Dieci anni di Bande de Femmes

Tre giorni di dibattiti, arte, libri, idee, per festeggiare i primi 10 anni del festival: è Bande de femmes, banda di donne (e femministe) che nel gioco linguistico con il francese indica anche le strisce illustrate dei fumetti.
A Roma, nel cuore del Pigneto, torna dal 6 all’8 luglio l’iniziativa a cura di Sarah Di Nella, Ginevra Cassetta e Marta Capesciotti e organizzato dalla Libreria Tuba.
Anche quest’anno il festival è stato anticipato da una Notte a colori, il 1° luglio scorso, in cui vernissage di mostre di diverse artiste hanno animato diversi luoghi del quartiere e molte saranno visitabili anche nei prossimi giorni.
Il programma prevede diverse protagoniste dalla scena internazionale queer fra cui Frances Cannon, Roma De Las Heras e Cocoriot, ma anche il nuovo libro di Nicoz Balboa, tattoo artist e fumettista italiano, che con “Transformer” [Oblomov Edizioni] affronta il percorso della transizione di genere e l’accettazione della propria identità. Fra gli esordi segnaliamo in particolare la prima edizione italiana, “Anna” [Rulez edizioni], di Mia Oberländer, giovane autrice tedesca e la graphic novel di Santamatita, torinese, che presenta un’opera molto originale dal titolo “L’ultima estate al cimitero” [BAO Publishing], con sensibile ironia affronta un tema delicatissimo come quello del lutto e immagina un improbabile luogo di villeggiatura che sta per essere chiuso, con grande disorientamento dei sui consueti villeggianti.
E poi ancora, il 7 luglio si parlerà di fanzine e l’8 luglio un evento in collaborazione con l’associazione A Sud che intende coinvolgere anche la cittadinanza. Tre fumettiste disegneranno dal vivo alcune “Tavole narranti”: su supporti removibili, immagini esplicative del ciclo dei rifiuti per sensibilizzare e coinvolgere il pubblico e il quartiere su tematiche eco-femministe, ambientaliste e sull’emergenza climatica.
Come gli altri anni sono previste presentazioni ‘animate’, con traduzione Lis in diretta, traduzioni dalle lingue straniere, live painting con artist3 di varie nazionalità e incontri di vario genere – da Eccentriche, alla scoperta di storie che hanno rotto con le convenzioni, a
Dialoghi d’autrici, con la presentazione di un fumetto, passando per Matite fuori dai cardini, per stimolare dibattiti sui femminismi disegnati e Sceno/grafiche, un’immersione in mondi altri, tra arti, immaginari e nuovi linguaggi.
Il programma completo è consultabile online su www.bandedefemmes.it
Tutti gli eventi sono gratuiti.

 

Transformer 90
Transformer_ copertina
Nicoz Balboa
Fronte
L’ULTIMA ESTATE AL CIMITERO_p9
L’ULTIMA ESTATE AL CIMITERO_p8
Foto autore-SantaMatita
COVER L’ULTIMA ESTATE AL CIMITERO
ANNA 141




LA TRILOGIA MARSIGLIESE di Jean-Claude Izzo

Marsiglia, Francia ©MjZ

Marsiglia non è una città per turisti. Non c’è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Qui, bisogna schierarsi. Appassionarsi. Essere per, essere contro. Essere, violentemente. Solo allora, ciò che c’è da vedere si lascia vedere ”.

Così Jean-Claude Izzo descrive Marsiglia nella trilogia che lo farà diventare autore di culto e capostipite del “Noir Mediterraneo”, genere da lui codificato e portato alla massima espressione.

Casino TotaleChourmo. Il cuore di MarsigliaSolea, i tre capitoli che compongono l’opera, sono più di una trama avvincente, sono un inno alla città natale dello scrittore; bastano infatti pochissime righe affinché il lettore si innamori in maniera viscerale e acritica di vicoli e piazze che forse, in precedenza, aveva sentito nominare solo per la nefasta fama della Città durante i primi anni Novanta. Protagonisti assoluti, anche quando non vengono nominati sono due luoghi: Il Vieux-Port e Le Panier, il primo, crocevia di razze, galeotti, prigionieri, profumi e colori che descrivono Marsiglia più di mille guide turistiche; il secondo è semplicemente il quartiere più antico, là dove non solo “Massilia” è nata, ma anche dove cambia e migliora la sua storia.

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     Marsiglia, Francia ©MjZ

Sarebbe facile parlare della trilogia descrivendo le vicissitudini del protagonista, Fabio Montale, e della sua sgangherata vita, ma questo libro va letto con occhi diversi, con sensi diversi. Nelle pagine troverete sentimenti vividi, profumi inebrianti e colori ancestrali; emozioni talmente forti che spesso vi chiederete se non siate proprio voi a camminare per il Vecchio Porto o se non sia l’amore della vostra vita che vi sta cucinando la bouillabaisse nella cucina accanto.

