Gioventù bruciata

Il 24 febbraio 1956 fu proiettato per la prima volta in Italia il film Gioventù bruciata (in inglese Rebel Without a Cause), di Nicholas Ray. Violento, visionario, straniante, il film si imponeva immediatamente per la sua originalità formale, sottolineata da una recitazione volutamente sopra le righe e dall’uso del procedimento Vistavision, che permetteva di allargare l’inquadratura molto di più del normale e di disporre molti personaggi in orizzontale come soldati di un esercito o ballerini di un musical. Ma la novità non fu solo questa. Doloroso, struggente, angoscioso,  il film metteva in scena gli adolescenti sbandati e perduti degli anni ’50 che gli adulti non volevano guardare in faccia: i figli degeneri di una società presuntuosa, tronfia, malata, il cui simbolo straordinario era James Dean, un angelo capitato per caso all’inferno, maledetto come Caino, il figlio che pur essendo opposto a suo padre ripete il suo destino di colpa. L’anniversario andrebbe ricordato, ma in Italia oggi tutti hanno altro da pensare o da ricordare. Neppure Nicholas Ray viene ricordato con particolare entusiasmo. Sì, d’accordo, per carità è un classico, celebrato da tutti: il suo nome non si può passare sotto silenzio. Dopo di che, sistemato il Mito sul piedistallo, tutti gli voltano le spalle e pensano ad altro. Che cosa dovrebbero fare? Mah, cominciamo a mettere nel cassonetto tutta la paccottiglia presuntuosa, furba e deprimente che ci ha afflitto negli ultimi trent’anni. E cominciamo a mandare al diavolo anche la nostra aria da saccenti, che sanno tutto di tutto senza sapere niente di niente. Ritorniamo agli anni Cinquanta, duri, inesorabili. Ricominciamo a tremare.

Il film di Ray riprende il titolo da un celebre saggio, uscito una decina di anni prima, senza tuttavia riprenderne il contenuto. Nel 1944 lo psicoanalista Robert Lindner aveva scritto un saggio  su un detenuto in Pennsylvania intitolato Rebel Without a Cause.  Il libro puntava il dito su un individuo particolare: lo psicopatico, il personaggio sinistro,  imprevedibile e inquietante che era balzato con prepotenza sugli schermi all’epoca di Al Capone in film come Scarface di Howard Hawks,  provocando violente reazioni nel pubblico conservatore che aveva ostacolato in ogni modo il regista che aveva osato affrontare il problema. Nonostante ciò altri registi, caparbi e solitari, portarono alla ribalta, con vigore, il destino di eroi che non avevano nulla di eroico con il piede sempre sull’orlo di un abisso, come James  Cagney e Humphrey Bogart nella Furia umana, nei Ruggenti anni venti e in Una pallottola per Roy di Raoul Walsh.  Dieci anni dopo il proibizionismo, mentre la guerra infuriava e i primi reduci con la morte nel cuore cominciavano a popolare i bar di tutta l’America, si cominciò a parlare apertamente dei disadattati, perduti al mondo, pieni di odio per gli altri e per sé stessi. Lindner veniva dalla scuola di Erik Erikson, che aveva parlato per primo della “identità negativa” dei giovani, un atteggiamento di radicale insofferenza contro tutto e tutti, un grido di rivolta da parte di chi si sente una pecora nera, un rifiuto, un rottame. Lindner partiva da lì ed andava oltre l’età giovanile, considerando la “identità negativa” un  atteggiamento globale da parte di esseri ai margini della vita cosiddetta “civile”, il cui unico modo di affermarsi era distruggere. Nella sua prospettiva: «Lo psicopatico è un ribelle, un individuo con zelo quasi religioso, i codici e le norme sociali prevalenti, un ribelle senza una causa, un agitatore senza uno slogan, un rivoluzionario senza un programma. In altre parole, la sua ribellione vuole raggiungere scopi che soddisfano solo lui; è incapace di qualunque impegno che vada a vantaggio di altri. Tutti i suoi sforzi, quale che sia la loro forma, rappresentano investimenti finalizzati a soddisfare le sue voglie e i suoi desideri immediati».

Il libro di Lindner fece scalpore al punto che la Warner Bros ne comprò i diritti nel 1946. Le tesi dello psicoanalista suscitarono discussioni a catena e ispirarono intellettuali ed artisti, che svilupparono e rielaborarono le sue idee, fino a trasformarle del tutto e poi metterle da parte, come avvenne nel film di Ray, che non ha nulla a che vedere col libro se non il titolo. Tra il 1945 e il 1955 furono molti i film e i libri sui loosers: i perdenti, struggenti e disperati, magnificamente interpretati da attori come Humphrey Bogart o Robert Mitchum. A questa categoria appartiene senza dubbio il protagonista del primo film di Ray, La donna del bandito, un giovane con il cuore di un bambino e la mente di un criminale, che vorrebbe riscattarsi e non può farlo, perseguitato dal destino o da sé stesso. I film successivi del regista portarono sulla scena esseri dello stesso genere: fragili, smarriti, innocenti, violenti. Tutti padri spirituali dei ribelli senza una causa rappresentati da James Dean. 

Si avrebbe torto, però, se si privilegiasse, come molti critici fanno, solo questo filone interpretativo: senza dubbio i giovani di Nicolas Ray sono collegati strettamente agli antieroi a cui abbiamo accennato. Ma sono collegati anche ad altri personaggi, che di solito non vengono ricordati. Se è vero che Dean è il figlio legittimo dei gangsters col cuore spezzato di Scarface o la Furia umana,  è anche vero che è il figlio naturale di Tom Joad di Furore del 1939 e di tutti gli emarginati e i dannati della terra, portati sullo schermo dal grande cinema roosveltiano di John Ford. Dietro a questo tipo di film c’erano romanzi di successo, come quelli di Steinbeck e dei suoi contemporanei. Uno di questi, Un albero cresce a Brooklin di Betty Smith del 1943, descriveva la vita difficile e senza speranza di riscatto dei proletari e sottoproletari di New York e in particolare quella di John Nolan,  un uomo di grande talento ed umanità, costretto a trascinarsi in una vita di stenti e di alcolismo. Dal romanzo fu tratto un film nel 1945, il primo film di Elia Kazan, in cui Nicholas Ray fece il suo esordio nel mondo del cinema come aiuto regista. Un film bellissimo, con uno straordinario James Dunn, che vinse l’Oscar per la sua interpretazione di John Nolan. Quest’uomo, così pieno di difetti, questo perdente incapace di vivere, è il vero cuore pulsante della vita di tutti quelli che lo circondano. Il suo epitaffio, pronunciato senza enfasi dal suo datore di lavoro, che doveva sopportare le sue sbornie e le sue continue assenze, è questo: «Ti faceva sempre sentire bene. Ti faceva ridere. Era come una conchiglia che non si finisce mai di ascoltare, come non si finisce mai di dire che cosa canta. Dava sempre questo a tutti. Era un uomo meraviglioso».

Questo uomo unico, che sembra un pessimo padre è invece il vero padre che tutti vorrebbero avere. Come James Dean, che sembra un figlio bisognoso del padre e invece ha la stoffa del vero padre che ogni essere umano potrebbe desiderare. Lo dice con grande candore il suo amico Plato in Gioventù bruciata, prima della drammatica sfida sulle auto in corsa verso il burrone: «Sì, lui è il mio miglior amico…Non parla molto, ma quando lo fa allora capisci che quando dice una cosa parla sul serio. È veramente  sincero. Quest’estate forse mi porterà con sé a cacciare e a pescare. Voglio che mi insegni come farlo perché so che non si arrabbierà se sbaglio.».

Molti ammiratori del regista hanno visto in questo rovesciamento di ruoli una tendenza rivoluzionaria ed hanno enfatizzato la carica eversiva del suo cinema. Altri, al contrario, hanno sottolineato i limiti di quest’esaltazione giovanile che può sfociare nel giovanilismo e hanno invitato a cercare altrove l’aspetto rivoluzionario dei film di Ray. Ha scritto a riguardo Emiliano Morreale: «L’adesione di Ray alla generazione dei giovani del dopoguerra non ha la coscienza che avrà, nella fase successiva, quella di Arthur Penn per i ragazzi del Movement. Anche perché con i suoi giovani Ray non può vedere una vicinanza politica o ideale (tutto sommato, nonostante la sua militanza in gruppi artistici radicali, egli rimarrà sostanzialmente un apolitico), ma solo istintiva, vitale. E, in fondo, proiettiva.». In questo senso: «Gioventù bruciata è la storia di una paternità narcisistica e (dunque) fallimentare. Plato viene quasi tecnicamente ucciso da Jim, che lo disarma a sua insaputa e lo convince ad andare incontro alla polizia.». Ma se questo è vero perché mai il film è divenuto sin dal primo momento l’emblema dell’adolescenza? Il miracolo è avvenuto grazie allo stile del regista che attraverso le sue scelte anticonvenzionali riesce a incarnare visivamente il rifiuto delle convenzioni dei giovani di allora e di sempre. «Lo stile di Ray diventa, con la sua astrazione e il suo uso antirealistico ma vitalista dei segni filmici di un’epoca (il colore e lo schermo panoramico, la recitazione dell’Actors Studio e le cadenze da musical), una specie di resa filmica, visiva, delle inquietudini di una generazione. È per questo che, al di là delle sue incertezze ideologiche, il film ha una natura così dirompente, e diventa davvero simbolo di una generazione e perfino precursore di sensibilità di là da venire. È il mondo interiore di Jim che lo stile del regista riesce a ricreare, in un tesissimo equilibrio di punti di vista che offre una visualizzazione di quella entità nuova che prendeva il nome di ‘giovani’. » (E. Morreale, Ribelli senza causa, in Nicholas Ray, a cura di E. Martini, Milano-Torino 2009, pp. 76-79).

 

 

 

 

 

 

 




“Vento di Soave”, il documentario italiano premiato a Toronto

In collaborazione con Artevitae, Diatomea è lieta di ospitare oggi Luigi Coluccia con il suo articolo Vento di Soave, il documentario italiano premiato a Toronto.

Buona lettura!

ArteVitae è una rivista online che, come Diatomea, ha lo scopo di divulgare e promuovere l’arte in ogni sua forma e contenuto. L’idea della collaborazione nasce dalla volontà di offrire ai nostri lettori un’assortita selezione di argomenti e contenuti, attraverso la pubblicazione di articoli scelti dalla nostra redazione tra quelli già pubblicati o in via di pubblicazione su ArteVitae, con lo scopo di ampliare e variegare la già ricca proposta editoriale del Blog #diatomea, contaminandola attraverso una forte sinergia tra le due redazioni.

“Il consueto appuntamento con l’approfondimento del lavoro fotografico dell’autore del mese, fa oggi spazio ad un ospite d’eccezione, il regista e sociologo salentino Corrado Punzi che con il suo documentario “Vento di Soave”, ha  trionfato a maggio a Toronto”.


La questione ambientale è oggi più che mai nell’agenda dei grandi paesi industrializzati, consapevoli che solo un’azione di rottura con gli schemi del passato possa evitare danni permanenti ed irreversibili all’ecosistema. “Vento di Soave”, documentario del regista e sociologo Corrado Punzi, ha l’ardire di porre l’accento proprio su questa controversa questione.

Si è appena aggiudicato il Gran Premio della Giuria “Best International Feature”, nella prestigiosa sezione “International Spectrum” del festival Hot Docs Canadian International Documentry – il più prestigioso festival di documentari del Nord America – con la seguente motivazione:

“Con la sua epopea e i dettagli personali,
questa sottile esposizione del degrado ambientale conquista gli spettatori con
l’inaspettata potenza di composizioni eleganti e spirito pungente”

Premiazione

Prima di questa affermazione internazionale, era stato già selezionato in concorso al 35° Torino Film Festival, nella sezione Italiana.doc. È stato prodotto dalla Fluid Produzioni di Davide Barletti e dal collettivo cinematografico Muud Film, con il sostegno di Apulia Film Commission. La troupe è interamente pugliese e vede come coautore del regista Corrado Punzi, il giornalista Stefano Martella, che già precedentemente si era occupato di inchieste ambientali sul territorio salentino. La sceneggiatura è stata firmata invece dal regista in collaborazione con Francesco Lefons.

Il territorio che racconta è stato oggetto di una vera e propria colonizzazione industriale. L’autore ci pone con maestria di fronte alla sempre più evidente contraddizione tipica dell’era moderna, quella che intercorre tra la stringente ed inarrestabile necessità del progresso e del consumo ad ogni costo e l’esigenza, sempre più spesso messa da parte, del rispetto del territorio.

Locandina

AVB: Corrado, anzitutto grazie per aver accettato il mio invito a raccontarci di questo tuo lavoro. Oggi il privilegio di approfondire i lavori degli autori che passano da questo spazio è ancora più sentito e gradito, grazie alla tua presenza che per me rappresenta un vero valore aggiunto.
CPSono io a ringraziare voi invece, perché è sempre più difficile che ci sia attenzione per il documentario indipendente, soprattutto in Italia, sia per ragioni economico-politiche che culturali.

AVB: Corrado, come nasce l’idea di realizzare questo documentario, come si determina in te la volontà di perseguire e trattare un tema così complesso utilizzando come linguaggio espressivo quello della cinematografia?
CPSono ormai anni che mi nutro osservando la realtà: sia con lo sguardo sociologico sia con quello documentaristico tento di raccontare le sue zone d’ombra, che spesso coincidono con le zone traumatiche, con le ferite sociali che non si vedono, perché coperte dalle bende doppie dell’in-trattenimento. Non decido a tavolino quale sia la storia migliore da raccontare, perché in genere sono le storie, nella loro urgenza, a venire da me: in Salento, negli ultimi anni, c’è stata una esplosione di casi di tumori, leucemie e malformazioni neonatali, ma nessuno ne parla, perché è molto più comodo e conveniente pensare di essere in uno dei posti migliori d’Italia, promuovere le bellezze del territorio e attirare più turisti, per respirare il vento dello sviluppo. La realtà è che stiamo respirando il vento di un inquinamento industriale che è ormai insostenibile.

AVB: Credi che “Vento di Soave” possa rimanere un progetto di denuncia a sé stante o possa piuttosto avere seguito con altri progetti di sensibilizzazione sul tema, magari prendendo come riferimento altri territori?
CPIn molti mi chiedono perché ho raccontato Brindisi e non altre vicende salentine “più attuali”, come la devastazione che sta avvenendo con la costruzione del gasdotto Tap o come la vicenda della Xilella, l’infezione che ha colpito migliaia di ulivi e che sta comportando l’imposizione europea del loro abbattimento e l’uso massivo di pesticidi. Così mi incoraggiano a guardare e raccontare il presente, come se avesse maggiore valore o dignità, ognuno suggerendomi cosa raccontare.

