PARTE LA CAMPAGNA STAR LIGHT DEL MIT

CONTRO LA TRANSFOBIA

Lavoro, Casa, Studio, Sport e Servizi: questi gli ambiti su cui è incentrata la campagna Star Light, che, attraverso un concept basato sulla visibilità dell’aggettivo trans, concilia la denuncia delle frequenti e trasversali violazioni dei diritti umani delle persone trans con un approccio positivo di affermazione ed empowerment.

Realizzato in partnership con l’associazione Centro Donna e Giustizia di Ferrara e finanziato dall’Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) nell’ambito del PON INCLUSIONE con il contributo del Fondo Sociale Europeo 2014-2020, la campagna Star Light lancia un messaggio contro la transfobia e dà visibilità al lavoro di accoglienza e sostegno svolto dal Centro Antidiscriminazione STAR per le persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+ e in particolare per le persone trans e non binarie.

Lo sportello, aperto a partire dal 25 Luglio 2022, è rivolto alle persone della comunità LGBTQIA+ che necessitano di sostegno per la fuoriuscita da situazioni di violenza omolesbobitransfobica o vulnerabilità. Lavorando in rete con servizi territoriali e centri di accoglienza competenti, STAR garantisce un luogo sicuro e fornisce supporto psicologico, assistenza legale, affiancamento per l’inserimento lavorativo, con l’obiettivo di supportare la possibilità di vivere una vita libera ed autodeterminata.

Promossi dall’UNAR a partire dal 2007, i Centri Regionali Antidiscriminazione costituiscono infatti una rete di presidi il cui compito è quello di contrastare i fenomeni di discriminazione, diffondendo al contempo la cultura del rispetto dei diritti umani e delle pari opportunità. Presenti su quasi tutto il territorio nazionale, si tratta di organizzazioni essenziali per la tutela delle soggettività marginalizzate.

Il presidente del MIT Mazen Masoud, da sempre impegnato nella difesa dei diritti delle persone LGBTQIA+, racconta: “Ancor prima di STAR, il MIT fin dalla sua nascita ha denunciato la violenza, la discriminazione, la non tutela delle persone trans. Da quando abbiamo aperto STAR la gente chiama ogni giorno. Il numero dedicato allo sportello ha cominciato ad essere molto diffuso, essendo attivo 24 ore su 24 riceviamo richieste continuamente, anche durante tutto agosto, di domenica e nei giorni festivi”.

In un anno di attività STAR ha accolto 154 persone di età compresa tra i 19 e i 70 anni, di cui 45% di nazionalità italiana e 55% con background migratorio. Chiamano non solo persone dall’Italia, ma anche residenti all’estero in cerca di aiuto. “Non ci aspettavamo un numero del genere, ma sono effettivamente arrivate molte persone, tutte appartenenti a diversi contesti. Sono persone italiane o con un background migratorio, con diverse identità di genere: donne trans, uomini trans, persone non binarie. Tutte persone che hanno subito violenza. Si rivolgono a noi anche uomini cis gay, che chiamano ad esempio il nostro sportello antiviolenza, quello migranti o lo sportello carcere”.

Importante snodo, infatti, quello che vede l’intersezione tra omolesbobitransfobia e razzismo che le persone migranti subiscono arrivando in Italia: “La transfobia che si trasforma in altre varietà di discriminazione e violenza viene subita da quasi tutte le persone trans con background migratorio. Una donna trans sex worker nera migrante subisce tutto e di più rispetto a una donna trans italiana bianca di una certa classe. Il discorso sulla classe è infatti quello che mantiene il polso della discriminazione. È sicuramente diverso quando si tratta di sex worker migranti senza documenti, una detenuta in carcere o una persona in cerca di accoglienza, soprattutto se appena arrivata sul territorio e priva di una rete di supporto”.

La violenza, dunque, può assumere diverse forme: “Molti episodi di violenza avvengono in famiglia, in contesti amicali e in generale in contesti sociali, ma anche a livello istituzionale, da parte delle forze dell’ordine. Può succedere anche all’interno di servizi sanitari o scolastici, in posta, o all’interno delle commissioni territoriali. Tutte le persone che attraversano i nostri servizi e i nostri spazi sono portatrici di discriminazione multipla. Noi operatrici stesse subiamo discriminazione insieme alla persona che accompagniamo. Basta essere visibili per essere discriminat? e il corpo trans sicuramente lo è”.

Le persone che arrivano allo sportello STAR non sono tenute a denunciare le violenze subite: “Molto spesso è difficile per loro denunciare, per via della mancanza di fiducia nelle istituzioni. A volte le segnalazioni che riceviamo ci portano ad offrire un supporto anche soltanto psicologico: il MIT è infatti un punto di riferimento, uno spazio safe in cui trovare persone alla pari, un sostegno da parte di persone trans per persone trans”.

La lotta verso un cambiamento radicale e verso una prospettiva di libertà è sempre in corso: “È un processo lungo, e per questo per noi STAR Light non è una semplice campagna comunicativa, è molto di più. Qui parliamo di storie, storie di persone vere”.

https://e.pcloud.link/publink/show?code=kZxAJsZi6AtOqytPyVhQUbEtrl6NhaWeBRk

(clicca sul link per visualizzare la galleria delle foto!)

 





Un passo alla volta per riprendersi la vita

Nel caos della vita moderna, le dipendenze possono impadronirsi della vita di qualsiasi persona, senza avvertimento, lasciandola intrappolata in un labirinto oscuro.

Secondo il Rapporto Mondiale sulle Droghe 2023 redatto dall’ONU, c’è stato un aumento del 23% di persone che fanno uso di droghe rispetto a dieci anni fa, mentre ammontano a 500mila le persone decedute per overdose o per cause legate alle sostanze stupefacenti.

Spesso le persone dipendenti vengono stigmatizzate e allontanate dai meccanismi sociali, per vergogna oppure per ignoranza, in un momento in cui dovrebbero essere supportate dagli esperti e dai loro cari.

Proprio in questo discorso si inserisce “Un passo alla volta. La vita oltre le dipendenze” (Giunti 2023), il libro di Vincenzo Aliotta, ideatore e fondatore del Centro Recupero Dipendenze San Nicola, curato dalla giornalista Barbara Bonomi Romagnoli.

Il volume ha un taglio corale perché, oltre a raccontare l’esperienza di Vincenzo Aliotta e del team multidisciplinare che gravita attorno al Centro San Nicola, riporta le testimonianze di persone che sono state dipendenti e che ora hanno ritrovato la propria bussola.

Quello che Vincenzo Aliotta chiama il “mal di denti dell’anima”, ossia la dipendenza patologica da sostanza (alcol e droghe) o comportamentale (ludopatia, dipendenza affettiva/sessuale), è trasversale e può affliggere anche persone insospettabili.

La persona dipendente manca del principio di realtà – sostiene Aliotta – è come un pendolo impazzito che oscilla fra il senso di colpa per ciò che ha fatto e il senso di euforia perché pensa di non farlo più. Non riuscendo più a stare nel qui e ora, il passato la conduce alla depressione e il futuro le dà una finta sicurezza.

