Donna o madre? L’eterno dilemma. La fotografia di Olga Steinpreis

Donna o madre? L’eterno dilemma.
La fotografia di Olga Steinpreis

Woman or Mother? The Eternal Dilemma.
The Photography of Olga Steinpreis

Il portfolio fotografico di Olga Steinpreis di cui vi parlerò è presentato dalla Fiaf (Federazione italiana associazioni fotografiche). Olga è di origine russa e vive a Freigericht.

Le sue immagini mi hanno colpita per la nitida rappresentazione di una maternità al limite del conflittuale. Sono cauta nel definirla tale, nonostante sia palese il dissidio che si è creato tra la donna e la madre.

La maternità conflittuale è ben definita dalla psicologia e non è scopo di questo articolo indagare questo fenomeno da un punto di vista professionale. Limitiamoci a osservare.

Preferisco perciò mantenere un margine di dubbio, cioè che si tratti di un disagio transitorio destinato a risolversi nel tempo; non voglio trarre conclusioni affrettate. Purtroppo il tempo che ci è dato è quello che viviamo nel presente, pertanto il malessere di Olga è attuale ed è di scarsa consolazione immaginare che in un futuro non lontano potrebbe cessare, come le auguriamo, senza grandi turbamenti irrisolti.

Fotografie fredde, minimali, autoritratti che illustrano momenti della giornata di Olga alle prese con le incombenze relative all’accudimento dei figli e della casa. Fa da sfondo il sogno di una realtà nella quale la donna non è subalterna alla madre; l’atmosfera onirica è sottolineata dalle luci smorzate degli ambienti e dei luoghi.

Una storia vecchia come il mondo. Nelle immagini non è presente un’altra figura di accudimento, che sia il padre, i nonni o una tata, Olga è sola con il suo immaginario di donna defraudata del soddisfacimento dei propri desideri che esulano dalle necessità del quotidiano.

Ancora oggi si dibatte sul tema: “se non sei madre non sei una vera donna” e, quali che siano le motivazioni che hanno spinto l’autrice a mettere al mondo tre figli, temo che questo falso concetto usato come monito, si radichi nel suo pensiero come accade per molte altre donne.

Vi risparmio l’ovvio: se le donne fossero aiutate senza costi aggiuntivi per il bilancio familiare – poche si possono permettere un aiuto a pagamento – se il modello di famiglia non fosse esclusivamente un nucleo chiuso, se le politiche di welfare familiare godessero di maggiori investimenti, ecc., molte donne del mondo occidentale vivrebbero con maggiore serenità la maternità, senza essere costrette a conciliare la donna e la madre, vissute come realtà antitetiche.

Impressionante è l’immagine che ritrae Olga come un abito appeso alla gruccia nell’armadio, allo stesso tempo una chiusura e un’assenza, segno di scarsa considerazione per se stessa, o forse una provocazione, l’autrice vuole indicarci come la società la considera, un ruolo al servizio della comunità familiare.

Un altro capitolo è quello della cura di sé: nemmeno nella vasca da bagno la donna è sola a godersi un momento di relax: un figlioletto è insieme a lei rubandole uno spazio di meritato godimento.

Lascio ora parlare Olga, un cenno del suo vissuto:

“Sono in maternità da nove anni, sono mamma di tre figli. La mia routine quotidiana sembra infinita e mi assorbe. Sto cercando di essere una buona madre per i miei figli per non dire che mi sono seppellita in libri che trattano di psicologia infantile. A volte mi sento addirittura come se stessi avendo successo, ma la maggior parte delle volte mi sento sopraffatta dalle faccende quotidiane e i miei sforzi per diventare una versione migliore di me stessa sembrano inutili. No, dovrei togliermi dalla testa questa immagine della “madre perfetta”! Non voglio essere perfetta. Voglio vivere una vita in cui i miei sentimenti, interessi e obiettivi contano. E ad un certo punto, ho un sogno.”

I’ve had a dream è il titolo di questo lucido lavoro fotografico.

“ Sembra che se non scatto, quando i miei figli cresceranno e se ne andranno per vivere la loro vita, avrò una casa pulita e ordinata e il vuoto dentro”.

Questo vuoto dentro è il cuore del problema, la richiesta di aiuto di una madre, emblema di tutte le madri del mondo che rivendicano la propria esistenza di donne oltre la maternità, che non vogliono mettere in secondo piano il loro femminile, o essere considerate in subordine ai loro figli.

The photographic portfolio by Olga Steinpreis, which I will be discussing, is presented by the FIAF (Italian Federation of Photographic Associations). Olga is of Russian origins and lives in Freigericht.

Her images struck me with their clear depiction of motherhood bordering on conflict. I am cautious about defining it as such, even though the disharmony between womanhood and motherhood is evident.

Conflictual motherhood is well-defined in psychology, and it is not the purpose of this article to delve into this phenomenon professionally. Let’s just observe.

I prefer to maintain a margin of doubt, meaning that it may be a transient discomfort destined to resolve itself over time; I do not wish to jump to hasty conclusions. Unfortunately, the time we have is the one we live in the present, so Olga’s distress is current, and it is of little consolation to imagine that it might cease in the not-so-distant future, as we hope, without significant unresolved turmoil.

Cold, minimalist, self-portraits illustrate moments of Olga’s day as she deals with the responsibilities of caring for her children and her home. The dream of a reality in which women are not subordinate to mothers serves as the backdrop; the dreamy atmosphere is emphasized by the soft lighting of the surroundings and places.

A story as old as time itself. There is no other caregiving figure present in the images, whether it be the father, grandparents, or a nanny. Olga is alone with her imagination of a woman deprived of the fulfillment of her desires beyond the daily necessities.

Today, the debate still argues on the theme: “if you’re not a mother, you’re not a real woman,” and whatever motivations led Olga to bring three children into the world, I fear that this false concept used as a warning will take root in her thinking, as it does for many other women.

I do not want to state  the obvious: if women were helped without additional costs to the family budget – few can afford paid help – if the family model were not exclusively a closed unit, if family welfare policies received greater investments, etc., many women in the Western world would experience motherhood with greater serenity, without being forced to reconcile womanhood and motherhood, seen as antithetical realities.

Impressive is the image that shows Olga as a dress hanging in the closet, simultaneously a closure and an absence, a sign of little regard for herself, or perhaps a provocation; the author wants to show us how society views her, as a role in service to the family community.