Io, però, credo che sia molto complesso e scivoloso raccontare il tempo in cui si vive. D’altra parte il cinema è grande quando riesce a essere universale, al di là del tempo storico che decide di raccontare. Non credo poi sia necessario né utile parlare più volte di uno stesso tema: io non sono un giornalista. Un documentarista o un sociologo deve essere in grado di raccontare storie universali, valide nel passato come nel presente, nel sud Italia come nel Nord del mondo.

E se ci riesce, non c’è bisogno di ripetersi. Inoltre, le Centrali Eni e Enel di Brindisi non sono il passato, ma il presente: raccontare come la retorica sviluppista le ha rese e le rende ancora possibili significa anche guardare il presente e, purtroppo, anche il futuro. Ciò che mi interessa è avere sensibilità per ciò accade e capire qual è la forma migliore per raccontarlo.

Vento di soave, il titolo scelto per il Documentario, si rifà all’espressione con cui Dante Alighieri definisce l’imperatore Svevo Federico II, che conquistò l’Italia meridionale e al suo impetuoso incedere alla conquista. Anche la Centrale Enel di Brindisi, prende in prestito il nome proprio dall’Imperatore Svevo.

“Quest’è la luce de la gran Costanza che del secondo vento di Soave
generò ‘l terzo e l’ultima possanza”.

Con queste parole Dante nel Canto III del Paradiso, accomuna il dominio della dinastia Sveva alla potenza impetuosa del vento.

Vento di Soave insomma, proprio in riferimento al titolo scelto, si pone come scopo quello di evidenziare il netto contrasto esistente tra i fasti vissuti dal territorio brindisino all’epoca di Federico II per poi contrapporli a quelli meno fortunati dei nostri giorni in cui il suo declino dal punto di vista socio sanitario e culturale è sotto gli occhi di tutti.

L’incidenza di malattie quali i tumori e le leucemie infatti, in territori in cui insistono realtà industriali così imponenti, è di gran lunga superiore rispetto a quello di altre realtà che invece ne sono prive. Ma questo documentario, ha il pregio non secondario di universalizzare un tema affrontandolo da un punto di vista etnografico, senza cadere mai nella semplificazione che spesso il giornalismo d’inchiesta utilizza come sua matrice.

La forza di questo Documentario risiede nel fatto che riesce a porre l’accento sulla questione ambientale, senza tuttavia esprimere un giudizio in merito. Lo fa con l’onestà intellettuale di dare voce a tutte le parti in causa, spingendo così il fruitore alla riflessione senza suggerirla, riuscendo a stimolare un pensiero che possa essere quanto più spontaneo possibile.

Il disastro viene presentato in maniera molto forte, così come le contraddizioni di un territorio economicamente depresso. I giganti industriali che sono i protagonisti di questa storia sono: il petrolchimico Eni e la centrale a carbone Enel, situata a Cerano.

Petrolchimico Brindisi / Centrale Federico II

Una scena del film

AVB: Ti aspettavi un riconoscimento così prestigioso? Quando hai cominciato a lavorare a questo progetto ne avevi già intuito le potenzialità o le hai maturate strada facendo?
CPNo, devo essere sincero, non mi aspettavo un tale riconoscimento, perché l’Hot docs è davvero uno dei festival più importanti del documentario nel mondo: gareggi con 200 altri documentari provenienti da 54 paesi diversi e sto parlando solo dei film selezionati. Aver ricevuto un premio così importante significa che si è lavorato bene e si è riusciti a raccontare una storia che non parla solo di Brindisi e di alcune specifiche centrali.

Io ho fortemente creduto in questa storia sin dall’inizio, ma quando si pensa e si gira un film, non lo si fa per un eventuale riconoscimento, ma perché si crede nell’urgenza di voler raccontare una determinata storia. Il premio è solo la gratificazione finale, ma non si può sempre vincere, né essere motivati da quello. Il movente è e rimane la passione per le storie, per il racconto del reale, con la convinzione che oggi è il racconto del reale quello che, paradossalmente, può mostrarci meglio gli aspetti surreali della realtà.

AVB: Quali sono state le difficoltà oggettive che hai incontrato nella sua realizzazione?
CP: L’elenco delle difficoltà sarebbe lunghissimo. Quando vinci un premio sono tutti pronti a salire sul carro del vincitore: tutti sono sempre stati lì accanto a te e ci hanno sempre creduto. La realtà è che questi film si fanno da soli, costruendo piccole comunità, piccole troupe di sognatori e di combattenti. Raccontare le grandi industrie e provare a entrare dentro una delle centrali più grandi d’Europa, come noi abbiamo fatto, è un po’ come riproporre la lotta tra Davide e Golia.

Ma quando si riesce a guardare negli occhi Golia, a mostrare il suo volto, la soddisfazione è enorme. Ancor di più quando riesci a instillare il dubbio che Golia è entrato nelle nostre stesse vene, che siamo stati noi a spalancargli le porte di casa nostra: insomma, che non ci sono sempre o vittime o carnefici, ma spesso complici.

All’inizio è stato difficilissimo trovare consensi e soldi. Poi, con la convinzione e la perseveranza siamo riusciti a trovare degli sponsor iniziali e così ad accedere al finanziamento fondamentale dell’Apulia Film Commission. Sarebbe bello poter pensare solo al lavoro artistico, ma la verità è che, quasi sempre, un regista di documentari è costretto a pensare e lavorare a tutti gli aspetti produttivi e il rischio è arrivare scarico nelle fasi più creative del film.

AVB: Quali sono, se ci sono, gli autori cinematografici a cui ti ispiri nel tuo lavoro?
CP: La produzione cinematografica è così ampia e affascinante che per me è davvero riduttivo rispondere a una domanda del genere, anche perché spesso si attinge più dai singoli film che dagli autori. Ma se mi devo forzare nel rispondere, posso cercare di farlo recuperando nella memoria soprattutto i registi che mi hanno scolpito quando ho iniziato ad appassionarmi a questo lavoro: molto cinema italiano, innanzitutto di fiction: Fellini per la sua capacità visionaria, Antonioni per la abilità di creare suspence all’interno dell’inquadratura stessa, poi Petri e il suo capolavoro con Gian Maria Volonté, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto; ma anche il cinema francese e su tutti la dirompenza di Godard.

Poi, nel documentario, De Seta, la teoria del pedinamento zavattiniano, Ivens, Herzog, Oppenheimer, fino a Ulrich Seidl e Gianfranco Rosi e al carattere documentaristico del cinema di finzione di Garrone. Ora mi piace un cinema che superi assolutamente il confine tra cinema e finzione, perché credo che il documentario sia più una metodologia di lavoro piuttosto che una specifica tipologia cinematografica.

Il vento giunge allora a noi soave, restituendoci gli intrecci della storia dei quattro protagonisti in grado di offrirci due spaccati differenti rispetto allo stesso scenario. Due contadini che coltivano le terre proprio in prossimità del petrolchimico, un operaio che si distingue per la sua duplice veste di operatore del petrolchimico e ambientalista e l’addetto stampa pugliese della centrale.

Si trovano quindi contrapposte due diverse volontà: quella di coloro che sviluppano tutta la loro rete di relazioni sociali ed economiche proprio a ridosso di questi giganti industriali, pur nella consapevolezza degli enormi rischi alla salute e quella di coloro che, rivestendo incarichi istituzionali presso le centrali, tendono a minimizzarne l’impatto ambientale, contrapponendo il crescente fabbisogno di energia dettato dall’incessante progredire della società contemporanea.

Vento di Soave – trailer

Il regista e sociologo Corrado Punzi ci propone, facendo leva su un punto d’osservazione privilegiato che si avvale di una posizione molto prossima a queste strutture e di una che addirittura lo vede all’interno delle stesse, l’opportunità di un’attenta riflessione su un tema sempre d’attualità e mai realmente affrontato.

Osserva da vicino, e per la prima volta anche da dentro, i due giganti. Brindisi è un po’ l’archetipo di un modello di sviluppo insostenibile, tipico di diverse realtà del Sud, come dimostrano anche le recenti vicende dell’Ilva di Taranto e quelle proprie del territorio salentino, da cui il regista proviene, che riguardano la costruzione del gasdotto Tap.

Un territorio a vocazione agricola, che fa i conti con un complesso polo industriale e chimico, in cui ci si può imbattere in meloni gialli che diventano neri per il carbone e piante di carciofi che non si fanno più come una volta, per passare al vento che trasporta i fumi della Centrale Elettrica e del Petrolchimico Eni nell’aria della città. Si combatte quotidianamente anche la dura realtà della malattia e tra tac, pagliacci e canzoni di Frozen, si cerca di strappare un sorriso ai bambini ricoverati in ospedale.

AVB: Per concludere Corrado, si percepisce nel tuo lavoro e nelle tue parole molta passione per ciò che fai, cosa ti sentiresti di suggerire a coloro che inesperti vogliano avvicinarsi al documentario? Cosa ti ha insegnato la tua esperienza?
CP: Il mio consiglio è assolutamente assecondare la propria passione e alimentarla, con lo studio della teoria cinematografica e la visione di film e di documentari d’autore, in università, nelle scuole di cinema o anche da autodidatta, ma iniziando con l’affiancare altri registi. E poi lanciarsi nel fare, ma non immediatamente nel mostrare. Sperimentare, ma non aver fretta di farsi conoscere.

Ci vuole tempo per trovare un proprio stile e bisogna passare da numerosi tentativi ed errori, che non sempre è necessario esibire. Non bisogna pensare immediatamente di essere arrivati: non bisogna compiere l’errore né di sopravvalutarsi né di sottodimensionarsi, ma è necessario essere estremamente disciplinati nel lavoro, nella gestione dei collaboratori, nell’affiancarsi da gente che possa migliorarci. Ed essere anche estremamente selettivi con le storie da raccontare: non accontentarsi subito della prima storia che viene in mente.

Economicamente a uno scrittore non costa nulla, o quasi, scrivere un racconto; per un regista, invece, realizzare già un cortometraggio può avere un costo notevole e ora la concorrenza è sempre più ampia. Quindi è necessario riflettere a lungo i pro e i contro di ogni storia: il problema è che all’inizio si riesce a farlo solo a posteriori. Un autore, invece, è tanto più maturo quanto più riesce a capire prima le potenzialità di una storia o i limiti e i pregi che potrà avere quando la si rappresenterà registicamente: la maturità è la capacità di immaginarsi, con piena consapevolezza, le potenzialità prima di una storia e poi di un film.

La mia esperienza, però, mi dice anche – e questo è l’aspetto straordinariamente positivo – che è possibile realizzare un film con pochissimi mezzi e in pochissime persone, così come è stato per Vento di soave. Le scuse sono per i perdenti. Poi si potrà avere più o meno fortuna nei festival, ma oggi, se si vuole raccontare cinematograficamente una storia, si può.

AVB: Corrado, non mi resta allora che salutarti e ringraziarti per questa opportunità che mi hai concesso. Ho apprezzato moltissimo alcuni passaggi di questa intensa chiacchierata, sono certo che i nostri lettori resteranno affascinati dal tuo lavoro, dal tuo pensiero e dalla tua storia. Grazie quindi per la tua disponibilità, e in bocca al lupo per i tuoi progetti futuri.

CP: Grazie a voi per l’opportunità offertami ed un affettuoso saluto ai lettori di ArteVitae.


SCHEDA TECNICA

Genere: documentario anno di produzione: 2017 durata: 75 minuti; Nazionalità: italiana formato: DCP (1:1,77); Colore lingua: italiano, dialetto salentino; Sottotitoli: italiano o inglese.

CREDITI & CAST

Regia: Corrado Punzi soggetto: Stefano Martella e Corrado Punzi sceneggiatura: Francesco Lefons e Corrado Punzi produzione: Fluid produzioni srl; Muud Film montaggio: Cristian Sabatelli direttore della fotografia: Corrado Punzi suono: Gianluigi Gallo scenografia: Luigi Conte mix: Soundwalk Studio produttore: Davide Barletti produttori esecutivi: Stefano Martella e Davide Barletti con il contributo di: Apulia Film Commission (Fondo Regional); Asl Brindisi; Arci Lecce; Comune di Trepuzzi; Unione dei Comuni di Andrano Diso Spongano


Biografia del regista e sociologo Corrado Punzi

Corrado Punzi è nato a Lecce nel 1979. Laureato in Scienze della comunicazione a Bologna con una tesi in cinematografia documentaria, dal 2010 è PhD in Filosofia del diritto presso l’Università del Salento e si occupa di potere e identità, su cui ha scritto le monografie Democrazia come paradosso e Ettore Majorana o del diritto all’alterità. Per Carocci Editore si è occupato delle voci L’inquadratura e Il montaggio all’interno del Dizionario cinematografico.

Ha scritto e diretto diversi cortometraggi e documentari, soprattutto con tematiche sociali: il carcere (I nostri volti, 17 min., 2005), la guerra burundese tra hutu e tutsi (Petit Pays, 52 min., 2008), le lotte delle lavoratrici salentine del tabacco (Di chi sei figlio, 42 min., 2009), la dittatura cilena (Dove, i miei occhi, 32 min., 2007; Fresia, 75 min., 2013), l’inquinamento ambientale a Taranto (I quattro elementi, 29 min., 2014). E’membro del collettivo cinematografico indipendente Muud Film.


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Tutte le immagini ed i video contenuti in questo articolo sono stati reperiti in rete a puro titolo esplicativo e possono essere soggetti a copyright. L’intento di questo blog è solo didattico e informativo.