Questo libro va anche ascoltato, però, la musica è il filo conduttore che unisce lo scrittore con il suo alter ego, Fabio Montale, e non può essere una semplice casualità il fatto che i tre titoli dei libri siano anche, e soprattutto, tre titoli di canzoni.

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Marsiglia, Francia © MjZ

E come il Jazz, che ammanta ogni singola lettera della trilogia, anche Jean-Claude Izzo è elegante, ha stile ed è estremamente diretto, la sua penna descrive sentimenti ai limiti e sfumati come la malinconia, la rabbia, l’amicizia, la solidarietà ed il razzismo; descrive, soprattutto, le contraddizioni dell’animo umano attraverso forse la città più contraddittoria di tutta Europa. Marsiglia d’altronde è chiusa dalle montagne e poi fugge verso il mare; Marsiglia è la città di chi arriva e di chi parte, Marsiglia è semplicemente noi e la nostra continua lotta tra arrendersi e lottare, tra il farsi coccolare dalle acque placide di un porto o sfidare il mare aperto con le sue onde che potrebbero essere mortali. Parafrasando Victor Hugo, Marsiglia oltre gli sconfitti, i romantici, i disadattati, oltre i margini “è la gioia di sentirsi vivi”.

“Penso al golfo di Marsiglia”, / Un’angoscia che si sveglia / Un frammento di cuore pieno d’esilio» Louis Brauquier

Immagine di Jean-Claude Izzo tratta da © https://ilmanifesto.it/jean-claude-izzo-il-cuore-di-marsiglia/

Di fronte al mare la felicità è un’idea semplice

da Chourmo. Il cuore di Marsiglia

Anche per perdere bisogna sapersi battere; anche senza possibilità, scommettere significa sperare; l’onore dei sopravvissuti è sopravvivere; è nel dolore che si riscopre di essere un esiliato

da Casino Totale

Lontano dagli occhi vicino al cuore, Marsiglia, sempre

da Solea

Marsiglia, Francia © MjZ

“Monterà in voi la limpida felicità di essere qui un giorno, una settimana, oppure un mese. O per sempre, magari” 

Jean-Claude Izzo

« Le persone che abbiamo amato non muoiono mai. Viviamo con loro. Sempre… Vedi, è come questa città, vive di tutti quelli che ci hanno vissuto. Tutti ci hanno sudato, faticato, sperato. Mio padre e mia madre sono ancora vivi in queste strade.» «Una città di esiliati» «Si, è così. Questa città sarà sempre e soltanto l’ultimo scalo del mondo. Il suo futuro appartiene a coloro che arrivano. Mai a quelli che partono.» «Oh! E chi resta, allora» «Sono come chi sta in mare, Felix. Non si sa mai se sono morti o vivi»“ da Chourmo


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati o per gentile concessione dell’autore, tutte le altre sono coperte dal diritto d’autore ©MjZ




“La casa delle voci” di Donato Carrisi

Era il gennaio del 2009 quando in Italia usciva Il suggeritore, opera prima di Donato Carrisi, specializzato in “criminologia” e “scienze del comportamento”, destinata a ridisegnare gli elementi fondanti del genere letterario comunemente indicato come “ thriller psicologico”, genere che fino ad allora aveva avuto i propri maestri indiscussi negli Stati Uniti, capaci, per anni, di tenerci incollati alle loro pagine. Il suggeritore, per chi scrive, ha ottenuto il medesimo effetto nel mondo del “Crime” di quello che “Nevermind” ha avuto nella scena musicale alternativa dei primi anni Novanta. Romanzo seminale, rivoluzionario, scardinava le regole di schemi che sembravano granitici, regalandoci quel passo in avanti di cui il genere necessitava per non rimanere troppo uguale a se stesso.

Dinanzi a un tale successo, proseguito senza soluzione di continuità con i libri successivi (Il tribunale delle anime, L’ipotesi del male, Il cacciatore del buio, La ragazza nella nebbia, Il maestro delle ombre, L’uomo del labirinto, Il gioco del suggeritore), la sfida che attendeva l’autore era titanica: innalzare ancora una volta l’asticella e regalare un’avventura capace di entrare nel cuore e nella psiche del lettore.