Ma un passo alla volta si può uscire dalle dipendenze, proprio come enunciano i dodici capitoli del libro che ripercorrono i principi guida del Metodo dei 12 Passi, ripreso dagli Alcolisti Anonimi, a cui si ispira l’approccio terapeutico del Centro San Nicola. Qui grazie al percorso di breve residenzialità, nell’arco di due mesi si può riprendere in mano la propria vita, con un programma terapeutico personalizzato che si svolge in una struttura immersa nelle colline marchigiane; seguito da dieci mesi successivi di follow-up che prevede anche la messa in rete con i gruppi di mutuo aiuto nei territori in cui si vive.

La dipendenza, spiega Aliotta, non è semplicemente un problema per la singola persona, ma coinvolge anche la famiglia e gli affetti. La partecipazione attiva alla terapia di gruppo aiuta anche i membri della famiglia ad aumentare la consapevolezza dei modi in cui la dipendenza li ha influenzati e di come affrontarla, con l’obiettivo di recuperare e rafforzare i rapporti interpersonali.

Aliotta ha sempre adottato un approccio inclusivo, riconoscendo che le dipendenze possono manifestarsi in molte forme diverse, nel volume sceglie di condividere con lettrici e lettori storie di persone che hanno trovato la forza di combattere le proprie fragilità. Come nel caso di Morena, prima paziente del Centro San Nicola che fin da giovane inizia a bere alcolici in una cittadina di provincia. Prima con gli amici e poi da sola, sempre di più. Perfino una volta diventata mamma non riesce a smettere di bere perché, come sostiene in un passaggio del libro, “la mia vita mi piaceva e avevo l’illusione di gestirla, con una mano dai il biberon al bambino e con l’altra mandi giù in pochi sorsi un bicchiere di rosso, magari a stomaco vuoto per cui poi dài di stomaco e ricominci”.

È dunque un messaggio potente quello che arriva dal testo di Aliotta ma anche un messaggio di fiducia: è possibile trovare il proprio passo per uscire dalle dipendenze o aiutare altre persone a farlo. Per questo è stato scritto in chiave divulgativa, per renderlo accessibile a tutti, anche a chi lavora in questo ambito e vuole approfondire con il racconto di una esperienza unica in Italia.

 

 

 

Vincenzo



Letizia Battaglia Senza Fine, la mostra-omaggio alle Terme di Caracalla – Roma 27 maggio/5 novembre 2023 

Diatomea segnala la Mostra “Letizia Battaglia Senza fine” visitabile alle Terme di Caracalla a Roma dal 27 maggio al 5 novembre 2023

“La passione civile, la capacità di lottare, lo sguardo limpido di chi cerca la verità e la racconta: Letizia Battaglia con la sua macchina fotografica ha attraversato i decenni testimoniando la storia tragica e dolorosa della sua Sicilia e dell’antimafia, ma è stata anche un punto di riferimento per i diritti civili e lo sguardo delle donne.
Militante, editrice, fotografa, con le sue immagini in bianco e nero ha rappresentato il diritto di cronaca senza cedimenti.
A poco più di un anno dalla scomparsa, la Soprintendenza Speciale di Roma, diretta da Daniela Porro, promuove la mostra Letizia Battaglia Senza fine alle Terme di Caracalla. L’esposizione che comprende 92 fotografie, alcune inedite, è curata da Paolo Falcone ed è organizzata da Electa in collaborazione con l’Archivio Letizia Battaglia e la Fondazione Falcone per le Arti.
L’inaugurazione della mostra segnerà un evento importante per le Terme di Caracalla con l’apertura di due nuove sale che ampliano il percorso di visita. La prima sala, nella quale è allestita la mostra, costituisce uno dei vestiboli di ingresso alla palestra occidentale, mentre la seconda era una aula moderatamente riscaldata con una grande vasca. Gli ambienti, al termine di un importante progetto di restauro e recupero, verranno aperti per la prima volta alla fruizione del pubblico.”

fonte del testo Soprintendenza Speciale di Roma

Dove: Terme di Caracalla a Roma
Quando: dal 27 maggio al 5 novembre 2023
Aperture e orari: negli orari di apertura delle Terme di Caracalla (fino al 31 agosto dalle 9.00 alle 19.15, con ultimo ingresso alle 18.15).
Il biglietto di ingresso è di 13 euro (intero) e 7 euro (ridotto)

Buona visita…

Brano: Sirius (Instrumental) – The Alan Parsons Project 




Sebastião Salgado, Amazonia

È sabato mattina ed è una assolata e calda giornata a Roma, così, dopo due anni pressoché barricata dalla pandemia, mi concedo una mostra fotografica. Il Maxxi è vicino casa, posso evitare i blocchi del traffico legati al G20 che si sta svolgendo presso la Nuvola di Fuksas e concedermi l’ultimo progetto fotografico di Sebastião Salgado, Amazonia, unica tappa italiana che potrà essere visionata fino al 13 febbraio 2022. 

Dopo i controlli del green pass e della temperatura accedo al primo piano attraverso una porta che immette subito in uno spazio buio. L’idea, come ci spiega Lélia Wanick Salgado (sua la curatela e il progetto di allestimento) è di mantenere l’area della mostra quasi completamente al buio, puntando la luce soltanto in direzione delle fotografie. Le pareti sono grigio scuro mentre spazi che ricordano le ocas (tipiche abitazioni indigene) sono dipinte con dell’ocra rossa.

Il contraccolpo è notevole, in sottofondo una traccia audio composta appositamente da Jean-Michel Jarre, ispirata ai suoni autentici della foresta, come il fruscìo degli alberi, i versi degli animali, il canto degli uccelli o il fragore dell’acqua che cade a picco dalle montagne.

Dopo il progetto Genesi, dedicato alle regioni più remote del pianeta per testimoniarne la maestosa bellezza, Salgado ha intrapreso una nuova serie di viaggi per catturare l’incredibile ricchezza e varietà della foresta amazzonica brasiliana e i modi di vita dei suoi popoli, stabilendosi nei loro villaggi per settimane e fotografando i diversi gruppi etnici.

La foresta dell’Amazzonia occupa infatti un terzo del continente sudamericano, un’area più estesa dell’intera Unione Europea. Questo progetto è durato sei anni durante i quali ha  selezionato una troupe di studiosi, ricercatori, intermediari con le tribù (lo stesso figlio di Salgado ha scelto questa come missione), e ha optato per un’attrezzatura il più leggera possibile: da anni è passato al digitale affiché nulla potesse distoglierlo dall’obiettivo finale, che è testimoniare, raccontare attraverso l’uso di un telone neutro avvolto nella tela cerata per fotografare gli indigeni senza alcuna prosopopea naturalistica ad interferire.

Sono esposte più di 200 fotografie che propongono un’immersione totale nella foresta amazzonica, invitandoci a riflettere sulla necessità di proteggerla.

La mostra è divisa in due parti. Nella prima le fotografie sono organizzate per ambientazione paesaggistica, con le sezioni che vanno dalla Panoramica della foresta in cui si presenta al visitatore l’Amazzonia vista dall’alto, a I fiumi volanti, una delle caratteristiche più straordinarie e allo stesso tempo meno conosciute della foresta pluviale, ovvero la grande quantità d’acqua che si innalza verso l’atmosfera. Tutta la forza, a volte devastante, delle piogge è raccontata in Tempeste tropicali, mentre Montagne presenta i rilievi montuosi che definiscono la vita del bacino amazzonico. Si prosegue con la sezione La foresta, un tempo definita “Inferno Verde”, oggi da vedere come uno straordinario tesoro della natura, per finire con Isole nel fiume, l’arcipelago che emerge dalle acque del Rio Negro. La seconda parte è dedicata alle diverse popolazioni indigene immortalate da Salgado nei suoi numerosi viaggi, come gli Awá-Guajá, che contano solo 450 membri e sono considerati la tribù più minacciata del pianeta, agli Yawanawá, che, sul punto di sparire, hanno ripreso il controllo delle proprie terre e la diffusione della loro cultura, prosperando, fino ai Korubo, fra le tribù con meno contatti esterni: proprio la spedizione di Salgado nel 2017 è stata la prima occasione in cui un team di documentaristi e giornalisti ha trascorso del tempo con loro.