 

 




SULLA MORTE DI PAUL LAFARGUE E LAURA MARX

articolo già pubblicato su La bottega del Barbieri (www.labottegadelbarbieri.org)

Il festival del cinema di Venezia si è appena concluso e nessun premio è stato attribuito al film di Susanna Nicchiarelli dedicato a Eleanor Marx, morta suicida per amore nel 1898.  È probabile che, al di là dei meriti o dei demeriti della regista, nessuno abbia voglia di occuparsi del comunismo, a meno che non ne denunci i misfatti, come il film Cari compagni di Andrei Konchalovsky. Nell’Italia dei cori fascisti allo stadio e del mausoleo di Affile a Graziani, non si può parlare di Marx se non con un certo imbarazzo, come se fosse un freak, uno spostato, un alieno. Ed ecco allora che parlando del film fioccano i titoli ad effetto come: «Miss Marx una donna succube» (Il secolo); «Una vita vissuta al limite» (F. Gallo, Ansa); «La sua vita fu assurda e tragica» (S. Nicchiarelli, nel sito ufficiale della Mostra del Cinema); «Pre-punk infelice… Di sicuro, non deve essere stato facile per “Tussy” vivere all’ombra di quel cognome ingombrante, finendo un po’ per morirne» (M. Anselmi, Cinemonitor). Simili battute non sono certo una sorpresa; in realtà l’onda lunga di un generale senso di fastidio dell’homo liberisticus verso un sempre più imbalsamato Marx, fonte di sciagure per l’umanità e sciagura egli stesso, che si è guadagnato una nicchia al Museo delle Cere accanto ad altri protagonisti della storia di fine Ottocento, come Jack lo Squartatore e Landru. Un atteggiamento mirabilmente riassunto in un articolo apparso sulla Repubblica del 14/6/2014 e firmato dall’autorevole Siegmund Ginzberg, che dopo aver ricordato il suicidio dell’altra figlia di Marx (Laura) e aver osservato che «i grandi padri spesso sono ingombranti» si conclude con le parole: «Il Capitale di Marx era, a modo suo, un romanzo. La struggente telenovela su Eleanor tocca tasti ancora più universalmente umani».
Eppure nonostante queste conclusioni. destinate a divenire un luogo comune sempre più stancamente ripetuto, Ginzberg non poteva fare a meno di ricordare un’elementare verità che fa a pugni con l’idea del “padre ingombrante” e della “telenovela”. Lasciamogli la parola: «Eleanor… aveva convissuto per quasi vent’anni con Edward Aveling, mantenendo la sua vita dispendiosa e tollerando le sue continue scappatelle. Lui era già sposato, ma non le aveva mai detto che la prima moglie era deceduta da tempo e lui aveva incassato e sperperato l’eredità. Solo il giorno prima del suicidio lui le aveva confermato quello che già tutti gli altri sapevano, che si era risposato un’altra volta ancora, in segreto, con un’attricetta. Lei finalmente lo aveva diseredato in extremis, ma il codicillo era stato fatto sparire. Si disse dallo stesso Aveling, che aveva frugato tra le sue carte in presenza del cadavere. Anzi, corse voce che addirittura fosse stato lui ad assassinarla».
Uno storico serio, anzi qualunque persona seria, dovrebbe verificare simili insinuazioni: se sono vere o quanto meno se ci portano a dubitare delle versioni ufficiali, allora è veramente scorretto e poco intelligente crogiolarsi nel ripetere luoghi comuni e mistificazioni di segno del tutto opposto. Se una persona è stata assassinata o se è stata indotta al suicidio in modo subdolo, non può essere stata turbata dal nome “imponente” di suo padre e neppure vittima di quella che è stata chiamata «la maledizione delle figlie di Marx».
La stessa mancanza di serietà e superficialità hanno dimostrato e dimostrano ancora oggi coloro che si sono occupati del presunto suicidio dell’altra figlia di Marx, Laura, che avrebbe terminato volontariamente la sua esistenza nella notte fra il 25 e il 26 novembre 1911, obbedendo a un mitico e mai documentato “patto suicidario”, stretto con il marito Paul Lafargue. L’argomento ha fatto versare fiumi di inchiostro ed è stato rievocato da grandi personaggi politici (come Jan Jaurés, Karl Kautsky, addirittura Lenin, presenti ai funerali della coppia) e da tanti altri scrittori, e storici.

 

Le petit Parisien”, 28 novembre 1911, prima pagina

La vicenda, riassunta da un grande studioso e uomo politico come Maurice Dommanget è la seguente:

«Paul Lafargue si diede la morte, trascinando con sé Laura, sua compagna, nella notte del 26 novembre 1911… Entrambi, dopo aver passato la giornata del sabato a Parigi, avevano raggiunto la loro abitazione di Draveil. Rientrando, avevano chiacchierato col giardiniere, Ernest Doucet, e con altri membri della sua famiglia. Lafargue parlò allegramente della giornata trascorsa. Laura e lui, che erano stati al cinema, si mostrarono – è stato scritto – “pieni di familiare allegria.” Eppure sapevano che ben presto avrebbero posto fine alla loro esistenza. Una serenità che lascia senza parole. Il mattino dopo, verso le dieci, Doucet si preoccupò non vedendo nessuno alzato anche perché i due coniugi avevano mantenuto abitudini mattiniere. Salì alle loro stanze, bussò e, non ottenendo risposta, aprì la porta. Lafargue era sdraiato sul letto, completamente vestito, senza vita, in camera sua. Nella camera vicina Laura, seduta in poltrona, era morta anche lei. Nessun disordine nei locali: tutto era a posto, come al solito… Su un tavolo, non lontano dai cadaveri, fu trovata una lettera al nipote, il dottor Edgar Longuet, e un foglio contenente le disposizioni testamentarie. C’era anche un certificato per il giardiniere, con la data del 28 settembre, e una lettera allo stesso, datata 18 ottobre, cioè rispettivamente due mesi e circa tre settimane prima del suicidio… II testamento è così redatto:

Sano di corpo e di mente, mi uccido prima che la vecchiaia impietosa, che mi tolse a uno a uno i piaceri e le gioie dell’esistenza e che mi spogliò delle risorse fisiche e intellettuali, non paralizzi la mia energia e non spezzi la mia volontà facendomi divenire un peso per me stesso e per gli altri. Da molto tempo mi sono ripromesso di non superare i settanta anni; ho fissato la stagione dell’anno per il mio distacco dalla vita e ho preparato il sistema per mettere in pratica la mia decisione: una iniezione ipodermica di acido cianidrico. Muoio con la suprema gioia della certezza che, in un prossimo futuro, la causa alla quale mi sono votato da quarantacinque anni trionferà.

Viva il Comunismo.

Viva il Socialismo Internazionale!»1.

Lo choc per l’incredibile notizia sconvolse tutti coloro che erano vicini a Lafargue, fossero amici o avversari politici. Non tutti approvarono il suo gesto e qualcuno, come Jules Guesde, molto vicino politicamente a Lafargue, parlò di “diserzione”: tuttavia la maggioranza dei commentatori furono travolti dall’emozione e molti, a cominciare da Karl Kautsky, espressero ammirazione per l’eroismo e la dignità stoica di questo suicidio, portato a termine «nel pieno del vigore», «prima del declino»2.

Tuttavia qualcuno espresse dubbi e perplessità. Uno fu Alexandre Zevaès, che conobbe bene i Lafargue. Come ha scritto Dommanget: «le sue affermazioni eccessive, esagerate, l’odio per Lafargue che traspare ad ogni frase, fanno dubitare delle sue parole e tuttavia si è costretti ad accogliere alcuni suoi punti di vista… Ricordando Laura, la figlia prediletta di Marx, donna ammirevole sotto tutti gli aspetti, Zevaes scrive: “Nulla di ciò che sappiamo del dramma del 26 novembre 1911 autorizza a credere che si sia suicidata”… Ed effettivamente non resta nessuna traccia scritta di lei, nessuna carta, nessuna annotazione, nessuna disposizione testamentaria. Nelle ultime lettere di Lafargue nulla lascia presagire il funesto progetto e di conseguenza nulla lascia intravedere la partecipazione di Laura. Ed anzi – cosa di estrema importanza e che sinora e sfuggita all’attenzione – nel suo saluto Lafargue parla in prima persona e le spiegazioni che dà si riferiscono a lui solo. Non vi si fa parola di Laura».

Secondo Dommanget anche Lenin nutrì qualche dubbio: «Lenin aveva un grande rispetto per Lafargue pur mantenendo sempre un atteggiamento critico nei confronti dei leaders del socialismo francese. Egli doveva così, prendendo la parola ai funerali dei Lafargue a nome del Partito operaio socialdemocratico di Russia, fare il loro elogio… Si astenne dal condannare il suicidio, sebbene non fosse d’accordo, secondo la testimonianza di Serafina Gopner, allora aderente al gruppo bolscevico di Parigi3… Il discorso di Lenin alle esequie non era improvvisato e questo spiega la traduzione che Ines Armand ne ha potuto fare. In questa traduzione l’uso del termine “morte” invece di “suicidio” lascia perplessi. Se tale traduzione è rigorosamente fedele, la cosa ha la sua importanza: essa postulerebbe in Lenin la persuasione che non ci fosse stato suicidio da parte di Laura»4. Anche altri espressero le stesse perplessità nel corso del tempo. Il poeta Louis Aragon, per esempio scrisse: «Voi trovate questa morte bellissima, straordinaria e bla, bla, bla. Io la trovo semplicemente riprovevole. Perché la figlia di Marx avrebbe dovuto fare una cosa simile?»5.

Si potrebbe pensare che si tratti solo di reazioni stizzose e polemiche: ma in realtà la scomparsa di Laura pone oggettivamente un problema che solo recentemente si è avuto il coraggio di affrontare apertamente in termini storici. Ha scritto a riguardo Jacques Macé: «La questione più grave concerne la morte di Laura… perché la donna non ha lasciato alcun documento che testimoni la sua adesione al progetto dello sposo e questo strano silenzio ha creato intorno alla fine dei Lafargue un disagio che non è mai stato dissipato»6.

Se riusciamo a superare le reazioni polemiche e le emozioni scomposte e ci atteniamo, saldamente, alla storia dobbiamo ammettere che non è questo l’unico problema sul tappeto. Il compito dello storico è oggi enormemente agevolato dal riordino e dalla catalogazione delle fonti d’archivio che riguardano Paul Lafargue e dall’inventario ragionato di Pierre Boichu e Jean-Numa Ducange7 e questo ci permette di porci nuove domande. La prima e fondamentale è questa: nel ricchissimo archivio di Edgar Longuet, nipote ed erede di Paul Lafargue, non figura l’originale della famosa lettera-testamento il cui testo abbiamo riportato in precedenza.

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Edgar Longuet e sua moglie

 

La lettera era diretta proprio a lui ma fra le sue carte l’originale non si trova: eppure fra le stesse carte figura una copia dattiloscritta della stessa lettera che testimonia il fatto che Longuet teneva molto, ovviamente, a questo documento, al punto da farsene una copia8. Il fatto è veramente singolare anche perché la lettera fu riprodotta sui giornali subito dopo il suicidio e in seguito venne commentata e citata da tutti coloro che si occuparono dell’argomento, senza che ne fosse mai pubblicata una solo foto. Possibile che l’originale sia scomparso? E guarda caso non solo l’originale della lettera ma anche di tutte le altre carte ritrovate accanto al letto di morte di Lafargue, come la lettera di benservito al giardiniere, che conteneva anche disposizioni testamentarie e fu riprodotta a sua volta nei giornali; l’abbozzo di telegramma a Edgar Longuet firmato a nome del giardiniere, egualmente riprodotto sui giornali. Non è strano?

Esistono anche altre stranezze. I primi testimoni – nell’inchiesta giudiziaria che stabilì le cause del decesso – dichiararono che la povera Laura Marx era stesa a terra sulla soglia della sua toilette9 e non seduta su una poltrona come poi dichiarò ufficialmente Longuet e ripeterono i giornali. Inoltre, come scrisse il corrispondente del Petit Parisien, Laura era praticamente in mutande, come se fosse stata sorpresa all’improvviso nell’intimità mentre suo marito fu trovato vestito di tutto punto. Questi particolari che sembrano insignificanti, presi uno per uno, acquistano invece un particolare risalto se si mettono insieme e se si ricorda che l’inchiesta giudiziaria stabilì che la donna era morta prima del marito10. Se accettiamo questa conclusione e ripensiamo alle osservazioni che abbiamo esposto, dobbiamo concludere che la donna è morta durante la notte, quando era appena rincasata e stava per spogliarsi per dormire; mentre l’uomo si è ucciso alle 6 della mattina, in base alla testimonianza della cuoca che sentì a quell’ora qualcuno che chiudeva le persiane. Se le cose stanno così allora come si può escludere che sia avvenuto quello che Macé ha chiamato un “omicidio-suicidio”? E come si può escludere che siano fenomeni casuali la falsa notizia diramata dagli eredi di Lafargue che Laura fosse seduta composta su una poltrona, invece che discinta a terra nel bagno e la scomparsa delle lettere originali, che impedisce ogni confronto con altri documenti autografi di Lafargue?  È davvero così strano pensare che si sia voluto tutelare la memoria del grande combattente socialista, che uccide la moglie e poi si suicida, “inventando” un patto suicidario che non è mai esistito, per mascherare la squallida realtà di un omicidio-suicidio come ricorre tanto spesso nelle cronache? Le motivazioni dell’episodio, non mancherebbero, persino “nobili”. Ha scritto a questo riguardo Macé: «Non potrebbe essere possibile che Paul abbia ucciso Laura per proteggerla da se stessa?.. Testimonianze dirette degli abitanti di Draveil (i discendenti dei vicini dei Lafargue e la nipote del giardiniere) sono concordi nel certificare che negli ultimi anni della vita si abbandonava senza ritegno all’alcool, provocando incidenti domestici. Un atteggiamento confermato da un rapporto di un ispettore polizia, che sorvegliava di nascosto la coppia. Disperato per questa situazione Paul non potrebbe aver pensato che Laura sarebbe stata incapace di provvedere a se stessa se egli fosse morto…?»11.

Ipotesi per ipotesi è anche possibile, in via del tutto accademica, formularne anche un’altra. Macé ha fatto notare12 che il giorno della morte dei Lafargue è lo stesso giorno in cui Clemenceau ammise apertamente una colpa gravissima: in una lettera a Le temps, l’ex primo ministro rivelò infatti di avere pagato una spia e un provocatore, Luc Métivier, che aveva avuto un ruolo di primo piano nel giugno del 1908, durante i violenti scioperi di Draveil, la cittadina nella quale abitavano i Lafargue, nei quali erano stati uccisi degli operai.

Lo sciopero di Draveil

Il vecchio Lafargue aveva tuonato come un giovane leone contro la furia selvaggia dei soldati sulle colonne dell’Humanité del 6 giugno di quell’anno e aveva sostenuto che si trattava di un’infame “macchinazione” ordita dal Sottoprefetto. La vicenda ebbe molti strascichi, con una serie di arresti, di lotte, di scioperi che si protrassero a lungo. Alla fine i socialisti scoprirono con prove inoppugnabili che i tumulti, ideati dall’alto, erano stati provocati da infiltrati della polizia, fra i quali c’era Métivier. Lo scandalo andò avanti per anni e alla fine, Clemenceau, ormai decaduto dalla sua carica, ammise la propria responsabilità. Tuttavia quell’ammissione tardiva non fu così innocente come sembra: assumendosi la colpa, Clemenceau copriva evidentemente i suoi complici che avrebbero potuto rivelare troppe cose, coloro che avevano tramato alle spalle di tutti, orchestrando la “macchinazione” di cui aveva parlato Lafargue. L’intervento di Clemenceau doveva essere l’ultima parola sull’argomento: nessuno avrebbe avuto il coraggio e la forza per attaccarlo direttamente, come nessuno ebbe il coraggio e la forza di attaccare direttamente Mussolini quando affermò, in modo provocatorio che se il delitto Matteotti era stato un delitto politico lui ne era il mandante.