Another chapter is that of self-care: not even in the bathtub is the woman alone to enjoy a moment of recreation; a child is with her, stealing a space of well-deserved enjoyment.

I will now let Olga speak, a glimpse of her experience:

“I’ve been in motherhood for nine years, I’m a mother of three children. My daily routine seems endless and consumes me. I’m trying to be a good mother to my children, not to mention that I’ve red a lot of books about child psychology. Sometimes, I even feel like I’m succeeding, but most of the time, I feel overwhelmed by daily chores, and my efforts to become a better version of myself seem to fail. No, I should get this image of the ‘perfect mother’ out of my head! I don’t want to be perfect. I want to live a life where my feelings, interests, and goals matter. And at some point, I have a dream.”

“I’ve had a dream” is the title of this powerful photographic work.

“It seems that if I don’t capture moments, when my children grow up and move on to live their own lives, I will have a clean and tidy house and an emptiness inside.”

This emptiness inside is the heart of the problem, a mother’s plea for help, emblematic of all the mothers in the world who assert their existence as women beyond motherhood, who do not want to forget their femininity or be considered subordinate to their children.





Esselunga per le famiglie, uno spot discutibile

La pubblicità dispensatrice di sogni si intromette vistosamente nella nostra quotidianità, dai primi ingenui Caroselli a una più sofisticata comunicazione che tiene conto del cambiamento sociale.
Oggi la suggestione è veicolata da una pesca, protagonista il marchio Esselunga. Lo spot immagino lo conosciate, ma per vostra comodità è riportato qui https://www.youtube.com/watch?v=sFE9VvAym3Q per la regia di Rudi Rosenberg, incaricato dall’agenzia Small di New York.
Emozionare i consumatori per indurli all’acquisto è la missione dei creativi che realizzano i messaggi pubblicitari; Esselunga si spinge oltre con questo imbarazzante spot che l’azienda stessa definisce al passo coi tempi. I media parlano di “roventi polemiche” generate da questa innovativa proposta.
Qui si fa leva su qualcosa di più profondo e radicale di una fugace emozione, lo spot fa leva sui sentimenti di una bambina evidentemente afflitta per la separazione dei genitori, nell’ambito di una famiglia del ceto medio benestante, un dettaglio non trascurabile: i poveri non hanno i soldi per divorziare e fanno la spesa al discount.
Senza alcun intento moralista nella mia critica, trasecolo di fronte alla quantità di commenti entusiastici sui social, di chi, stanco delle proposte pubblicitarie standardizzate, si commuove per la vicenda umana della famiglia divisa, finalmente “reale” e opposta alla famiglia perfetta la cui felicità trabocca da una scatola di biscotti per la prima colazione.
Nel corto di Esselunga si intravede la sofferenza, il bisogno infantile di un riferimento univoco di coesione familiare, il bisogno di un nido che accolga e rassicuri.
Vorrei ricordare come la famiglia nucleare sia il modello vincente di architrave della società occidentale.
La prima doverosa osservazione è l’estrema semplificazione dei problemi di una coppia in crisi, come suggerisce la narrazione e il coinvolgimento di una creatura fragile, la bambina, che vive dolorosamente la relazione conflittuale dei genitori. A questo riguardo riporto un parere professionale, quello di Ariella Williams, psicoterapeuta:
“Vedo un messaggio subliminale pericoloso, di facile digeribilità perché sciropposo: 1) state insieme per amore dei figli e 2) per tornare insieme basta poco. In entrambi i casi, è una mistificazione e una banalizzazione di problemi seri di coppia, e dei bambini di quelle coppie, trattati invece come capricci facilmente risolvibili.
Si sottintende la promozione del modello della famiglia tradizionale voluta dalla destra. Lo trovo mostruoso”.
In effetti la nostra premier Giorgia Meloni lo definisce bello e toccante.
Dov’è finita l’etica della comunicazione pubblicitaria? Chi pensano di prendere per i fondelli gli ideatori della campagna Esselunga? Sfido chiunque abbia vissuto una separazione dal proprio partner ad identificarsi serenamente nei due amorevoli genitori di una bambina sulla quale grava il peso del fallimento della relazione di coppia. Non mancano infatti, sui social, i commenti infastiditi di chi ha divorziato fra lacrime e sangue.
Inoltre, l’onda emotiva generata dal corto rischia di mettere fuori fuoco la strategia pubblicitaria dell’azienda: fare la spesa all’Esselunga potrebbe passare in secondo piano rispetto alla narrazione. E un supermercato non rimette insieme una famiglia, una mistificazione al servizio della mercificazione dei sentimenti.
Ridateci il Mulino Bianco!

 





LE FOTO DI FAMIGLIA

Talvolta archiviate in un cassetto polveroso, come vuole la retorica dei ricordi, le foto di famiglia hanno invece una loro dignità quando fungono da macchina del tempo e ricostruzione della memoria personale o familiare.

A tal proposito vi racconto una storia vera, ossia la vicenda umana di un bambino di pochi anni, Marco, che perse precocemente la madre senza aver avuto il tempo di formarsi sia l’identità di figlio, sia di conservare una traccia di ricordo della fisionomia della mamma che lo aveva messo al mondo, figura determinante per ogni creatura di qualsiasi specie.

Con ciò non voglio incrementare la narrazione più o meno centrata sull’importanza o criticità della figura materna in tutti gli aspetti già evidenziati dalla psicologia e psicoanalisi, ma raccontare come le foto di famiglia siano state decisive, nella vita di Marco, per aiutarlo a “conoscere” la madre perduta: utilissima l’intuizione di una zia materna che gli mostrò, al momento opportuno, le foto che ritraevano la mamma nei vari momenti di vita familiare; un modo intelligente e sensibile per offrire un sostegno e arginare, per quanto possibile, un vuoto affettivo molto doloroso.

Per quanto riguarda la mia esperienza, le foto della famiglia di origine sono uno strumento identitario, un ritorno al passato che mi consente di ravvivare il ricordo delle mie radici, del contesto sociale e culturale nel quale sono cresciuta, degli affetti che hanno costellato la mia esistenza dalla nascita e la varietà di “comparse” occasionalmente presenti.

Si può essere più o meno d’accordo con questa interpretazione se generalizzabile, e ciò dipende da come si è portati a vivere il proprio passato con curiosità, affetto o fastidio; quindi per dare un contributo più specifico a questo tema, riporto il commento dell’amica Ariella Williams, psicoterapeuta:

“Ringrazio innanzi tutto Rita per avermi invitata a esprimere un mio commento, cosa che faccio più che volentieri concordando innanzitutto con le sue osservazioni.