Attirando l’attenzione sulla bellezza incomparabile di questa regione, Salgado vuole accendere i riflettori sulla necessità e l’urgenza di proteggerla insieme ai suoi abitanti.

La mostra mette in evidenza la fragilità di questo ecosistema, mostrando che nelle aree protette dove vivono le comunità indiane, guardiani ancestrali, la foresta non ha subito quasi alcun danno e ci invita a vedere, ascoltare e a riflettere sulla situazione ecologica e la relazione che gli uomini hanno oggi con essa.

Mette in evidenza Salgado: “La responsabilità della distruzione dell’Amazzonia riguarda il pianeta intero, perché quello è uno spazio minacciato da troppi anni – aggiunge – complice un governo terribile che non rispetta nulla. I problemi c’erano già prima del presidente Bolsonaro, una persona orrenda che non rispetta l’ambiente né gli indios. Quando è andato al potere, era stato già distrutto il 18% di quello spazio naturale. Queste foto – continua – sono nate perché ero convinto di essere in paradiso e avevo il dovere di testimoniare tutta quella bellezza, ma tutte insieme vogliono essere così la testimonianza di ciò che resta di quel patrimonio immenso che rischia di scomparire. Spetta a ogni singolo essere umano del pianeta prendere parte alla sua tutela affinché la vita e la natura possano sottrarsi a ulteriori episodi di distruzione e depredazione

Questa progetto-manifesto ci ricorda che l’Amazzonia, la più grande foresta pluviale del pianeta, rappresenta la maggiore riserva di CO2 e la più ricca concentrazione di biodiversità al mondo. Per questo è da considerarsi un bene di tutti, un bene comune da preservare e difendere.

Vorrei chiudere invitandoVi a vedere questa magnifica mostra ma anche ricordando che proprio oggi avrà inizio la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2021, conosciuta anche come COP (Conferenza delle Parti) 26. È l’evento che tutto il mondo attende: a Glasgow, in Scozia, dal 31 ottobre al 12 novembre 2021, quasi tutti Paesi della Terra si riuniranno per rinnovare i loro obiettivi in materia di clima e mettere un nuovo tassello alla battaglia più importante che l’umanità oggi si trovi ad affrontare. E questa volta, l’aspettativa è che le parti si impegnino per scopi più ambiziosi di quelli stabiliti dalla COP21 con l’Accordo di Parigi.

Molti l’hanno già definita “la migliore, nonché ultima, opportunità del mondo per tenere sotto controllo le conseguenze devastanti del climate change”. Solo per rendere l’idea di quanto questo progetto di Salgado sia centrato ed attuale, sembra che il presidente Bolsonaro si sia presentato a questa Conferenza delle Nazioni sul Climate Change Unite con una delegazione in cui non è figurato alcun indigeno.

 

 




Les Americains, omaggio a Robert Frank.

Peter Gill della galleria Pace-McGill di Manhattan ha confermato la notizia che il leggendario Robert Frank, punto di riferimento imprescindibile per chi si avvicini alla fotografia di reportage, ci ha lasciati all’età di 94 anni a Inverness, in Nova Scotia.

Svizzero di nascita, dopo un’intensa attività come fotografo di moda, si concentra come fotogiornalista freelance in un’intensa attività di viaggi fra Perù e Bolivia, Francia, Spagna, Italia.

Nel 1955 è il primo fotografo europeo a ricevere la borsa di studio annuale promossa dalla Fondazione Guggenheim di New York, che gli consente di attraversare quarantotto Stati, insieme alla moglie e ai due figli, su una vecchia Ford.

Utilizza 687 rulli di pellicola 24×36 mm, ottenendo più di ventimila negativi di cui alla fine ne ricaverà ottantatré fotografie.

Nessun editore americano dimostra grande interesse per questo lavoro e, così, decide di pubblicare Les Americains in Francia con Robert Delpire. L’interesse suscitato dalle edizioni europee porterà infine alla pubblicazione oltreoceano.

Cancellati i testi critici, fa scrivere l’introduzione, un vero e proprio poema beat, all’amico Jack Kerouac con cui aveva viaggiato on the road in Florida nel 1958:

Quella folle sensazione di America, quando il sole picchia forte sulle strade e ti arriva la musica di un jukebox o quella di un funerale che passa. È questo che ha catturato Robert Frank nelle formidabili foto scattate durante il lungo viaggio attraverso qualcosa come quarantotto stati su una vecchia macchina di seconda mano. Con l’agilità, il mistero, il genio, la tristezza e lo strano riserbo di un’ombra ha fotografato scene mai viste prima su pellicola. Per questo Frank sarà riconosciuto come un grande della fotografia…”

L’impatto del libro sul mondo fotografico è enorme, pari solo a quello di New York di William Klein. The Americans e New York segnano il punto di non ritorno di una nuova concezione di fotolibro che verrà poi considerato come lo strumento più adeguato ad esprimere le potenzialità espressive ed estetiche di un’opera di fotografia.

Lontano tanto dal documentarismo sociale quanto dal sentimentalismo che dominava certa fotografia dell’epoca, Frank infrange stereotipi e luoghi comuni dell’immaginario di una società del benessere, che esibisce modelli culturali e ricchezza apparentemente irresistibili. Il mondo di Frank, uscito dal conflitto con grandi speranze,  è il mondo sprofondato nella guerra fredda, maccartismo, razzismo e caccia alle streghe.

Lì dove Klein critica la società dei consumi con intransigenza ed aggressività visiva, Frank la raffigura sofferente, meditata e misurata fotograficamente. Per questa ragione forse è entrata maggiormente nel cuore degli americani.

A chi criticava le sue inquadrature sbilenche, sfocate, dal tono confuso, Frank rispondeva con fotografie non risolte tecnicamente ed esteticamente incompiute, per favorire un flusso di immagini che restituissero un unicum narrativo oltre che la sua inquietudine esistenziale, scaturita anche dalle evidenti contraddizioni della società americana.

 Scrive Jack Kerouak:

Che poesia è questa? Che poesia potrà scrivere un giorno su questo libro di immagini un giovane scrittore nuovo, sballato, chino sulla pagina alla luce della candela per cogliere ogni grigio, misterioso dettaglio della pellicola grigia che ha catturato il vero succo rosa dell’umanità? Se è il latte di umana tenerezza, come lo intendeva Shakespeare, non fa differenza quando guardi queste immagini. Meglio che a teatro”.

 





Il Circolo Gianni Bosio. Parte prima.

Leggendo L’orda d’oro di Nanni Balestrini e Primo Moroni, che racconta la grande ondata rivoluzionaria e creativa dal 1968 al 1977, ho trovato estremamente interessante la sezione dedicata alla ripresa del canto sociale che, alla fine degli anni  Cinquanta, fa assistere alla formazione  di piccoli gruppi organizzati con intenti politici e musicali.

Fra questi il primo nasce a Torino nel 1958 ed assume il nome di Cantacronache.