Ebbene cosa ci sarebbe di strano se il giorno stesso in cui Clemenceau mise la parola fine su quell’argomento qualcun altro abbia deciso di mettere la parola fine agli interventi di Lafargue sullo stesso tema, visto che poteva aver raccolto informazioni riservate, prove inoppugnabili come avevano fatto i suoi compagni con Métivier. Forse Lafargue sapeva troppe cose…

Non sarebbe stato difficile toglierlo di mezzo: come hanno mostrato molti storici13, Lafargue era sorvegliato dalla mattina alla sera da diversi informatori della polizia, che conoscevano ogni dettaglio della sua vita, inviando relazioni giorno per giorno su tutto quel che faceva. I colleghi di coloro che avevano fabbricato le false lettere che avevano inchiodato Dreyfus non avrebbero avuto difficoltà a fabbricarne altre, che poi sarebbero provvidenzialmente sparite, dopo avere tratto in inganno, sull’onda dell’emozione, parenti ed amici.

Vogliamo allora sostenere che il presunto suicidio di Lafargue sia stato un omicidio politico? Non possiamo dirlo con sicurezza. Credo però sia giusto in casi simili sollevare dubbi che, allo stato attuale delle ricerche, non possono essere ancora risolti ma ci aiutano a riflettere. Quello che abbiamo scritto porta solo nella regione del dubbio e dell’incertezza: e tuttavia quanto è più umano, profondo e dignitoso accettare l’angoscia del dubbio piuttosto che sbandierare le false sicurezze di slogan vuoti che manifestano solo la nostra mediocrità. Come quello che chi nasce da un padre dal nome “ingombrante” non possa che sentirsi indegno di questo nome e finire male.


NOTE

1 M. Dommanget, Présentation de Le Droit à la paresse, Paris, Maspero, 1969, pp. 108-11. Dommanget riassume l’articolo di B. Mayéras, “L’Humanité” 28 novembre 1911, pag 1. Cfr anche L. Derfler, Paul Lafargue and the Flowering of French Socialism, 1882-191, Cambridge Mass., Harvard Un. Press, 2009, pp. 288-301.

2 M. Sembat “L’Humanité,” 29 novembre 1911, p. 1.

3 “Infatti, in un’intervista specificamente dedicata al suicidio dopo le esequie, formulò così la sua opinione: “Un socialista non appartiene a sé stesso, ma al partito. Se può in qualche modo essere ancora utile alla classe operaia, per esempio con lo stendere se non altro un articolo o un proclama, non ha il diritto di suicidarsi”. Lenin aggiunse anche che il caso di Lafargue era ancora più grave se si tiene conto del fatto che i partiti operai sono molto più poveri di scrittori dei partiti borghesi.”(M. Dommanget, Présentation, p. 111).

4 M. Dommanget, Présentation, p. 111.

5 L. Aragon, Les cloches de Bâle [1934], III, 2, Paris, Gallimard, 1972, p. 330.

6 J. Macé, Paul et Laura Lafargue, un couple mythique, Communication au colloque “Paul Lafargue, 1842-1911”, tenu au Conseil général de l’Essonne à Evry le 3 décembre 2011, vedi https://jacqmace.wixsite.com/histoires/lafargue.

7 P Boichu-J. N. Ducange, Une singulière histoire d’archives socialistes du Parti communiste français. Le fonds Paul Lafargue 300 J 1-12, 3 MI 32/1-3 . 1830-1965, Bobigny, Conseil général de la Seine-Saint-Denis, 2013.

8 Ibid., p. 56.

9 J. Macé, Paul et Laura Lafargue: Du droit à la paresse au droit de choisir sa mort, Paris, L’Hrmattan, 2001, p. 9.

10 J. Macé, Paul et Lara Lafargue: une couple [p. 5]: “Selon l’enquête, Paul Lafargue avait fait une injection mortelle d’acide cyanhydrique à son épouse puis s’était lui-même suicidé par le même moyen.”.

11 J. Macé, Paul et Lara Lafargue: une couple [p. 6].

12 Ibid., p [p. 5].

13 Archives de la préfecture de police de Paris, Paris, Dossiers de surveillance de l’activité de Paul Lafargue, cote BA 1135. Cfr . C. Diaz, Jaurès et les indics, Paris, Duverner, 2012.

 

 





Perfect days di Wim Wenders

L’ultimo film di Wim Wenders è molto diverso dalla maggioranza delle opere in circolazione ed ha colpito tutti per il suo carattere insolito. Il titolo Perfect Days allude a una celebre canzone di Lou Reed che evoca la felicità provata in un giorno fuori dal comune, ma racconta in realtà una serie di giornate molto comuni, uguali l’una all’altra: le “giornate perfette” di Hirayama, (Koji Yakuso) un sessantenne giapponese che vive in una casa modesta e pulisce i bagni pubblici di Tokyo con grande cura e attenzione. Queste toilettes, in mezzo a splendidi parchi o ai margini delle strade nel quartiere elegante di Shibuya, sembrano incontaminate: costruite da architetti famosi sono molto raffinate e a volte avveniristiche, come quella tutta trasparente, le cui pareti di vetro però diventano riflettenti nel momento in cui si chiude la porta e tornano trasparenti quando poi la si riapre per uscire. Ogni giorno Hirayama compie gli stessi gesti: in una Tokyo in cui il sole sorge presto e con vigore (non a caso siamo nel Paese del Sol Levante) accompagnato dalla canzone più adatta alla circostanza (The House of the Rising Sun) Hirayama si sveglia, fa una scrupolosa pulizia personale, prende un caffè freddo da un distributore automatico, monta in macchina e si dedica alla pulizia delle toilettes di tutti; pausa pranzo con un panino al parco o un piatto caldo a un fast food; breve turno pomeridiano fino all’arrivo di chi deve subentrare al suo posto; ritorno a casa nel traffico pomeridiano, dopo un bagno purificatore nei bagni pubblici; cura di un piccolo giardino bonsai fatto di talee di piante salvate dalla incuria di tutti; lettura appassionata di romanzi (tra i suoi autori preferiti William Faulkner o Patricia Highsmith, ma anche la “sottovalutata” e struggente Aya Koda). È appassionato di fotografia e scatta spesso istantanee dell’ombra sulle foglie degli alberi. È un uomo di poche parole, che ha certamente amato la moglie scomparsa, ma che ora si è rifatto una vita. Vede pochissime persone: Takashi, il ragazzo che lo sostituisce nel turno pomeridiano sfaticato, sanguisuga e lamentoso, con cui scambia due parole; una ragazza timida al parco o un senzatetto folle e originale con cui non parla mai, ma che rispetta e ama sia pure in silenzio: una donna che gestisce un ristorante tradizionale che lo tratta con affetto. Va al lavoro e torna a casa su un vecchio camioncino, ascoltando Lou Reed, Patti Smith, The Animals, Van Morrison, Otis Redding, Nina Simone: musica di un passato prossimo che sta per divenire sempre più passato remoto. Tutto in lui sembra rimasto ancorato a questo passato: le musicassette che ascolta o la macchina fotografica analogica i cui rullini devono essere sviluppati. Del resto tutta la vita di Hirayama sembra essere destinata alla conservazione e le fotografie che vengono collezionate e archiviate in scatole numerate sembrano il simbolo, l’emblema dei giorni che passano per essere archiviati e custoditi nella memoria. Ma nella memoria di Hirayama ci sono anche delle ombre che non conosciamo: compaiono misteriose come quelle che ci sono sulle foglie degli alberi, quando meno lo aspettiamo. Una nipote, fuggita da casa,va a trovarlo e chiede di essere ospitata: l’incontro fa emergere qualche piccolo segreto sul passato del protagonista. I segreti aumentano a poco a poco: quando la madre della nipote, la sorella di Hirayama, viene a prenderla arriva con una macchina lussuosa, con un autista. La donna non sa quasi nulla di lui; accenna a un padre che non sta bene, molto autoritario, che Hirayama non va a trovare da molto tempo. Non può credere che il fratello faccia davvero il lavoro che fa e ci fa intuire che prima faceva ben altro e che con il padre deve essere successo qualcosa. Quando va via, Hirayama si lascia andare ad un pianto dirotto. In ogni caso egli ha scelto la sua vita umile consapevolmente: è sereno e riesce a realizzare le sue piccole passioni ogni giorno. E a dare a ogni giorno il valore di giorno unico. Come ha scritto efficacemente Roberto Chiesi: «Wenders segue il flusso quotidiano dell’esistenza di Hirayama e rivela che…nessun istante è mai uguale all’altro perché nessun aspetto della realtà è mai banale se lo si guarda con attenzione e partecipazione.» (“Menteinfuga”, 27 gennaio 2024)

C’è comunque un’ultima cosa da considerare. Hirayama è sicuramente affascinato dalla proprietaria del ristorante che lo tratta così bene. Ma non ha il coraggio di dirle niente. Un giorno vede la donna insieme all’ex marito e si allontana subito, sgomento. L’uomo lo segue e lo trova davanti al grande fiume che scorre a Tokyo. Lo rassicura: non vuole tornare insieme alla moglie. È venuto solo per dirle che sta per morire di cancro. Tra i due scatta un sentimento di complicità affettuosa. Come ragazzi si mettono a giocare con le parole e con le loro ombre. E Hirayama dimostra al suo nuovo amico che sta per morire che un’ombra, aggiunta ad un’altra ombra, forma un’ ombra più scura. Come potrebbe essere altrimenti? Se si aggiunge qualcosa a qualcos’altro, ciò che è stato aggiunto deve restare in una qualche forma. Come nella vita di ciascuno. L’ombra di ognuno di noi, sommata all’ombra che esiste, farà aumentare il colore dell’ombra. Di poco. Ma abbastanza perché si possa intravedere se riusciamo a catturarne l’immagine. È questo il senso profondo di ciò che vediamo e di ciò che il film ci fa vedere, racchiuso in una parola giapponese intraducibile che Wenders colloca al centro dello schermo nell’ultima immagine che vediamo dopo i titoli di coda: la parola è “komorebi” e indica l’attimo fuggente in cui a luce appare e scompare tra le foglie, il bagliore istantaneo che filtra dove sembra che ci sia solo il buio. Quello che il poeta insegue per tutta la vita desiderando che finisca solo quando può dire all’attimo “Fermati! Sei così bello!”. Verweile doch! Du bist so schön! Ed ecco che alla fine di questa Tokyo story, così giapponese, fa capolino Goethe. Sì perché Hirayama, si chiama proprio come il protagonista di Il gusto del sakè, l’ultimo film di Ozu, il regista a cui Wenders ha dedicato Tokyo Ga. Ma il richiamo all’attimo fuggente, anche se è suggerito da una parola giapponese, fa pensare all’anelito di eternità del Faust.

Perfect days di Wim Wenders è stato molto apprezzato dai critici e dal pubblico. Ho l’impressione, tuttavia, che non tutto il suo fascino sia stato valorizzato. Mi permetto di conseguenza di sottolineare qualche aspetto che mi ha colpito, nella speranza di fornire spunti di riflessione, senza nessuna pretesa di offrire l’interpretazione definitiva di un’opera complessa e piena di ambivalenze. La prima cosa che mi viene in mente è che Wenders attualmente ha 78 anni, un’età rispettabile in cui non è strano fare uno o più bilanci del proprio passato, in qualunque forma. Wenders lo fa a modo suo, da regista. Ma lo fa, e come. Non possiamo ignorarlo. Nel film ci sono molti rimandi e molte allusioni ad altre opere dell’autore e soprattutto molti rimandi e molte allusioni alle sue illusioni, alle sue ossessioni. Non ha senso, dunque, soffermarci sul carattere ripetitivo dell’esistenza del protagonista come hanno fatto praticamente tutti coloro che hanno recensito il film, alcuni stupiti, altri affascinati o addirittura inorriditi. Dire che il protagonista del film conduce un’esistenza quasi “autistica” (sic!) o comunque “ossessiva”, una “routine” “monotona” e “sempre uguale”, significa non capire nulla e restare fermi all’apparenza. È ovvio che il personaggio principale ripeta sempre gli stessi gesti e faccia sempre le stesse cose: infatti è l’alter ego di un regista che ripete per l’ennesima volta ciò che ha già detto e ridetto in altri film. E lo fa a ragion veduta, perché rimugina sulla sua esistenza artistica e psicologica, ritornando di continuo su temi e problemi che lo hanno avviluppato e forse imprigionato sin dalla giovinezza. Quando si arriva all’età dei bilanci, confrontarsi col proprio passato è necessario, anche se visto dal di fuori può sembrare un esercizio monotono e ripetitivo. Se mettiamo da parte l’affascinante involucro che riveste la facciata del palazzo, l’intonaco istoriato da grandi pittori di edifici rinascimentali come il Palazzo Massimo a Roma, affiorano immediatamente la pietre con cui sono costruite tante costruzioni visive di Wenders.

Innanzi tutto l’identità di cinefilo del regista, che ritorna di continuo, non solo per i riferimenti ad autori fondamentali nella storia del cinema come Ozu (a cui abbiamo accennato) o il Nick Ray di Lampi sull’acqua, che parla della sua morte per tumore come l’ex marito della proprietaria del ristorante, ma per il fatto stesso di avere scelto che il suo film venisse fotografato nel formato a 4:3, “a francobollo”, tipico del cinema classico, che permette di inserire la figura umana in spazi quadrati, valorizzandola più di ogni altra cosa circostante o di inquadrare lo spazio senza perdersi in fughe a destra e a sinistra, facendo risaltare ogni oggetto con la forza di un bassorilievo.

