esisteva da almeno 100 anni una vera ossessione per le possibili manipolazioni dei giovani. Il problema era nato con lo sviluppo incontrollato di sette religiose o pseudo-religiose e l’indottrinamento forzato dei nuovi adepti, provocando accesi dibattiti pubblici e numerosi interventi delle magistrature di ogni Stato, con sentenze contrastanti e aggiustamenti giuridici spericolati. Tuttavia fu la Guerra di Corea a dare il colpo decisivo alla paranoia che serpeggiava.

Il termine “lavaggio del cervello” fu inventato dal giornalista e propagandista dei servizi segreti americani Edward Hunter, per tradurre il cinese “xi nao”, che indicava una trasformazione dell’uomo ottenuta “ripulendo il cuore”, attraverso il ritiro e la meditazione. Il procedimento fu utilizzato dagli ufficiali maoisti che volevano “ripulire il cuore” dei dissidenti interni e dei prigionieri di guerra Nel libro Brainwashing in Red China, New York 1951, Hunter scriveva: «Il lavaggio del cervello è la terrificante nuova strategia comunista per conquistare il mondo libero distruggendo la sua mente» (pag. 1). I prigionieri erano indeboliti dalla denutrizione e dalla privazione di sonno, spaventati con finte esecuzioni ma ricevevano una sigaretta o un po’ di cibo in più, per farli affezionare ai carcerieri. Questi ultimi li obbligavano a memorizzare e discutere tesi comuniste, criticando il loro passato. Alla fine dovevano sottoscrivere lunghe confessioni in cui rinnegavano i loro errori.

Secondo gli statunitensi questa tecnica funzionava per via di un principio che lo psicologo Leon Festinger definì, nel 1957, «dissonanza cognitiva». Per ciascuno di noi è insopportabile agire in modo opposto ai nostri pensieri. Se ci obbligano ad agire in un certo modo, ad esempio a scrivere un elogio di Mao, per ridurre la dissonanza tra azioni e pensieri, non potendo più cambiare le azioni fatte, dobbiamo cambiare i pensieri. L’ipotesi era molto discutibile ma ebbe successo.

Scoprire che i propri soldati fossero così vulnerabili gettò nel panico il Pentagono e negli anni Cinquanta la Cia volle recuperare terreno. Si investirono milioni di dollari in una sorta di “Progetto Manhattan della mente” (con vari nomi come MKUltra) teso a «deprogrammare» gli agenti nemici, in modo che rivelassero tutto negli interrogatori, e «programmare» i propri agenti a compiere le azioni più ardite senza alcuna remora.

La deprogrammazione prevedeva fra le altre cose anche il rapimento della persona che aveva subìto il “lavaggio del cervello”, esattamente come avvenne nel caso di Giovanni Sanfratello. Il rapito veniva segregato e sottoposto a una sorta di “lavaggio del cervello alternativo” per riportarlo alla sanità mentale.

Questo genere di operazioni divennero frequentissime, a partire dagli anni ’70, coinvolgendo personaggi che erano stati in varia misura “prigionieri” di sette religiose o di fanatici di ogni tipo (celebre il caso di Patricia Hearst nel 1974). Ma anche prima, negli anni ’50 e ’60, si registrarono casi del genere, nei quali anziché rapire le persone si preferiva ricoverarle in cliniche psichiatriche compiacenti, una pratica che molti psichiatri raccomandavano intervenendo attivamente nei tribunali con grande zelo e partecipazione (S. Hallack, The psychiatrists in legal process, in Law and change in modern America, a cura di J. Grossman – M. Grossman, Pacific Palisades, Ca, 1971, pp. 169-174). Emblematico, da questo punto di vista, è il caso di Clennon W. King, Jr., un afroamericano pastore e attivista del Movimento per i diritti civili, che nel 1958 tentò di iscriversi all’Università del Mississippi riservata ai bianchi e fu immediatamente arrestato perché «qualsiasi negro che cerchi di entrare in un’università per bianchi deve essere ritenuto pazzo». King rimase in un ospedale psichiatrico per dodici giorni prima che un gruppo di medici stabilisse la sua sanità mentale (W. H. Tucker, The funding of scientific racism: Wickliffe Draper and the Pioneer Fund, Urbana Illinois 2022, p. 119; “Negro Pastor pronounced sane. Demands Mississippi apologize, “Sarasota Journal” 20 giugno 1958, p. 3).

Come si vede l’operazione-Braibanti non era un’assurdità medievale che nasceva dal nulla. Era invece la manifestazione italiana di una massiccia offensiva internazionale per ottenere la “deprogrammazione” di tutti i sovversivi, in particolare di coloro che erano stati influenzati da idee comuniste e di coloro che esercitavano quest’influenza. Le iniziative contro i corruttori del pensiero furono molteplici in tutta Europa. Anche in Italia ci furono numerose forme di intervento contro i presunti subdoli corruttori della morale. Si pensi ad esempio al linciaggio della Dolce Vita di Fellini orchestrata nel 1960 («La dolce vita» raccontata dagli Archivi Rizzoli, a cura di D. Monetti – G. Ricci, Roma – Rimini 2010). Il “Secolo d’Italia”, diretto da Giorgio Almirante, scriveva il 7 febbraio sulla prima pagina «Vergogna! La dolce vita di Fellini è un oltraggio all’Italia e a Roma: lo si ritiri dalla circolazione». Poi fu la volta dello “Osservatore romano”, diretto dal conte Giuseppe della Torre, che scriveva l’8 febbraio: «E’ tempo, che quel “basta!” finalmente gridato dagli spettatori si indirizzi ai pubblici poteri cui compete la sanità del costume, e il rispetto al buon nome di un popolo civile». Il 13 febbraio Il “Secolo” rincarò la dose: «Riteniamo Fellini colpevole di aver voluto scientemente contribuire alla causa dell’anti-Nazione, suggerendo attraverso il suo film l’imprescindibile necessità di distruggere l’attuale nostra struttura sociale per sostituirla con un’altra ricalcata sul modello sovietico».Gli attacchi furono preceduti da un’aggressione a Fellini la sera della prima del film, il 3 febbraio, accompagnata da schiamazzi e grida di protesta in sala. E furono seguiti da una valanga di proteste da parte di parroci, prelati e uomini politici, fra le quali spicca l’interrogazione parlamentare degli onorevoli Quintieri, Pennacchini e Negroni della Democrazia Cristiana in cui si chiedeva al presidente del Consiglio, al ministro dell’Interno e a quello dello Spettacolo e Turismo se erano a conoscenza delle «vive reazioni del pubblico che ha assistito alla proiezione del film e delle vibranti proteste di persone e associazioni preoccupate che la rappresentazione di un mondo moralmente deteriore possa gettare un’ombra calunniosa sulla popolazione romana e sulla dignità stessa della capitale d’Italia e del cattolicesimo». Il 9 febbraio 1960, il cardinale arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, prese carta e penna per scrivere al cardinale Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova. La recensione del “Nuovo Cittadino”, scrive Montini, ha destato a Milano «una sconcertante impressione di stupore e di dolore», poiché «sembra non contestare uno spettacolo sul quale qui sono dati i giudizi più sfavorevoli». Pur ammettendo di non aver visto La dolce vita e dicendo di volersene tenere alla larga, Montini riferisce di aver ricevuto «suppliche e proteste molto gravi» contro il film, con richieste pressanti di «qualche intervento dell’autorità ecclesiastica per farlo togliere dagli schermi». (Il carteggio Montini-Siri su questo caso controverso è stato pubblicato da Antonio Carioti sul “Corriere della Sera” del 9 settembre 2008).

Un caso analogo di linciaggio fu quello di Pasolini, accusato d’aver tentato una rapina a un benzinaio il 18 novembre 1961 negli stessi giorni in cui una banda di estremisti di destra impedì la prima rappresentazione di Accattone aggredendo gli spettatori (23 novembre 1961), cosa che si ripeté l’anno dopo, alla prima di Mamma Roma, con aggressione al regista (22 settembre 1962). Allo stesso modo, nel 1964 durante il Festival dei due Mondi a Spoleto scoppiò una gazzarra incredibile perché Michele Straniero osò cantare in pubblico “O Gorizia tu sei maledetta” durante lo spettacolo Bella ciao. Il cantante e gli organizzatori dello spettacolo furono denunciati per vilipendio alle forze armate e lo scandalo per questa vicenda continuò per mesi, nonostante si trattasse di una canzone vecchissima che si riferiva alla Prima Guerra Mondiale e non alle forze armate dell’Italia repubblicana.

Se questo è vero è chiaro che i rapporti della coppia Braibanti-Sanfratello erano solo un pretesto per intervenire in un campo in cui ci si muoveva già da tempo e si sarebbe continuato fino a nuovo ordine. Il terreno dello scandalo non era stato ancora dissodato a dovere, ma ormai era venuto il momento di farlo. Erano le prove generali di un’offensiva che bisognava ancora scatenare, sperimentare, perfezionare. Bisognava dichiarare “l’impossibilità di essere anormale” per poi poter colpire gli “anormali” uno per uno e ridurli al silenzio. Anche a costo di essere ridicoli e contraddittori. Come ha scritto efficacemente Jervis: «Il caso… dimostra in modo esemplare che l’autorità della psichiatria… è semplicemente la continuazione, sotto una maschera, della rispettabilità accademica e della repressione familiare e di quella statale. Giovanni Sanfratello è stato considerato… “malato di mente” quando questa etichetta e questa procedura erano le sole che potessero servire a sottrarlo in modo radicale ai suoi amici… ed è stato considerato “non malato” e “mai malato” dai periti… quando questa tesi serviva… per dimostrare che le anormalità del suo comportamento erano da attribuire a Braibanti e non a malattia mentale… Un analogo discorso vale per Braibanti, solo che Giovanni Sanfratello è stato considerato recuperabile… e l’altro è stato semplicemente schiacciato. Il potere sociale ha dimostrato che repressione e integrazione sono intercambiabili e reciprocamente necessari: lo scopo non è qui punire e rieducare gli anticonformisti in generale, ma distruggere quelle forme di anticonformismo che espulse da un ambito istituzionale riconosciuto vengono poi anche private di una facies sociale… Così l’attributo e l’individuo vengono fatti coincidere e “pederasta” e “schizofrenico” non sono più solo etichette, ma designazioni esaurienti: sull’esempio degli Stati Uniti dove queste precise riduzioni denigratorie sono state usate sistematicamente per togliere agli avversari del sistema ogni possibilità di difesa, anche qui si è voluta sancire la totale “non appartenenza” [degli accusati alla società]… La condanna riesce manifestarsi in tutta la sua pesantezza solo quando l’infame, prima di essere schiacciato, viene ridotto a trovarsi totalmente solo» (pp. 78-79).

Sappiamo tutti che cosa è successo negli anni successivi a questa vicenda. I custodi dell’ordine hanno aggiustato il tiro, migliorato le prestazioni, perfezionato i loro attacchi. «La strategia della tensione» prese il posto – a suon di stragi – della strategia dell’intimidazione ottenendo risultati molto più vistosi e relegando nel dimenticatoio i metodi usati fino a quel momento.

Il caso Braibanti fu solo il prologo, il primo atto di una guerra che si scatenò senza esclusione di colpi negli anni ’70. Come ha scritto Franco Coppola: «Sotto processo finì… Braibanti, in quanto comunista, in quanto diverso, in quanto “anarchico”, non in quanto improbabile plagiatore. Un processo alle idee più che all’ uomo… Il giorno della scarcerazione di Braibanti, 12 dicembre 1969, è il giorno della strage di piazza Fontana. Il nuovo mostro sarà, di lì a poco, Pietro Valpreda.» (Franco Coppola, L’ultimo mostro prima di Valpreda, in “Repubblica”, 8 novembre 1996).

Il giudice Orlando Falco che condannò Braibanti è lo stesso che condannò Valpreda. E non è un caso.