Suo principale intento è quello di verificare la possibilità di scrivere canzoni non evasive, connesse a situazioni concrete di vita che facessero da contraltare al canzonettismo di Sanremo. Autori dei testi  sono, tra gli altri, Franco Fortini, Italo Calvino, Umberto Eco, per intenderne la portata; gruppo che però entrerà in crisi già nel 1962, dopo aver scelto come interlocutore privilegiato il Pci al cui interno tuttavia alcuni funzionari ne avevano fatto una palestra per ambizioni culturali personali.

Il lavoro svolto da Cantacronache ha però spinto il
militante socialista Gianni Bosio,  (Acquanera sul Chiese 1923 – Mantova
1971) ad avviare, assieme a Roberto Leydi, delle proprie ricerche sul canto
sociale.

Bosio, già direttore delle Edizioni Avanti! casa editrice collegata al giornale del Partito Socialista Italiano, faceva pubblicare la rivista, che fu chiamata  Nuovo Canzoniere Italiano, così chiamata per sottolineare un legame coi canzonieri sociali della tradizione anarco-socialista precedente il fascismo, proponendosi  di studiare la canzone popolare italiana, con lo scopo dichiarato di recuperare una narrazione delle vicende storiche dal punto di vista del popolo. Attorno alla rivista si forma, nel giro di alcuni mesi, un gruppo di cantanti e di ricercatori e decolla un vero e proprio movimento culturale che assume il proprio nome dalla rivista e ad essa affiancherà i Dischi del Sole, spettacoli con veri e propri canti sociali e un’attività di ricerca, polmone portante dell’attività complessiva.

Almeno per tutto il periodo precedente al ’68 gli spettacoli nel NCI si scontrano spesso con la diffidenza dei funzionari del PCI, del PSI e degli altri organismi di massa. Il pubblico di base è costretto a una serie di scelte obbligate (applaudire o non applaudire di fronte a certe canzoni) che lo costringono a un esame più o meno approfondito di quelle due anime che sono in lui, l’anima rivoluzionaria e l’anima burocratica. In altre parole – ed era questo che era inaccettabile ai burocrati d’apparato – il canto sociale si era rivelato come un forte contributo “ad impedire ai militanti e alle nuove generazioni di scambiare il Fronte, o il Centrosinistra, con il socialismo”.

Lo spettacolo più famoso del Nuovo Canzoniere Italiano rimane tuttavia Bella ciao. Un programma di canzoni popolari italiane, autentico caposaldo del folk revival nostrano, rimasto nella storia, che ebbe grande successo di pubblico e critica, e provocò anche scandalo.

Il recital era stato organizzato da Filippo Crivelli, Franco Fortini e Roberto Leydi, su invito di Nanni Ricordi per il Festival dei Due Mondi di Spoleto. Gli interpreti erano Sandra Mantovani, Giovanna Daffini, Giovanna Marini, Maria Teresa Bulciolu, Caterina Bueno, Silvia Malagugini, Cati Mattea, Michele Straniero, il Gruppo di Piàdena, accompagnati dalla chitarra di Gaspare De Lama. Lo spettacolo è rimasto celebre anche perché in occasione di una replica, a causa dell’esecuzione di Gorizia tu sei maledetta, un ufficiale dei carabinieri presente in sala denunciò Straniero, Leydi, Bosio e Crivelli per vilipendio delle forze armate italiane. L’episodio diede un’involontaria notorietà al Nuovo Canzoniere Italiano.

La ricerca si amplierà sino a che Gianni Bosio creerà a Milano con Alberto Mario Cirese l’Istituto Ernesto De Martino nel gennaio 1966 «per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario», il più importante archivio orale del ’68 sia francese sia italiano: l’Istituto ha raccolto materiali di carattere musicale (canti popolari e sociali, danze, riti, rappresentazioni popolari), testimonianze sui momenti più significativi della storia del movimento operaio, biografie di militanti, registrazioni di manifestazioni sindacali e politiche, ordinati in un archivio specializzato per la conservazione, la catalogazione e lo studio delle forme di espressività orale, con annessa biblioteca, videoteca e filmoteca.

Tuttavia tra le conseguenze del successo di Bella ciao ci fu anche quella di determinare una moda per il canto popolare e sociale, sicché anche all’interno del NCI si manifestarono delle spinte verso la mondanizzazione del lavoro e verso forme di accademismo, situazione che determinò  delle spaccature  seguite  da una diaspora e dal progressivo allontanamento di Roberto Leydi dal gruppo.

In quella circostanza fu anzitutto merito di Gianni Bosio di tenere fermo e saldo il materiale popolare nella sua integrità ripartendo dalla ricerca della cultura di classe.

Questa posizione spingerà i ricercatori, per meglio documentare quanto avveniva, a dedicarsi alla pratica dell’obiettivo partecipando a occupazioni di fabbriche, università ed istituzioni totali con risultati di grande importanza. Per esempio, sarà questo a permettere a Sandro Portelli, collegatosi nel 1969 con il suo gruppo romano all’Istituto, di produrre nel 1970 un importante disco di “storia immediata” : Roma. La borgata e la lotta della casa.

È questa una direzione di ricerca-intervento aperta all’inizio di quell’anno da Bosio con una ricostruzione sonora dei “fatti del Lirico” e delle vicende del movimento tra il 19 novembre ed il 04 dicembre 1969. È in quel periodo che si lavora assiduamente per sincronizzare l’uscita dei primi libri di storia con uso di testimonianze orali di base.

Bosio morì nel 1971 e se il gruppo degli spettacoli venne ad essere quintuplicato, il lavoro di gruppo finì per smarrire progressivamente le sue finalità provocatorie, spezzando lo stesso legame che c’era stato in passato tra ricerca e riproposta: la prima rischiò a volte di cadere nell’accademismo, la seconda finì per lo più per integrarsi. In proposito, ricorderà proprio Ivan della Mea: “Noi non ci siamo accorti che stavamo diventando dei cantautori, perdendo la connessione con quel filo rosso che ci aveva collegati alla ricerca. Andando dietro a una sollecitazione di mercato, ancorché a un “mercato di sinistra”, quello delle Feste dell’Unità (molto gratificanti sul piano del pubblico), di fatto abbiamo accettato la dimensione del cantautore. Per quanto riguarda il canto di protesta sociale, la nostra attività perde allora in maniera drammatica il suo momento di alterità e di eversione, proprio perché le sue modalità sono uguali a quelle del mercato.  A quel punto avevamo accettato, chi più chi meno, di cambiare la ragione per cui avevamo cominciato a fare questo lavoro. Venendo a mancare il senso di un’operazione politico-culturale complessiva, eravamo diventati anche noi dei cantautori che ottenevano poi magari al festival nazionale de “L’Unità” a Firenze il massimo del successo con 30/40.000 ascoltatori. Mentre alcuni miei compagni dicevano: finalmente ce l’abbiamo fatta! Io dissi: abbiamo perso”.

Ma cosa è successo al Circolo Gianni Bosio? Ebbene, ha avuto una seconda vita. Ve la racconterò nella seconda parte di questo articolo. Quello che posso anticipare  è che si trova nel cuore di Roma, e noi di Diatomea siamo andati a trovarli.