Donato Carrisi fa ancora una volta centro grazie alla sua ultima fatica, La casa delle voci. Sparigliando nuovamente le carte, non ci fa incontrare assassini psicopatici, poliziotte non risolte, lati oscuri di impeccabili professionisti; qui i protagonisti sono persone comuni, con percorsi professionali delineati, vite apparentemente tranquille, sconvolte dall’arrivo di una telefonata dall’Australia. Il protagonista assoluto del libro non è più il male, ma il disagio psichico e psichiatrico, le storture dei manicomi, le conseguenze sottovalutate di una legge rivoluzionaria e necessaria (La legge Basaglia), che, se da una parte ha liberato dall’oblìo un esercito di dimenticati, dall’altra ha messo il nostro Paese di fronte alle sue ataviche mancanze, pagate, a caro prezzo, da quelle stesse persone che volevamo liberare.

Sia chiaro però, La casa delle voci non è un saggio, è,  e rimane, un  thriller psicologico entusiasmante dove l’autore spinge la paura e l’ansia un gradino più in alto di dove si era spinto fino ad oggi ed i suoi personaggi, già dalle prime righe, sono destinati ad entrare nella nostra memoria e restarvi per tantissimo tempo grazie ad uno stile asciutto, ad un ritmo incalzante, ad una trama che attraversa vent’anni e ad un andirivieni sorprendente che regala al lettore un’onda emozionale tale che lo induce a sperare di non chiudere il libro. Secondo chi scrive, un libro è valido quando chi lo legge vorrebbe non finisse mai, una dicotomia tra la voglia di “sapere come va a finire” e la speranza, neanche tanto nascosta, che le pagine non si esauriscano: un nuovo tassello nella trama è, allo stesso tempo, una conquista e un timore. La casa delle voci è, per gli amanti del genere,  un’ulteriore conferma che il “thriller psicologico” abbia trovato la sua nuova casa in Italia e che Donato Carrisi, di questa nuova casa, abbia costruito le fondamenta.




16 Novembre 1992. I Metallica, 4 ragazzi e un’amicizia senza fine.

Ci sono notti tranquille, agitate, anonime. Ci sono notti travolgenti, ansiose o ricche di speranza. Ci sono notti dove qualcuno decide di andarsene per sempre e poi ci sono quelle che non si dimenticheranno mai. Il 16 novembre 1992 fu una di quelle…

Intendiamoci, dopo ne ho vissute altre indimenticabili e forse anche più belle, ma quella notte fu, semplicemente, la prima. Avevo 17 anni, avevamo 17 anni, eravamo fatti di rabbia, rivincite, sogni adolescenziali di riscatto, erano anni verde smeraldo, ma  17 anni possono essere pericolosi, soprattutto se decidi di chiuderti in una riserva protetta fatta di 4 amici uguali e diversi da te, che hanno, come linea di confine nei confronti del mondo, assoli fulminanti e ritmi sincopati. Se eri un adolescente complicato e  terrorizzato dal futuro, con più complessi di quelli che ascoltavi, al quale bastava un sorriso mancato di una ragazza per sprofondare in un abisso nero, la necessità di un appiglio, di una bandiera da sventolare che da una parte urlasse al mondo la tua esistenza, e dall’altra ti difendesse da quel mondo ostile, era una questione vitale. Quella bandiera era, è, ancora oggi,  la musica metal e, nel 1992, il Metal erano i Metallica, quattro cavalieri vestiti di nero che arrivavano da San Francisco per indicarci la via, la strada da percorrere per esistere, erano il nostro riscatto, il modo che avevamo trovato per dire: noi esistiamo. Avevano cinque dischi alla spalle, quattro dei quali molti di noi consideravano come  vangeli  (Kill’em AllRide the LightningMaster of Puppetsand Justice for All), più un quinto, il “Black Album”, di cui parlerò più avanti…

Il 16 novembre 1992 i Metallica sarebbero arrivati a Roma per tenere un concerto, l’evento che tutti noi aspettavamo da anni, sarebbe stato il giorno dei giorni, fu così e fu perfetto.

Di quel giorno vi potrei raccontare ogni singolo minuto, che tempo facesse, come fossi vestito, che odore avesse l’aria, il tuffo al cuore quando mia mamma firmò la giustificazione per uscire prima da scuola, era un lunedì ed io e i mei amici dovevamo essere l’avanguardia che prima di tutte arrivasse davanti ai cancelli del palaghiaccio di Marino per omaggiare i nostri dèi pagani. Vi potrei raccontare tutto, cosa che in parte ho fatto, ma ci sono degli attimi che ancora oggi, che di anni ne ho quasi  45, ancora mi accompagnano. La corsa ai cancelli, gli spintoni per accaparrarsi le prime file, la fanzine ufficiale tra le mani,  l’attesa infinita in un caldo innaturale dovuto a diecimila metalkids radunati come fossero un’unica, invincibile armata.