Un altro carattere ricorrente della personalità di Wenders è l’amore e l’ossessione per la fotografia che isola un istante sottraendolo al “corso del tempo”, nel cui flusso vaghiamo perduti come il mendicante che appare e scompare nei parchi e nella strada davanti agli occhi complici e indulgenti di Hirayama. Questo atteggiamento che potremmo definire “passività operosa” ci fa tornare all’inizio dell’esistenza, quando tutto quello che si fa è seguire con gli occhi incantati il mondo, trasformandoci in un puro occhio assorbito dalla visione della vita, seguaci istintivi dell’invito dello Zen ad abbandonarsi al grande mare dell’essere. Da ciò nasce una naturale simpatia per l’atteggiamento di accettazione totale dell’universo da parte del mondo orientale ed in particolare per lo stile di vita giapponese. Come ha detto lo stesso Wenders: «Ho amato Tokyo la prima volta che ci ho camminato e mi sono perso. Era già la fine degli anni Settanta. Era un momento di pura meraviglia. Ho camminato per ore, senza sapere dove fossi in questa immensa città, poi ho preso una linea qualsiasi della metro e ho trovato il mio albergo. Ogni giorno andavo in un altro quartiere. Sono rimasto stupito dalla struttura apparentemente caotica della città, dove trovavi vecchi isolati con vecchie case di legno accanto a grattacieli e incroci trafficati, dove passavi sotto queste autostrade, e svettavano fantascientifici edifici a due o tre piani e dove c’erano i quartieri più tranquilli, quartieri residenziali e labirinti di stradine proprio accanto ad essi. Ero affascinato da tutto il futuro che vedevo prendere forma. Avevo sempre considerato gli Stati Uniti come il luogo dove si poteva incontrare il futuro. Qui in Giappone, ho trovato un’altra versione di futuro, che mi si adattava».

Un altro aspetto caratteristico del regista è il suo amore per la musica che caratterizza situazioni o sentimenti che vengono rappresentati. La canzone del titolo di Lou Reed, è quella che da un senso a quello che accade, ma Hirayama cerca anche altre ispirazioni perché ascolta ogni giorno un diverso brano musicale della sua collezione che anticipa o accompagna i suoi gesti. Questo ruolo centrale della colonna sonora è tipico di Wenders a partire dal primo cortometraggio 3 LP americani (1969), o dai primi lungometraggi come Estate in città (1970) o Alice nelle città (1973) nei quali la musica pop americana, scaturita da un juke box, scandiva road movies che si svolgevano di qua e di là dell’Atlantico, In Perfect Days la stessa musica ritorna con il suono d’epoca delle audiocassette su nastro.

Molti altri elementi ci riportano all’universo del regista tedesco a cominciare dall’amore per Patricia Highsmith che ha ispirato l’Amico americano o da quello per personaggi stravaganti, solitari, poetici, marginali, a disagio nelle grandi metropoli caotiche e nel mondo moderno. Senza avere la pretesa di elencare ogni analogia, ogni simmetria, ogni corrispondenza, ci sembra opportuno sottolineare che questo complesso gioco di rimandi interni, questa polifonia fatta di echi, di rime, di vibrazioni parallele nasce dal fatto che Wenders è un vero autore, che svolge sempre lo stesso discorso attraverso le variazioni sul tema rappresentate dalle sue diverse creazioni, che possono essere opere di finzione o documentari. Il fascino di Perfect days sta proprio in questo: nell’essere la manifestazione di un autore che ci ha parlato varie volte nel corso del tempo con una voce che riconosciamo subito tra tutte e che ci auguriamo di poter ascoltare di nuovo molte altre volte.




LADRI DI BICICLETTE

Appresa con immensa gioia la notizia che al Festival di Cannes Classics 2018 verrà presentata la versione restaurata, per festeggiarne i 70 anni, di Ladri di biciclette, decidiamo di riparlare di questo capolavoro assoluto di Vittorio De Sica che risale al 1948. Il progetto è stato realizzato dal laboratorio L’Immagine Ritrovata, promosso da Fondazione Cineteca di Bologna e Compass Film di Stefano Libassi, in collaborazione con Arthur CohnEuro Immobilfiln, Artedis, con il sostegno di Istituto Luce- Cinecittà.  

In una Roma in fase di ricostruzione post-bellica, ma ancora lacerata da ferite insanabili nel suo tessuto sociale, all’estrema periferia della città, a Valmelaina, un disoccupato, Antonio Ricci, viene convocato dall’Ufficio di Collocamento per attaccare nottole nel centro storico; per farlo ha bisogno di una bicicletta, che ritira dal Monte dei Pegni sacrificando persino le lenzuola del letto. Intraprende la sua avventura con il figlio, che lo segue in città per lavorare anche lui come “ragazzino” presso una pompa di benzina.

Questa prima parte del film, prima del furto, tratteggia le piccole speranze della famigliola Ricci, con i “fondali” degli autobus stracolmi di pendolari che ogni mattina si recano in centro a guadagnarsi la giornata, delle “santone” che distribuiscono parole divinatorie e speranze dense di superstizione a signore col cappellino e a popolane disperate, indistintamente.

Seguendo Ricci, attraversiamo Piazza Vittorio e arriviamo a Porta Portese, mercati dei poveri e templi dell’arte di arrangiarsi. Sulle tracce di un signore anziano entriamo in una chiesa in cui, prima della Messa, vengono distribuiti i buoni per la pasta e patate. Nel corso della funzione il vecchio indica a Ricci la zona dove cercare il ragazzo che lo ha derubato.

Il personaggio del figlio, Bruno, che lo accompagna nella ricerca, facilita la rappresentazione del binomio tra la componente privata e sentimentale della storia, col suo rapporto “da uomo a uomo” nei confronti del padre. Il ceffone dato in un momento di tensione, la cupa disperazione del protagonista che crede il bambino sia  annegato nel Tevere, la sosta per gustare una mozzarella in carrozza, la visita alla “santona” mentre la radio passa notizie sportive, frammentano la “ricerca” per i sentieri degli affetti e allargano il respiro del “pedinamento” fino a disperderlo in una serie di piccole messe in scena, meno “casuali”, più costruite, più “significative” e funzionali al piano narrativo, al progetto-sceneggiatura.

Poi riprende lo sguardo della narrazione. La macchina da presa insegue il ladro, finalmente riavvistato, entrando dapprima in una casa di prostitute, perdendosi, poi, nel labirinto della vecchia Roma, fino ad arrivare nella stessa casa-stanza del ragazzo in cui la madre cucina e dormono quattro persone. Un ambiente di umili destinati a recitare assieme la parte della brava gente e della gente di malavita. Ancora una volta il dramma non trova soluzione. Funziona da momentaneo scioglimento l’arrivo di un carabiniere che è chiaramente un bracciante in divisa e introduce, con sottili sfumature, un ulteriore punto di riferimento sociologico a questa storia.

Dopo il passaggio delle scene che tratteggiano la malavita romana, la messa in scena, specie la fotografia, densifica il grigio della disperazione attraverso la scena della strada che diventa buia, a parte un filo di luce che rischiara il paesaggio. La Roma di De Sica diviene un paesaggio straniero con le sue strade deserte, assolate o in penombra, pressoché irriconoscibili e nemiche. Anche lo stadio, contrapponendo la sua energia per un evento legato a una partita di calcio, diventa quasi straniante.Il numero infinito di biciclette che richiamano il numero infinito di persone che stanno per uscire dalla partita, disperde il dramma di Ricci nella scura ed indistinta scena finale, che ritrae Antonio e Bruno che camminano e svaniscono tra la folla di spalle, soli, eppure senza compagnia.

De Sica credette moltissimo in Ladri di Biciclette, sin dai tempi della sua ideazione.

Zavattini segnalò l’omonimo libro di Luigi Bartolini al regista, ma il film, alla fine, prenderà molto le distanze dal testo. De Sica  faticò molto a trovare i finanziamenti. Nessuno voleva produrlo, ma alla fine trovò il sostegno di Ercole Graziadei, Sergio Bernardi e il conte Cicogna. Quello che più sembrò congeniale a De Sica era avere la possibilità di realizzare la poetica che sentiva più personale: “rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, il meraviglioso nella piccola cronaca”, com’egli stesso dichiarava.

L’accoglienza e le reazioni furono molto differenti in Italia ed in Francia.

A Roma, quando ci fu la prima proiezione del film, la gente, uscendo dal Metropolitan, protestava e pretendeva i soldi indietro. A Parigi, invece, si organizzò addirittura una proiezione nella Sala Pleyel, con tremila personaggi della cultura e dell’arte. Si narra che René Clair, al termine della proiezione, abbia addirittura abbracciato De Sica. C’è da dire che il successo mondiale che ne seguì consentì di azzerare i debiti di Sciuscià.

Il critico francese più prestigioso, André Bazin, vide in Ladri il centro ideale intorno al quale gravitano, sulla loro orbita particolare, le opere degli altri grandi registi” del neorealismo.

Quasi al giudizio opposto è giunto invece Zavattini, dopo tanti anni e tante vicissitudini critiche intorno al neorealismo: “Direi che Ladri di Biciclette, per la mia mentalità attuale, per le mie prospettive, sia un romanzo d’appendice, così come considero un romanzo d’appendice Sciuscià. Io, quindi, non sono legato a quel film se non come tappa, per quello che significano come aspirazione di rottura in quel dato momento”. Neorealismo (Milano, Bompiani, 1979)

André Bazin con il suo stile critico-poetico, per precisare il carattere realistico di Ladri, scriveva appunto che il film di De Sica è “come molti films, girato nella strada con attori non professionisti, ma il suo vero merito è un altro: è di non tradire l’essenza delle cose, di lasciarle prima esistere per se stesse liberamente, di amarle nella loro singolarità particolare. Mia sorella la realtà, dice De Sica, e la realtà fa circolo intorno a lui come gli uccelli intorno al Poverello. Altri la mettono in gabbia e le insegnano a parlare, ma De Sica conversa con essa ed è il vero linguaggio della realtà che noi percepiamo, la parola irrefrenabile che solo l’amore poteva esprimere” (cfr Bazin A. , De Sica metteur en scène, in Qu’est-ce que le cinéma, cit.)

Immagini tratte da http://www.film.it/films/o/ladri-di-biciclette/ 

Le osservazioni appena fatte ci consentono di delineare meglio il quadro del dibattito.

Innanzitutto i termini in gioco: la teoria fa i conti con la sua storia (la ripresa e il superamento del crocianesimo); risponde a degli obblighi sociali (la presenza di un impegno, l’adesione alla sinistra, spesso una vera e propria militanza); riprende alcuni temi di fondo (il neorealismo visto come contributo alla ridefinizione dell’identità culturale di un paese uscito dalla guerra).

Tentando una periodizzazione vi è una prima fase (1945-1948) in cui la produzione filmica non trova un chiaro riscontro nell’elaborazione teorica; segue una seconda fase (1949-1955) in cui alcuni films, considerati essenziali, portano ad interrogarsi sul cinema, sul suo ruolo, sul suo destino; per finire con una terza fase (dal 1955 in poi) in cui la ricerca da un lato mostra segni di saturazione, dall’altro segni di rinnovamento.

Se questo è un quadro generale, c’è da aggiungere che al suo interno alcune voci assumono una valenza particolare, sia per l’esemplarità delle posizioni sia per la complessità delle motivazioni. E la prima voce con cui fare i conti è senza dubbio quella di Cesare Zavattini: sceneggiatore, regista e animatore instancabile, ma anche teorico lucido e consapevole. Zavattini parte dall’idea che la guerra e la lotta di liberazione hanno insegnato a tutti, anche ai cineasti, ad apprezzare la ricchezza del reale ed a scoprire il valore dell’attualità. Di qui l’esigenza di avvicinare lo spettacolo e la vita, fino a farli letteralmente coincidere. Dunque deve essere la vita ad affacciarsi sullo schermo. C’è anche una ragione morale, legata al bisogno da parte degli uomini di conoscersi, per poter solidarizzare, per poter realizzare una comunità di intenti che non escluda nessuno.

Il cinema in questo è un perfetto strumento di conoscenza. Rifiutare l’attore sacerdote e favorire l’uomo vero, con il suo nome e cognome. In una parola, rifiutare ogni via che non sia quella analitico-documentaria.

Dice Zavattini: “Il cinema deve raccontare ciò che sta accadendo, la macchina da presa è fatta per guardare davanti a sé” (Zavattini 1979;83).

Di qui l’idea di un vero e proprio pedinamento del reale : “il tempo è maturo per buttare via i copioni e per pedinare gli uomini con la macchina da presa”.

La lezione del neorealismo, ancora oggi di una modernità sconcertante, è stata proprio questa: la necessità di attribuire al cinema un intento di esplorazione del mondo, ed in questo, possiamo dire senza alcuna esitazione, abbiamo costituito un imprescindibile punto di riferimento.


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Kim Ki-duk

11 dicembre 2020, pochi giorni prima del suo 60esimo compleanno, la tensione vitale di Kim Ki-duk si è spenta.
Kim Ki-duk è uno dei registi asiatici più conosciuti nel panorama cinematografico contemporaneo. Artista di rara complessità, dotato di sensibilità profonda e radicale, è un poeta che respira in modo estremo, sebbene persista in lui un’elegante raffinatezza percettiva.
Il suo è un cinema fondato dalla tensione tra delicate emozioni ed esplosioni di violenza, elementi separati che si attraggono reciprocamente, generando un flusso di energie instabili, ma che inspiegabilmente tendono a una situazione di equilibrio.
Nato nel 1960 a Bonghwa, una piccolo villaggio della Corea del Sud che dista 170 km dalla capitale, a nove anni si trasferisce con la famiglia a Seoul, dove in seguito frequenta un istituto professionale per l’agricoltura. A diciassette anni, per le condizioni di povertà in cui versa la sua famiglia, è costretto a lavorare in una fabbrica, che lascerà a vent’anni per
arruolarsi in marina, dove resta per i successive cinque.

È il periodo in cui si avvicina alla religione con l’intenzione di diventare predicatore, ma nel 1990 abbandona tutto e si trasferisce a Parigi per approfondire la passione per la pittura e riesce a mantenersi vendendo i suoi quadri.
“Arrivai in Europa perché volevo fuggire dalla società coreana, e da casa”, dice oggi. “Mio padre è un veterano della Guerra di Corea. Subì torture psicologiche e fisiche da parte della Corea del Nord. Riuscì a tornare a casa, con quattro pallottole in corpo, solo dopo uno scambio di prigionieri. Ma non fu più la stessa persona: era pervaso da un senso di sconfitta
e da una rabbia inaudita che scaricava quotidianamente su di me. Ero terrorizzato da mio padre, ma crescendo compresi che anche lui era soltanto un’altra vittima della società. I postumi di quella guerra si patiscono ancora oggi in Corea del Sud, nessuno però ne vuole
parlare. Per questo ho deciso di fare film che avessero al centro questi temi: la violenza, l’odio, i traumi, la solitudine, l’incapacità di comunicare. Situazioni che ho vissuto sulla mia pelle, ma che parlano di tutta la mia patria”.