NON VOGLIO SCENDERE! Femminismi a zonzo

Domenica 10/03/2019, presso la Casa Internazionale delle donne, a Roma, nel corso della Seconda Edizione di Feminism 2 (Fiera dell’Editoria delle Donne) si è tenuta la presentazione di  Non voglio scendere!Femminismi a zonzo, scritto a quattro mani da Barbara Bonomi Romagnoli, apicoltrice, e Marina Turi, informatica.  Entrambe giornaliste freelance e dopo quasi 18 anni di amicizia, condiviso il progetto A/matrix, decidono  di scrivere quello che definiscono un pamphlet , dopo aver ironizzato che l’uomo bianco non definisce libro uno scritto inferiore a 100 pagine; il libro ha  anche il pregio di essere “targato” da Golena Edizioni/Malatempora (www.golenaedizioni.com), casa editrice indipendente che fa della controcultura e della controinformazione il suo fiore all’occhiello.

Sono presenti, in questa giornata, anche Elvira Seminara, giornalista e scrittrice,  che dialoga e apre un dibattito con le autrici e l’editrice Maya Cecchi.

Ci dicono che la prefazione è stata affidata al Collettivo femminista di sex workers e alleat* Ombre Rosse. Un riconoscimento umano ma soprattutto politico importantissimo,  in un momento in cui alcuni femminismi hanno alzato dei muri, chiudendosi, forse, in modelli di autoreferenzialità o zone di comfort.

In tempi come questi che stiamo vivendo leggere Non voglio Scendere! Femminismi a zonzo  è importante perché delle conquiste che
ritenevamo consolidate sono state seriamente messe in discussione.

Così, con gioia, saliamo a bordo di questa metropolitana femminista, intuita grazie all’iconica copertina a cura di Gaia Guarino, che dispiega  “sei tragitti per l’autodeterminazione e la ribellione”, per poter andare e spaziare dove vogliamo, libere anche di fermarci per raccogliere i pensieri  per poi ripartire con curiosità. Questa apparente frammentarietà diviene metafora di mutazione, di movimento, di transizione e di provvisorietà.

http://www.golenaedizioni.com/page.php?192

Ci si sofferma sul tema del linguaggio, sull’urgenza che sia sessuato e non sessista. Di come sia un elemento centrale nella costruzione dell’identità. Ad ogni fermata troviamo un piccolo glossario con vocaboli che invitano alla riflessione. Si viaggia anche attraverso un po’ di storia del femminismo fino ai nostri giorni, attraversando i movimenti che oggi troviamo nelle strade del mondo, il tutto per mezzo di una comunicazione  scrupolosa ma attenta ad essere compresa anche da quelle persone che non sono strutturate sui concetti del femminismo.

Si parla del femminismo pop, che circola nei social network
o nelle serie televisive, si dice che i femminismi non dovrebbero parlare a
nome di altre donne e si smentiscono tanti luoghi comuni, tanti pregiudizi nei
confronti del femminismo stesso.

Si arriva al concetto di femminismo intersezionale delle differenti identità sociali (sesso, etnia, classe, religione, età), ma soprattutto presa d’atto dell’esistenza altrui. Un femminismo che diventa paradigma per combattere  ogni aspetto della discriminazione e dello stigma. Si parla del diritto ad esistere anche come trans. Tante voci, tante interviste, tante storie ognuna a suo modo unica ed illuminante.

Si parla di sesso, andando oltre “la mistica della
sessualità” . Forse uscirete da alcuni luoghi comuni e ridisegnerete l’idea che
avete dell’immaginario maschile sui corpi delle donne.

Insomma quello che Barbara e Marina ci stanno dicendo è che anche se il sessismo impera, la rivoluzione è a portata di mano. Sta a noi viverla.




Lisetta Carmi. La bellezza della verità.

Fino al 03/03/2019 sarà visibile al Museo di Roma in Trastevere la mostra fotografica dedicata a Lisetta Carmi, prima sua esposizione pubblica nella capitale, all’incirca 170 immagini della fotografa genovese (ultranovantenne).

La rassegna antologica è ripartita in tre distinti nuclei di lavoro: Metropolitain, del 1965, dedicata alla metropolitana parigina; I Travestiti, del 1972;  Acque di Sicilia (1977). Il tutto nell’arco temporale di vent’anni, dagli anni Sessanta ai Settanta.

Appena si entra nel museo balzano agli occhi le immagini della prima sezione, dedicata alla città di Genova.

Le immagini dedicate al porto,  commissionatele dalla “Società di Cultura” nel 1964, costituiscono uno dei reportages più significativi del dopoguerra. Appare immediatamente evidente che le tematiche del lavoro, delle lotte sociali, la sofferenza del vivere quotidiano delle classi sociali più deboli sono gli aspetti prediletti di Lisetta Carmi. Questa narrazione del porto di Genova e dei camalli costituisce senza dubbio un’adesione al clima di protesta di quegli anni della classe operaia; Lisetta familiarizza con alcuni operai per essere introdotta fin dalle prime ore del mattino nei luoghi di lavoro; il resoconto fotografico non tralascia nessun dettaglio: i pesanti macchinari utilizzati nelle varie operazioni, le polveri nocive che scaturiscono nello scarico delle merci o nelle riparazioni delle navi, i corpi virili esposti senza protezione anche nelle fasi più critiche del lavoro , salvo le improvvisate coperture con i sacchi di juta a proteggere il capo e il corpo. I portuali lavorano senza caschi o tute idonei, esponendosi senza le corrette condizioni di sicurezza. I gesti di fatica si alternano alle belle e suggestive immagini delle imbarcazioni dalla foggia orientaleggiante, l’uso ormai allenato della tecnica di ripresa rende tutto il lavoro coerente, non privo di ricerca estetica. Questa mostra girerà in Italia ed approderà  persino in Unione Sovietica.

© Lisetta Carmi

L’attenzione al mondo dei lavoratori resta una costante nell’opera di Carmi. Il fratello Eugenio, consulente artistico all’Italsider, la introduce alla realtà delle fabbriche. Lisetta organizza presso il circolo aziendale “Cornigliano” una serie di ascolti di musica classica e sorteggia poi i dischi tra gli operai. Carmi realizzerà una serie di scatti fotografici nei cantieri e all’interno delle acciaierie, nei luoghi dove Luigi Nono e Giuliano Scabia registrano “La fabbrica illuminata”, dedicata agli operai dell’Italsider.

© Lisetta Carmi

Molto rivoluzionari  appaiono anche gli scatti del Cimitero monumentale di Genova. Carmi tralascia la dimensione romantica dei monumenti funebri commissionati dalla borghesia per evidenziare una lettura di indagine socio-antropologica evidente sin dal titolo: “Erotismo e autoritarismo a Staglieno”.

© Lisetta Carmi

Dopo una carrellata delle immagini dei suoi viaggi, Israele, India, Pakistan Nepal, Messico, Colombia, Venezuela, si arriva alla sezione intitolata Acque di Sicilia, un volume pubblicato nel 1977 con testi di Leonardo Sciascia. Il progetto, commissionato dalla Dalmine, prevedeva una ricerca sui percorsi d’acqua sull’isola. Pur riallacciandosi alla fotografia etnografica questi scatti evidenziano una visione più intensa e personale , lo sguardo di Lisetta Carmi ritrae donne, uomini colti nella quotidianità ed immersi in un’atmosfera sospesa, i volti segnati dalla fatica e dal tempo si fanno anch’essi paesaggio, diventano protagonisti primari del racconto. Gli uomini ritratti con i tipici copricapo, le donne coperte da veli neri, immagini in cui risalta la netta separazione dei gruppi: divisi per sesso nei luoghi deputati che la cultura contadina del mezzogiorno, e non solo, impone.  Gli uomini da una parte seduti sulle sedie e sulle panchine nei marciapiedi o sul ciglio delle osterie , dentro le botteghe a giocare a carte, o in piazza, quasi ipnotizzati dalla luce feroce del giorno. Le donne, quasi nascoste, timidamente mostrano i loro volti dietro le tende dei balconi o dietro le persiane delle finestre delle abitazioni; se riprese in strada non sostano mai in ozio, sono spesso accompagnate dai bambini, trasportano cibo, governano animali.