Vorrei sottolineare in particolare il ruolo identitario che le foto hanno, non solo collegandoci al fluire stesso del tempo e creando un senso di appartenenza a una storia senza fine, ma mettendoci anche davanti a noi stessi, alla nostra evoluzione di persone nella sua unicità grazie a quelle figure e a quei momenti congelati nel tempo dall’obbiettivo, che hanno contribuito a creare la persona che siamo.

Sono quindi documenti della nostra crescita, degli ostacoli superati, delle tappe conquistate, delle perdite sofferte.
Per un bambino, le foto di famiglia possono essere il portale a una solida autostima, sviluppandone l’autoconsapevolezza e i nessi intrinseci col suo contesto affettivo e di vita, base indispensabile per un sano sviluppo psicoemotivo. Passare in rassegna le foto con un adulto che gliele descrive attingendo all’aneddotica familiare, offre preziose occasioni per rinforzare il legame di affetto e di fiducia tra loro.
Una foto non è solo uno scatto che fissa un attimo fuggente, ma collega il presente col passato mentre si cammina verso il futuro.”

Le foto di famiglia possono essere ritratti in posa formale, basti pensare alle famiglie reali o nobiliari, dinastie che si impongono all’attenzione del pubblico, o semplici scatti improvvisati di momenti memorabili della vita familiare: matrimoni, compleanni, viaggi, la laurea dei figli, ecc. : universi talvolta simili e sovrapponibili, frutto di un immaginario culturale condiviso dalle generazioni che si succedono.

Quando mia nipote Sofia ci chiederà come eravamo, troverà alcuni album fotografici pronti a soddisfare la sua curiosità. Il romanzo  familiare sarà preservato.

Dall’archivio fotografico di famiglia

In vacanza a Bormio
Io a due anni
Io e papà
Io e papà a Lavarone in cerca di funghi
Mia madre sorridente in fotografia
Mia sorella Mara




LA MORTE TI FA BELLA

Da un caso di cronaca. Accendo la tele poco prima del notiziario delle tredici, mentre sta per terminare una trasmissione della mattina, di carattere nazionalpopolare. Si narra la tragica vicenda di una giovane povera donna madre di cinque figli, che muore a causa di un trattamento estetico.
Il conduttore racconta che Samanta si era sottoposta a un intervento di rimodellamento del seno, eseguito da una praticona, “un’estetista transgender” ed è morta tra le braccia del compagno durante la maldestra inoculazione di silicone liquido; il silicone entrato in circolo l’ha uccisa. Lacrime in TV.
E qui sta il punto, anche più di uno. Passo ad elencare: prima di tutto l’uso del silicone liquido è vietato da anni per la sua pericolosità; punto secondo: con discreta evidenza Samanta non poteva permettersi di pagare un intervento in ambiente ospedaliero protetto, possiamo supporre, e si fidava dell’estetista; punto terzo: il conduttore della trasmissione fa presente, durante l’intervista al compagno della donna, che l’estetista è transgender, come se essere tale fosse un’aggravante o un’informazione significativa ai fini di come sono degenerate le cose.
Ho tenuto questo punto per ultimo, subdolamente introdotto dal conduttore, per sottolineare il sottotesto, culturalmente deteriore, nel penalizzare l’appartenenza di genere come responsabile, in qualche misura, di un accadimento così grave.
Un’osservazione sorge d’impulso: l’accettazione del proprio corpo da parte delle donne è ancora materia di dolorosa riflessione. Si sa che dopo più di una maternità e, forse, relativo allattamento, il seno delle donne non è più garrulo e gagliardo come a vent’anni e zero figli.
Non sono bastati decenni di femminismo, psicologi, psicoanalisti e studiosi delle cose umane, a
rassicurarci sulla nostra integrità, sul nostro non sentirci disgregate e poco ben volute per lo più da mariti e compagni e dalla società dei modelli di quell’estetica che fa del corpo oggetto di consumo e preda – compiacente – del maschio di turno. No non sono bastati, le donne continuano a pagare il prezzo imposto dalla cultura dominante. Poi, se vogliamo raccontarci la storiella che ci facciamo belle per noi stesse, indoriamo la bugia e poi o la va o la spacca.
In questo caso una giovane donna muore, cinque figli perdono la mamma e un uomo la donna amata. Dire bilancio negativo è un eufemismo.
Inoltre l’ambiguo sottolineare l’essere estetista transgender equivale a penalizzare la presunta diversità di chi, nel proprio corpo, non si sente a proprio agio e sceglie, nella sofferenza, di vivere una vita travagliata fino alla fine, o sottoporsi a interventi e trattamenti per nulla semplici per poter rientrare nella propria vera pelle.
Un caso eclatante quello di Samanta e dell’estetista rea di abuso della professione medica. Due vittime
allo stesso tempo, una specularità che lascia sbigottiti.
Eviterò in questa sede di ipotizzare quanto l’essere transgender possa diventare un piatto succulento per certa nostra politica in moto retrogrado rispetto a diritti e valori.
Vedremo.

 





Uliano Lucas fotoreporter

Recentemente il canale Rai 5 della nostra televisione ha dedicato un documentario al fotografo Uliano Lucas; perciò ho pensato di raccontare ai lettori di Diatomea quello che so di questo autore.

Fotoreporter di lungo corso, Uliano Lucas, nasce a Milano nel 1942. Il padre operaio alla Breda di Sesto San Giovanni, comunista, antifascista e partigiano, è avviato al confino a Ponza, dapprima, poi a Pisticci.

In questo humus familiare e sociale si forma il giovane Lucas, maturando il suo interesse per la fotografia di reportage.

Durante i tanto celebrati anni Sessanta nella Milano del Bar Jamaica si rinforzerà la sua vocazione per la professione di fotoreporter, attento ai cambiamenti e fremiti di una società postbellica, ad alta fermentazione culturale. Pittori, scrittori, musicisti dell’epoca i suoi modelli di riferimento: Enrico Castellani e Arturo Vermi, Piero Manzoni e Nanda Vigo, e la musica dei gruppi rock, gli Stormy Six e i Ribelli. Nel corso della sua carriera, Lucas ha incontrato e fotografato i più bei nomi della cultura italiana, fra scrittori, pittori, musicisti, personaggi che hanno fatto la storia del Paese.