Articolo da noi riproposto e pubblicato da https://www.labottegadelbarbieri.org/138135-2/


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Aldo Braibanti: come fu creato un mostro

SCHEDA (a cura di Giovanni Dell’Orto) ripresa  da www.wikipink.org

Aldo Braibanti (Fiorenzuola d’Arda, Piacenza 23 settembre 1922 – Castell’Arquato, 6 aprile 2014) è stato un artista italiano. Intellettuale “a tutto tondo”, nella sua vita si è occupato di poesia, arte, cinema, politica, teatro e letteratura.

Laureato in filosofia teoretica, prese parte alla Resistenza partigiana a Firenze (subendo torture e sevizie ad opera dei nazi-fascisti) ed aderì al Partito Comunista Italiano, di cui divenne membro del comitato centrale. Tra il 1946 ed il 1947 fu tra gli organizzatori del Festival mondiale della gioventù ma nel 1948 abbandonò la politica attiva, dimettendosi da tutti i suoi incarichi.

Studioso di mirmecologia e autore di ceramiche e di collages, ha tenuto mostre a Firenze, Oslo, Faenza, Messina, Milano e Roma. Sceneggiatore dei film Pochi stracci di sole, Il pianeta di fronte e Colloqui con un chicco di riso, nel 1960 pubblicò i quattro volumi de “Il Circo” (raccolta di poesie e saggi) e nello stesso anno dà alla luce l’opera “Guida per esposizione“.

Traduttore del diario di Cristoforo Colombo, nel 1969 diede alle stampe l’antologia “Le prigioni di Stato” mentre negli anni Settanta diventa autore e regista teatrale di numerose commedie tra cui Bandi di virulentia, Laboratorio dell’Anticrate, L’altra ferita, Il Mercatino e Theatri epistola. Autore e conduttore di numerosi programmi radiofonici, nel 1979 pubblica l’opera Object trouvé mentre successivamente collabora con la rivista milanese “Legenda”.

Altre sue opere letterarie di un certo valore furono Impresa dei prolegomeni acratici (1988) e Un giallo o mille (1998). Nel 2000 decise di dare vita al lungometraggio Quasi niente, un’edizione completa delle poesie dal 1940 al 1999.

Nel 2005, a causa delle pessime condizioni fisiche in cui Braibanti versava, alcuni parlamentari dell’Unione (tra cui Franco Grillini e Giovanna Melandri) proposero di assegnargli un vitalizio in base alla legge Bacchelli.

 

Copertina di: Il processo Braibanti di Gabriele Ferluga

 

Omosessuale dichiarato, Braibanti trascorse l’estate del 1960 a Como in compagnia di Piercarlo Toscani, un elettricista 19enne. Due anni dopo, quando ormai risiedeva nella Capitale, visse invece insieme al 18enne Giovanni Sanfratello, che aveva conosciuto quattro anni prima: il giovane aveva abbandonato la famiglia (cattolica e tradizionalista) in quanto i genitori avevano intenzione di farlo interdire per le sue frequentazioni di sinistra e con ambienti artistici.

Nel 1964 Ippolito Sanfratello, padre di Giovanni, denunciò Braibanti per plagio: in pratica, secondo l’accusa, i due ragazzi erano stati soggiogati dall’intellettuale, che li aveva ridotti a una sorta di “schiavitù mentale”.

Braibanti nella sua difesa fece notare che i ragazzi avevano deciso di seguirlo autonomamente e da adulti: durante il processo, Sanfratello avvalorò questa tesi, mentre Toscani depose contro di lui. Al termine delle udienze, nel 1968, l’imputato venne condannato a nove anni di reclusione, successivamente ridotti a sei ed infine a quattro (due gli vennero condonati in quanto ex partigiano).

La condanna suscitò ampia eco in tutta Italia, e a favore di Braibanti si mobilitarono numerosi intellettuali, fra i quali Alberto Moravia e Umberto Eco. Il processo rivelò infatti rapidamente la sua natura politica, proponendosi come l’estremo tentativo del vecchio ordine sociale (lo stesso che aveva già usato il tema dell’omosessualità nel caso dei balletti verdi), per imporre i propri valori contro la marea montante del Sessantotto. In effetti, a differenza di quanto è avvenuto in altre nazioni, nella storia italiana l’omosessualità è stata usata giudiziariamente per fini politici esclusivamente in questi due casi.

Braibanti fu scelto come “capro espiatorio” in quanto al tempo stesso comunista ed ex partigiano, ma anche omosessuale, in un periodo in cui l’omosessualità era giudicata “indifendibile” (in quando “degenerazione piccoloborghese”) anche e soprattutto tra le file della sinistra. La sua era quindi, dal punto di vista propagandistico, una figura “indifendibile”, utile per dimostrare che i comunisti stavano corrompendo la gioventù italiana e i valori famigliari tradizionali.
Va inoltre notato che la controversa legge sul plagio, introdotta nel codice penale durante il periodo fascista, portò nel dopoguerra ad una condanna in questo unico caso e fu successivamente abolita, senza essere più stata applicata, grazie all’infuocato dibattito scatenato dalla sua condanna, con sentenza della Corte costituzionale n. 96 del 08/06/1981.

Né esisteva ancora in Italia un movimento di liberazione omosessuale che potesse fare di questo processo un caso emblematico. Dalle colonne di “Tempo Illustrato”, Pier Paolo Pasolini fece notare che:

« Una delle cause della condanna al processo è la debolezza del Braibanti, nel senso che egli non aveva valori precostituiti, un aggancio a un sistema di vita, ad un modello culturale»

Lo stesso Braibanti non si è mai considerato parte del movimento gay.

In un’intervista, Braibanti disse che non si considerava una vittima e che, tra gli intellettuali di sinistra, gli era stata vicina in quei momenti soprattutto Elsa Morante.
Nella stessa intervista, riguardo alla nascita del movimento gay, egli dichiarò inoltre:

« Non farò mai il militante omosessuale, ma non mi piace dare un giudizio. Però penso che i movimenti gay e gli altri di questo tipo siano molto importanti, hanno la funzione di preparare molte persone che altrimenti sarebbero incapaci di inserirsi nella militanza, a sentirsi pari a coloro che credono di essere già pari e di poter combattere per la rivoluzione»

Sul suo caso al Teatro Nuovo di Napoli, dal 20 al 25 marzo 2012 è stato messo in scena su testi di Massimiliano Palmese, Il caso Braibanti, per la regia di Giuseppe Marini.

Un ricordo personale, leggendo «Il caso Braibanti» di Virginia Finzi Ghisi

di Daniele Barbieri

Non avevo ancora 20 anni quando il 14 luglio 1968 la Corte d’assise di Roma «in nome del popolo italiano» condannò Braibanti: 9 anni di carcere nella prima condanna per «plagio» della storia italiana. Rammento che il reato di plagio mentale, ovvero l’articolo 603 del Codice penale, fu dichiarato incostituzionale con la sentenza 96 dell’8 giugno 1981.

Non ricordo se – o quanto – seguii allora il processo sui giornali. Ma so per certo – ho ancora la copia con i miei appunti – che rimasi choccato nel gennaio 1969 leggendo il libretto (68 pagine per 200 lire) «Il caso Braibanti ovvero un processo di famiglia» scritto da Virginia Finzi Ghisi e pubblicato da libreria Feltrinelli nei tascabili della collana “Battaglie politiche”.

Scorro le mie sottolineature dell’epoca – più altre successive (lo avrò letto almeno 4 volte) – e rimango impressionato dalla lucidità di quell’analisi e dalla mostruosità di quel processo. Dopo aver raccontato i fatti, Virginia Finzi Ghisi scrive: «Cosa c’è dietro a questa condanna? Parlare di una “macchinazione” sembra fuori posto: gli attori non sono delinquenti né “pazzi” come il povero Giovanni Sanfratello. Sono tutte persone a posto, campioni – potremmo dire – di ogni settore di normalità perfetta: una madre piena di sollecitudine; un padre responsabile; un fratello che studia alla Cattolica. Essi inoltre non si presentano soli al processo: la loro sanità è comprovata da diversi psichiatri […] Quasi tutti i loro testimoni sono pii religiosi. Dunque, se non nasce da malvagità o da follia, questo è un processo intentato dalla sana rappresentanza della normalità, da un saldo spirito religioso […] e da una ferma convinzione religiosa».

Dietro i 5 personaggi chiave – «madre, padre, fratello, prete, Presidente» – ecco «l’obiettività della scienza». Su questi 5 simbolici protagonisti Virginia Finzi Ghisi ha costruito un ragionare che a me impressiona ancora oggi per sintesi e lucidità. Per questo più volte negli anni successivi pensai– di certo con Riccardo Mancini ma forse anche con altre persone (Valeria se ci sei… fatti sentire) – che sarebbe stato importante fare un documentario da far girare all’interno del movimento contro le istituzioni totali. Se frugassi bene nei cassetti miei e altrui forse troverei anche gli appunti per un testo “in difesa di Braibanti e contro la famiglia del capitalismo”. Che era l’idea di fondo del libretto di Virginia Finzi Ghisi: «La difesa di Braibanti sta in un nuovo processo. Il processo intentato da una famiglia deve diventare il processo alla famiglia e ai suoi alleati in funzione del sistema, come presa di coscienza dei meccanismi e delle strutture dell’alienazione». Quel processo alla famiglia in parte si farà negli anni successivi; basta andare a rileggere «Contro la famiglia» pubblicato da Marcello Baraghini per Stampa Alternativa e ricordare i tanti processi che subì il manuale e l’allegato poster «Toccarsi è bello». Eccoli qui sotto: magari ri-vederli facilita i ricordi chi chi allora c’era.

I materiali del processo a Braibanti si prestano a confermare la mostruosità di quella pretesa normalità e oggettività sempre invocata. Per fare una sola citazione nelle 9 regole che vengono imposte a Giovanni Sanfratello per uscire dal manicomio si legge persino: «evitare libri che non abbiano almeno 100 anni, esclusi quelli a carattere scolastico». E aveva ragione, ancora una volta, Virginia Finzi Ghisi a sottolineare come se qualcuno già nel ’68 dava per vinta la battaglia «contro la concezione autoritaria della famiglia, i pregiudizi, i “tabù”, il clericalismo, la deformazione del sesso nei ruoli del’uomo-maschio e della donna-femmina» più volte si sarà dovuto ricredere. La lotta è continuata e non è finita. Perfino le conquiste più importanti (in testa la legge contro i manicomi ispirata da Franco Basaglia) sono a rischio: ogni giorno lo vediamo – se vogliamo scrutare dietro le ingannevoli vetrine di una legge 180 poco voluta e ancor meno applicata – nella pratica, anche se magari in pochi hanno la faccia di rimpiangere ad alta voce i “bei tempi” dell’elettrochoc e delle istituzioni totali, non sottoposte a controlli e leggi.

Ma questo è un altro discorso che ci proietta nell’oggi e nel domani prossimo. Fa piacere che esca il film «Il caso Braibanti» di Carmen Giardina e Massimiiliano Palmese: vedi qui Il caso Braibanti al Pesaro Film Festival | il manifesto la presentazione di Alessandra Vanzi e qui Aldo Braibanti, capro espiatorio delle lotte del ’68 | il manifesto l’ articolo di Silvana Silvestri. Ne riparleremo.

Articolo già pubblicato ne La Bottega del Barbieri (www.labottegadelbarbieri.org)

In “bottega” cfr Scor-data: 14 luglio 1968 (di Francesco Masala, con preziosi link) sulla condanna di Aldo Braibanti; se non sapete cos’era Stampa Alternativa negli anni ’70 date un’occhiata qui: Baraghini mostro, Baraghini eroe

La scheda di wikipink su Aldo Braibanti indica come data di nascita il 23 settembre ma altrove si trova il 17 settembre.