© Lisetta Carmi

Proseguendo con la mostra si arriva alla sezione Ritratti.  Sempre attenta alle nuove istanze della
cultura e della società, Carmi frequenta il vivace e impegnato ambiente
artistico che ruota intorno alla Galleria del Deposito a Boccadasse, dove
fotografa, tra gli altri, Lucio Fontana, Emanuele Luzzati, Konrad. A Ivrea nel
1967 fotografa Edoardo Sanguineti, Alberto Arbasino. Nel 1969 è invitata da
Elvio Fachinelli al contro congresso di psicanalisi a Roma dove ritrae Jacques
Lacan. Risalgono al 1999 i ritratti all’agronomo giapponese Masanobu Fukuola,
da lei chiamato all’ashram di Cisternino per divulgare l’agricoltura naturale.

Famosissimi i suoi scatti ad Ezra Pound , scattati in pochi attimi a Sant’Ambrogio di Zoagli nel 1966. Lisetta Carmi vince il prestigioso “Premio Niépce per l’Italia”. Umberto Eco membro della giuria, commenta: “Le immagini di Pound scattate da Lisetta dicono più di quanto si sia mai scritto su di lui, la sua complessità e natura straordinaria”.

© Lisetta Carmi

Racconta lei stessa: “Era l’11 febbraio del 1966 quando, su invito del direttore dell’Ansa di Genova, andai a fotografare Ezra Pound. Avevo con me un negativo 400 ASA e una Leica 35 mm. Arrivammo senza sapere che Pound era solo in casa, ammalato. Al nostro bussare, dopo un lungo silenzio, fu lui stesso ad aprire la porta, poi uscì per pochi minuti e, senza dire una parola, rientrò. Nel breve lasso di tempo in cui lo ebbi dinnanzi scattai venti fotografie . A Genova, in camera oscura, sviluppai il negativo, stampai, e la straordinarietà di quel fugace incontro mi apparve lì, sulla carta fotografica. Nelle fotografie c’era tutto quello che avevo visto in Ezra Pound. Su venti scatti scelsi dodici fotogrammi, i più significativi per comunicare l’impressione immensa che avevo avuto del poeta. Quell’impatto con Ezra Pound è presente ancora oggi come non fosse trascorso neanche un giorno. Dalle dodici fotografie vedo ancora emergere intatti la solitudine, la disperazione, l’aggressività, lo sguardo perso nell’infinito, tutto ciò di cui è difficile dire a parole, la drammatica grandezza del poeta”.

L’ultima parte
esposta al piano terra
, Metropolitain è un libro di artista,
realizzato da Lisetta Carmi in un’unica copia nel 1965. Una custodia in cartone
ricoperta da immagini a grandezza naturale delle piastrelle della metropolitana
di Parigi contiene il menabò del volume, dove fotografie originali si alternano
a pagine ritagliate dal volumetto Instantanés di Alain Robbe-Grillet. Con Metropolitain Carmi si classifica
seconda al premio Centro, premio per la cultura nella fotografia.

La scelta del soggetto ignora la città nei suoi aspetti più consueti per concentrarsi sulle riprese all’interno della metropolitana; ne scaturisce un progetto coerente ed innovativo che, ancora una volta, l’avvicina alle avanguardie culturali coeve. Le immagini riprendono in vari momenti della giornata e in varie stazioni parigine il flusso indistinto dell’umanità anonima che attraversa i sotterranei della città: donne, uomini, accumunati dall’utilizzo del mezzo pubblico vengono ripresi nella quasi meccanica sosta dinnanzi al portillon automatique, nell’attesa dei vagoni, all’interno di essi, nello scendere le scale e risalirle, persi nei loro pensieri e nelle loro esistenze, gli sguardi che vagano ma non si incontrano. Lisetta li immortala nei gesti asettici e ripetitivi della loro quotidianità restituendoci indimenticabili immagini pervase da un’atmosfera di alienazione.

Ci sono poi gli scatti del 1962 in cui collabora come fotografa di scena con il teatro Duse di Genova. Fotografa molti spettacoli di Quartucci, le rappresentazioni di avanguardia del CUT, Centro Universitario Teatrale. In questi anni di intensa sperimentazione teatrale e musicale Lisetta Carmi realizza una serie di ritratti dedicati a personalità della musica e dello spettacolo come Carmelo Bene, Cathy Barberian, Luigi Nono, al Living Theatre, a Charles Aznavour, Gino Paoli, Ivan Della Mea, Giovanna Marini.

© Lisetta Carmi

Al piano superiore, in una stanza con un grande piano collocato al centro, troviamo il Quaderno musicale di Annalibera, in cui interpreta con il mezzo fotografico l’opera di Luigi Dallapiccola, formando un fascicolo che lei stessa stampa e rilega a mano in poche versioni, ognuna diversa dall’altra, con alcune varianti nell’impostazione grafica e nella dimensione. I fogli datati “Genova, 20 luglio 1962” sono accompagnati da testi in cui racconta l’incontro a Firenze con il musicista. Commenta: “ Il Quaderno musicale di Annalibera per pianoforte di Luigi Dallapiccola è composto di undici brevissimi pezzi collegato da una ideale linea costruttiva costituita dalla serie o “inventio” che tutti li genera. In questa composizione io ho sentito l’essenza tragica della nostra esistenza espressa attraverso una costruzione musicale: questo ho cercato di esprimere graficamente attraverso il mezzo fotografico. (…) La poesia, la chiarezza, l’unità della musica io ho cercato di mantenere nella interpretazione grafica che ho fatto del Quadernodi Dallapiccola. Alla purezza dell’espressione musicale ho dato un segno essenziale e penetrante: la “linea” intesa come verità. Verità assoluta  nel primo pezzo “simbolo”, poesia sospesa nell’ultimo “quartina”.

Il cuore della mostra è a mio avviso  la sezione dedicata a “I travestiti”, lungo racconto per immagini che Lisetta Carmi intraprende, nella notte di San Silvestro nel 1965, sulla comunità di “travestiti” del centro storico di Genova. Dopo quella sera, in cui scatterà diverse fotografie, per i sei anni successivi condividerà tutti i momenti della loro quotidianità, convinta che “non esistono gli uomini e le donne, esistono gli esseri umani”. Il libro “I travestiti”, a cura di Sergio Donnabella con testi di Lisetta Carmi ed. Elvio Fachinelli, sarà pubblicato solo nel 1972.