Un’attenzione particolare ai passaggi epocali della società: l’immigrazione dal Sud al Nord, l’industrializzazione del Paese, il ’68. E l’industrializzazione è la matrice della nascita della fotografia. Lo è, verosimilmente, a causa di una accresciuta capacità di progettare e costruire macchine, fra cui le macchine fotografiche, secondo la visione del nostro autore.

Il sociale è la vocazione forte, il filo rosso che lega tutta la sua produzione fotografica.

Sua è la famosa foto dell’immigrato meridionale ritratto all’uscita della Stazione Centrale di Milano con la valigia di cartone legata con lo spago, ripreso davanti al grattacielo Pirelli, simbolo svettante della razza padrona per la quale si troverà a lavorare; la terra cessa di essere fonte primaria di sussistenza.

Non solo l’Italia e i suoi momenti di transizione, il fotogiornalismo non conosce confini; Lucas documenta anche le cronache della Rivoluzione dei garofani in Portogallo e le guerre di liberazione in Angola, Eritrea, Giordania, ai tempi di Settembre Nero, al seguito dei giornalisti Bruno Crimi ed Edgardo Pellegrini per il Tempo, Vie NuoveJeune Afrique e Koncret.

La passione per il fotogiornalismo è inestinguibile e il nostro realizza servizi anche per altre importanti testate, fra cui il Mondo, l’Espresso, l‘Europeo, la Stampa, il Manifesto, il Giorno, Rinascita. I temi caldi non mancano tra gli anni Sessanta e Settanta; Lucas sente la necessità di farlo presente alla società, portando all’attenzione dei lettori storie ed eventi imperniati sull’attualità politica e sociale.

Nel 2018 incontrai Uliano Lucas al Circolo Fotografico Milanese che gli dedicò una serata, invitandolo a raccontare la sua esperienza.

Una serata di intenso ascolto al Circolo, sala affollata e Gianni Berengo Gardin in prima fila a seguire il racconto del collega.

Lucas puntualizzò con grande chiarezza il suo profilo di fotografo ‘anarchico’, il più possibile  sganciato dai vincoli delle strategie editoriali e del mercato, raccontandosi senza apparire autoreferenziale, con la volontà di inquadrare il suo lavoro nel contesto storico e sociale del Novecento.

Gli anni preziosi della formazione sono stati quelli di Brera e del Jamaica e la progressiva maturazione come fotografo di quella cronaca vera, che mostra il mondo il più possibile per quello che è, affrancandosi dalle ideologie e dalle mode del giornalismo dei tempi – si pensi ai rotocalchi di quel periodo, in Italia, che mostravano, a suo dire, un paese inventato – testate giornalistiche conservatrici, un’ Italia provinciale che si interessava alle vicende delle attrici e degli appartenenti alle monarchie europee. Uliano Lucas predilige un’editoria di cultura, tutt’altra cosa. Il settimanale Il Mondo gli dava questa garanzia.

Un aspetto importante è emerso dalla chiacchierata al Milanese: Il fotogiornalismo e comunque qualsiasi foto di documento, deve scavare direttamente dentro al fenomeno, indagare sulle ragioni, le cause e gli effetti, non limitarsi allo scatto fine a se stesso che nulla spiega. La fotografia di reportage ha una sua precisa funzione: deve parlare.

Una presenza storica nella fotografia italiana, quella di Uliano Lucas, che rimarrà come testimonianza per le giovani generazioni.




GENTE CHE LEGGE

Gente che Legge è il titolo di una mostra fotografica organizzata da Paolo Benini, fotografo, nel 2015, presso la Biblioteca C.E. Gadda di Melegnano e a Milano, presso la libreria universitaria Franco Angeli Bookshop. Trovo ancora interessante e attuale il portfolio fotografico collettivo che ne è derivato e lo propongo ai lettori di Diatomea e chiunque sia interessato a una riflessione sulle nostre abitudini correnti.

Il tema della lettura inquadrato con l’obiettivo della fotocamera.

L’idea è scattata nella mente dell’ideatore, Paolo Benini, per via dell’overdose di persone che vediamo quotidianamente sui mezzi di trasporto e non solo, letteralmente ipnotizzate dallo schermo del loro smartphone.

Evidentemente un’importante trasformazione è avvenuta da quando sul tram si sfogliava un quotidiano, o si leggeva un libro nelle lunghe percorrenze.

Gente che Legge è una bella rassegna fotografica alla quale hanno partecipato vari autori.

Una raccolta di immagini di gusto classico che illustra il nostro rapporto con la lettura, spaziando nei vari ambiti nei quali si può svolgere questa attività, e che ritrae un universo di individui colti in uno dei momenti fra i più personali, se vi facciamo caso, nell’ambito delle abitudini comuni. Sfogliare un libro, leggere un romanzo, un messaggio al cellulare o una e-mail; un immergersi in un mondo interiore abitato fondamentalmente da due soggetti: noi e il testo davanti ai nostri occhi.

Scattare queste foto ha significato cogliere quel preciso momento di intima comunicazione fra il lettore e il libro o dispositivo mobile fra le sue mani.

Infatti qui assistiamo a un cambiamento epocale: dal cartaceo all’elettronico, dal libro, rivista, o giornale quotidiano che ancora sopravvivono presso gli audaci sostenitori della tradizione, a qualcosa di nuovo offerto dall’evoluzione tecnologica: Pc, tablet, telefono mobile.

Una corposa presenza di e-books, testi e messaggi in formato digitale, ormai molto diffusi nella nostra realtà.

C’è forse differenza di fruizione fra il mezzo di comunicazione tradizionale e lo smartphone  che teniamo comodamente in tasca e compulsiamo avidamente durante i nostri viaggi sui mezzi di trasporto, quasi fosse così necessario da non poterne fare a meno ?

Qualche anno fa qualcuno organizzò un divertente guerrilla reading a bordo di un tram milanese: alcuni volontari all’improvviso e in sequenza hanno letto brani di libri, ad alta voce, per scuotere i presenti catturati dal loro cellulare.

Che ci si trovi in autobus o comodamente seduti sul sofà nella sala d’aspetto del nostro medico, come ingannare il tempo dell’attesa? Un quotidiano, un libro un messaggio di WhatsApp, ci intrattengono regalandoci un po’ di distensione, un momento di transizione tra un’attività e l’altra, quale che sia l’esperienza che ci attende, il semplice recarci in un luogo o sederci sulla poltrona del dentista.