James Hethfield, finalmente, saliva  le scale che lo portavano sul palco e la mia testa esplodeva, lui era lì, esisteva davvero ed era lì per me e per i miei amici. Il cuore cedeva al primo colpo di batteria di Lars Ulrich, era il segnale che la battaglia era cominciata e che per quelle tre ore tu saresti stato il vincitore, non avresti potuto perdere finché Kirk Hammett avesse continuato a suonare la chitarra  e Jason Newsted il basso. Ogni singola canzone si legava ad un ricordo unico, cementava  i cuori di quattro ragazzi che erano lì sì, per i Metallica, ma anche e soprattutto per l’amicizia che li legava,  i quattro cavalieri neri non facevano  altro che farla diventare indistruttibile. Indistruttibile, questa amicizia, la rendevano  anche le lacrime dei miei occhi quando le note di “Fade To Black” avvolgevano il palazzetto, e erano  gli stessi occhi che incrociavo cercando i miei amici, occhi lucidi come  per tutte le volte che quella canzone mi aveva fatto sprofondare nell’abisso insieme a loro, per tutte le volte che avevamo cercato la nostra parte più bella, ma lei se ne era andata. Ma se a 17 anni piangi per una canzone vuol dire che ti stai facendo una promessa per il futuro, la promessa più dura, quella che ci saremmo sempre stati, e dopo 26 anni posso dire che quel tacito patto sancito sotto il palco, è stato rispettato.

Quella notte però gli occhi erano stati anche molto altro, erano stati anche paura, la gioiosa paura di essere travolti  da teste e gomiti sconvolti dalle note di “Creeping Death”,” Master of Puppets”, “Last Carees” e “One

26 anni dopo i Metallica, almeno per scrive, sono finiti, fermati dal tempo  e dalle mode dettate da sedicenti fashion blogger, e soprattutto uccisi dal loro quinto album, il disco “capolavoro”, quel “Black Album” che li aveva lanciati nell’olimpo degli immortali ma che aveva lasciato indietro noi. Il “Black Album” era stato vissuto come un tradimento di un patto di sangue, un patto che diceva che noi  non saremmo mai stati come tutti gli altri, i Metallica e i loro fans sarebbero stati sempre “altro”, né migliori né peggiori, ma semplicemente diversi. Saremmo stati sempre dalla parte sbagliata, quelli che alle feste si mettevano vicini alle tende per rendersi invisibili a mondi che non capivamo e che non volevamo capire, non saremmo mai stati moda. Invece no, il “Black Album” aveva spalancato il nostro mondo ai nemici, “Nothing else matters” era finita  su radio Dj, per gli altri non eravamo più  gli alieni.

Il nostro posto nel mondo alla fine lo abbiamo trovato e quel concerto di risate, lacrime e promesse era stato il primo passo di un cammino difficile ma fatto sempre insieme a quei quattro, perché nonostante il tempo, gli album sbagliati, i cambiamenti, gli errori  e le vittorie, James Hethfield  quelle scale le sta salendo ancora, perché nessuna promessa può essere mantenuta se non viene continuamente rinnovata…

La Setlist del concerto:

  1. The Ecstasy of Gold
  2. Enter Sandman
  3. Creeping Death
  4. Harvester of Sorrow
  5. Welcome Home (Sanitarium)
  6. Sad but True
  7. Wherever I May Roam
  8. The Unforgiven
  9. Justice Medley
  10. Bass Solo
  11. Guitar Solo
  12. Through the Never
  13. For Whom the Bell Tolls
  14. Fade to Black
  15. Master of puppets (short version)
  16. Seek & Destroy
  17. Whiplash

Encore:

  1. Nothing Else Matters
  2. Am I Evil?
  3. Last Caress
  4. One
  5. Battery

Encore 2:

  1. Stone Cold Crazy

 

Questo articolo è dedicato alla memoria di CLIFF BURTON (Castro Valley, 10 febbraio 1962 – Ljungby, 27 settembre 1986), primo, storico e inarrivabile bassista dei Metallica.

“Quando un uomo mente uccide una parte del mondo
Queste sono le pallide morti che gli uomini chiamano erroneamente le loro vite
Non riesco a sopportare di dover testimoniare tutto questo
Il Regno della Salvezza non può portarmi a casa”

to live is to die

“To Live is to Die” è la canzone che i Metallica hanno dedicato a Cliff dopo la sua morte causata da un incidente stradale in Svezia, mentre la band era in tour. Le parole sono in gran parte prese da una poesia scritta dallo stesso Cliff poco prima di morire.

L’ultima frase dalla canzone “cannot the Kingdom of Salvation take me home” è incisa sulla tomba di Cliff.