© Lisetta Carmi

Come lei stessa ha più volte ribadito, la frequentazione dei transgender genovesi è principalmente un vissuto umano che l’aiuterà nel suo percorso esistenziale più intimo, forse è proprio per questo che questo progetto fotografico risulta la ricerca più completa  e complessa dell’artista, dove più componenti entrano in gioco, non una mera campagna documentaristica ma una consapevole collaborazione che evidenzia lo stretto legame tra soggetto fotografato e chi fotografa una relazione, in cui l’uno si riflette nell’altro attraverso il medium fotografico. Le numerose immagini ritraggono i travestiti in varie situazioni della loro vita quotidiana, dalle più intime e trasgressive, dove il corpo viene esibito seminudo in tutta la sua diversità provocatoria sul divano del salotto buono, a quelle più familiari o rassicuranti con i volti appena truccati e i vestiti della quotidianità: la Novia, la Morena e le altre sono riprese nelle anguste strade della Genova malfamata, in posa, sorridenti con i bambini del vicolo. Ne scaturisce una spontaneità e una familiarità da queste immagini dove non trapela una distanza da indagine antropologica, nessuna diversità è sotto osservazione, soltanto “esseri umani che vivono e soffrono tutte le contraddizioni della nostra società  come minoranza ricercata da una parte e respinta dall’altra”. La Carmi ne coglie la grande potenzialità umana e rivoluzionaria, si innamora del loro quotidiano vivere la diversità e ne fa, attraverso le indimenticabili immagini, un vero e proprio manifesto di libertà  e di battaglia dei diritti umani e civili. Sono gli anni Sessanta dello scorso secolo e approfondire una simile tematica in quegli anni e farne un esaustivo reportage attraverso le immagini, e poi una coraggiosa pubblicazione, è un atto di potente denuncia sociale che anticipa campagne e lotte che si affronteranno soltanto molti anni più tardi.

Ma del resto la giovinezza non è un fatto anagrafico, si sa.


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web e possono essere soggette a copyright, le altre sono coperte dal diritto d’autore © Lisetta Carmi




L’INVASIONE DI PRAGA di JOSEF KOUDELKA apre a PALERMO.

Koudelka’sInvasion 68 PragueOpens in Palermo, così titola Magnum Photos!

Centro Internazionale di Fotografia di Letizia Battaglia ©MjZ

La mostra, inaugurata il 27/10/2018, sarà visibile fino al 31/01/2019 al Centro Internazionale di Fotografia di Palermo diretto da Letizia Battaglia, presso il Padiglione 18 dei Cantieri Culturali della Zisa.

Noi di Diatomea non potevamo perdere questo evento, che fa parte del circuito “Palermo Capitale italiana della Cultura”, l’abbiamo goduto nel silenzio di un’assolata giornata feriale di novembre, con la sorpresa di incontrare proprio lei, Letizia Battaglia, che, molto gentilmente, ci ha anche concesso in esclusiva un piccolo “cameo” che siamo ben felici di condividere con voi!

Come spiega molto bene Irena Šorfova, in un pannello all’ingresso della impressionante mostra in esposizione, il giorno prima dell’invasione degli eserciti del patto di Varsavia in Cecoslovacchia, nell’agosto del 1968, il fotografo trentenne Josef Koudelka (oggi ottantenne), arrivò a Praga direttamente dalla Romania, dove, su invito dell’agenzia Magnum, stava documentando la vita degli zingari, tema sul quale lavorava intensamente già da qualche anno, dopo aver abbandonato la carriera di ingegnere aeronautico.

Racconta Koudelka: «Il telefono squilla alle quattro del mattino; rispondo; un’amica grida: “Sono arrivati i russi”. Penso ad uno scherzo e abbasso. Suona una seconda volta, non ci credo e riattacco di nuovo. Alla terza telefonata la voce urla: “Apri la finestra e ascolta”. Mi alzo, metto la testa fuori per due minuti e sento il rumore degli aerei militari. Capisco che sta succedendo qualcosa. Mi vesto in fretta, prendo la macchina fotografica e tutte le pellicole che mi sono rimaste, ero tornato il giorno prima dalla Romania dov’ero stato a fotografare gli zingari. Scendo in strada, comincia appena ad albeggiare, istintivamente mi dirigo verso la sede della radio, a meno di un quarto d’ora da casa. I russi erano andati alla radio anche nel 1945. Ma allora erano venuti per liberarci».

Nonostante non si fosse mai occupato di reportage, le sue immagini, scattate durante quei sette giorni drammatici di agosto, fanno parte oggi dei classici della fotografia di reportage del dopoguerra.

Grazie ad Anna Fárová, storica della fotografia, ed Eugen Ostroff, curatore del Smithsonian Institute, si riuscirono a far entrare negli Stati Uniti una selezione di queste fotografie. Ostroff mostrò gli scatti ad Elliott Erwitt, fotografo e allora presidente dell’agenzia Magnum Photos. Il reportage di Koudelka fu poi pubblicato dall’agenzia Magnum nel primo anniversario dell’invasione, su molte riviste internazionali, senza che fosse riportato il nome del fotografo. Nello sforzo di proteggere Koudelka e la sua famiglia, queste fotografie furono attribuite dall’agenzia a un “fotografo sconosciuto”. Nello stesso anno Koudelka ricevette un premio, quello dell’Overseas Press Club, che conferì al “fotografo ceco anonimo” la medaglia d’oro “Robert Capa”. Temendo che la paternità delle fotografie potesse essere scoperta facilmente dalla polizia cecoslovacca, Koudelka non tornò più a casa dal suo viaggio in Europa occidentale.

Nel 1984 tenne la sua prima grande mostra alla Hayward Gallery di Londra. In quel periodo, dopo la morte del padre, non sussistendo più alcun rischio per la sua famiglia, Koudelka, per la prima volta, ammise pubblicamente la paternità di queste foto, che furono esposte a Londra, nella Hayward Gallery e pubblicate successivamente anche dal Centre National de la Photographie di Parigi.

Solo nel 1990 queste foto furono pubblicate per la prima vola in Cecoslovacchia, dopo 22 anni, nel supplemento della rivista Respect.

L’invasione dell’agosto 1968 è stata documentata da molti fotografi cechi e stranieri. A nessuno di loro è riuscito però di catturare gli avvenimenti con tale intensità e completezza. In tutti i luoghi in cui qualcosa avvenne, Koudelka c’era.  Ceco di origine, francese naturalizzato, in una frase che forse riassume il senso di tutta la sua produzione fotografica, afferma che Pour essere photographe, il faut être nomade (“per essere fotografo, bisogna essere nomade”).  Koudelka abita il momento dello scatto, lo arreda dei sentimenti dei personaggi che inquadra, costruisce geografie emotive attraverso specifiche gerarchie compositive, le inquadrature diventano affreschi del tempo e dello spazio che vive, sia che descrivano i carri armati nelle strade, sia che riprendano la rabbia di tanti che cercano di fermare la violenza anche solo con il proprio corpo, il pianto o la disperazione.

Le sue immagini in bianco e nero, i cui soggetti sono spesso sfumati, travolti dagli eventi che li circondano, sono immagini che lasciano intuire la lucidità emotiva ma anche la grande umanità di Koudelka. Così racconta: “Mi sono trovato davanti a qualcosa più grande di me. Era una situazione straordinaria, in cui non c’era tempo di ragionare, ma quella era la mia vita, la mia storia, il mio Paese, il mio problema”.