Le foto presenti in questa raccolta sono una valida rappresentazione di questi siparietti di lettura a carattere multimediale e non, un buon esempio di fotografia d’attualità che compone un indovinato affresco del tema in oggetto.

Gli autori delle immagini hanno saputo cogliere qualche interessante momento topico tale da formare immagini dotate di contenuto espressivo, un giusto mix di stati di grazia dei lettori ignari protagonisti, una carrellata dinamica, piacevole.

Un modo simpatico per pilotarci nel presente tecnologico che coinvolge anche l’esperienza della lettura, senza annientare la tradizione che resta viva in noi.

Gli autori delle foto in mostra:

ANDREA ABBIATI

LUIGI ALLONI

ALESSANDRA ANTONINI

PAOLO BENINI

LOREDANA BONDIOLI

MAURO CORTESE

ROBERTO CREMASCO

FRANCO GALLIENI

ANTONIO GIANNOTTA

MARCO LAMBERTO

MAURO LAZZARI

CLAUDIO MANENTI

RITA MANGANELLO

GIUSEPPE MORELLO

ANTONIO NAPOLI

CARLO ORIANI

ANGELO PERACCHI

MARCO VICARDI

LEONARDA VIRETTI




IVANO BOLONDI. Il sogno, il viaggio, il colore

Le sue foto sono come sogni

Aung San Suu Kyi

Ivano Bolondi, fotografo non convenzionale scomparso di recente, merita un ricordo; allora vorrei raccontarvi brevemente la sua fotografia, anche attraverso le parole di Lorenzo De Francesco che lo ha conosciuto e ha realizzato una monografia a lui dedicata, un video-documento edito dalla FIAF, Federazione Italiana Associazioni Fotografiche.

Ivano Bolondi è nato a Montecchio dell’Emilia nel 1941. Iniziò la sua carriera lavorativa come apprendista meccanico per la riparazione delle macchine agricole, fino a diventare titolare di una importante azienda metalmeccanica produttrice di sofisticate apparecchiature per la pulizia dei serbatoi industriali. Inizia a dedicarsi alla fotografia negli anni Settanta.

Un uomo semplice, grande lavoratore e viaggiatore per passione e curiosità, ha coltivato  la fotografia da vero amatore, svincolato dai canoni e dai rimandi agli autori storici e a quel modo di fotografare ripetitivo e standardizzato tipico della contemporaneità; la sua visione è singolare e privilegia l’estetica come segno distintivo della sua opera, in particolar modo nella fotografia di viaggio, ma non solo, come vedremo.

Apparentemente spontaneo nel proporre foto di primo scatto, non elaborate in post-produzione, ci ha lasciato immagini che rivelano un talento innato.

Mi piace in particolar modo questa  foto icastica che colpisce per la capacità dell’autore di avere colto l’occasione propizia: una doccia reale, aperta in corrispondenza di un manifesto che raffigura una donna nell’atteggiamento di servirsi di quella stessa doccia: un saggio ben riuscito di fusione di due casualità, in un contesto in cui la grafica a due dimensioni è arricchita dalla tridimensionalità della doccia reale, dando spessore alla scena.

Nella sua specificità Bolondi dava forma alle emozioni senza banalizzare l’immagine o perdersi in futili formalismi; alcuni suoi scatti non hanno nulla da invidiare a quelli dei grandi autori della fotografia mondiale.

Per meglio comprendere l’opera di Ivano Bolondi, ne ho parlato con Lorenzo De Francesco che ha rilasciato a Diatomea questa intervista emozionale.

RM: Lorenzo, hai incontrato Ivano Bolondi in più occasioni; vuoi raccontare ai lettori di Diatomea cosa apprezzi dell’uomo e del fotografo?  Possiamo parlare di autore carismatico?

LDF: Quando entrai nel suo mondo, l’Emilia intensa e produttiva – anche fotograficamente -, mi accorsi subito che il suo carisma lo precedeva. Chi lo conosceva ne parlava con deferenza e rispetto, ponendolo subito su di un piano di maggiore attenzione. Io muovevo i primi passi nel mondo degli audiovisivi fotografici su diapositiva: erano gli anni ’90; lo incontrai ai festival internazionali Crespi di Legnano organizzati dalla Famiglia Legnanese e rimasi stupito dalla sua modestia e umiltà, a differenza di altri personaggi del mondo fotografico la cui alterigia era spesso inversamente proporzionale al talento.

Entrammo subito in sintonia: Ivano era attirato dal mio modo narrativo di intendere l’audiovisivo, mentre lui faceva evolvere progressivamente il suo stile nel documentare i paesi che visitava spostandosi progressivamente su emozionanti livelli di astrazione e sintesi di segno e colore.

Mi volle introdurre nei circoli che frequentava, ricordo ancora i commenti severi ma costruttivi  del  GAD – Gruppo Amatori Diapositive, dove lui era soprannominato “il Papa dell’audiovisivo” e il piacere immenso di quando mi invitò a proiettare i miei lavori a Torri del Benaco, ove organizzava proiezioni internazionali, preludio di un’ intensa collaborazione che è  durata sino ai nostri giorni.

RM Parliamo ora dell’aspetto etnografico che possiamo osservare nella fotografia di viaggio;  qui ci troviamo di fronte a qualcosa di inconsueto: la rappresentazione dei luoghi – considerato il gran numero di paesi visitati – non corrisponde a ciò che tradizionalmente si intende per fotografia di viaggio; nessun conformismo bensì uno stile molto personale di intendere la materia. Cosa puoi dirci al riguardo?

LDF Lui rompeva lo schema del documentario impropriamente detto di “viaggio” al quale tutti eravamo abituati.  È prassi comune presso i fotoamatori considerare i viaggi esotici come trofei, esibendo le relative diapositive. Al ritorno da un viaggio si radunavano gli amici e si propinavano proiezioni di centinaia di immagini, che per l’autore erano dense delle emozioni delle esperienze vissute, ma che spesso dopo i primi minuti di interesse provocavano una generale sonnolenza.

Con l’avvento dell’audiovisivo ecco che queste serie di foto venivano organizzate, con l’intento di renderle più interessanti, raccolte in sezioni che raccontavano l’esperienza del viaggio: paesaggi, architetture, gente, bambini, chiese o edifici di culto, street, degrado, quasi sempre denotando una carenza di progettualità fotografica, ma lasciandosi incantare dall’esotico, dal diverso.