Immagine tratta da https://www.rollingstone.it161

 

A Carlo, Emanuele, Gianluca, Maurizio…loro sanno perché




CAVIE di Chuck Palahniuk

Chuck Palahniuk/Photo ©Allan Amato

Ho sentito ogni possibile giudizio su di un libro, ma usare l’aggettivo “disturbante”, non mi era mai capitato prima … Questo è stato il motivo che mi ha spinto a comprare e leggere Cavie di Chuck Palahniuk.

Lo scrittore in questione è famoso al grande pubblico per essere l’autore di “Fight Club”, e, come spesso accade quando ci si trova di fronte ad un vero e proprio cult, il resto della produzione rischia di essere compromessa dall’ombra ingombrante di un’unica, per quanto bellissima, opera.

Chuck Palahniuk è molto altro rispetto al suo “bestseller” e  “Cavie” non fa altro che confermare questa sensazione: ventitré racconti ripugnanti, sgradevoli, esilaranti, assurdi, a tratti vomitevoli, vi porteranno nel mondo e nelle teste di aspiranti scrittori che decidono, malauguratamente per loro, di rispondere all’annuncio di un misterioso benefattore.

Chi non si farebbe allettare dalla possibilità di abbandonare per tre mesi gli ostacoli della vita quotidiana per  dedicare le proprie energie a ciò che più piace fare?  Quasi tutti, figuriamoci scrittori in cerca di ispirazione per realizzare il loro capolavoro, l’opera che li porterebbe ad ottenere fama e soldi.

Come ci insegna però la Storia, fama e soldi, molto spesso, chiedono in cambio un prezzo, e,  in un teatro chiuso ermeticamente dove elettricità, cibo e acqua vengono a mancare, lentamente, ma in maniera inesorabile, questo prezzo sarà salatissimo.

Cavie” è una parabola dark che strizza l’occhio all’horror  ed  allo splatter, dove si analizza fondamentalmente un’unica domanda: cosa siamo disposti a fare per ottenere quello che vogliamo? Quanta umanità puntiamo sul tavolo da gioco pur di ottenere la vittoria da sempre agognata?

I protagonisti assoluti del libro, tuttavia,  questa volta non sono i personaggi, ma i racconti che gli stessi partoriscono; la struttura del libro, da molti paragonata al “Decameron” di Boccaccio, fa sì che la nostra attenzione si sposti ben presto sulle storie dettate anziché sulle figure dei protagonisti. Tra le righe di questi racconti affiora, prima piano, poi in maniera dirompente, l’oggetto degli strali dell’autore, la società moderna e i suoi modelli costruiti su valori effimeri e che ha, nei “reality show”,  la sua manifestazione più ripugnante; difficilmente, infatti, non potrete identificare il signor Whittier, colui che deciderà di affiggere il manifesto e di dar vita all’esperimento, con una sorta di “Grande Fratello” televisivo.

Il fastidio, il disgusto, i conati che proverete durante la lettura sono la “bellezza” stessa del libro, perché non sono meri esercizi stilistici di Palahniuk che vuole vedere dove si possono spingere i confini dell’estremo, ma sono i sentimenti che l’autore vi vuol far provare verso la società dei consumi, sentimenti che lo stesso autore prova.

Copertina del libro https://picclick.it/Cavie-Con-Segnalibro-Chuck-Palahniuk-Mondadori-Oscar-451-282802472058.html

Per leggere “Cavie” ci vuole il pelo sullo stomaco, ma ne vale la pena. Cambierà per sempre la vostra percezione della società, in cui, volenti o nolenti, dobbiamo nuotare.

 


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IL TIRANNO di Valerio Massimo Manfredi

Ho sempre avuto l’abitudine di scegliere il libro “estivo” in base alla destinazione scelta per le vacanze, fu così nel 1999, quando, sapendo che sarei andato in Portogallo, mi portai “Sostiene Pereira” in valigia o quando “La Cattedrale del Mare” accompagnò i miei giorni a Barcellona.

Quest’anno, sapendo che una delle mie tappe in Sicilia sarebbe stata Siracusa, mi sono messo alla ricerca di qualcosa che rinverdisse questa “tradizione” e, esplorando fra i miei ricordi scolastici, il primo nome che mi è venuto in mente è stato quello di Dionisio.  A questo punto mi serviva una storia, un romanzo, volevo uno di quei libri che ti avvolgono tra le pagine.

Chi meglio allora di Valerio Massimo Manfredi e del suo “Il Tiranno”?

Siamo a Siracusa intorno al 400 a.C. e la stessa esistenza della Città è messa in pericolo dalla superpotenza mercantile e signora dei Mari: Cartagine. Un coraggioso soldato dell’esercito siracusano è costretto ad assistere impotente ed inerme alla distruzione di Selinunte e al massacro dei suoi abitanti. Il nome del soldato è Dionisio, colui che passerà alla Storia come “Il tiranno”.