UNA RISATA VI SEPPELLIRÀ! VIVA MARTONE

Vi ricordate di Orazio Smamma? È il personaggio di un film di Bellocchio che finge di essere defunto per vincere una volta tanto un premio in uno straccio di concorso, perché «in Italia i morti comandano» e solo dopo che uno è morto «i necrologi parlano di “Ingiustizia”, “Risarcimento”, i grandi intellettuali fanno autocritica in pubblico e i professori universitari, quelli che fino a qualche giorno prima mi consideravano Zero, Zero, hai capito, Zero, quei professori oggi obbligano i loro studenti a laurearsi su di me, ma poveracci, cazzo, poveracci» (da «Il regista di matrimoni»). Beh, senza voler augurare la morte a nessuno ed essere iettatori, possiamo suggerire ai migliori talenti del nostro cinema un altro trucco per vincere qualche premio: fingere di essere dispersi in mare ed essere stati ritrovati su un’isola deserta dopo qualche mese, tanto proprio su un’isola deserta stanno pure adesso. Parlo, se non l’aveste capito, di quello schifo del Festival di Venezia, dominato da una banda di minorati che, tanto per cambiare, ha colpito ancora. Ma come direte voi? Ma se «Il corriere della sera» ha trionfalmente dichiarato che è stata «una delle migliori edizioni di questi anni» nella quale i film premiati «toccano la vita e la morte», e hanno vinto addirittura film che sono «un salto nel buio produttivo…senza dialoghi» e via idolatrando? Sì, sì lallerò… Vita, morte, buio… Intanto però vince Netflix e continua a giganteggiare una formula autoritaria di distribuzione a pagamento riservata ai soli abbonati, ai soli soci del Club dei Migliori. E vince Wildbunch, che affila i coltelli per fare le scarpe a Netflix e si lancia sul mercato del download, anch’esso a pagamento, fatto sempre dai Migliori in foia di migliorie. Chi se ne frega se così ammazziamo la visione nazional-popolare rivolta a tutti e non solo ai Migliori; sì insomma la visione collettiva, magari in piazza aggratise l’estate, in mezzo alla gente comune. E invece viva la circolazione semiprivata dei film, con la scusa di parlare al solitario fruitore (in privato mi raccomando!) dei Problemoni. Già i grandi “probbbblemi” dell’Uomo (mi raccomando la U maiuscola) manco fossimo un cineclub della parrocchia dove quello che conta è il “dibbbattito”. Col cavolo che vince chi è capace di sparire dietro la macchina da presa, di dirigere con mano ferma attori eccezionali, di tenere tutto in pugno dalla prima all’ultima inquadratura, di servirsi di dialoghi brillanti, scoppiettanti, affascinanti, tipo «A qualcuno piace caldo»! Col cavolo che vince la professionalità vera e il senso dello spettacolo! Vincono i “grandi Probbblemi dell’Uomo” nei quali spicca il contenuto, mica l’arte. Oppure vincono i film “senza dialoghi” e senza capo né coda: i film fintopensosi, fintorustici, insomma finti e basta; quelli che ti lasciano ammutolito, schiacciato, frastornato, rimbambito, a chiederti “Ma avrò capito bene?”. Non c’è spazio per nessun artista in questo mondo di seriosi da salotto, di fasulli della porta accanto e di Porta a Porta, di perbenisti neoconformisti, che hanno sostituito i vecchi stereotipi coi nuovi stereotipi al grido di “freak è bello”, per non confessare che “massmediatico è bello”, o se preferite che “basta che la gente paga e obbedisce è bello”. È chiaro che in questa prospettiva per il film di Martone – «Qui rido io» – non c’era un briciolo di possibilità. Tutto sommato, meno male, così il regista non si è contaminato con l’orgia di schifezze della nuova comunità dei perbenisti, ignoranti e arroganti che esultano agli ordini di Netflix e invece di urlare “Sieg Heil!” urlano “Sì Rai!”.

Ricominciamo da capo. Se non avete visto il film correte a vederlo. E se non vi fidate di me fidatevi dei dieci minuti di travolgente standing ovation del pubblico a Venezia. Un pubblico che è molto più maturo di quelli che decidono in suo nome.

«Qui rido io» è semplicemente meraviglioso. Toni Servillo è semplicemente meraviglioso. Del resto la classe non è acqua. Mentre tutta questa manica di deficienti erano ancora poppanti, il grande teatro napoletano era già straordinariamente adulto. Grande teatro significa testi, registi, attori e tradizione. Qualcosa come la Comédie française o l’Opera italiana dei tempi d’oro. Ma voi credete sia un caso se vengono fuori personaggi come Verdi, Rossini, Molière? Credete davvero alle stronzate dei critici che parlano del “Canone” delle arti, stabilito dai critici, una banda di banditi, finti arbitri del gusto e realizzato dai grandi geni [!!] isolati quanto sdegnosi che mirano solo alle prime pagine dei giornali? Un grande autore, come un grande attore nasce da una tradizione vivente (e sottolineo vivente) che viene alimentata continuamente da un lavoro serio di generazioni di autori e di impresari, a partire da repertori di opere solidi e sperimentati, che vengono rinnovati con intelligenza. E a partire da un rapporto con il pubblico vero, in sala, non con quello virtuale. Rapporto caldo e vivo, che si rinnova continuamente con la partecipazione. In luoghi adatti, come il Teatro Valle di Roma, vergognosamente abbandonato dalle istituzioni, in cui sono state girate (non a caso) tante scene di «Qui rido io».

Il teatro napoletano non è nato dal nulla. Era già straordinario nel Settecento grazie a grandi autori in prosa e versi e a grandi compositori come Paisiello. Per questo è durato nel tempo, ovviamente rinnovandosi, ma non alla maniera dei minorati che sanno solo “rottamare” quello che non riescono ad uguagliare.

Eduardo Scarpetta, il personaggio a cui si ispira «Qui rido io», fu proprio un innovatore radicale senza essere uno squallido “rottamatore”. Eduardo “uccise” Pulcinella, per così dire, e ne prese il posto, creando un personaggio, Felice Sciocciammocca, che è una specie di Charlot e di Totò.

Sciosciammocca in napoletano significa chi sta a bocca aperta. ”Scioscia” vuol dire soffia e “soffia in bocca” (scioscia ‘mmocca) significa chi respira a bocca aperta, cioè sta sempre a bocca aperta, si meraviglia di tutto, è credulone, ingenuo. Ma solo in apparenza. Di fatto la sua ingenuità disarmante rivela tutto quello che il mondo vuole nascondere. Come il bambino che dice ingenuamente “il re è nudo” nella favola di Andersen e rivela quanto è stupido il re e quanto vile la sua corte.

In fondo il personaggio è una replica moderna del Pulcinella che «ridendo, ridendo diceva la verità». Lui la verità non la dice “ridendo”, ma «facendo ridere gli altri». Combina talmente casini che tutti prima ridono e poi pensano “Ma guarda un po’. Ma allora il mondo va proprio così?”. Se c’è qualcuno che gli somiglia è un suo contemporaneo egualmente “disimpegnato” e “impegnato” contro il potere e la stupidità: il personaggio di Fortunello, che fece furore nei nascenti fumetti Usa e fu per due generazioni la “coscienza infelice” (o felice?) degli americani senza coscienza. Fortunello era un monello, uno scugnizzo che parlava in irlandese stretto e sputtanava tutti e tutto con la sua disarmante ingenuità. Sciosciammocca, che parla in dialetto napoletano stretto, non è un monello ma il suo modo di muoversi, la sua goffaggine, i suoi capitomboli verbali e umani hanno la stessa qualità dei monologhi di Fortunello. Una qualità degna di Chaplin: quella di far ruzzolare continuamente la realtà e le persone seriose per trascinarle in una serie di carambole senza fine, un gioco che ti toglie il respiro, ti sfinisce, ma alla fine ti fa sentire sollevato. Salvo dalla depressione di chi crede di essere il Re del mondo per mascherare che è solo un poveraccio. La commedia più famosa di Scarpetta, quella che lo esprime al massimo, è «Miseria e nobiltà» che tutti conoscono grazie alla versione travolgente di Totò, il quale lo copiava a man bassa ma copiandolo faceva sopravvivere qualcosa del suo stile.

Ora, diciamocelo francamente: chi si confronta con questi modelli e da questi modelli è, per così dire, modellato, se sopravvive diventa un mostro di bravura. Un mostro che fa impallidire qualunque pigmeo generato da Netflix. Questo appunto è stato Eduardo De Filippo, figlio naturale di Eduardo Scarpetta e obbligato a essere quello che è stato, fin da bambino, con una spietata determinazione dal padre. Eduardo lo ha raccontato in tante interviste: il padre lo trattava come uno schiavo, a un punto tale che quando da grande ebbe l’occasione di recitare le commedie di Sciosciammocca gli veniva da vomitare. Ma forse questa nausea non dipendeva solo dalla disciplina severissima di chi lo aveva educato: forse la sua nausea derivava edipicamente dalla difficoltà di padroneggiare gli istinti aggressivi contro un tale padre che era un padre padrone ma anche un padrone straordinario. Forse il problema enorme del piccolo Eduardo è stato confrontarsi con un simile genio ed essere all’altezza delle sue aspettative.

Il risultato di questo confronto, di questa lotta interiore, di questo corpo a corpo tra geni che somiglia alla Gigantomachia è stato divenire «uno dei più grandi drammaturghi della nostra epoca», come dice l’ultima didascalia del film di Martone. È proprio vero. Il film sembra un omaggio a Scarpetta, in realtà è un segreto omaggio a suo figlio Eduardo, al frutto di questa terribile lotta silenziosa che sacrifica la vita mortale in nome della Vita Immortale dell’Arte.

Il miglior complimento che si può fare a Mario Martone è di aver accettato la sfida e avere vinto la stessa lotta. Il suo film è degno di una commedia di Eduardo: anzi è una nuova commedia di Eduardo di Filippo, scritta da un altro che ha imparato la lezione e ha superato il maestro. Un altro che è capace di un simile successo perché è un uomo di teatro vero e non un damerino affatturato patito dei programmi della Gruber; qualcuno che sa cosa significhi mettere in scena un testo solido e scritto bene, con attori straordinari ben diretti e con una scenografia bellissima e accuratissima. Senza dimenticare il valore di una cultura profonda, di una conoscenza perfetta delle fonti, grazie alle quali il mondo che egli ricrea è credibile, autentico, nello spirito non solo nella lettera, come fanno i biopic oleografici e diligentissimi.

La storia di Scarpetta, rivissuta con «animo perturbato e commosso», è a suo modo esemplare. È la storia di un uomo fuori dal comune che però vive in un modo decisamente inferiore a quello delle persone comuni. Un uomo che crea e ricrea continuamente il mondo, ma non riesce a costruire il suo mondo. Un uomo che sembra il simbolo della libertà e della irriverenza e che invece è un tiranno nemico di ogni libertà, che costringe tutti quelli che lo circondano a vivere solo in funzione sua.

Scarpetta è il re di una piccola tribù di poveri mortali, asserviti al suo egocentrismo e alla sua onnipotenza, costretti a coabitare e a venerare il Dio che li comanda senza poter varcare mai le colonne d’Ercole che li imprigionano. Di questa tribù fanno parte nove figli avuti da donne diverse, obbligate a convivere e coesistere anche se si detestano: ed esse, come i loro figli, stentano a restare al passo del loro Padrone, che corre sfrenato sempre un passo avanti tutti.

Eppure anche lui, questo Superuomo, finisce col cadere su una buccia di banana: la buccia, si fa per dire, è un altro Superuomo, il grande Vate d’Italia Gabriele D’Annunzio. Eduardo Scarpetta assiste a una rappresentazione della «Figlia di Iorio» e di colpo ha un’idea geniale: trasformarla in una parodia che si chiama «Il figlio di Iorio» in cui reciterà vestito da donna. Chiede il permesso di farlo al Vate, rievocato in una scena divertentissima: «a metà tra le strisce di Crepax e Totò all’inferno» come ha detto il regista. Il Vate, compiaciuto per un momento nella sua vanità, glielo accorda. Ma un momento dopo già pensa di revocarlo. L’ossessione sono i suoi debiti e ogni occasione è buona per fare quattrini. Ed ecco allora che il poeta superiore agli uomini ridiventa l’omuncolo che è sempre stato e cita in tribunale l’esterrefatto Scarpetta-Sciosciammocca, chiedendo i danni e accusandolo di plagio, anche se era solo uno scherzo. Il bello è che mezza Napoli gli va appresso: la stessa Napoli che impazziva per Sciosciammocca si rivolta contro Scarpetta e lo umilia pubblicamente, accusandolo di ogni nequizia e proclamando la sua morte civile, la stessa che egli aveva inflitto a Pulcinella.