Ivano non intendeva documentare un paese in modo tradizionale;  non titolava le sue fotografie con il nome del luogo, ma dava un titolo di fantasia:  “Tracce nel nulla”, “La grotta delle meraviglie”, “L’idea del giorno”, “Viaggio nel tempo”, “La danza della vita”, “Da un’antica leggenda” etc., pur mantenendo un accenno ai luoghi visitati per consentire un appiglio, un riferimento spazio-temporale. Quindi si osservano sintesi di segni e colori, che portano l’osservatore su di un piano diverso dalla semplice documentazione fotografica.

Il suo sguardo assimilava progressivamente l’essenza dei posti visitati, linee e colori caratterizzanti comportamenti umani, architetture e paesaggi; li assimilava e li riproponeva  attraverso luci, riflessi, sfocati, mossi, contrasti, trasparenze che staccavano la mente dalla ricerca del particolare documentato per portarlo in un mondo tutto suo, tutto nostro, tra l’immaginario e l’onirico, ove ognuno poteva continuare il suo viaggio. È importante valutare le foto di Ivano nel contesto narrativo del viaggio e nello sviluppo dello stile dell’autore nel corso degli anni. La singola foto estrapolata può sembrare un segno gratuito, fine a se stesso, a volte indecifrabile. Fruita nell’ambito della sua narrazione fotografica, può estasiare. Può, perché è una fotografia che non incontra il consenso di tutti. Ivano realizza fotograficamente quello che avviene anche nella relazione umana: quando si incontrano individui appartenenti alla stessa classe di sensibilità, si entra irresistibilmente in risonanza.

RM: Lorenzo, a proposito di testimonianza e lascito a chi rimane, si diceva che Bolondi lascia un segno; il mio commento fu: per lasciare un segno bisogna che ci sia. Cosa ne pensi?

LDF Ivano lascia due segni che prolungano il suo essere nel nostro tempo: prima di tutto l’uomo, la sua sobrietà e modestia. Pur essendo benestante, affermato e riconosciuto nel nostro ambiente fotografico non l’ho mai sentito, nei trent’anni di conoscenza, parlare male di qualche collega né in pubblico né in privato o cercare di sgomitare per accaparrarsi qualche premio o riconoscimento o “posizione di potere”. Al contrario è stato un grande seminatore, mettendo i suoi talenti al servizio degli altri, organizzando eventi, con i suoi workshop, il dialogo e l’esempio. Ogni anno regalava a tutti gli amici uno splendido calendario con le sue migliori foto, stampato in grande formato e di grande qualità. Ha girato il Paese in lungo e in largo e ha lasciato ovunque un ricordo

indelebile, dalla Sicilia al Trentino.

Il secondo segno è la sua fotografia, fatta di significanti, siano linee, colori, forme, ombre, riflessi o inventandone di nuovi secondo l’ispirazione del momento, fatta di tracce umane fuse nel contesto.

Dovrei chiudere con una frase di circostanza, tipo “onorato di essere stato suo amico e aver lavorato con lui,  oppure “ sarà sempre con noi” etc. No, chiuderò invece con un’esortazione, che è anche una lezione per me e per tutti, una frase che mi venne subito alla mente quando seppi della sua morte: “”il Nulla è un infinito che ci avvolge:veniamo di là e là torneremo” (Anatole France).

No, Ivano. Ho ben presente questa frase di Anatole France che hai messo in chiusura del tuo audiovisivo “Tracce nel nulla” e sulla quale ci eravamo soffermati nel 2016 durante la preparazione della monografia.

No.

Mi rifiuto di pensare a una gigantesca discarica cosmica che raccoglierà silenziosa ed eterna il nostro essere, il nostro amare, il nostro patire, il nostro godere, una volta terminati.

Le tue immagini. Assimilandole, il mio spirito è come un aquilone, portato lentamente in alto, in un “Oltre” accarezzato dai riflessi, dai colori, dalle sfumature, che permettono di librarsi nell’aria ma sempre trattenuto delicatamente dal filo che lo porta, in un percorso dolce e luminoso e ricco di colori a cogliere i segni/essenza dell’umanità, nel suo lavorare, amare, sognare, in una parola il suo vivere.

La tua fotografia per me è uno degli esempi più alti di una forma di comunicazione universale, che non ha bisogno di parole, ma solo di una musica leggera, per far vibrare il cuore dell’umanità.

Immagine di copertina_Ivano Bolondi – Norvegia 2011

Tutte le immagini sono coperte da ©Ivano Bolondi




LA SPIGOLATRICE MALINTESA

Stereotipi del femminile: la pin-up anni Cinquanta, o la diva procace del cinema italiano dello stesso periodo, questi i rimandi suggeriti dall’infelice scultura dedicata alla Spigolatrice di Sapri che ha recentemente acceso ampie e non sempre centrate discussioni sui social network, in una variegata kermesse di opinioni contrastanti sull’opportunità, o meno, di rappresentare la giovane donna avvezza al duro lavoro nei campi, come una Jessica Rabbit anche meno avvenente.

Sono più che certa che qualcuno, in un punto qualsiasi del Web, mi darà della bacchettona.

Maschi in un lago di bava, perché un bel sedere da guardare, sottolineato dalla veste attillata e sapientemente drappeggiata sul tonico posteriore della fanciulla, non si nega a nessuno.

Una celebrazione del corpo sessuato icona di tutti i tempi del patriarcato dominante, non rende un buon servizio al femminile.

E qui vedo già il ditino puntato sul supposto bigottismo delle affermazioni di chi ha trovato quest’opera di cattivo gusto, opera che penalizza il decorum, [¹]stravolgendo il messaggio estetico e financo storico-politico della Spigolatrice.

Qualcuno obietterà che l’artista non è costretto a creare in base a una verosimiglianza storica, tuttavia la libertà di rappresentazione non dovrebbe scadere nella banalizzazione del soggetto.

Inadeguato, non provocatorio, l’intento dell’autore, secondo il mio e non solo mio, punto di vista, laddove l’essenza del femminile si riduce alla rappresentazione degli attributi ben torniti della donna resa merce.

Altra levata di scudi dei benpensanti al rovescio: perché mai l’erotismo – là dove frainteso nel buon senso comune – dovrebbe stupirci o indignarci? La mia risposta è semplice, se vogliamo davvero considerare l’erotismo per quello che è: un intimo segreto che merita ben altro palcoscenico.