Copertina del libro https://www.mondadoristore.it/Il-tiranno-Valerio-Massimo-Manfredi/eai978880454625/

Oltre alla sete di vendetta, la caduta di Selinunte, prima, e delle altre città greche di Sicilia, poi, provocano nel nostro protagonista un’avversione totale per la democrazia, accusata, con le sue procedure estenuanti e con la sua incapacità di selezionare uomini validi, di essere corresponsabile della distruzione delle colonie greche nate nella terra della Trinacria.

Dopo Selinunte, infatti, furono spazzate via dalla furia Cartaginese anche Imera, Gela e quella che veniva considerata la città più bella di sempre: Agrigento.

Lo spettro della fine della Sicilia greca, di cui Siracusa rimaneva l’ultimo baluardo, porterà Dionisio a scelte estreme, alternando gesta eroiche a tradimenti meschini, inabissandosi presto, in una delle tirannidi più feroci della Storia Antica.

Immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Dionisio_I_di_Siracusa#/media/File:Dionisius_Tyran_of_Syracuse.PNG

Questa, tuttavia, vuole essere una recensione di un libro e non un trattato storico, pertanto fatta la dovuta premessa immergiamoci nelle righe di questo romanzo.

Dell’autore in questione ho praticamente letto tutto e mai, arrivato all’ultima pagina di una sua opera, sono rimasto deluso. “Il Tiranno” non fa eccezione e le caratteristiche che te lo fanno amare sono le stesse che possiamo trovare in “Aléxandros” o ne “L’ultima legione”.

Già dal prologo veniamo proiettati nella Sicilia del 412 a.C., viviamo come i protagonisti, proviamo i lori sentimenti, da quelli più alti a quelli più infimi, passeggiamo per i vicoli stretti di Ortigia, combattiamo contro orde di cartaginesi, solchiamo i mari agli ordini di Leptines, fratello di Dionisio e capo supremo della flotta.

Leggendo questo libro avrete davanti agli occhi i templi d’oro di Agrigento, ascolterete le grida disperate delle donne e degli uomini di Selinunte, mangerete sulla mensa del tiranno, ascolterete le parole di Platone, parteciperete a complotti, temendo per la vostra stessa vita.

La grandezza di Valerio Massimo Manfredi sta proprio nella sua capacità di scrivere su fatti vecchi di millenni come se li stessimo leggendo su un quotidiano fresco di stampa. Le sue parole e il suo stile aprono uno “stargate” spazio-temporale tra le pieghe della storia, tanto da rendere a colori l’amore e l’odio che proverete per Dionisio, tanto da vedere, come se la scena si svolgesse fuori della vostra finestra, migliaia e migliaia di pire accese dall’esercito siracusano per onorare i propri morti fino a scorgere la più bella di tutte, quella accesa in onore di Arete, bellissima e sfortunatissima moglie di Dionisio, il cui fantasma accompagnerà le notti del Tiranno anche quando diventerà il sovrano assoluto della Sicilia.


FORSE NON TUTTI SANNO CHE…

– L’Ortigia è il quartiere più vecchio di Siracusa e sorge sull’antica fonte Aretusa.

– Una delle principali attrazioni di Siracusa è l’orecchio di Dionisio, cava artificiale che grazie alla sua forma ad “S” permette una forte amplificazione dei suoni (16 volte più del normale). Leggenda vuole che fosse utilizzata da Dionisio per ascoltare le conversazioni dei prigionieri. Il nome “orecchio di Dionisio” fu dato alla cava da Caravaggio.

– Dionisio aveva una tale avversione per i filosofi che uno dei gesti più clamorosi per il quale è diventato famoso fu quello di vendere Platone come schiavo, dopo un soggiorno di un anno del filosofo a Siracusa.

– Dionisio, viene citato da Dante nel canto XII dell’Inferno:

Quivi si piangon li spietati danni;
quivi è Alessandro, e Dionisio fero,
che fe’ Cicilia aver dolorosi anni”


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SU CENERENTOLA, IAN CURTIS, FRIDA E I JOY DIVISION

I libri, almeno la quasi totalità di quelli che leggiamo nella nostra vita, sono scelti da noi.

Li scopriamo per curiosità, per caso, per il passaparola, perché ne faranno un film. Poi, raramente, succede invece che siano i libri  a scegliere noi.

Qualche mese fa, e con colpevole ritardo, ho deciso di approfondire la conoscenza del gruppo musicale dei Joy Division , colpito dalla storia del loro cantante e, soprattutto, incuriosito nel vedere in giro un numero sempre più consistente di adolescenti  indossare t-shirt  con il nome di questo gruppo. Mi sono chiesto  soprattutto perché sempre più “teen” si identifichino con una band nata nel 1977. Nonostante la brevissima carriera, con soli due album all’attivo, ho capito che oltre all’oggettiva bellezza della loro musica, ciò che colpisce le giovani menti moderne è la storia del loro leader: Ian Curtis.