Nel 1993 inizia ad avvicinarsi al cinema, scrive sceneggiature e vince il premio dell’Educational Institute of Screenwriting con la stesura di “A Painter and a Criminal Condemmed to Death”.
Cede del tutto al potente richiamo del cinema, nel 1996 esordisce con il film Crocodile, ambientato in Sud Corea, che già rivela in modo esplicito quali sono e saranno i temi centrali del suo lavoro: violenza, sesso e dolore.
Sono elementi chiave della sua narrazione, li ritroviamo intatti in Wild Animals, girato a Parigi (1997), e in Birdcage Inn (1998).
La componente distruttiva presente nella psiche umana, in contrapposizione alla vitalità sensuale dell’eros genera un brutale processo di tensione e di violenza, che spesso trova soluzione solo nella morte.

“Mi pongo sempre una domanda: cosa è umano? Cosa significa essere umano? Forse la gente considererà di nuovo brutali i miei nuovi film. Ma questa violenza è solo un riflesso di ciò che sono realmente, di ciò che è in ognuno di noi in una certa misura “.
Nel 2000 è presente al Festival di Venezia e al Sundance Film Festival con “L’isola”, che gli apre le porte della fama internazionale. Nello stesso anno Kim Ki-duk celebra la strenua ricerca di innovazione percettiva e di realizzazione con “Real Fiction”, girato 200 minuti con dieci cineprese e due videocamere digitali.
Il rapporto tra i personaggi e lo spazio vitale non consente loro di fuggire dai propri stati d’animo, così ne possiamo conoscere “desideri, ossessioni, paure che lì diventano quasi tangibili”.
L’indagine su questi contrasti di forze devastanti è presente anche ne: “Indirizzo sconosciuto” (2001), “Bad Guy” (2001) e “The Coast Guard” (2002).
“Spesso hanno criticato il fatto che nei miei film non si parla molto. Questo è perché racconto persone ferite, che hanno perso fiducia nell’altro. Così la violenza che è un’altra accusa che fanno ai miei film, non è un semplice gioco estetico. Per me è necessaria, è l’unica forma che esprime la crudeltà della vita, la sua tristezza e disperazione.”
Nel 2003 esce “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera”, un film fortemente simbolico, che sorprende per l’inquietante senso di pace evocato dalla splendida fotografia, davanti alle immagini perfettamente poetiche, sfuma lievemente l’intensità della violenza.
Nel 2004 gli vengono assegnati l’Orso d’Argento alla regia al Festival di Berlino per “La samaritana” (2004), e il Leone d’Argento al Festival di Venezia per “Ferro 3 – La casa vuota”.

È presente nel 2005 al Festival di Cannes con “L’arco”, segue “Time” (2006), “Soffio” (2007).
L’anno successivo vede la luce “Dream”; durante le riprese l’attrice protagonista Lee Na-yeong è stata vittima di un incidente sul set, durante la scena nella quale simula il suicidio per impiccagione.
Kim Ki-duk resta traumatizzato da questo evento, si ritira in solitudine e vive un periodo di profonda depressione. Riuscirà a vincere il grave tormento soltanto tre anni dopo con una lunga confessione-documentario: “Arirang”, dove espone un’intensa riflessione sull’arte e sulla vita, che approfondirà con il successivo “Amen”.
Nel 2012 realizza “Pietà”, per il quale viene insignito del Leone d’Oro al Festival di Venezia, dove negli anni successivi presenta fuori concorso “Moebius” (2013) e “One on One” (2014) con cui apre la selezione delle Giornate degli Autori; seguiranno “Stop” (2015) e “Il prigioniero coreano” (2016), che apre sezione denominata Cinema nel Giardino.
Muore in Lettonia, per le complicazioni dovute al maledetto Covid-19.

 





Sulla mia pelle

Immagine tratta dal film  https://www.youtube.com/watch?v=ep-O2Nl0P0s

Sulla mia pelle ha aperto la sezione Orizzonti della 75esima mostra del Cinema di Venezia 2018, che schierava 8 opere prime su 19, affrontando la drammatica rievocazione della tragica vicenda di Stefano Cucchi.

Diretto da Alessio Cremonini, vede Alessandro Borghi nel ruolo del ragazzo morto durante il fermo, Jasmine Trinca in quello della sorella Ilaria.

In molti hanno scritto di getto dopo la visione di questo film, che, in qualche modo, sembra voler restituire un po’ di Stefano Cucchi alla sua famiglia ma anche a chi ne ha avuto conoscenza dalla tragica foto che tutti hanno visto.

Anche per rispetto alla scelta del regista di non forzare il già tremendo impatto emotivo che, naturalmente, dilaga per tutta la durata della pellicola ed ha dilagato nella lunghissima e non ancora giunta al termine battaglia legale di Ilaria Cucchi per la ricostruzione della vicenda, vorrei poter parlare di questo film in chiave meramente concettuale.

Il film, che riesce a metaforizzare i rapporti di forza, è efficace perché si limita, dopo un accurato studio degli atti giudiziari della cronaca degli ultimi sette giorni di vita di Stefano Cucchi, a dare delle informazioni senza far vedere ciò che si può solo immaginare sia accaduto.

Il film è efficace perché ci interroga non tanto se la legge corrisponda alla Giustizia, slittamento certamente denso di sbavature in questa vicenda, ma perché accende delle domande, più attuali che mai, visti i tempi che corrono e dalle quali si fa fatica ad evincere le risposte.

La prima: come vengono formati quelli che dovrebbero difenderci, affrontare situazioni di stress? Se ci sono delle procedure, queste sono verificabili?

La seconda, quanto è importante la formazione anche culturale degli stessi al fine di garantirne il recepimento?

La terza, quanto in questo paese, indipendentemente dal reato commesso da un cittadino, possiamo contare nello Stato garantista di Diritto? Poiché in uno stato presumibilmente civile l’applicazione della legge deve essere tanto più efficace e certa quanto più l’imputato l’ha infranta.

Il film è efficace perché lascia trasparire le conseguenze che si verificano quando c’è una falla o più falle di sistema.
Quando la fiducia vacilla non c’è più patto o contratto fra il cittadino e lo Stato.

È già accaduto a Genova nel 2001, anche agli occhi di tutto il mondo, con tutte le non-conseguenze del caso.

Vorrei a questo punto ampliare il discorso dei rapporti di forza in un discorso di maggior respiro.

Il festival di Venezia ha quest’anno esibito un cartellone fra i più stimolanti degli ultimi anni.

Nonostante l’apprezzamento generale, però, a fine luglio, alla presentazione della selezione 2018 la temperatura nel mondo del cinema ha raggiunto un picco imprevisto. La causa? La decisione del direttore Alberto Barbera di presentare in concorso ben tre films che difficilmente sarebbero usciti in sala, in quanto prodotti o acquistati dalla piattaforma streaming Netflix.

Una decisione che in una nota congiunta, l’Associazione Nazionale Autori Cinematografici, laFederazione Italiana dei Cinema d’Essai e l’Associazione Cattolica esercenti cinema hanno giudicato controversa ed inopportuna, e che ha suscitato una presa di posizione formale anche delle associazioni di sale cinematografiche Anec e Anem.

Di fatto” avevano  affermato Anec, Fice e Acec , “uno dei due festival cinematografici più prestigiosi al mondo, in assoluta controtendenza con quanto deciso dal direttore del festival di Cannes, potrebbe assegnare il Leone d’Oro o la Coppa Volpi ad opere che non saranno mai visibili sul grande schermo. Le associazioni del cinema indipendente sono convinte che alla base stessa della mostra vi sia ancora l’idea di fruizione in sala delle opere presentate in concorso, non solo in omaggio all’arte cinematografica, che trova la sua migliore riproduzione sul grande schermo ed in un contesto di condivisione collettiva, ma anche nel rispetto della libertà dello spettatore, che per vedere uno o più films premiati, avrebbe, altrimenti, come unica scelta, la sottoscrizione dell’abbonamento alla piattaforma che ne abbia la visione esclusiva. Paradossalmente, la Mostra diverrebbe promotore indiretto e inconsapevole di un unico diffusore. Pur rispettando la decisione presa” concludeva il comunicato, “invitiamo il direttore Barbera ad una riflessione comune con gli esercenti e gli autori, affinché tale decisione sia riconsiderata a partire dal prossimo anno. Riteniamo infatti che un’istituzione nazionale di eccellenza come la Biennale Cinema (anche in considerazione del sostegno pubblico, confermato dalla nuova legge cinema) debba tener conto della intera filiera del settore , ed, in particolare, non trascuri quanto l’esercizio italiano ha svolto e continua a svolgere per promuovere e valorizzare nelle sale proprio quel cinema di qualità che è l’essenza stessa della Mostra di Venezia”.

Commentava anche Domenico Dinoia, presidente FICE:

Non sorprende che in Italia, dove il sistema cinema è meno legato al concetto della centralità della sala, la soluzione adottata sia diversa da quella di Cannes, tuttavia la grande stima e considerazione per i Coen , Cuaron o per il film Cremonini che apre Orizzonti, che sarà distribuito in contemporanea su piattaforma streaming e nelle sale che vorranno programmarlo (caso del tutto inedito) non fuga le perplessità per la scelta discutibile e le preoccupazioni per un competitor che investe tanti soldi per promuovere i propri servizi in abbonamento, e che rischia di arrecare non pochi scossoni alla produzione indipendente di ogni nazionalità”.

Lascio a voi le considerazioni su ciò che è poi effettivamente accaduto.

Concludo dicendo che il cinema è un’arte che prevede od immagina un tempo di ricezione/percezione che non può decidere chi guarda, altrimenti il montaggio ed il concetto stesso della regia verrebbero a mancare. Il cinema è un’arte che racchiude l’idea dello sguardo e di immagini concepite per il grande schermo.
(I greci sull’”aspetto” dei tempi avevano le idee chiare).
Anche se, come forse è normale, ogni giorno v’è qualcuno che decide di cambiare le regole, ricordiamoci che non può farlo senza il nostro consenso.


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L’ombra di Goya

Il 30 marzo 1746 a Fuentetodos, un paesetto dell’Aragona, nacque Francisco Goya y Lucientes. Da allora la storia dell’arte non è stata più la stessa. Non a caso fu bocciato due volte all’esame di ammissione all’Accademia di Belle Arti di Madrid. E non per caso divenne il più grande pittore del suo tempo e uno dei più grandi di sempre. Questa doppia faccia dell’uomo e dell’artista è essenziale per comprendere il senso profondo delle sue opere. Questo pittore che «non era affatto un teorico d’arte» (R. Hughes), che non aveva né illustri natali, né grandi mezzi, al punto da pagarsi a sue spese il viaggio di formazione a Roma nel 1770; insomma questo poveraccio che tutti si divertivano a descrivere come un ingenuo, innocuo, candido, umile artigiano povero in canna, che al massimo aveva  “facilità di mano” ed era solo un miserabile spettatore del mondo superbo che lo circondava, bussò alla porta, umilmente, del più grande pittore dell’Urbe, il geniale Piranesi che rivelava a un pubblico attonito i segreti di una città simile alla città di Dite. E imparò subito, candido candido, a scendere anche lui in questa città dolente dell’anima per descrivere senza reticenza – da puro spettatore qual era – l’inferno dei vivi, distillando ogni goccia della sua abiezione e del suo furore, senza tante teorizzazioni e tante chiacchiere. La cronaca di questa “stagione all’inferno” è disseminata nei suoi quadri satanici e disperati che ci lasciano ancora oggi  letteralmente senza parole.

Ecco, se c’è qualcuno che ha capito fino in fondo il messaggio allucinato e inquietante di questo puro osservatore senza pretese è stato il regista Milos Forman nel suo capolavoro «Goya’s ghost» (2006) che significa Lo spettro di Goya, un fantasma che si aggira per tutta Europa; ma in italiano il film è stato stupidamente tradotto L’ultimo inquisitore. In questo modo l’attenzione del pubblico viene dirottata sull’Inquisizione e sul personaggio interpretato benissimo da Xavier Bardem, che apparentemente ha un ruolo fondamentale, ma in realtà è solo una specie di burattino in una storia piena di orrore, di cui l’impassibile Goya è l’umile e fedele cronista. Non ci voleva altro a scatenare i filistei di casa nostra, che si sono schierati immediatamente contro il film, nonostante la sua qualità e i suoi successi internazionali, accusandolo di rappresentare in modo caricaturale e anticattolico l’Inquisizione, che non esisteva quasi più in Spagna. Beh, ci vuole una bella faccia tosta a dire che l’Inquisizione non esisteva più, visto che il Tribunale del Santo Uffizio fu abolito in Spagna sei anni dopo la morte di Goya nel 1834 (alla faccia dei decreti di abolizione emanati da Napoleone nel 1808) e visto che l’ultimo processo di cui è rimasta notizia risale al 1818.

È veramente degradante dover parlare di queste cose. E ancor più degradante che di fronte a un’opera d’arte che cattura il sospiro dell’anima di un artista, come l’ombra sul muro, siamo costretti a parlare di cose morte e sepolte, che dovrebbero solo fare orrore e invece sembra quasi che vengano rimpiante. La migliore risposta che possiamo dare a queste farneticazioni è raccontare un altro film dello stesso regista. Anche questo parla di un’epoca storica. E di uomini che  sono costretti a subirla. Vediamo un po’ se pure stavolta spunta fuori qualcuno che ha la coda di paglia e pensa che dobbiamo schierarci, gridare allo scandalo, rimpiangere il passato e via farneticando. A dire la verità sono sicuro del fatto mio.

Il film parla del Ragtime. Non credo proprio che ci sia qualche partito dei nostalgici del Ragtime che si sentirà offeso. Così posso parlare liberamente di questo regista e del suo rapporto con la storia, al contempo liberando Goya dal penoso marchio di infamia che gli è stato dato. Il film si chiama proprio Ragtime (1981) e di musica parla. Cioè no: parla di tutte altre cose. Divaga. Come sto facendo io in questo momento. Però, però… divagando-divagando, come una farfalla che gira intorno a un fiore alla fine, è possibile – senza darlo a vedere – posarsi al centro della corolla per confondere i suoi colori con quelli dei petali. 

Siamo negli Usa, alla vigilia della prima guerra mondiale. In una serie di “quadri” d’epoca, vediamo le vie popolose di New York, i locali fumosi ed elettrizzanti dei negri, i teatri-cabaret eleganti dei bianchi, le case per bene della gente laboriosa, le case sgangherate dei poveri emigranti. Tre storie si intrecciano: quella di una famiglia dignitosa, piena di buon senso e di pregiudizi, tollerante e paternalista, che accoglie in casa una ragazza-madre di colore; quella di Colhause, pianista negro dal tocco di velluto, padre del bambino illegittimo, prima povero, poi improvvisamente ricco, che desidera sistemare la  sua situazione irregolare e vivere, felice e contento con la sua donna; quella di un ebreo russo, che disegna deliziosi “quaderni animati”, in cui le figure si muovono sfogliando le pagine come in una lanterna magica, che è costretto ad andare via di casa con la figlia, perché la moglie lo tradisce. Le tre vicende si complicano: il negro, insultato dai bianchi, perde il lume dell’intelletto e organizza bande di terroristi incappucciati, dopo che la moglie muore per colpa loro. La famiglia  per bene è sconvolta dagli avvenimenti e si divide senza conciliazione. L’ebreo russo diventa regista di cinema e fa i milioni con la nuova arte, spendendo e spandendo con voluttà.