L’analogia è solo strumentale. La “morte” di Pulcinella era un normale avvicendamento di generazioni e somigliava piuttosto a un pensionamento che a un delitto. Invece la “morte” di Sciosciammocca è un assassinio vigliacco e odioso, un omicidio commesso dagli odiosi seguaci del Superuomo, decisi a diventare presto piccoli Superuomini anche loro, cioè fascisti tanto per non girarci intorno. Non a caso il “delicato” poeta Salvatore Di Giacomo firmò ignobilmente, anni dopo, il manifesto degli intellettuali fascisti e fu ricompensato con il titolo di Accademico d’Italia. Quelli come lui sono naturalmente nemici del povero Sciosciammocca, trascinato in tribunale e nelle piazze per ridere di lui. Non è una cosa nuova per Napoli. Fatte le debite proporzioni si pensi a come il popolaccio napoletano schernì gli eroi della Rivoluzione del 1799, come la figlia del principe Santobono Caracciolo, trascinata nuda per le strade per umiliarla.

Ma la verità non è quella che viene sbandierata. D’Annunzio non si può toccare perché è protetto dai potenti che non si possono toccare. Ed è il beniamino della società perché è un giullare che compiace questa società, esattamente come fanno oggi i giullari da massmedia. Invece Pulcinella, solo in apparenza giullare, è l’uomo che deride i potenti e per questo è pericoloso.

Non vi dirò come va a finire questa storia incredibile, tipica dei paesi dittatoriali: vi posso solo dire che il processo ricalca accuratamente quello che si svolse davvero tra 1906 e 1908, provocando un putiferio. Se mi è permesso, vorrei aggiungere un’osservazione alla rievocazione – bellissima – di questa vicenda dolorosa. Non è vero che allora tutti stavano dalla parte di D’Annunzio, anche se purtroppo ci stavano i gangster napoletani, della stessa pasta degli altri criminali che prenderanno il potere guidati dal boss Mussolini. Gli spiriti liberi sono sempre esistiti e sempre esisteranno, alla faccia di tutti quelli che sognano solo Mussolini, a cominciare da coloro che fanno RaiStoria e con la scusa della storia parlano di Mussolini al ritmo di una sera sì e una sera no (l’altra sera parlavano di Hitler, fateci caso!).

Gli spiriti liberi a D’Annunzio lo hanno sempre fatto a pezzi. Per scoprirlo basta consultare un libro stupendo, difficile da trovare: «D’Annunzio nella caricatura mondiale» curato da Gec, un grande fumettista, e pubblicato (udite, udite!) nel 1941 dalla Garzanti. In questo libro non mancano le caricature sulla «Figlia di Iorio» e la sua nauseante retorica falso-popolare, a metà strada tra «Un posto al sole» e «Gomorra». Come quelle, divertentissime, di Filiberto Scarpelli su «Il travaso», con D’Annunzio che balla la tarantella, travestito da contadino abruzzese insieme a Eleonora Duse travestita da “figlia di Iorio”.

 

Non mancano neppure le caricature del povero Scarpetta sul banco degli imputati, scherzoso risarcimento della sua sventura, come quelle di Nirsoli sul «Pasquino».

 

Se è così, se continua ad essere vero che “una risata vi seppellirà”, invitiamo tutti a farsi una fragorosa risata davanti al cinema dei “probbbblemi” e dei Padroni. E piuttosto che fingersi morti per avere un premio, invitiamo tutti a fingersi stupidi, come Felice Sciosciammocca, come Pulcinella, come Fortunello, ridendo a crepapelle insieme a loro. Prima o poi risorgeremo, seri seri dopo tante risate: come i figli dimenticati, che non possiamo dimenticare perché hanno fatto cose che nessuno potrà mai dimenticare.

articolo da noi riproposto e pubblicato da La Bottega del Barbieri https://www.labottegadelbarbieri.org/una-risata-vi-seppellira-viva-martone/

 






3 maggio 1967. Michelangelo Antonioni presenta al Festival di Cannes il film Blow up.

Ritratto pop della Swinging London di metà anni Sessanta e contemporaneamente un inquieto  filosofico interrogativo sull’esistenza e la percezione del reale. Ammaliante e avvincente trama e straniante successioni di racconti, contenuti l’uno nell’altro. A osservarli si allargano e comprendono sempre più invisibili tracce, tracciabili indizi di altre storie, apparenze, simulazioni e spettacolarizzazioni del reale, sino a perdersi senza arrendersi.

“Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà,
e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima.
Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa che nessuno vedrà mai.
O forse sino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà.
Il cinema astratto avrebbe dunque una sua ragione di essere”.

Michelangelo Antonioni

Siamo a Londra giusto a metà del decennio più creativo della città a cui guardano tutti, coi giovani attratti dai venti di cambiamento e dalla nuova musica, dalla moda innovativa e creativa, e da nuovi comportamenti più liberi e aperti. Ed è anche la Londra che su questa attrazione muove soldi e affari, che concepisce la novità come investimento economico e sfruttamento commerciale.

Thomas, interpretato da David Hemmings, è un fotografo di moda che sta dentro questa contraddizione. Annoiato dalla ripetitività del lavoro e dalla città «Non ne posso più di Londra, questa settimana», dice a un certo punto, perché «Non fa niente per me». Vorrebbe essere più ricco per non dover accettare di lavorare alle pur ricche condizioni che gli vengono proposte per campagne pubblicitarie e riviste di moda. Vorrebbe fotografare la realtà, la cosa viva e pulsante e non più manichini in posa per vendere vestiti. Per questo nella prima scena lo vediamo di primo mattino uscire da un ospizio notturno per sbandati e senza casa. Si è confuso tra loro per realizzare una parte di quel servizio fotografico che pensa basti a ridisegnare la vera, la reale Londra: vuole che diventi il soggetto di un libro su cui sta lavorando. Per questo pensa sia sufficiente travestirsi da barbone e quando porta le foto a Ron, curatore del libro gli racconta del suo senso di disgusto per la città e il suo desiderio di essere libero, come le persone ritratte all’ospizio. Ma non crede molto a quello che dice.
Adesso ha un nuovo fulminante interesse. La mattina, dopo aver buttato via gli abiti del suo travestimento, fatto un servizio fotografico con Veruschka, la modella più ricercata del momento, con inquadrature eroticamente fashion, che invitano al voyerismo mentale, poi, liquidate altre con ordini imperiosi e scatti veloci, ha trovato la foto perfetta che riassume la giornata luminosa e lo spirito del tempo in una forma  semplice quanto iconica. Una coppia al parco, lei che trascina lui prendendogli le mani attraverso il prato per avvicinarsi al bosco. La donna è giovane, l’uomo no. Lei accorta di essere nel mirino del fotografo aveva preteso la consegna del rullino e più tardi, attraverso chissà quali misteriose vie si era presentata a casa sua per avere gli scatti, cercando di rubare la macchina fotografica e ottenendo solo un falso vero, cioè un rullino con altre inquadrature. Perché la ragazza è così ansiosa di ottenere le foto?

La mia vita privata è già un pasticcio. Sarebbe un disastro se…”, dice la ragazza provocando il non richiesto spiccio consiglio del fotografo. E allora? Un disastro è quello che ci vuole per vedere chiaro nelle cose. Vedere chiaro nelle cose diventa la nuova ossessione. Un’intuizione, stampare e ingrandire la sequenza delle foto, dopo che il primo ingrandimento aveva rivelato un’espressione preoccupata nel volto della ragazza. Ingrandimento dopo ingrandimento, un’ombra dietro un cespuglio diventa una persona nascosta e armata.

Il termine blow up indica la tecnica fotografica di isolamento di una porzione di immagine che si ottiene attraverso successivi ingrandimenti fino al punto in cui l’aumento della grana della pellicola rende impossibile distinguere le forme dell’oggetto fotografato.

L’immagine nella foto alla fine è troppo sgranata e lo è ancora di più nella mente di Thomas mentre le osserva dopo averle appese. Tutto era sembrato chiaro, una trama oscura in un giorno di luce accecante. Ci vogliono conferme. La ragazza sembra aver condotto intenzionalmente lontano l’uomo perché non veda, qualcosa che prima stava inquadrato nel mirino dell’arma impugnata dall’uomo nel cespuglio.

Io non so come è la realtà – dice Michelangelo Antonioni – Ci sfugge, mente di continuo… Io diffido sempre di ciò che vedo, di ciò che un’immagine ci mostra, perché immagino ciò che c’è al di là, e ciò che c’è dietro un’immagine non si sa. Il fotografo di Blow-Up non è un filosofo, vuole andare a vedere più da vicino. Ma gli succede che, ingrandendolo, l’oggetto stesso si scompone e sparisce. Quindi c’è un momento in cui si afferra la realtà, ma nel momento dopo sfugge”.

Perché l’intuizione di Thomas è giusta. Ritornato al parco trova il cadavere di un uomo. Il numero di telefono che lei gli ha lasciato è falso. Deve mostrare a Ron o a un altro collaboratore quello che ha scoperto. Quello che crede di aver scoperto. Ma tornato a casa non ci son più né il rullino, né le foto. Tutte sparite, tranne una, scivolata dietro un mobile. Unica traccia, ma per niente chiara. Può essere qualunque cosa in qualunque posto. Bisogna che almeno il suo socio e amico Bill veda il cadavere. Perché tutto diventi reale. 

Continuiamo a seguire Thomas nei percorsi mentali che si traducono in movimenti in macchina, la sua Rolls decapottabile, per raggiungere a una festa l’amico. Lo vediamo mentre attraversa una animata città notturna, dove volto tra la folla appare di nuovo la ragazza misteriosa. O solo un’ombra che lo guida in un vicolo dove una musica frenetica lo attrae verso un locale. E qui tutto inizia a sfocarsi in una nebbia mentale, che consegna un messaggio al protagonista e che, visione dopo visione, in un blow up stravolge lo spettatore più curioso.

La scena dura pochi minuti. Per questo riprendiamo ad avvolgere la pellicola all’indietro a partire da questo punto in cui Thomas entra cercando la ragazza.

Il locale è molto scuro, alle pareti dipinti grandi volti bianchi di cantanti. Sul palco una musica che la sceneggiatura definisce “assordante”. Il pubblico è immobile, neanche movimenti con la testa, con le gambe, nessuno che segue il ritmo e partecipa tranne due in fondo alla sala. La band che si esibisce è sicuramente tra le più popolari a Londra e in tutto il Regno Unito. Sono gli Yardbirds, la formazione di casa al Crawdaddy, succeduti ai Rolling Stones e come loro provenienti da un duraturo amore per il blues. Piena di musicisti talentuosi e carismatici, nel 1966, dopo l’allontanamento di Eric Clapton sfoggiano un tris di chitarristi eccezionale: Jeff Beck, Chris Dreja e Jimmy Page. La band suona un classico del blues, ma che non è quello che è e non è neanche quello per cui viene presentato. Il titolo è Stroll on e non è un blues. Sarebbe una cover di un brano rock ‘n’ roll classico del 1957 del Johnny Burnette r’n’r trio, grande successo di allora che però si intitolava Train Kept A-Rollin’, un brano di Tiny Bradshaw, che con la sua orchestra swing e poi Rhithm and Blues aveva avuto una serie di successi anche tra il pubblico bianco. Il brano segue il ritmo dell’oscillazione del treno e delle opzioni, inseguire la donna allontanatasi o lasciar perdere. Il tema nella versione bianca e rockabilly di Jonny Burnette aveva aggiunto un elemento nuovo nella musica: l’uso della distorsione della chitarra fuzz. E questo elemento ha sicuramente attratto gli Yardbirds nella loro riproposizione garage rock.