Di Daniel Case – Opera propria, CC BY-SA 3.0 https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=39107961

Musicista precoce e di indiscusso talento, muore per volontà personale nel 1980, arrendendosi all’epilessia e alla fine del suo matrimonio. Appartengo ad una generazione che ha dovuto fare spesso i conti con le scelte estreme dei propri idoli: Kurt Cobain, Chris Cornell, Chester Bennington, Prince, Dolores O’Riordan sono solo l’avanguardia di una schiera di morti cercate che affollano il Pantheon di chi ha avuto vent’anni negli anni Novanta.

Ed è proprio cercando Ian Curtis su un noto motore di ricerca che, scorrendo fra le varie proposte, mi sono imbattuto su un titolo molto particolare, Cenerentola ascolta i  Joy Division , e in un forum letterario dove gli utenti si lanciavano in sperticate lodi per quello che scopro essere il titolo di un libro.

Così “Cenerentola ascolta i Joy Division” di Romeo Vernazza è entrato nel mio immaginario, per una mera casualità, per un algoritmo informatico, e, devo aggiungere, con mia grande fortuna.

Immagine tratta da  https://www.pinterest.it/pin/507851295457316284/

Romeo Vernazza scrive un romanzo fuori dagli schemi, dal titolo geniale che, da solo, meriterebbe una menzione speciale grazie alla fantasia che scatena, un libro non catalogabile in nessun genere:non è un libro “Teen”, come lo può essere il super acclamato “13” (13 reasons to why di Jay Asher), non è un romanzo di formazione, come lo possono essere “Il giovane Holden” o “Norwegian Wood”, è invece un’esplorazione delicata e sensibile dentro il dolore e di come questo sentimento cambi, spesso in meglio, le persone.

Racconta il suo dolore Lily, giovane vedova che insegue la sua rinascita dopo un olocausto familiare, portando con sé l’urna contenente le ceneri del proprio marito e, pur rimanendo ancorata al passato, affronta una fuga che la porterà dalla provincia italiana direttamente in Lapponia, esule volontaria tra la neve e il silenzio.

Mentre ci appassioniamo a questo tentativo di riscatto e di rinascita, l’autore ci porta anche dentro il diario anticonformista di una giovane studentessa, che, grazie ad un’intensa amicizia con una sua professoressa, Frida, entrerà, faticosamente e drammaticamente, nel mondo degli adulti.

Sarà proprio il dolore supremo l’ingrediente principale del confronto fra due generazioni. È indiscutibile che l’intera trama sia scossa da concetti fondamentali come la morte, l’abbandono e il riscatto da tutto ciò.

La scelta stessa dei nomi protagonisti e la musica che fa da sottofondo al romanzo, rafforzano questa sensazione: Ian Curtis, genio triste e fragile, che lascia nella sua canzone-testamento il messaggio che “L’amore ci farà piangere soli”; Frida, professoressa malata di cancro, che dedica i suoi giorni ad essere un faro per la giovane vita di Elly, non può non richiamare alla mente Frida Kahlo, un’altra vita segnata dal talento, dal dolore e da una morte precoce.

In tutto il libro, tuttavia,  troviamo come fili conduttori la speranza di farcela ed il riscatto: i dischi dei Joy Division suonano ancora, la vita e le opere di Frida Kahlo sono sopravvissute a lei e sono oggetto di studio ed ammirazione.

Alla fine il libro ci porta ad interrogarci sull’eterna domanda “È vero – come afferma Thomas Mann – che l’unica cosa più forte della morte è l’amore?”

Come tutte le opere umane non dà una risposta certa, ma sicuramente aiuta il lettore ad avere più strumenti per trovare la propria verità.

Buona lettura e buon ascolto!


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NORWEGIAN WOOD – TOKYO BLUES di Haruki Murakami.

Immagini tratte da http://oubliettemagazine.com/2015/01/15/sonno-di-haruki-murakami-il-racconto-di-un-incubo-illustrato-da-kat-menschik/ e https://www.ibs.it/norwegian-wood-tokyo-blues-libro-haruki-murakami/e/9788806216467

La  genesi stessa di Norwegian Wood – Tokyo Blues è un romanzo di per sé.