Con gli occhi di chi era già esule nella propria patria Koudelka ha scritto una delle pagine più emozionanti della storia della fotografia. Ma questa condizione, per molti schiacciante e alienante, gli ha permesso di essere il fotografo meraviglioso che è, perché come lui stesso afferma, “l’esilio ti fa due regali: il primo è che ti costringe a costruirti una nuova vita e ti dà la possibilità di farlo in un ambiente nuovo dove nessuno ti conosce e ha pregiudizi su di te; il secondo è che, quando torni a vedere il tuo Paese, lo fai con occhi diversi. Nel 1991 a Praga è stato formidabile: ogni mattina mi svegliavo prestissimo e cominciavo a camminare per guardare più cose possibili. Quando vivi in un luogo a lungo, diventi cieco perché non osservi più nulla. Io viaggio per non diventare cieco».


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IL SEGNO DEL TERREMOTO Due anni dopo …

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Il progetto “IL SEGNO DEL TERREMOTO. Due anni dopo …” è nato dalla collaborazione tra le Associazioni Onlus Diatomea e Amate l’Architettura, in occasione della cerimonia di Consegna delle S.A.E. ai 40 nuclei familiari aventi diritto, avvenuta il 24 marzo 2018 nell’area di Piazzale Piccinini a Castelsantangelo sul Nera.
Lo scopo del progetto è quello di non smettere di raccontare la situazione a due anni dal sisma che ha colpito la Regione Marche, e di continuare a farlo attraverso le parole della Comunità che è tornata a vivere nei propri luoghi, dopo essere stata, per più di un anno, dislocata lungo la costa adriatica o costretta a vivere all’interno di roulottes.
Esemplare è il lavoro svolto da Mauro Falcucci, Sindaco di Castelsantangelo sul Nera, che non ha mai smesso di lottare per il proprio territorio e per la propria gente, così come lo è la dedizione, totale e costante, con cui l’architetta Anna Marzoli continua a sostenere e ad organizzare eventi per tenere viva la Comunità. A tal proposito, nel Quaderno si parla di due eventi ai quali le Associazioni hanno partecipato con grande spirito.
Il primo è la Mostra fotografica “Torno a Primavera: segni e tracce di Castelsantangelo sul Nera, comunità viva” a cura dell’arch. Anna Marzoli, organizzata all’interno dell’evento “Castel di Maggio” promosso dal Comune di Castelsantangelo sul Nera presso la Sala polivalente “Casa Amici del Trentino”, che è stata inaugurata lo stesso giorno della consegna delle S.A.E. e che è stata donata al Comune il 24 marzo 2018 dall’Associazione “Solidarietà Vigolana onlus” di Trento, dell’Amministazione Comunale di Altopiano della Vigolana, dall’Associazione “Pro loco” di Revò, dall’Amministazione Comunale di Revò e dalla Cavit Trento, come atto di solidarietà a seguito del terremoto che ha colpito la Comunità delle Marche il 24/08/2016.
Il secondo si è svolto in occasione della Giornata Nazionale del Camminare del 14 ottobre 2018 “Camminiamo per Castelsantangelo sul Nera. Camminiamo nel cratere” organizzata dall’architetta Anna Marzoli, che ha visto la partecipazione della FederTrek, per la quale ha presenziato ed è intervenuto Paolo Piacentini, Presidente Nazionale, e del Movimento Tellurico, per cui ha presenziato ed è intervenuto Enrico Sgarella, Presidente APS. Questo evento ha visto soprattutto la partecipazione di tutta la Comunità locale che, in linea con i principi per cui è nata la Giornata Nazionale del Camminare, ha contribuito a sostenere la diffusione della cultura del camminare attraverso il coinvolgimento diretto dei cittadini.

Le suggestioni personali e le interviste rilasciate tra le persone sono state raccolte nel Quaderno “COMUNITÀ di DESTINO. Castelsantangelo sul Nera”, di cui vi proponiamo la lettura digitale.

Quaderno Anno II n.2 ottobre 2018

Le Associazioni onlus Diatomea e Amate l’Architettura, da sempre impegnate nel sociale, sono e saranno presenti sul territorio per continuare a contribuire nella divulgazione della situazione post-terremoto nei Comuni e nelle frazioni delle Marche.

vai al Quaderno Anno I n.1 ottobre 2017 “MEMORIE SILENTI. Castelsantangelo sul Nera”

Ringraziamenti speciali.

Si ringrazia per la collaborazione e per il contributo documentario:
Mauro Falcucci, Sindaco di Castelsantangelo sul Nera; Ovidio Valentini, Vice sindaco; Anna MarzoliFabio FacciaroniMaurizio PittanaRenato Taschini; Rita BozziGregorio CeccarelliStefano VernuccioMirella GattariPaolo PiacentiniEnrico Sgarella; gli abitanti di Castelsantangelo sul Nera per la loro disponibilità e gentilezza.


 

Nel tempo il valore culturale dell’Architettura si è definitivamente dissolto nell’immaginario collettivo con la conseguente, inconsapevole, distruzione delle nostre città, dovuta alla scomparsa dell’Architettura dagli spazi in cui viviamo. Il ruolo dell’architetto nella società è divenuto marginale e il suo contributo non è più ritenuto fondamentale. Parte della responsabilità è proprio di noi architetti che abbiamo una forte individualità e una difficoltà nel condividere le identità in un percorso comune. Ne consegue una maggiore vulnerabilità a vantaggio delle altre categorie ed una minore competività sul mercato del lavoro. Per ribaltare questa realtà, crediamo che sia necessario unire le forze. E’ con questo spirito che abbiamo deciso di fondare un Movimento per la difesa dell’Architettura contemporanea.
Ci proponiamo: La divulgazione del valore dell’Architettura contemporanea nella società; la promozione di una legge per l’Architettura; la sensibilizzazione della politica, dei mass-media e dei costruttori al valore dell’Architettura e al rispetto del progetto; la valorizzazione del ruolo dell’Architetto nella società e la tutela del progetto come opera dell’ingegno; la ridefinizione delle competenze tra Architetti, Ingegneri, Geometri e periti tecnici; il ripensamento della formazione Universitaria dell’Architetto. Il Movimento non vuole essere un’ennesima Associazione di architetti che si perde nei dibattiti, nelle conferenze, nelle mostre, frequentate sempre e soltanto da noi architetti, ma vuole compiere azioni concrete che possano modificare l’attuale situazione in cui versa l’Architettura in Italia. Abbiamo svolto, fino ad oggi, numerose azioni, rivolgendoci agli Ordini professionali, alle Università, ai Costruttori, ai Giornali, alle Amministrazioni, ai Politici e alle Istituzioni, riteniamo inoltre fondamentale coinvolgere la popolazione per far tornare la gente ad “amare l’architettura”.

E’ attivo un  gruppo su facebook, amate l’architettura, se vuoi collaborare al movimento scrivendo articoli sul blog, partecipando, inviando proposte, suggerimenti, contattataci: info@amatelarchitettura.com

Abbiamo redatto un manifesto, sottoscritto da centinaia di persone, se condividi il nostro spirito e le nostre idee sottoscrivi il manifesto


Per il quaderno “COMUNITÀ di DESTINO. Castelsantangelo sul Nera”:

Tutti i testi e tutte le immagini sono coperte dal diritto d’autore.

© Per i testi e le interviste: Raffaella Matocci
© Per tutte le immagini: Monja Zoppi – ©MjZ
Durante la realizzazione del presente Quaderno ci si è premurati di chiedere l’autorizzazione ai diretti interessati per l’utilizzo delle interviste rilasciate.
Nessuna parte di questo Quaderno può essere riprodotta con alcun mezzo senza l’autorizzazione delle associazioni Diatomea ed Amate l’Architettura.