Ingrandiamo i particolari uno dopo l’altro, ingrandimento dopo ingrandimento per capire qual è il limite dove tutto si perde. Il testo originario di Train Kept A-Rollin’, di Tiny Bradshaw ha i classici temi del blues. Lui incontra lei, un treno li porta chissà dove, sballottandoli piacevolmente, lei è una hipster, irriducibile alle costrizioni, in perenne movimento, misteriosa. Per questo se ne va e lo lascia a dannarsi e a struggersi tra un “meglio che vada” e “non potevo lasciarla andare”, mentre il treno ovviamente non si ferma e continua a viaggiare tutta la notte. Anche Johnny Burnette ne aveva tenuto il testo accelerandone il ritmo. Gli Yardbirds avevano il brano in repertorio e presente nell’album del 1965 ma ora si trasforma in altro. La nota del film dice che questo è avvenuto per un mancato accordo sui copyright. Quindi il brano rimane lo stesso, si cambia il titolo e il testo appare un po’ più banale (tipo ora soffro io, perché mi hai lasciato, ma prima o poi sarà il tuo turno). Ma c’è un particolare che illumina il brano, che ricordiamo, nell’economia del film è un frammento che si nasconde dentro il cameo dell’esibizione live degli Yardbirds.

You made me cry, by tellin’ me, you didn’t see. The future bore, our love no more. Thomas attraverso quegli scatti non era riuscito a vedere la realtà nella sua essenza, ma si era innamorato di quella storia, di quell’ombra, come possibile fuga dalla noia. Per questo, stroll on, vaga perché l’innamoramento continui. Ma in quei pochi minuti della scena tutto prende un’altra strada. L’ombra, la spettacolarizzazione prende il sopravvento. La band sul palco dà segni di nervosismo, gli amplificatori anziché restituire un suono fuzz, distorto, iniziano a gracchiare. Jimmy Page che nella scena si trova al posto di Chris Dreja a suonare la chitarra ritmica, inizia a maltrattare lo strumento, lo sbatte sull’amplificatore. La spacca, rompe il ponte, lo libera dalle corde e lo getta al pubblico. Sembra il segnale per una risposta pavloviana. Come in attesa di un finto gesto liberatorio, ormai diventato un copione fisso per Pete Townshend e Keith Moon degli Who, la distruzione della chitarra scuote dall’apatia l’altrimenti immobile pubblico, che si scatena per impossessarsi della preziosa reliquia. È Thomas, il fotografo a impossessarsene. Ma poi, fuori dal locale, lo butta via, l’oggetto perde il suo valore perché non può essere più percepito in relazione ad altro, al concerto, alle aspettative, alla concorrenza tra il pubblico. Un passante osserva, raccoglie il ponte e poi anche lui lo getta via.

Al parco il corpo inanimato dello sconosciuto non c’è più. Arrivato alla festa tutto si perde in una nube di fumo, in un clima di rilassante condivisione di chiacchiere, sorrisi e marijuana. Cosa rimane della realtà?

Riavvolgiamo, rimpiccioliamo. Inizio: Michelangelo Antonioni legge un breve racconto dello scrittore argentino Julio Cortazar, La bava del diavolo, dove un fotografo cattura una scena in cui ragazzino si sottrae a una giovane donna, fuggendo disperatamente, approfittando del momento di imbarazzo della donna vistasi fotografare. Sospettando qualche mira della ragazza su di lui, l’osservazione attenta di un ingrandimento rivela invece la presenza in macchina di un uomo a cui la vittima deve essere consegnata. Affascinato dal meccanismo che rivela che dietro a quanto percepiamo come verità possono nascondersi altre realtà, Antonioni scrive con lo sceneggiatore Tonino Guerra e, per i dialoghi inglesi, Edward Bond, il copione di Blow up, il film che vincerà la palma d’oro a Cannes:

Un giovane sui venticinque anni esce da un dormitorio per senza casa, vestito come tutti quelli con cui ha diviso la camerata. Ma girato l’angolo sale sulla sua Rolls Royce decappottabile, poggia un pacco con le sue macchine fotografiche e si avvia. Un gruppo di chiassosi ragazzi con una jeep si avvicina per scollettare. L’uomo tira fuori una sterlina gliela dà e riparte. Poi arriva nel suo studio, butta via gli abiti sporchi. Fa il suo lavoro, fotografa in automatico, sia che si tratti di inquadrature artistiche che roba da routine. Va a vedere un negozio di antichità che vorrebbe comprare col suo amico Bill. Parla con Ron del libro in via di realizzazione. Continua a borbottare fino al momento in cui crede di vedere una tranquilla scena d’amore tra una giovane donna, Vanessa Redgrave e un uomo. Le foto nascondono altro. La donna è un fantasma, appare, scompare e ricompare ma è inafferrabile come la dama hipster di un vecchio hit R&B del 1951. Niente ci racconta quale sia la realtà.

Thomas lascia la festa, ritorna al parco. Incrocia la jeep stracarica dello stesso gruppo di ragazzi a cui all’inizio aveva consegnato un cripto messaggio costituito da una banconota da una sterlina. Rumorosi estremamente come solo i veri mimi sanno essere entrano nei campi da tennis. Un ragazzo e una ragazza, volto bianco e strisce e bretelle d’ordinanza mimano un’accesa partita mentre il resto dei ragazzi segue il movimento dell’inesistente pallina. Battuta dopo battuta tra motti di stizza quando si finge di aver colpito la rete, gesti di soddisfazione per un bel lancio, la pallina fantasma va in out una prima volta e la ragazza va a raccoglierla facendo un gesto come per dire «beh, capita di sbagliare» guardando il fotografo che si è fermato addossato alle reti assieme agli altri ragazzi. Ma dopo un altro finto scambio di battute, quando tutti sembrano aver visto che la pallina abbia scavalcato la recinzione per cascare proprio ai piedi di Thomas, la ragazza fa segno di lanciargliela, l’uomo sembra riflettere un attimo. Poi si inchina, raccoglie un nulla che tutti vedono tondeggiante e giallo, soppesa e fa rimbalzare quel nulla sul palmo e lo rilancia. Adesso si sente il rumore delle battute. Le racchette che rilanciano la pallina, i rimbalzi. Come dicono le ultime battute della sceneggiatura “sovrastano il cinguettìo degli uccelli e lo stormire delle foglie, diventano i tipici colpi sonori della palla sulle corde della racchetta. Uno di qua, uno di là, uno di qua, uno di là. Il fotografo sorride ancora, appena, appena. Poi diventa serio, un po’ turbato. Distoglie lo sguardo dal gioco e lo abbassa sull’erba, ma in realtà non guarda niente. È lo sguardo di chi segue un pensiero interno e non sa ancora se è angoscioso o rassicurante”.

Spiegava Michelangelo Antonioni: Il mio problema per Blow-up era quello di ricreare la realtà in una forma astratta. Io volevo mettere in discussione ‘il reale presente’: questo è un punto essenziale dell’aspetto visivo del film, considerato che uno dei temi principali della pellicola è vedere o non vedere il giusto valore delle cose.

  

“Non bisogna lasciare che un film finisca con la fine del film,
ma bisogna fare in modo che il film si prolunghi proprio all’esterno di se stesso,
proprio dove siamo noi,
dove viviamo noi che siamo i protagonisti di tutte le storie”. 

Michelangelo Antonioni

The Yardbirds – Stroll On (Jeff Beck & Jimmy Page 1966)

RIPRESO da www.bizarrecagliari.com ovvero «Storie della Beat Generation, della Controcultura e altro»: da gennaio racconta OGNI GIORNO vicende, persone, movimenti che il pensiero cloroformizzato e sua cugina pigrizia preferiscono cancellare. 

 





L’ombra di Goya

Il 30 marzo 1746 a Fuentetodos, un paesetto dell’Aragona, nacque Francisco Goya y Lucientes. Da allora la storia dell’arte non è stata più la stessa. Non a caso fu bocciato due volte all’esame di ammissione all’Accademia di Belle Arti di Madrid. E non per caso divenne il più grande pittore del suo tempo e uno dei più grandi di sempre. Questa doppia faccia dell’uomo e dell’artista è essenziale per comprendere il senso profondo delle sue opere. Questo pittore che «non era affatto un teorico d’arte» (R. Hughes), che non aveva né illustri natali, né grandi mezzi, al punto da pagarsi a sue spese il viaggio di formazione a Roma nel 1770; insomma questo poveraccio che tutti si divertivano a descrivere come un ingenuo, innocuo, candido, umile artigiano povero in canna, che al massimo aveva  “facilità di mano” ed era solo un miserabile spettatore del mondo superbo che lo circondava, bussò alla porta, umilmente, del più grande pittore dell’Urbe, il geniale Piranesi che rivelava a un pubblico attonito i segreti di una città simile alla città di Dite. E imparò subito, candido candido, a scendere anche lui in questa città dolente dell’anima per descrivere senza reticenza – da puro spettatore qual era – l’inferno dei vivi, distillando ogni goccia della sua abiezione e del suo furore, senza tante teorizzazioni e tante chiacchiere. La cronaca di questa “stagione all’inferno” è disseminata nei suoi quadri satanici e disperati che ci lasciano ancora oggi  letteralmente senza parole.

Ecco, se c’è qualcuno che ha capito fino in fondo il messaggio allucinato e inquietante di questo puro osservatore senza pretese è stato il regista Milos Forman nel suo capolavoro «Goya’s ghost» (2006) che significa Lo spettro di Goya, un fantasma che si aggira per tutta Europa; ma in italiano il film è stato stupidamente tradotto L’ultimo inquisitore. In questo modo l’attenzione del pubblico viene dirottata sull’Inquisizione e sul personaggio interpretato benissimo da Xavier Bardem, che apparentemente ha un ruolo fondamentale, ma in realtà è solo una specie di burattino in una storia piena di orrore, di cui l’impassibile Goya è l’umile e fedele cronista. Non ci voleva altro a scatenare i filistei di casa nostra, che si sono schierati immediatamente contro il film, nonostante la sua qualità e i suoi successi internazionali, accusandolo di rappresentare in modo caricaturale e anticattolico l’Inquisizione, che non esisteva quasi più in Spagna. Beh, ci vuole una bella faccia tosta a dire che l’Inquisizione non esisteva più, visto che il Tribunale del Santo Uffizio fu abolito in Spagna sei anni dopo la morte di Goya nel 1834 (alla faccia dei decreti di abolizione emanati da Napoleone nel 1808) e visto che l’ultimo processo di cui è rimasta notizia risale al 1818.

È veramente degradante dover parlare di queste cose. E ancor più degradante che di fronte a un’opera d’arte che cattura il sospiro dell’anima di un artista, come l’ombra sul muro, siamo costretti a parlare di cose morte e sepolte, che dovrebbero solo fare orrore e invece sembra quasi che vengano rimpiante. La migliore risposta che possiamo dare a queste farneticazioni è raccontare un altro film dello stesso regista. Anche questo parla di un’epoca storica. E di uomini che  sono costretti a subirla. Vediamo un po’ se pure stavolta spunta fuori qualcuno che ha la coda di paglia e pensa che dobbiamo schierarci, gridare allo scandalo, rimpiangere il passato e via farneticando. A dire la verità sono sicuro del fatto mio.

Il film parla del Ragtime. Non credo proprio che ci sia qualche partito dei nostalgici del Ragtime che si sentirà offeso. Così posso parlare liberamente di questo regista e del suo rapporto con la storia, al contempo liberando Goya dal penoso marchio di infamia che gli è stato dato. Il film si chiama proprio Ragtime (1981) e di musica parla. Cioè no: parla di tutte altre cose. Divaga. Come sto facendo io in questo momento. Però, però… divagando-divagando, come una farfalla che gira intorno a un fiore alla fine, è possibile – senza darlo a vedere – posarsi al centro della corolla per confondere i suoi colori con quelli dei petali. 

Siamo negli Usa, alla vigilia della prima guerra mondiale. In una serie di “quadri” d’epoca, vediamo le vie popolose di New York, i locali fumosi ed elettrizzanti dei negri, i teatri-cabaret eleganti dei bianchi, le case per bene della gente laboriosa, le case sgangherate dei poveri emigranti. Tre storie si intrecciano: quella di una famiglia dignitosa, piena di buon senso e di pregiudizi, tollerante e paternalista, che accoglie in casa una ragazza-madre di colore; quella di Colhause, pianista negro dal tocco di velluto, padre del bambino illegittimo, prima povero, poi improvvisamente ricco, che desidera sistemare la  sua situazione irregolare e vivere, felice e contento con la sua donna; quella di un ebreo russo, che disegna deliziosi “quaderni animati”, in cui le figure si muovono sfogliando le pagine come in una lanterna magica, che è costretto ad andare via di casa con la figlia, perché la moglie lo tradisce. Le tre vicende si complicano: il negro, insultato dai bianchi, perde il lume dell’intelletto e organizza bande di terroristi incappucciati, dopo che la moglie muore per colpa loro. La famiglia  per bene è sconvolta dagli avvenimenti e si divide senza conciliazione. L’ebreo russo diventa regista di cinema e fa i milioni con la nuova arte, spendendo e spandendo con voluttà.