Vorrei porre l’accento sull’uso standardizzato del corpo femminile, in base a un immaginario scadente che millanta quello che non ha: una soddisfacente concezione della sensualità e della seduzione, categorie per nulla disprezzabili, che meritano la giusta contestualizzazione.

Perché la donna, “istituzionalmente preda”deve subire il peso costante di una cultura che stenta a valorizzarne lo statuto di persona abile, intelligente e competente, al di là dei propri attributi fisici? Purtroppo non dico nulla di nuovo e mi dispiace doverlo sottolineare in questo tempo che vorrei più maturo. Il femminile non lo si eternizza nell’ordine simbolico del maschile.

Siamo certi che le donne si vedano e si vivano  sempre e solo in funzione delle loro forme ?

Un’ultima considerazione che sorge spontanea: il corpo è per sua natura corruttibile, vecchiaia e malattia ne segnano il declino inevitabile.

A questo riguardo voglio ricordare, per puro tributo alla sostanza del discorso, un mio articolo apparso su Diatomea il 21 giugno scorso, commento al portfolio fotografico di una giovane donna che ha subito una mastectomia: perdere un seno, o entrambi, a causa di una grave malattia è una ferita del corpo e dello spirito. In tal caso come la mettiamo con l’icona della donna sessuata ? Come potrà sentirsi l’autrice del portfolio che si vede, ogni giorno della sua vita, mutilata di una parte così artificiosamente carica di significati stereotipati, che la deprivano della sua prodigiosa naturalezza ?

Chiudo con questa riflessione, invitando, chiunque voglia, a connettersi con la parte più intima del proprio Sè e convenire che la donna è ben altro dal proprio reificato involucro corporeo.


[¹] Categoria rinascimentale, ma di origine antica, secondo cui una forma deve essere adatta alla funzione che deve svolgere e al soggetto raffigurato.


Immagine di copertina presa da laRepubblica Napoli – Opera dello scultore Emanuele Stifano




hUman sWitch

Esce dai cardini del realismo fotografico, hUman sWitch, lavoro fotografico collettivo ad opera di alcuni membri del Circolo Fotografico Milanese: Carlo Cirmi, Lorenzo De Francesco, Mauro Galvagno, Pio Grasso, Laura Pozzoni.

hUman sWitch è un progetto promosso da Raoul Iacometti, fotografo e tutor del gruppo, che ha indirizzato i partecipanti a descrivere un viaggio nell’interiorità e nell’inquietudine dell’ordinario quotidiano.

Il mezzo d’elezione per esprimere i moti dell’anima è, fra gli altri e ormai dalla sua origine, la macchina fotografica. Con questo strumento che di per sè è fatto per registrare le immagini che passano davanti ai nostri occhi, si può ottenere qualsivoglia risultato declinando stili, scelte narrative, modalità espressive, un flusso inestinguibile di possibilità date da quel linguaggio duttile che è la fotografia, come universo dei segni.

Ne parlo con uno dei membri del gruppo, Lorenzo De Francesco, noto ai lettori di Diatomea come autore, su questo blog, dei Racconti del Bicighellone, ora in veste di fotografo.

RM: Lorenzo, vuoi riassumere, per noi, la genesi di questo lavoro fotografico ?

LDF: Il progetto è nato nell’ambito del corso avanzato di fotografia organizzato dal Circolo Fotografico Milanese e tenuto da Raoul Iacometti. Raoul ha impostato dall’inizio il corso avanzato sulla progettualità, chiedendoci – prima di toccare la macchina fotografica-   di sviluppare una fase creativa e un confronto di idee a tavolino, per individuare insieme un progetto da sviluppare. Raoul ha diviso di sua iniziativa i partecipanti in gruppi, per cui ci siamo trovati a lavorare insieme con persone con le quali al di là dell’appartenenza al CFM, non avevamo alcuna esperienza di lavoro di gruppo. La genesi è stata faticosa, con momenti di dubbio e di stallo, con bozzetti e ripensamenti, ma alla fine è scattata la scintilla che ci ha consentito di realizzare questo  lavoro collettivo. L’idea è maturata progressivamente nel corso degli incontri, partendo da esperienze di vita personali. La sfida è stata trovare una forma adeguata di rappresentazione per un discorso abbastanza complesso. Alla base di tutto c’era il concetto dello “scambio”: un evento della vita che obbliga ad una scelta, pratica o mentale. Noi abbiamo analizzato l’aspetto mentale, cioè come  rappresentare lo scambio (Switch) che si fa mentalmente per adattarsi, volenti o nolenti, a un contesto ostile o alienante, o semplicemente difficile da elaborare con i paradigmi mentali lungamente impiegati. In questa rappresentazione abbiamo adottato, grazie all’esperienza di Raoul e ai consigli che ci siamo dati reciprocamente, tra  i più esperti e i meno esperti,  un approccio fotografico che impieghi tecniche adatte a rappresentare questi stati d’animo: esposizioni multiple, zooming, sfocato, mosso. La postproduzione poi ha sposato un bianco e nero intenso, contrastato, con neri profondi e bianchi emergenti per sottolineare il contrasto interiore.

RM: come vi siete coordinati per ricavare, partendo da sentimenti e percezioni individuali, un’opera così coerente e carica di rimandi ?

LDF: Dopo aver focalizzato la parte teorica del progetto, ognuno ha iniziato a scattare, da solo o in gruppo, per cercare, secondo la propria sensibilità fotografica, di vestire con immagini il progetto. E’ seguita una fase di messa in comune dei singoli portfolio, di verifica dell’aderenza complessiva e dei singoli scatti al progetto originario. E qui  è avvenuto un “miracolo”, conoscendo l’io smisurato di ogni fotografo: insieme abbiamo deciso quali immagini erano più adatte alla rappresentazione dell’idea iniziale. Questo è avvenuto senza nessun conflitto o pretesa, e ha portato alla scelta finale.

Abbiamo predisposto un percorso grafico, fatto di cambi, parallelismi, ricongiunzioni, inversioni e lo abbiamo vestito con le immagini, su di un unico pannello ove tutta la narrazione fotografica si sviluppava e si poteva gustare la singola immagine nel contesto complessivo. Poi, come autore di audiovisivi, mi sono divertito a realizzarne uno  che sintetizzasse l’idea anche con il supporto di una colonna sonora adeguata;  devo dire che è frutto di un’immediatezza e ha riscosso notevole apprezzamento.

https://www.youtube.com/watch?v=FEVO7Pb0ObI

RM: Lorenzo, a tuo personale giudizio, è stato un lavoro foriero di riflessioni sugli stati d’animo, un particolare vissuto, o considerazioni più generali sull’immaginario collettivo che potrebbe essere  considerato come scoperta e inconsapevole condivisione di esperienze comuni ?