Alla fine la situazione precipita: il negro si chiude alla Pierpont & Morgan Library, con una bomba e minaccia di far saltare tutto; il padre di famiglia, l’unico sopravvissuto del focolare, va a trovarlo per dissuaderlo, ma non cava un ragno dal buco; un commissario perfido (James Cagney redivivo) organizza una trappola e appena gli riesce fa secco il negro, uccidendo anche le speranze paternalistiche di redenzione dei bianchi buoni.

E l’ebreo? È sparito, ma sappiamo che continuerà a fare spettacoli fantasiosi. Il tutto a tempo di ragtime, la musica dolce e inebriante dì Scott Joplin, sorella maggiore del Jazz, che ci ubriaca senza che ce ne accorgiamo, come una sbronza a base di bicchieri di gin.

Commedia, tragedia, dramma e melodramma, amore e morte… C’è di tutto! Per questo qualche critico bestia ha storto il naso, dicendo che è un «Via col vento» rifatto male. Via col vento? Via col vinto, piuttosto! Via il negro bonaccione e fessacchiotto, tipo Capanna dello zio Tom. Via col vanto! Via l’orgoglio americano del progresso e della democrazia. L’invito di Forman (da molti anni stralunato in un’America ottusa, rispetto alla sua fine Boemia) è sempre lo stesso di «Taking off» (Spogliarsi, 1971):  liberiamoci delle catene dell’ipocrisia e facciamo baldoria come i figli dei fiori se non ci ammazzano prima.

Il film che pare fastoso è solo festoso: ha la grazia surreale, ilare e amara, dei quadri di Chagall, che anche se illustra le vetrate di un grattacielo sembra sempre che dipinga il riflesso del mondo a rovescio in una bolla di sapone.

Il mondo di Milos Forman – questa pseudo società puritana ed arcigna, divisa in classi che si odiano – non è che un effimero palcoscenico dove si recita la favola della storia. E chi la recita sembra una marionetta ?, piuttosto, una delle figurette disegnate dall’ebreo russo sui suoi “quaderni animati” che si muovono col principio del cinema ripetendo insistentemente, ossessivamente, sempre  la stessa immagine con minime variazioni, che danno l’impressione del movimento, non perché le persone si muovano davvero, ma perché qualcosa, impercettibilmente, si muove  nel cervello  senza che ce ne accorgiamo. Il senso della storia è questo, lo stesso del cinema:  esiste solo l’illusione. Qualcosa che gli artisti conoscono così bene e che ci salva dall’inferno del presente.





LA FORMA DELL’ACQUA – The Shape of Water

Foto presa da: http://www.rollingstone.it/cinema-tv/news-cinema-tv/la-forma-dellacqua-amore-e-sesso-in-fondo-al-mare/2018-02-16/

LA FORMA DELL’ACQUA – The Shape of Water è un film del 2017, diretto da Guillermo del Toro, che ha vinto il Leone d’oro come miglior film alla 74ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e si è aggiudicato quattro Premi Oscar, per il miglior film, il miglior regista, la migliore scenografia e la migliore colonna sonora.

Se Marina Warner dedicò un saggio alle variazioni sulla Bella che incontra la Bestia, se la scrittrice Angela Carter rivoltò la storia di Barbablù in “La camera di sangue”, qui, nella sua fiaba dark, Guillermo Del Toro, tra mitologia, leggenda, horror e soprattutto fantascienza, recuperando l’estetica cinematografica degli anni Cinquanta (con le Cadillac che sfrecciano per le strade, la fotografia e le musiche d’epoca, i cartelloni pubblicitari in stile Norman Rockwell e la sala Orpheum, dislocata sotto l’appartamento della protagonista, dove si proiettano, a volontà, goduriosi peplum e horror), le sembianze de il Mostro della Laguna Nera di Jack Arnold, le citazioni di Jean Cocteau ne La Bella e la Bestia e le infinite declinazioni di King Kong.

Come ha detto del Toro, la trama è «assurda e assurdamente semplice»

TRAMA: [In una “improbabile” Baltimora del 1962, avvolta nelle foschie della Guerra Fredda, percossa dalla crisi di Cuba, immersa nello strano sogno kennedyano che s’infrangerà nel sangue l’anno successivo, Elisa Esposito (Sally Hawkins), una donna affetta da mutismo, lavora come addetta alle pulizie in un laboratorio governativo dove vengono effettuati degli esperimenti atti a contrastare la Russia. I suoi due unici amici sono la collega afroamericana Zelda (Octavia Spencer) e l’inquilino gay Giles (Richard Jenkins) coi quali condivide una vita di solitudine ed emarginazione.

Un giorno, per sbaglio, Elisa e Zelda scoprono l’esistenza nel laboratorio di una creatura anfibia dall’aspetto umanoide catturata dagli americani in Amazzonia, dove gli indigeni locali la veneravano come un dio. Elisa, affascinata, comincia ad andare a trovarla di nascosto portandole del cibo e insegnandole a comunicare tramite la lingua dei segni.

Il violento colonnello Strickland (Michael Shannon), nel frattempo, conduce sanguinosi esperimenti sull’uomo anfibio, e riceve dal suo superiore, il generale Hoyt, l’ordine di vivisezionarlo nella speranza che, studiando la sua anatomia, si possano ottenere preziose informazioni per la corsa allo spazio. Allo stesso tempo lo scienziato Hoffstetler (Michael Stuhlbarg), che in realtà è una spia russa, riceve dai suoi capi l’ordine di distruggere la creatura per osteggiare gli americani; l’uomo, tuttavia, è rimasto a sua volta affascinato dalla creatura e chiede a entrambe le parti di lasciarla in vita per proseguire gli studi, ricevendo, però, rifiuti da ambo i lati. Elisa, scoprendo il terribile destino cui è destinata la creatura, decide di salvarla; dopo aver vinto le reticenze di Giles, la ragazza organizza un piano per liberare l’uomo anfibio. Con l’aiuto di Zelda e Hoffstetler la fuga riesce ed Elisa accoglie la creatura in casa sua.

Grazie ai consigli dello scienziato, Elisa riesce a tenere in vita l’essere ospitandolo nella sua vasca da bagno; il rapporto tra i due si intensifica e iniziano a vivere una storia d’amore. Giles invece scopre che l’essere ha il potere di guarire le ferite e di invertire il processo di invecchiamento. I due pianificano di liberarlo giorni dopo, quando le piogge allagheranno un canale che potrà condurlo al mare, nonostante Elisa si scopra progressivamente innamorata dell’essere. Al laboratorio, Strickland paga le conseguenze della fuga dell’uomo anfibio. Il colonnello interroga Elisa e Zelda, ma il suo pregiudizio circa le persone di grado inferiore non gli consente di scoprire la verità. Successivamente Hoyt gli concede un ultimatum per ritrovare la creatura, scaduto il quale egli sarà eliminato.

Intanto la salute della creatura va peggiorando, ed Elisa inizia a comprendere che se vorrà salvare la vita del suo amato, di lì a poco dovrà dirgli addio. Hoffstetler, intanto, riceve la notizia che presto sarà prelevato e riportato in Russia. Strickland, che sospetta di lui per la sparizione della creatura, lo segue fino al punto d’incontro, ma qui lo scienziato viene colpito a morte dai russi, i quali non vogliono lasciare testimoni diretti dell’esistenza della creatura. Prima che possano finirlo, Strickland uccide i killers e tortura Hoffstetler per farsi rivelare dove sia l’uomo anfibio. In punto di morte lo scienziato gli rivela l’implicazione di Elisa e Zelda. Strickland si reca a casa di quest’ultima, dove il marito, terrorizzato, rivela al colonnello che la creatura si trova a casa di Elisa.

Elisa e Giles, avvisate da Zelda, si recano al canale per liberare l’uomo anfibio, al quale la ragazza dà un sofferto addio. Giunge però Strickland che mette fuori combattimento Giles e spara a Elisa e alla creatura. L’uomo anfibio però guarisce se stesso e poi ferisce a morte Strickland, il quale è costretto ad ammettere che lui non sia una creatura inferiore ma una divinità. All’arrivo della polizia, condotta lì da Zelda, l’uomo anfibio prende con sé Elisa e si tuffa in acqua, dove trasforma le cicatrici sul collo di Elisa in un paio di branchie, che permetteranno loro di vivere per sempre insieme].

Del Toro ha raccontato più volte che questo è il suo film migliore e più personale, e che dopo essersi ispirato per anni ai suoi incubi di ragazzo, ha scelto di ispirarsi ai suoi sogni. Ha raccontato di aver dedicato anni alla preparazione del film, e di averlo presentato solo quando aveva già ben chiaro quasi ogni dettaglio.

Per fare un film americano di fantascienza con così pochi soldi, del Toro ha scelto di risparmiare ove possibile sugli effetti speciali, e usare i soldi per altre cose.

Ad esempio, all’inizio entriamo in una casa immersa nell’acqua, sospesa, in cui tutto fluttua e una voce fuoricampo narra il prologo. Questa scena è stata realizzata con una vecchia tecnica nota come dry-for-wet, asciutto-per-bagnato:sembra che tutto sia sott’acqua ma non vi sono né acqua né costosi effetti speciali. Vi sono solo dei cavi che tengono appese le cose e particolari luci e ventole che, combinate con una ripresa rallentata, fanno credere che ci sia l’acqua.

Del Toro è stato parsimonioso anche sugli effetti speciali della strana creatura anfibia. Ha spiegato che voleva fosse il più vero possibile, soprattutto perché protagonista di una storia d’amore: non sarebbe dovuto apparire come di un essere di cui aver paura, ma sembrare una creatura verso cui provare empatia. Per farlo era necessario che gli altri attori potessero recitare davvero con lui (e non parlando davanti al vuoto). L’artista britannico Mike Hill ha detto all’Economist di aver lavorato per tre anni alla creatura e di essere partito dalla forma delle labbra perché «è lì che guardi se stai per baciare qualcuno». Hill ha spiegato che la difficoltà era stata “disegnare linee e forme che all’inizio facessero paura, ma che potessero col tempo diventare sensuali e attrattive”.

Dell’attenzione al dettaglio di del Toro ha raccontato anche Paul D. Austerberry, scenografo del film. Ha detto che, prima dell’inizio delle riprese, del Toro andò da lui con 3.500 esempi di colori, simili a quelli che si guardano quando si deve scegliere di che colore fare la parete del salotto. Austerberry ha detto che li guardarono tutti «uno per uno» e che ogni tanto del Toro diceva: «Questo è il colore di Elisa, questo è il colore di Giles, questo è il colore di Strickland». Alla fine scelsero cento colori e qualche mese fa del Toro ha spiegato su Twitter l’ABC di quelle scelte.

Tecnicamente Del Toro dopo aver risparmiato su altro, ha invece fatto la scelta abbastanza onerosa di utilizzare delle Steadicam (che permettono ai cameraman di camminare o correre dietro agli attori), Dolly (cineprese su carrelli) e Technocrane (cineprese montate su alte gru). Queste scelte dispendiose hanno rallentato la produzione, ma per del Toro erano necessarie perché il film avesse maggiore senso del ritmo.

La forma dell’acqua è in un certo senso un metafilm. Parla della storia d’amore dei due protagonisti ma anche della storia d’amore che il regista ha nei confronti del cinema, che, per gli appassionati, è zeppo di citazioni. La più evidente e insistita è con Il mostro della laguna nera, un horror di fantascienza del 1954;i temi di base sono quelli di La Bella e la Bestia. La scena di danza – guardando il film capirete quale – arriva da Seguendo la flotta, film del 1936 con Fred Astaire e Ginger Rogers. Il cinema sotto casa della protagonista proietta La storia di Ruth, film biblico del 1960. Il regista messicano non disdegna elementi che rinviano all’Europa: strizza l’occhio al favoloso mondo di Amélie Poulain (tutta la scena della preparazione di Elisa prima di andare a lavorare) e quando fa sognare la sua protagonista sulle note de La Javanaise. Elisa vive sopra un cinema chiamato Orpheum che proietta La storia di Ruth e Mardi Gras, in tv si possono ammirare i grandi varietà musicali con Bojangles, Betty Grable, Carmen Miranda e Alice Faye.

In uno dei passaggi più belli di “The Shape of Water”(anche lì non ci sono grandi effetti speciali ma, semplicemente, tanta acqua:nell’ultimo giorno di riprese hanno infatti immerso quella camera in una vasca, e girato le scene sott’acqua!) vediamo la protagonista nuda e trepidante di fronte alla creatura marina di cui si è innamorata.

Con la sfarzosa musica di Alexandre Desplat, dopo aver consumato una prima notte d’amore e nell’accingersi a rinnovare i riti del nuovo accoppiamento, Elisa, a sorpresa, chiude la porta del bagno e apre i rubinetti della vasca e del lavandino, permettendo all’acqua che ne esce di trasformare la stanza in una sorta di gigantesco acquario dove, finalmente, potrà gettarsi nelle braccia dell’altro.

La sequenza, che lascia letteralmente con la bocca aperta e scatena meraviglia di fronte a questo visionario talento ci permette di capire quale sia il modo in cui il regista delinea il suo modo di fare cinema. Prima che l’acqua diventi la vera protagonista di questa scena Del Toro immerge letteralmente i protagonisti nel mondo che egli stesso ha creato e l’effetto che si produce nello spettatore è speculare: prende per mano il suo pubblico e lo accompagna all’interno dello schermo, catapultandolo in un golfo mistico di abbandono e assoluta meraviglia.


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3 maggio 1967. Michelangelo Antonioni presenta al Festival di Cannes il film Blow up.

Ritratto pop della Swinging London di metà anni Sessanta e contemporaneamente un inquieto  filosofico interrogativo sull’esistenza e la percezione del reale. Ammaliante e avvincente trama e straniante successioni di racconti, contenuti l’uno nell’altro. A osservarli si allargano e comprendono sempre più invisibili tracce, tracciabili indizi di altre storie, apparenze, simulazioni e spettacolarizzazioni del reale, sino a perdersi senza arrendersi.

“Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà,
e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima.
Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa che nessuno vedrà mai.
O forse sino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà.
Il cinema astratto avrebbe dunque una sua ragione di essere”.