Alla fine la situazione precipita: il negro si chiude alla Pierpont & Morgan Library, con una bomba e minaccia di far saltare tutto; il padre di famiglia, l’unico sopravvissuto del focolare, va a trovarlo per dissuaderlo, ma non cava un ragno dal buco; un commissario perfido (James Cagney redivivo) organizza una trappola e appena gli riesce fa secco il negro, uccidendo anche le speranze paternalistiche di redenzione dei bianchi buoni.

E l’ebreo? È sparito, ma sappiamo che continuerà a fare spettacoli fantasiosi. Il tutto a tempo di ragtime, la musica dolce e inebriante dì Scott Joplin, sorella maggiore del Jazz, che ci ubriaca senza che ce ne accorgiamo, come una sbronza a base di bicchieri di gin.

Commedia, tragedia, dramma e melodramma, amore e morte… C’è di tutto! Per questo qualche critico bestia ha storto il naso, dicendo che è un «Via col vento» rifatto male. Via col vento? Via col vinto, piuttosto! Via il negro bonaccione e fessacchiotto, tipo Capanna dello zio Tom. Via col vanto! Via l’orgoglio americano del progresso e della democrazia. L’invito di Forman (da molti anni stralunato in un’America ottusa, rispetto alla sua fine Boemia) è sempre lo stesso di «Taking off» (Spogliarsi, 1971):  liberiamoci delle catene dell’ipocrisia e facciamo baldoria come i figli dei fiori se non ci ammazzano prima.

Il film che pare fastoso è solo festoso: ha la grazia surreale, ilare e amara, dei quadri di Chagall, che anche se illustra le vetrate di un grattacielo sembra sempre che dipinga il riflesso del mondo a rovescio in una bolla di sapone.

Il mondo di Milos Forman – questa pseudo società puritana ed arcigna, divisa in classi che si odiano – non è che un effimero palcoscenico dove si recita la favola della storia. E chi la recita sembra una marionetta ?, piuttosto, una delle figurette disegnate dall’ebreo russo sui suoi “quaderni animati” che si muovono col principio del cinema ripetendo insistentemente, ossessivamente, sempre  la stessa immagine con minime variazioni, che danno l’impressione del movimento, non perché le persone si muovano davvero, ma perché qualcosa, impercettibilmente, si muove  nel cervello  senza che ce ne accorgiamo. Il senso della storia è questo, lo stesso del cinema:  esiste solo l’illusione. Qualcosa che gli artisti conoscono così bene e che ci salva dall’inferno del presente.





Kim Ki-duk

11 dicembre 2020, pochi giorni prima del suo 60esimo compleanno, la tensione vitale di Kim Ki-duk si è spenta.
Kim Ki-duk è uno dei registi asiatici più conosciuti nel panorama cinematografico contemporaneo. Artista di rara complessità, dotato di sensibilità profonda e radicale, è un poeta che respira in modo estremo, sebbene persista in lui un’elegante raffinatezza percettiva.
Il suo è un cinema fondato dalla tensione tra delicate emozioni ed esplosioni di violenza, elementi separati che si attraggono reciprocamente, generando un flusso di energie instabili, ma che inspiegabilmente tendono a una situazione di equilibrio.
Nato nel 1960 a Bonghwa, una piccolo villaggio della Corea del Sud che dista 170 km dalla capitale, a nove anni si trasferisce con la famiglia a Seoul, dove in seguito frequenta un istituto professionale per l’agricoltura. A diciassette anni, per le condizioni di povertà in cui versa la sua famiglia, è costretto a lavorare in una fabbrica, che lascerà a vent’anni per
arruolarsi in marina, dove resta per i successive cinque.

È il periodo in cui si avvicina alla religione con l’intenzione di diventare predicatore, ma nel 1990 abbandona tutto e si trasferisce a Parigi per approfondire la passione per la pittura e riesce a mantenersi vendendo i suoi quadri.
“Arrivai in Europa perché volevo fuggire dalla società coreana, e da casa”, dice oggi. “Mio padre è un veterano della Guerra di Corea. Subì torture psicologiche e fisiche da parte della Corea del Nord. Riuscì a tornare a casa, con quattro pallottole in corpo, solo dopo uno scambio di prigionieri. Ma non fu più la stessa persona: era pervaso da un senso di sconfitta
e da una rabbia inaudita che scaricava quotidianamente su di me. Ero terrorizzato da mio padre, ma crescendo compresi che anche lui era soltanto un’altra vittima della società. I postumi di quella guerra si patiscono ancora oggi in Corea del Sud, nessuno però ne vuole
parlare. Per questo ho deciso di fare film che avessero al centro questi temi: la violenza, l’odio, i traumi, la solitudine, l’incapacità di comunicare. Situazioni che ho vissuto sulla mia pelle, ma che parlano di tutta la mia patria”.

Nel 1993 inizia ad avvicinarsi al cinema, scrive sceneggiature e vince il premio dell’Educational Institute of Screenwriting con la stesura di “A Painter and a Criminal Condemmed to Death”.
Cede del tutto al potente richiamo del cinema, nel 1996 esordisce con il film Crocodile, ambientato in Sud Corea, che già rivela in modo esplicito quali sono e saranno i temi centrali del suo lavoro: violenza, sesso e dolore.
Sono elementi chiave della sua narrazione, li ritroviamo intatti in Wild Animals, girato a Parigi (1997), e in Birdcage Inn (1998).
La componente distruttiva presente nella psiche umana, in contrapposizione alla vitalità sensuale dell’eros genera un brutale processo di tensione e di violenza, che spesso trova soluzione solo nella morte.

“Mi pongo sempre una domanda: cosa è umano? Cosa significa essere umano? Forse la gente considererà di nuovo brutali i miei nuovi film. Ma questa violenza è solo un riflesso di ciò che sono realmente, di ciò che è in ognuno di noi in una certa misura “.
Nel 2000 è presente al Festival di Venezia e al Sundance Film Festival con “L’isola”, che gli apre le porte della fama internazionale. Nello stesso anno Kim Ki-duk celebra la strenua ricerca di innovazione percettiva e di realizzazione con “Real Fiction”, girato 200 minuti con dieci cineprese e due videocamere digitali.
Il rapporto tra i personaggi e lo spazio vitale non consente loro di fuggire dai propri stati d’animo, così ne possiamo conoscere “desideri, ossessioni, paure che lì diventano quasi tangibili”.
L’indagine su questi contrasti di forze devastanti è presente anche ne: “Indirizzo sconosciuto” (2001), “Bad Guy” (2001) e “The Coast Guard” (2002).
“Spesso hanno criticato il fatto che nei miei film non si parla molto. Questo è perché racconto persone ferite, che hanno perso fiducia nell’altro. Così la violenza che è un’altra accusa che fanno ai miei film, non è un semplice gioco estetico. Per me è necessaria, è l’unica forma che esprime la crudeltà della vita, la sua tristezza e disperazione.”
Nel 2003 esce “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera”, un film fortemente simbolico, che sorprende per l’inquietante senso di pace evocato dalla splendida fotografia, davanti alle immagini perfettamente poetiche, sfuma lievemente l’intensità della violenza.
Nel 2004 gli vengono assegnati l’Orso d’Argento alla regia al Festival di Berlino per “La samaritana” (2004), e il Leone d’Argento al Festival di Venezia per “Ferro 3 – La casa vuota”.

È presente nel 2005 al Festival di Cannes con “L’arco”, segue “Time” (2006), “Soffio” (2007).
L’anno successivo vede la luce “Dream”; durante le riprese l’attrice protagonista Lee Na-yeong è stata vittima di un incidente sul set, durante la scena nella quale simula il suicidio per impiccagione.
Kim Ki-duk resta traumatizzato da questo evento, si ritira in solitudine e vive un periodo di profonda depressione. Riuscirà a vincere il grave tormento soltanto tre anni dopo con una lunga confessione-documentario: “Arirang”, dove espone un’intensa riflessione sull’arte e sulla vita, che approfondirà con il successivo “Amen”.
Nel 2012 realizza “Pietà”, per il quale viene insignito del Leone d’Oro al Festival di Venezia, dove negli anni successivi presenta fuori concorso “Moebius” (2013) e “One on One” (2014) con cui apre la selezione delle Giornate degli Autori; seguiranno “Stop” (2015) e “Il prigioniero coreano” (2016), che apre sezione denominata Cinema nel Giardino.
Muore in Lettonia, per le complicazioni dovute al maledetto Covid-19.

 





SULLA MORTE DI PAUL LAFARGUE E LAURA MARX

articolo già pubblicato su La bottega del Barbieri (www.labottegadelbarbieri.org)

Il festival del cinema di Venezia si è appena concluso e nessun premio è stato attribuito al film di Susanna Nicchiarelli dedicato a Eleanor Marx, morta suicida per amore nel 1898.  È probabile che, al di là dei meriti o dei demeriti della regista, nessuno abbia voglia di occuparsi del comunismo, a meno che non ne denunci i misfatti, come il film Cari compagni di Andrei Konchalovsky. Nell’Italia dei cori fascisti allo stadio e del mausoleo di Affile a Graziani, non si può parlare di Marx se non con un certo imbarazzo, come se fosse un freak, uno spostato, un alieno. Ed ecco allora che parlando del film fioccano i titoli ad effetto come: «Miss Marx una donna succube» (Il secolo); «Una vita vissuta al limite» (F. Gallo, Ansa); «La sua vita fu assurda e tragica» (S. Nicchiarelli, nel sito ufficiale della Mostra del Cinema); «Pre-punk infelice… Di sicuro, non deve essere stato facile per “Tussy” vivere all’ombra di quel cognome ingombrante, finendo un po’ per morirne» (M. Anselmi, Cinemonitor). Simili battute non sono certo una sorpresa; in realtà l’onda lunga di un generale senso di fastidio dell’homo liberisticus verso un sempre più imbalsamato Marx, fonte di sciagure per l’umanità e sciagura egli stesso, che si è guadagnato una nicchia al Museo delle Cere accanto ad altri protagonisti della storia di fine Ottocento, come Jack lo Squartatore e Landru. Un atteggiamento mirabilmente riassunto in un articolo apparso sulla Repubblica del 14/6/2014 e firmato dall’autorevole Siegmund Ginzberg, che dopo aver ricordato il suicidio dell’altra figlia di Marx (Laura) e aver osservato che «i grandi padri spesso sono ingombranti» si conclude con le parole: «Il Capitale di Marx era, a modo suo, un romanzo. La struggente telenovela su Eleanor tocca tasti ancora più universalmente umani».
Eppure nonostante queste conclusioni. destinate a divenire un luogo comune sempre più stancamente ripetuto, Ginzberg non poteva fare a meno di ricordare un’elementare verità che fa a pugni con l’idea del “padre ingombrante” e della “telenovela”. Lasciamogli la parola: «Eleanor… aveva convissuto per quasi vent’anni con Edward Aveling, mantenendo la sua vita dispendiosa e tollerando le sue continue scappatelle. Lui era già sposato, ma non le aveva mai detto che la prima moglie era deceduta da tempo e lui aveva incassato e sperperato l’eredità. Solo il giorno prima del suicidio lui le aveva confermato quello che già tutti gli altri sapevano, che si era risposato un’altra volta ancora, in segreto, con un’attricetta. Lei finalmente lo aveva diseredato in extremis, ma il codicillo era stato fatto sparire. Si disse dallo stesso Aveling, che aveva frugato tra le sue carte in presenza del cadavere. Anzi, corse voce che addirittura fosse stato lui ad assassinarla».
Uno storico serio, anzi qualunque persona seria, dovrebbe verificare simili insinuazioni: se sono vere o quanto meno se ci portano a dubitare delle versioni ufficiali, allora è veramente scorretto e poco intelligente crogiolarsi nel ripetere luoghi comuni e mistificazioni di segno del tutto opposto. Se una persona è stata assassinata o se è stata indotta al suicidio in modo subdolo, non può essere stata turbata dal nome “imponente” di suo padre e neppure vittima di quella che è stata chiamata «la maledizione delle figlie di Marx».
La stessa mancanza di serietà e superficialità hanno dimostrato e dimostrano ancora oggi coloro che si sono occupati del presunto suicidio dell’altra figlia di Marx, Laura, che avrebbe terminato volontariamente la sua esistenza nella notte fra il 25 e il 26 novembre 1911, obbedendo a un mitico e mai documentato “patto suicidario”, stretto con il marito Paul Lafargue. L’argomento ha fatto versare fiumi di inchiostro ed è stato rievocato da grandi personaggi politici (come Jan Jaurés, Karl Kautsky, addirittura Lenin, presenti ai funerali della coppia) e da tanti altri scrittori, e storici.