LDF: Inizialmente è stato come se ognuno di noi si mettesse in autoanalisi per capire bene i  propri “scambi”: individuarli analizzarli e trovare poi dei segni, delle immagini, che li rappresentassero. Nella quotidianità del reale e anche nell’immaginario, fili, ombre, sagome indefinite, riflessi, mosaici, prospettive. Come figure retoriche evocanti lo stato d’animo. Ognuno con la propria storia e soprattutto la propria sensibilità, che sappiamo avere diversi livelli di intensità. Questo in un certo senso ha giovato alla drammaturgia complessiva del racconto, che non può essere giocata tutta su toni alti e intensi, ma ha bisogno di ritmo, pause e picchi di emozioni, che avvolgano fluidamente lo spettatore. Siamo usciti da questo lavoro con una significativa presa di coscienza: il cercare di rappresentare i luoghi della mente aumenta l’autostima nella capacità di comprenderli e forse di dominarli. Il riscontro che si ha in sede di comunicazione al pubblico è una iniezione di consapevolezza.

RM: Quale ruolo ha avuto Raoul Iacometti in questa discesa nelle profondità delle coscienze individuali ?

LDF: Raoul non ha mai imposto la sua visione, è sempre stato discretamente presente per lanciare degli spunti, aiutarci a uscire dai momenti di stallo, dare efficacia alla comunicazione del messaggio.

Per certi versi intransigente quanto basta, mai accomodante. E’stato un po’ come essere degli aquiloni liberi di librarsi  nel vento della creatività ma saldamente collegati a terra, sentivamo la corda nelle mani di Raoul che si tirava per indirizzarci ma anche che si srotolava per lasciarci volare nella direzione giusta e in favore del vento.

Chiudo questa chiacchierata con Lorenzo De Francesco, riportando il testo di presentazione della mostra Immagini in corso che si è tenuta a Milano nel mese di maggio 2021:

presentazione di hUman sWitch :
hUman sWitch – scambi umani tra quotidianità e alienazione, tra razionale e irrazionale, tra realtà e sogno, a volte il passaggio ad un altro livello di coscienza è istantaneo, si coltiva nell’ansia latente, nell’insoddisfazione; sfocia nella ribellione o nell’ansia gestita, incapsulata, soffocata: ti accompagna insistente, pronto a riemergere.
A volte si snoda in parallelo alla vita normale, appare come bolle in superficie, si materializza in segni e forme, proiezioni che distorcono la visione, alterano le prospettive, ombre che pesano come rocce.
A volte genera un’inversione, il sogno diventa realtà, la mente ha già preso il volo, il corpo la seguirà.”

Presentazione della mostra

Si fa presto a dire progetto fotografico.
Se poi ci mettiamo che il progetto deve nascere da un gruppo di persone con teste, esperienze, caratteri e idee completamente diversi, allora il gioco si fa davvero duro.

Ma se al timone c’è Raoul, allora tutto cambia marcia.

Ogni gruppo si è fatto corpo unico, in una carambola di idee, altre idee, ancora idee. E poi come realizzarle, come mettere insieme il tutto.

Aggravato dalla difficoltà di Milano in zona rossa. Centinaia di collegamenti via zoom sono stati provvidenziali e non ci hanno certo impedito di diventare amici davvero.

Di ridere, di divertirci. Perché senza divertimento, niente ha scopo.




Della presenza. La fotografia di Maria Cristina Comparato

Un tema delicato, una vicenda segreta nell’animo, che l’autrice ha voluto condividere in fotografia, conferendo a se stessa l’incarico gravoso di rappresentare tutte le donne che hanno subito la mutilazione di un seno o di entrambi, alle prese con un male che lascia poco spazio alla serenità, per non dire all’ottimismo.

Una donna  – giovane – che osserva il suo corpo trasformarsi in un “Altro” meno familiare e rassicurante; l’autrice osserva il cambiamento attraverso l’obiettivo della macchina fotografica, suoi scatti che testimoniano, silenziosamente, quello che il senso comune definirebbe un’esperienza lacerante.

Con questo portfolio di genere concettuale, Maria Cristina ha vinto la XVII edizione di Portfolio Italia – GRAN PREMIO fujifilm organizzato dalla fiaf – Federazione Italiana Associazioni Fotografiche.

Vorrei quindi riferire le mie impressioni su questo lavoro, in considerazione del tipo di rappresentazione che ne ha dato l’autrice, il registro adottato nel raccontare il suo vissuto, senza per ciò darne una valutazione di merito, perché non è questo lo scopo.

Il lessico è scabro, sono immagini fredde, anzi glaciali, una fotografia denotativa al limite del minimalismo, sterilizza l’emotività spogliando l’immagine di tutte le sfumature della pratica del dolore, privandoci delle icone confortanti della sofferenza.  L’autrice ha volutamente creato uno scarno catalogo di elementi, ossia gli oggetti della cura, corollario di un corpo ferito che si mostra in tutta la sua disarmante realtà:  una cicatrice esistenziale, difficile da dimenticare, una semiosi disturbante.

Avrà voluto, Maria Cristina Comparato, esprimere una deliberata protesta nei confronti degli stereotipi della femminilità, che ancora invadono lo spazio della nostra visione della donna, effige perfetta di un’estetica imposta culturalmente ?

Lo sfondo bianco accentua la sensazione di vita sospesa e il disagio dell’osservatore che non trova alcun appiglio per sviare lo sguardo: lo schiaffo lo sento arrivare.

Qui nulla è sfumato, accennato, tutto è evidente, lo straniamento non è celato e il fragile ramoscello simboleggia una caducità che si vorrebbe ridimensionare a favore della speranza.

Quale operazione ha voluto compiere questa giovane donna, offrendosi ai nostri occhi con cruda determinazione ? La risposta potrebbe essere contenuta nella penultima fotografia dello sfondo vuoto. Ma anche l’ultima immagine potrebbe contenere un indizio; a noi la conclusione, liberi di sentirla sotto la pelle.


Copyright immagini: Maria Cristina Comparato