Michelangelo Antonioni

Siamo a Londra giusto a metà del decennio più creativo della città a cui guardano tutti, coi giovani attratti dai venti di cambiamento e dalla nuova musica, dalla moda innovativa e creativa, e da nuovi comportamenti più liberi e aperti. Ed è anche la Londra che su questa attrazione muove soldi e affari, che concepisce la novità come investimento economico e sfruttamento commerciale.

Thomas, interpretato da David Hemmings, è un fotografo di moda che sta dentro questa contraddizione. Annoiato dalla ripetitività del lavoro e dalla città «Non ne posso più di Londra, questa settimana», dice a un certo punto, perché «Non fa niente per me». Vorrebbe essere più ricco per non dover accettare di lavorare alle pur ricche condizioni che gli vengono proposte per campagne pubblicitarie e riviste di moda. Vorrebbe fotografare la realtà, la cosa viva e pulsante e non più manichini in posa per vendere vestiti. Per questo nella prima scena lo vediamo di primo mattino uscire da un ospizio notturno per sbandati e senza casa. Si è confuso tra loro per realizzare una parte di quel servizio fotografico che pensa basti a ridisegnare la vera, la reale Londra: vuole che diventi il soggetto di un libro su cui sta lavorando. Per questo pensa sia sufficiente travestirsi da barbone e quando porta le foto a Ron, curatore del libro gli racconta del suo senso di disgusto per la città e il suo desiderio di essere libero, come le persone ritratte all’ospizio. Ma non crede molto a quello che dice.
Adesso ha un nuovo fulminante interesse. La mattina, dopo aver buttato via gli abiti del suo travestimento, fatto un servizio fotografico con Veruschka, la modella più ricercata del momento, con inquadrature eroticamente fashion, che invitano al voyerismo mentale, poi, liquidate altre con ordini imperiosi e scatti veloci, ha trovato la foto perfetta che riassume la giornata luminosa e lo spirito del tempo in una forma  semplice quanto iconica. Una coppia al parco, lei che trascina lui prendendogli le mani attraverso il prato per avvicinarsi al bosco. La donna è giovane, l’uomo no. Lei accorta di essere nel mirino del fotografo aveva preteso la consegna del rullino e più tardi, attraverso chissà quali misteriose vie si era presentata a casa sua per avere gli scatti, cercando di rubare la macchina fotografica e ottenendo solo un falso vero, cioè un rullino con altre inquadrature. Perché la ragazza è così ansiosa di ottenere le foto?

La mia vita privata è già un pasticcio. Sarebbe un disastro se…”, dice la ragazza provocando il non richiesto spiccio consiglio del fotografo. E allora? Un disastro è quello che ci vuole per vedere chiaro nelle cose. Vedere chiaro nelle cose diventa la nuova ossessione. Un’intuizione, stampare e ingrandire la sequenza delle foto, dopo che il primo ingrandimento aveva rivelato un’espressione preoccupata nel volto della ragazza. Ingrandimento dopo ingrandimento, un’ombra dietro un cespuglio diventa una persona nascosta e armata.

Il termine blow up indica la tecnica fotografica di isolamento di una porzione di immagine che si ottiene attraverso successivi ingrandimenti fino al punto in cui l’aumento della grana della pellicola rende impossibile distinguere le forme dell’oggetto fotografato.

L’immagine nella foto alla fine è troppo sgranata e lo è ancora di più nella mente di Thomas mentre le osserva dopo averle appese. Tutto era sembrato chiaro, una trama oscura in un giorno di luce accecante. Ci vogliono conferme. La ragazza sembra aver condotto intenzionalmente lontano l’uomo perché non veda, qualcosa che prima stava inquadrato nel mirino dell’arma impugnata dall’uomo nel cespuglio.

Io non so come è la realtà – dice Michelangelo Antonioni – Ci sfugge, mente di continuo… Io diffido sempre di ciò che vedo, di ciò che un’immagine ci mostra, perché immagino ciò che c’è al di là, e ciò che c’è dietro un’immagine non si sa. Il fotografo di Blow-Up non è un filosofo, vuole andare a vedere più da vicino. Ma gli succede che, ingrandendolo, l’oggetto stesso si scompone e sparisce. Quindi c’è un momento in cui si afferra la realtà, ma nel momento dopo sfugge”.

Perché l’intuizione di Thomas è giusta. Ritornato al parco trova il cadavere di un uomo. Il numero di telefono che lei gli ha lasciato è falso. Deve mostrare a Ron o a un altro collaboratore quello che ha scoperto. Quello che crede di aver scoperto. Ma tornato a casa non ci son più né il rullino, né le foto. Tutte sparite, tranne una, scivolata dietro un mobile. Unica traccia, ma per niente chiara. Può essere qualunque cosa in qualunque posto. Bisogna che almeno il suo socio e amico Bill veda il cadavere. Perché tutto diventi reale. 

Continuiamo a seguire Thomas nei percorsi mentali che si traducono in movimenti in macchina, la sua Rolls decapottabile, per raggiungere a una festa l’amico. Lo vediamo mentre attraversa una animata città notturna, dove volto tra la folla appare di nuovo la ragazza misteriosa. O solo un’ombra che lo guida in un vicolo dove una musica frenetica lo attrae verso un locale. E qui tutto inizia a sfocarsi in una nebbia mentale, che consegna un messaggio al protagonista e che, visione dopo visione, in un blow up stravolge lo spettatore più curioso.

La scena dura pochi minuti. Per questo riprendiamo ad avvolgere la pellicola all’indietro a partire da questo punto in cui Thomas entra cercando la ragazza.

Il locale è molto scuro, alle pareti dipinti grandi volti bianchi di cantanti. Sul palco una musica che la sceneggiatura definisce “assordante”. Il pubblico è immobile, neanche movimenti con la testa, con le gambe, nessuno che segue il ritmo e partecipa tranne due in fondo alla sala. La band che si esibisce è sicuramente tra le più popolari a Londra e in tutto il Regno Unito. Sono gli Yardbirds, la formazione di casa al Crawdaddy, succeduti ai Rolling Stones e come loro provenienti da un duraturo amore per il blues. Piena di musicisti talentuosi e carismatici, nel 1966, dopo l’allontanamento di Eric Clapton sfoggiano un tris di chitarristi eccezionale: Jeff Beck, Chris Dreja e Jimmy Page. La band suona un classico del blues, ma che non è quello che è e non è neanche quello per cui viene presentato. Il titolo è Stroll on e non è un blues. Sarebbe una cover di un brano rock ‘n’ roll classico del 1957 del Johnny Burnette r’n’r trio, grande successo di allora che però si intitolava Train Kept A-Rollin’, un brano di Tiny Bradshaw, che con la sua orchestra swing e poi Rhithm and Blues aveva avuto una serie di successi anche tra il pubblico bianco. Il brano segue il ritmo dell’oscillazione del treno e delle opzioni, inseguire la donna allontanatasi o lasciar perdere. Il tema nella versione bianca e rockabilly di Jonny Burnette aveva aggiunto un elemento nuovo nella musica: l’uso della distorsione della chitarra fuzz. E questo elemento ha sicuramente attratto gli Yardbirds nella loro riproposizione garage rock.

Ingrandiamo i particolari uno dopo l’altro, ingrandimento dopo ingrandimento per capire qual è il limite dove tutto si perde. Il testo originario di Train Kept A-Rollin’, di Tiny Bradshaw ha i classici temi del blues. Lui incontra lei, un treno li porta chissà dove, sballottandoli piacevolmente, lei è una hipster, irriducibile alle costrizioni, in perenne movimento, misteriosa. Per questo se ne va e lo lascia a dannarsi e a struggersi tra un “meglio che vada” e “non potevo lasciarla andare”, mentre il treno ovviamente non si ferma e continua a viaggiare tutta la notte. Anche Johnny Burnette ne aveva tenuto il testo accelerandone il ritmo. Gli Yardbirds avevano il brano in repertorio e presente nell’album del 1965 ma ora si trasforma in altro. La nota del film dice che questo è avvenuto per un mancato accordo sui copyright. Quindi il brano rimane lo stesso, si cambia il titolo e il testo appare un po’ più banale (tipo ora soffro io, perché mi hai lasciato, ma prima o poi sarà il tuo turno). Ma c’è un particolare che illumina il brano, che ricordiamo, nell’economia del film è un frammento che si nasconde dentro il cameo dell’esibizione live degli Yardbirds.

You made me cry, by tellin’ me, you didn’t see. The future bore, our love no more. Thomas attraverso quegli scatti non era riuscito a vedere la realtà nella sua essenza, ma si era innamorato di quella storia, di quell’ombra, come possibile fuga dalla noia. Per questo, stroll on, vaga perché l’innamoramento continui. Ma in quei pochi minuti della scena tutto prende un’altra strada. L’ombra, la spettacolarizzazione prende il sopravvento. La band sul palco dà segni di nervosismo, gli amplificatori anziché restituire un suono fuzz, distorto, iniziano a gracchiare. Jimmy Page che nella scena si trova al posto di Chris Dreja a suonare la chitarra ritmica, inizia a maltrattare lo strumento, lo sbatte sull’amplificatore. La spacca, rompe il ponte, lo libera dalle corde e lo getta al pubblico. Sembra il segnale per una risposta pavloviana. Come in attesa di un finto gesto liberatorio, ormai diventato un copione fisso per Pete Townshend e Keith Moon degli Who, la distruzione della chitarra scuote dall’apatia l’altrimenti immobile pubblico, che si scatena per impossessarsi della preziosa reliquia. È Thomas, il fotografo a impossessarsene. Ma poi, fuori dal locale, lo butta via, l’oggetto perde il suo valore perché non può essere più percepito in relazione ad altro, al concerto, alle aspettative, alla concorrenza tra il pubblico. Un passante osserva, raccoglie il ponte e poi anche lui lo getta via.

Al parco il corpo inanimato dello sconosciuto non c’è più. Arrivato alla festa tutto si perde in una nube di fumo, in un clima di rilassante condivisione di chiacchiere, sorrisi e marijuana. Cosa rimane della realtà?

Riavvolgiamo, rimpiccioliamo. Inizio: Michelangelo Antonioni legge un breve racconto dello scrittore argentino Julio Cortazar, La bava del diavolo, dove un fotografo cattura una scena in cui ragazzino si sottrae a una giovane donna, fuggendo disperatamente, approfittando del momento di imbarazzo della donna vistasi fotografare. Sospettando qualche mira della ragazza su di lui, l’osservazione attenta di un ingrandimento rivela invece la presenza in macchina di un uomo a cui la vittima deve essere consegnata. Affascinato dal meccanismo che rivela che dietro a quanto percepiamo come verità possono nascondersi altre realtà, Antonioni scrive con lo sceneggiatore Tonino Guerra e, per i dialoghi inglesi, Edward Bond, il copione di Blow up, il film che vincerà la palma d’oro a Cannes:

Un giovane sui venticinque anni esce da un dormitorio per senza casa, vestito come tutti quelli con cui ha diviso la camerata. Ma girato l’angolo sale sulla sua Rolls Royce decappottabile, poggia un pacco con le sue macchine fotografiche e si avvia. Un gruppo di chiassosi ragazzi con una jeep si avvicina per scollettare. L’uomo tira fuori una sterlina gliela dà e riparte. Poi arriva nel suo studio, butta via gli abiti sporchi. Fa il suo lavoro, fotografa in automatico, sia che si tratti di inquadrature artistiche che roba da routine. Va a vedere un negozio di antichità che vorrebbe comprare col suo amico Bill. Parla con Ron del libro in via di realizzazione. Continua a borbottare fino al momento in cui crede di vedere una tranquilla scena d’amore tra una giovane donna, Vanessa Redgrave e un uomo. Le foto nascondono altro. La donna è un fantasma, appare, scompare e ricompare ma è inafferrabile come la dama hipster di un vecchio hit R&B del 1951. Niente ci racconta quale sia la realtà.

Thomas lascia la festa, ritorna al parco. Incrocia la jeep stracarica dello stesso gruppo di ragazzi a cui all’inizio aveva consegnato un cripto messaggio costituito da una banconota da una sterlina. Rumorosi estremamente come solo i veri mimi sanno essere entrano nei campi da tennis. Un ragazzo e una ragazza, volto bianco e strisce e bretelle d’ordinanza mimano un’accesa partita mentre il resto dei ragazzi segue il movimento dell’inesistente pallina. Battuta dopo battuta tra motti di stizza quando si finge di aver colpito la rete, gesti di soddisfazione per un bel lancio, la pallina fantasma va in out una prima volta e la ragazza va a raccoglierla facendo un gesto come per dire «beh, capita di sbagliare» guardando il fotografo che si è fermato addossato alle reti assieme agli altri ragazzi. Ma dopo un altro finto scambio di battute, quando tutti sembrano aver visto che la pallina abbia scavalcato la recinzione per cascare proprio ai piedi di Thomas, la ragazza fa segno di lanciargliela, l’uomo sembra riflettere un attimo. Poi si inchina, raccoglie un nulla che tutti vedono tondeggiante e giallo, soppesa e fa rimbalzare quel nulla sul palmo e lo rilancia. Adesso si sente il rumore delle battute. Le racchette che rilanciano la pallina, i rimbalzi. Come dicono le ultime battute della sceneggiatura “sovrastano il cinguettìo degli uccelli e lo stormire delle foglie, diventano i tipici colpi sonori della palla sulle corde della racchetta. Uno di qua, uno di là, uno di qua, uno di là. Il fotografo sorride ancora, appena, appena. Poi diventa serio, un po’ turbato. Distoglie lo sguardo dal gioco e lo abbassa sull’erba, ma in realtà non guarda niente. È lo sguardo di chi segue un pensiero interno e non sa ancora se è angoscioso o rassicurante”.

Spiegava Michelangelo Antonioni: Il mio problema per Blow-up era quello di ricreare la realtà in una forma astratta. Io volevo mettere in discussione ‘il reale presente’: questo è un punto essenziale dell’aspetto visivo del film, considerato che uno dei temi principali della pellicola è vedere o non vedere il giusto valore delle cose.

  

“Non bisogna lasciare che un film finisca con la fine del film,
ma bisogna fare in modo che il film si prolunghi proprio all’esterno di se stesso,
proprio dove siamo noi,
dove viviamo noi che siamo i protagonisti di tutte le storie”. 

Michelangelo Antonioni

The Yardbirds – Stroll On (Jeff Beck & Jimmy Page 1966)

RIPRESO da www.bizarrecagliari.com ovvero «Storie della Beat Generation, della Controcultura e altro»: da gennaio racconta OGNI GIORNO vicende, persone, movimenti che il pensiero cloroformizzato e sua cugina pigrizia preferiscono cancellare.