 

Le petit Parisien”, 28 novembre 1911, prima pagina

La vicenda, riassunta da un grande studioso e uomo politico come Maurice Dommanget è la seguente:

«Paul Lafargue si diede la morte, trascinando con sé Laura, sua compagna, nella notte del 26 novembre 1911… Entrambi, dopo aver passato la giornata del sabato a Parigi, avevano raggiunto la loro abitazione di Draveil. Rientrando, avevano chiacchierato col giardiniere, Ernest Doucet, e con altri membri della sua famiglia. Lafargue parlò allegramente della giornata trascorsa. Laura e lui, che erano stati al cinema, si mostrarono – è stato scritto – “pieni di familiare allegria.” Eppure sapevano che ben presto avrebbero posto fine alla loro esistenza. Una serenità che lascia senza parole. Il mattino dopo, verso le dieci, Doucet si preoccupò non vedendo nessuno alzato anche perché i due coniugi avevano mantenuto abitudini mattiniere. Salì alle loro stanze, bussò e, non ottenendo risposta, aprì la porta. Lafargue era sdraiato sul letto, completamente vestito, senza vita, in camera sua. Nella camera vicina Laura, seduta in poltrona, era morta anche lei. Nessun disordine nei locali: tutto era a posto, come al solito… Su un tavolo, non lontano dai cadaveri, fu trovata una lettera al nipote, il dottor Edgar Longuet, e un foglio contenente le disposizioni testamentarie. C’era anche un certificato per il giardiniere, con la data del 28 settembre, e una lettera allo stesso, datata 18 ottobre, cioè rispettivamente due mesi e circa tre settimane prima del suicidio… II testamento è così redatto:

Sano di corpo e di mente, mi uccido prima che la vecchiaia impietosa, che mi tolse a uno a uno i piaceri e le gioie dell’esistenza e che mi spogliò delle risorse fisiche e intellettuali, non paralizzi la mia energia e non spezzi la mia volontà facendomi divenire un peso per me stesso e per gli altri. Da molto tempo mi sono ripromesso di non superare i settanta anni; ho fissato la stagione dell’anno per il mio distacco dalla vita e ho preparato il sistema per mettere in pratica la mia decisione: una iniezione ipodermica di acido cianidrico. Muoio con la suprema gioia della certezza che, in un prossimo futuro, la causa alla quale mi sono votato da quarantacinque anni trionferà.

Viva il Comunismo.

Viva il Socialismo Internazionale!»1.

Lo choc per l’incredibile notizia sconvolse tutti coloro che erano vicini a Lafargue, fossero amici o avversari politici. Non tutti approvarono il suo gesto e qualcuno, come Jules Guesde, molto vicino politicamente a Lafargue, parlò di “diserzione”: tuttavia la maggioranza dei commentatori furono travolti dall’emozione e molti, a cominciare da Karl Kautsky, espressero ammirazione per l’eroismo e la dignità stoica di questo suicidio, portato a termine «nel pieno del vigore», «prima del declino»2.

Tuttavia qualcuno espresse dubbi e perplessità. Uno fu Alexandre Zevaès, che conobbe bene i Lafargue. Come ha scritto Dommanget: «le sue affermazioni eccessive, esagerate, l’odio per Lafargue che traspare ad ogni frase, fanno dubitare delle sue parole e tuttavia si è costretti ad accogliere alcuni suoi punti di vista… Ricordando Laura, la figlia prediletta di Marx, donna ammirevole sotto tutti gli aspetti, Zevaes scrive: “Nulla di ciò che sappiamo del dramma del 26 novembre 1911 autorizza a credere che si sia suicidata”… Ed effettivamente non resta nessuna traccia scritta di lei, nessuna carta, nessuna annotazione, nessuna disposizione testamentaria. Nelle ultime lettere di Lafargue nulla lascia presagire il funesto progetto e di conseguenza nulla lascia intravedere la partecipazione di Laura. Ed anzi – cosa di estrema importanza e che sinora e sfuggita all’attenzione – nel suo saluto Lafargue parla in prima persona e le spiegazioni che dà si riferiscono a lui solo. Non vi si fa parola di Laura».

Secondo Dommanget anche Lenin nutrì qualche dubbio: «Lenin aveva un grande rispetto per Lafargue pur mantenendo sempre un atteggiamento critico nei confronti dei leaders del socialismo francese. Egli doveva così, prendendo la parola ai funerali dei Lafargue a nome del Partito operaio socialdemocratico di Russia, fare il loro elogio… Si astenne dal condannare il suicidio, sebbene non fosse d’accordo, secondo la testimonianza di Serafina Gopner, allora aderente al gruppo bolscevico di Parigi3… Il discorso di Lenin alle esequie non era improvvisato e questo spiega la traduzione che Ines Armand ne ha potuto fare. In questa traduzione l’uso del termine “morte” invece di “suicidio” lascia perplessi. Se tale traduzione è rigorosamente fedele, la cosa ha la sua importanza: essa postulerebbe in Lenin la persuasione che non ci fosse stato suicidio da parte di Laura»4. Anche altri espressero le stesse perplessità nel corso del tempo. Il poeta Louis Aragon, per esempio scrisse: «Voi trovate questa morte bellissima, straordinaria e bla, bla, bla. Io la trovo semplicemente riprovevole. Perché la figlia di Marx avrebbe dovuto fare una cosa simile?»5.

Si potrebbe pensare che si tratti solo di reazioni stizzose e polemiche: ma in realtà la scomparsa di Laura pone oggettivamente un problema che solo recentemente si è avuto il coraggio di affrontare apertamente in termini storici. Ha scritto a riguardo Jacques Macé: «La questione più grave concerne la morte di Laura… perché la donna non ha lasciato alcun documento che testimoni la sua adesione al progetto dello sposo e questo strano silenzio ha creato intorno alla fine dei Lafargue un disagio che non è mai stato dissipato»6.

Se riusciamo a superare le reazioni polemiche e le emozioni scomposte e ci atteniamo, saldamente, alla storia dobbiamo ammettere che non è questo l’unico problema sul tappeto. Il compito dello storico è oggi enormemente agevolato dal riordino e dalla catalogazione delle fonti d’archivio che riguardano Paul Lafargue e dall’inventario ragionato di Pierre Boichu e Jean-Numa Ducange7 e questo ci permette di porci nuove domande. La prima e fondamentale è questa: nel ricchissimo archivio di Edgar Longuet, nipote ed erede di Paul Lafargue, non figura l’originale della famosa lettera-testamento il cui testo abbiamo riportato in precedenza.

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Edgar Longuet e sua moglie

 

La lettera era diretta proprio a lui ma fra le sue carte l’originale non si trova: eppure fra le stesse carte figura una copia dattiloscritta della stessa lettera che testimonia il fatto che Longuet teneva molto, ovviamente, a questo documento, al punto da farsene una copia8. Il fatto è veramente singolare anche perché la lettera fu riprodotta sui giornali subito dopo il suicidio e in seguito venne commentata e citata da tutti coloro che si occuparono dell’argomento, senza che ne fosse mai pubblicata una solo foto. Possibile che l’originale sia scomparso? E guarda caso non solo l’originale della lettera ma anche di tutte le altre carte ritrovate accanto al letto di morte di Lafargue, come la lettera di benservito al giardiniere, che conteneva anche disposizioni testamentarie e fu riprodotta a sua volta nei giornali; l’abbozzo di telegramma a Edgar Longuet firmato a nome del giardiniere, egualmente riprodotto sui giornali. Non è strano?

Esistono anche altre stranezze. I primi testimoni – nell’inchiesta giudiziaria che stabilì le cause del decesso – dichiararono che la povera Laura Marx era stesa a terra sulla soglia della sua toilette9 e non seduta su una poltrona come poi dichiarò ufficialmente Longuet e ripeterono i giornali. Inoltre, come scrisse il corrispondente del Petit Parisien, Laura era praticamente in mutande, come se fosse stata sorpresa all’improvviso nell’intimità mentre suo marito fu trovato vestito di tutto punto. Questi particolari che sembrano insignificanti, presi uno per uno, acquistano invece un particolare risalto se si mettono insieme e se si ricorda che l’inchiesta giudiziaria stabilì che la donna era morta prima del marito10. Se accettiamo questa conclusione e ripensiamo alle osservazioni che abbiamo esposto, dobbiamo concludere che la donna è morta durante la notte, quando era appena rincasata e stava per spogliarsi per dormire; mentre l’uomo si è ucciso alle 6 della mattina, in base alla testimonianza della cuoca che sentì a quell’ora qualcuno che chiudeva le persiane. Se le cose stanno così allora come si può escludere che sia avvenuto quello che Macé ha chiamato un “omicidio-suicidio”? E come si può escludere che siano fenomeni casuali la falsa notizia diramata dagli eredi di Lafargue che Laura fosse seduta composta su una poltrona, invece che discinta a terra nel bagno e la scomparsa delle lettere originali, che impedisce ogni confronto con altri documenti autografi di Lafargue?  È davvero così strano pensare che si sia voluto tutelare la memoria del grande combattente socialista, che uccide la moglie e poi si suicida, “inventando” un patto suicidario che non è mai esistito, per mascherare la squallida realtà di un omicidio-suicidio come ricorre tanto spesso nelle cronache? Le motivazioni dell’episodio, non mancherebbero, persino “nobili”. Ha scritto a questo riguardo Macé: «Non potrebbe essere possibile che Paul abbia ucciso Laura per proteggerla da se stessa?.. Testimonianze dirette degli abitanti di Draveil (i discendenti dei vicini dei Lafargue e la nipote del giardiniere) sono concordi nel certificare che negli ultimi anni della vita si abbandonava senza ritegno all’alcool, provocando incidenti domestici. Un atteggiamento confermato da un rapporto di un ispettore polizia, che sorvegliava di nascosto la coppia. Disperato per questa situazione Paul non potrebbe aver pensato che Laura sarebbe stata incapace di provvedere a se stessa se egli fosse morto…?»11.

Ipotesi per ipotesi è anche possibile, in via del tutto accademica, formularne anche un’altra. Macé ha fatto notare12 che il giorno della morte dei Lafargue è lo stesso giorno in cui Clemenceau ammise apertamente una colpa gravissima: in una lettera a Le temps, l’ex primo ministro rivelò infatti di avere pagato una spia e un provocatore, Luc Métivier, che aveva avuto un ruolo di primo piano nel giugno del 1908, durante i violenti scioperi di Draveil, la cittadina nella quale abitavano i Lafargue, nei quali erano stati uccisi degli operai.

Lo sciopero di Draveil

Il vecchio Lafargue aveva tuonato come un giovane leone contro la furia selvaggia dei soldati sulle colonne dell’Humanité del 6 giugno di quell’anno e aveva sostenuto che si trattava di un’infame “macchinazione” ordita dal Sottoprefetto. La vicenda ebbe molti strascichi, con una serie di arresti, di lotte, di scioperi che si protrassero a lungo. Alla fine i socialisti scoprirono con prove inoppugnabili che i tumulti, ideati dall’alto, erano stati provocati da infiltrati della polizia, fra i quali c’era Métivier. Lo scandalo andò avanti per anni e alla fine, Clemenceau, ormai decaduto dalla sua carica, ammise la propria responsabilità. Tuttavia quell’ammissione tardiva non fu così innocente come sembra: assumendosi la colpa, Clemenceau copriva evidentemente i suoi complici che avrebbero potuto rivelare troppe cose, coloro che avevano tramato alle spalle di tutti, orchestrando la “macchinazione” di cui aveva parlato Lafargue. L’intervento di Clemenceau doveva essere l’ultima parola sull’argomento: nessuno avrebbe avuto il coraggio e la forza per attaccarlo direttamente, come nessuno ebbe il coraggio e la forza di attaccare direttamente Mussolini quando affermò, in modo provocatorio che se il delitto Matteotti era stato un delitto politico lui ne era il mandante.

Ebbene cosa ci sarebbe di strano se il giorno stesso in cui Clemenceau mise la parola fine su quell’argomento qualcun altro abbia deciso di mettere la parola fine agli interventi di Lafargue sullo stesso tema, visto che poteva aver raccolto informazioni riservate, prove inoppugnabili come avevano fatto i suoi compagni con Métivier. Forse Lafargue sapeva troppe cose…

Non sarebbe stato difficile toglierlo di mezzo: come hanno mostrato molti storici13, Lafargue era sorvegliato dalla mattina alla sera da diversi informatori della polizia, che conoscevano ogni dettaglio della sua vita, inviando relazioni giorno per giorno su tutto quel che faceva. I colleghi di coloro che avevano fabbricato le false lettere che avevano inchiodato Dreyfus non avrebbero avuto difficoltà a fabbricarne altre, che poi sarebbero provvidenzialmente sparite, dopo avere tratto in inganno, sull’onda dell’emozione, parenti ed amici.

Vogliamo allora sostenere che il presunto suicidio di Lafargue sia stato un omicidio politico? Non possiamo dirlo con sicurezza. Credo però sia giusto in casi simili sollevare dubbi che, allo stato attuale delle ricerche, non possono essere ancora risolti ma ci aiutano a riflettere. Quello che abbiamo scritto porta solo nella regione del dubbio e dell’incertezza: e tuttavia quanto è più umano, profondo e dignitoso accettare l’angoscia del dubbio piuttosto che sbandierare le false sicurezze di slogan vuoti che manifestano solo la nostra mediocrità. Come quello che chi nasce da un padre dal nome “ingombrante” non possa che sentirsi indegno di questo nome e finire male.


NOTE

1 M. Dommanget, Présentation de Le Droit à la paresse, Paris, Maspero, 1969, pp. 108-11. Dommanget riassume l’articolo di B. Mayéras, “L’Humanité” 28 novembre 1911, pag 1. Cfr anche L. Derfler, Paul Lafargue and the Flowering of French Socialism, 1882-191, Cambridge Mass., Harvard Un. Press, 2009, pp. 288-301.

2 M. Sembat “L’Humanité,” 29 novembre 1911, p. 1.

3 “Infatti, in un’intervista specificamente dedicata al suicidio dopo le esequie, formulò così la sua opinione: “Un socialista non appartiene a sé stesso, ma al partito. Se può in qualche modo essere ancora utile alla classe operaia, per esempio con lo stendere se non altro un articolo o un proclama, non ha il diritto di suicidarsi”. Lenin aggiunse anche che il caso di Lafargue era ancora più grave se si tiene conto del fatto che i partiti operai sono molto più poveri di scrittori dei partiti borghesi.”(M. Dommanget, Présentation, p. 111).

4 M. Dommanget, Présentation, p. 111.

5 L. Aragon, Les cloches de Bâle [1934], III, 2, Paris, Gallimard, 1972, p. 330.

6 J. Macé, Paul et Laura Lafargue, un couple mythique, Communication au colloque “Paul Lafargue, 1842-1911”, tenu au Conseil général de l’Essonne à Evry le 3 décembre 2011, vedi https://jacqmace.wixsite.com/histoires/lafargue.

7 P Boichu-J. N. Ducange, Une singulière histoire d’archives socialistes du Parti communiste français. Le fonds Paul Lafargue 300 J 1-12, 3 MI 32/1-3 . 1830-1965, Bobigny, Conseil général de la Seine-Saint-Denis, 2013.

8 Ibid., p. 56.

9 J. Macé, Paul et Laura Lafargue: Du droit à la paresse au droit de choisir sa mort, Paris, L’Hrmattan, 2001, p. 9.

10 J. Macé, Paul et Lara Lafargue: une couple [p. 5]: “Selon l’enquête, Paul Lafargue avait fait une injection mortelle d’acide cyanhydrique à son épouse puis s’était lui-même suicidé par le même moyen.”.

11 J. Macé, Paul et Lara Lafargue: une couple [p. 6].

12 Ibid., p [p. 5].

13 Archives de la préfecture de police de Paris, Paris, Dossiers de surveillance de l’activité de Paul Lafargue, cote BA 1135. Cfr . C. Diaz, Jaurès et les indics, Paris, Duverner, 2012.

 

 





PARASITE

Articolo già edito su www.chiaragp.com

Una folgorazione. Io sono letteralmente impazzita per questo film che ha fatto incetta di Oscar in quest’ultima edizione 2020.

Ben 4: Miglior Film, Miglior Regia, Migliore sceneggiatura originale e Miglior Film Internazionale, dopo essersi per altro aggiudicato la Palma d’Oro al Festival di Cannes 2019. Un boom di premi. Un boom dentro di me.

Parasite di Bong Joon-ho racconta una storia lineare che ne racchiude una molto più complessa, politica e contemporanea. Protagoniste due famiglie. Una povera (tutti disoccupati) composta da padre, madre e due figli che vivono in un seminterrato pieno di scarafaggi dove riuscire a rubare la connessione Whatsapp ai vicini è già un segno di miglioramento sociale e non riuscirvi è la sintesi dell’esclusione più totale.

Delle creature del sottosuolo che per guadagnare qualcosa piegano e confezionano in casa le scatole della pizza mentre guardano con odio gli ubriaconi che gli pisciano sulle finestre o mentre lasciano le finestre aperte durante le disinfestazioni con la speranza che sterminino anche i loro scarafaggi.

Il sottosuolo dunque L’inferno? No.

La seconda famiglia invece è ricca, ubicata in una casa da sogno realizzata da un importante architetto (che a me ricorda Rem Koolhaas, ma sono una profana e potrei sbagliare), tutto liscio, ligneo, perfetto, direi levigato, igienizzato, pulito, ma non armonico. Lui e lei evidentemente non si amano. Nel film ho assistito inorridita a una delle scene di sesso più brutte della storia. Ma non brutta perché girata male ma proprio brutta perché nessuno di noi vorrebbe mai farlo così. Marito bello, manager, assente che evidentemente non ama la moglie (lo si evince ben due volte). Moglie bella, esaurita, in colpa. Figlia in tempesta ormonale e bimbo caratterizzato da iperattivismo e da un trauma d’infanzia.

La bellezza quindi Il paradiso? No.

Sono due mondi opposti che si incontrano nel geniale piano del primo nucleo che pian piano riesce a “trovare lavoro”, attraverso mille stratagemmi e sostituendo i precedenti lavoratori, nella casa dei ricchi come insegnante d’inglese, autista, arte terapeuta e governante.

Fin qui tutto ok, fantastico ai limiti della commedia e poi boom. Un’escalation di percorsi, sotterranei, di scale, di piogge quasi bibliche, che portano il film a toccare l’horror, il thriller, la tragedia senza mai cadere nello splatter ma tenendoci con il fiato sospeso fino alla fine.

Questo film è una forte denuncia sociale (dalla misura della povertà contemporanea quantificabile persino nella mancata connessione Internet) che ci butta in faccia la netta separazione tra superfluo ed essenziale e lo fa senza “bandiere” o stereotipi di lotta. Ma lo fa mostrando il disprezzo del ceto alto per i subalterni (mi ha colpito tantissimo il richiamo costante all’odore degli altri, dei poveri) e delle umiliazioni che questi sono costretti a subire (come il padre-autista costretto a vestirsi da indiano per la festa di compleanno del figlio). Una lotta di classe raccontata con gran classe (per giocare con le parole)

ma raccontata anche attraverso l’ingegno della classe “povera” e attraverso la sua filosofia di vita: “Che facciamo ora? Qual è il nostro piano?” chiede la figlia al padre. Il padre risponderà successivamente al figlio:”Sai qual è il piano che non fallisce mai? Non averne uno. Sai perché? Se ne escogiti uno, la vita non andrà mai a quel modo”. Quando ho sentito queste parole mi è venuta subito in mente una frase che avevo letto su Facebook trovandola geniale: “L’unica cosa che va secondo i piani è l’ascensore”.

Consigliatissimo da Chiara GP!!!!!!!!!!!! Da vedere al Cinema!!!!!!!!!!! Evviva il grande cinema!!!!!!!!!!!!

Ps: un’ultima chicca/curiosità: nella colonna sonora del film è presente – in un momento decisamente topico – “In ginocchio da te” di Gianni Morandi (che in Corea del Sud è molto amato e conosciuto).





JOJO RABBIT

Articolo già edito su www.chiaragp.com

Giovedì sera sono andata a vedere con Giulio un film strepitoso: “Jojo Rabbit” (qui il trailer), regia di Taika Waititi.

La trama di questa pellicola, in bilico tra la commedia e il dramma, può essere riassunta così: Jojo Betzler (interpretato magistralmente da Roman Griffin Davis) fa parte della gioventù hitleriana ed è un fervente fan di Hitler (interpretato dallo stesso Taika Waititi) tanto che lo immagina come figura presente nella sua vita di tutti i giorni. Il padre del bambino non c’è (è al fronte?) e lui vive con la mamma (un’intensissima e – diciamolo – bellissima Scarlett Johansson).

Il bimbo viene soprannominato “Rabbit” (coniglio) perché durante un addestramento al campo dei giovani nazisti, gestito dal capitano Klenzendorf (interpretato da Sam Rockwell), si rifiuta di uccidere un coniglio. È un emarginato. Ha solo due amici: Yorki e l’immaginario Adolf. Jojo odia gli ebrei fino a quando scopre che la mamma ne nasconde una (una ragazza) in soffitta. Da qui sarà costretto a fronteggiare i suoi credo, i suoi dogmi e dovrà aprire gli occhi sulla terribile realtà.

Waititi ha tratto parte del suo film dal libro “Come semi d’autunno” (“Caging Skies” di Christine Leunens del 2004) che raccontava l’incontro tra un ragazzino delle gioventù hitleriana con una ragazza ebrea nascosta dalla madre in soffitta. Tutta la parte della figura dell’Hitler immaginario è invece opera del regista.

Il film, vi dicevo, è strepitoso: ironico, commovente, irriverente. Ho riso, ho pianto, mi sono immedesimata, mi sono infuriata.

Waititi è riuscito con grazia e maestria a tracciare sentimenti contrastanti, portando all’esaltazione il “si fa quel che si può”, smascherando dogmi e protocolli (la scena in cui la Gestapo va a casa di Jojo e i funzionari iniziano a salutarsi dicendosi a vicenda “Heil Hitler” per un numero esagerato di volte è esilarante). Ma il film è anche una descrizione del difficile passaggio tra infanzia e adolescenza, una descrizione del labile confine tra orrore e normalità, della ricerca di bellezza e libertà tra costrizione e macerie, della scoperta dei legami al di là di stereotipi e ruoli.

Un capolavoro dissacrante, ironico e mai di cattivo gusto che riporta sul grande schermo gli orrori della Seconda Guerra Mondiale.

La colonna sonora è fantastica (tra gli altri contiene i Beatles con “Komm, gib mir deine Hand” – versione tedesca incisa nel 1964 di “I want to hold your hand” – che fa da intro al film, e poi David Bowie con “Helden” – versione tedesca di Heroes).

Il film, che ha aperto il 37esimo Torino Film Festival, ora corre per ben 6 Oscar: miglior film, migliore attrice non protagonista, migliore sceneggiatura non originale, migliori costumi, migliore scenografia, miglior montaggio.

Da vedere assolutamente!