Dato alle stampe nel 1987, il libro è basato su un  racconto di cinque anni prima, “La Lucciola”, e vede le sue prime pagine scritte a Mykonos ed  il suo ultimo capitolo dato alla luce in un anonimo appartamento del Prenestino, quartiere di Roma, non prima di aver giaciuto sui tavoli di qualche taverna ateniese, dove lo scrittore, per sua stessa ammissione, ha ascoltato l’album  Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles “almeno 120 volte

Norwegian Wood” è la canzone che accoglie il protagonista del libro, Watanabe Toru, all’aeroporto di Amburgo; le note scatenano in lui un flusso di emozioni tali da venir catapultato alla sua vita di diciassette anni prima, nel momento preciso in cui conobbe Naoko, fidanzata di Kizuki, suo migliore amico morto suicida.

Ambientato a Tokyo, città che può anche regalare paesaggi malinconici e struggenti, “Norwegian Wood” è un libro che racchiude in sé una sfida al superamento dei tabù, l’incontro con la morte, la speranza dei valori forti e condivisi, l’erotismo come salvezza.

È un percorso difficile e devastante, sul senso del nostro posto nel mondo, una costante ricerca maniacale di risposte, che porta, alla fine, anche alla conclusione che il protagonista trova sul dolore e sulla sofferenza:

per quanto uno possa giungere alla verità, niente può lenire la sofferenza di perdere una persona amata. Non c’è verità, forza, dolcezza che possa guarire da una sofferenza del genere. L’unica cosa che possiamo fare è superare la sofferenza attraverso la sofferenza, possibilmente cercando di trarne qualche insegnamento, pur sapendo che questo insegnamento non ci sarà di nessun aiuto la prossima volta che la sofferenza ci colpirà all’improvviso”.

“Superare la sofferenza con la sofferenza” è forse il motivo per cui l’ho considerato il mio libro preferito per anni, un libro che ci mise un bel po’ ad entrare nella mia vita, causa i miei ingiustificati pregiudizi verso la cultura giapponese ed orientale in generale”. Per mia fortuna però, il mondo conosce mille strade per far conoscere la sua bellezza, e grazie ad un regalo di compleanno, i miei occhi decisero, finalmente, di cadere su “Norwegian Wood”.

Per chi scrive la prima pagina di Norwegian Wood è uno dei momenti più alti di gran parte della letteratura degli ultimi 30 anni:

Avevo trentasette anni, ed ero seduto a bordo di un Boeing 747. Il gigantesco velivolo aveva cominciato la discesa attraverso densi strati di nubi piovose, e dopo poco sarebbe atterrato all’aeroporto di Amburgo. La fredda pioggia di novembre tingeva di scuro la terra trasformando tutta la scena, con i meccanici negli impermeabili, le bandiere issate sugli anonimi edifici dell’aeroporto e l’insegna pubblicitaria della Bmw, in un tetro paesaggio di scuola fiamminga. È proprio vero: sono di nuovo in Germania, pensai”.

Difficilmente infatti, fino ad allora, avevo trovato qualcosa di più reale, poetico, struggente ed emozionante della vita di Watanabe e delle sue indimenticabili amiche. È un libro formativo, che esplora la “linea d’ombra”, ovvero il delicato passaggio dall’adolescenza all’età adulta, con garbo e disincanto.

Trecentosettantaquattro pagine di gioventù pura, quella fatta di sentimenti assoluti, di amori irripetibili, di paure che tolgono il fiato, di coraggio spinto alla follia, dell’incontro con la morte, unica, negli anni “verdi smeraldo”, capace di fare tornare tutti con i piedi per terra.

Norwegian Wood è un libro “maschile” e “femminile” allo stesso modo, da una parte il protagonista, Watanabe, assolutamente irresistibile, sia nelle sue incertezze sia nei suoi sani princìpi, ricorda il “giovane Holden”, dall’altra le protagoniste sono indimenticabili: Naoko, per la sua fragilità, Midori, per la sua inarrestabile gioia di vivere ed infine Reiko, per la sua saggezza.

Se anche voi avete avuto un’adolescenza d’oro, anche se difficile, ma corsa tutta di un fiato, leggetelo, vi aiuterà a non perdere mai i vostri 18 anni.

«Finora ho sempre pensato che avrei voluto oscillare in eterno fra i diciassette e i diciott’anni, ma adesso non lo penso più. […] Ho vent’anni ormai. E devo pagare il prezzo per continuare a vivere».


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THE HIDDEN SIDE OF THE NINETIES

Immagine tratta da  http://www.blabbermouth.net/news/evanescences-amy-lee-joins-ugly-kid-joe-on-stage-at-belgiums-graspo…

Si possono descrivere gli anni novanta attraverso cinque canzoni semisconosciute di gruppi più o meno famosi?

Non lo so, ma ci provo. Gli anni Novanta, a detta di molti, nascono il giorno dell’uscita di “Nevermind” dei Nirvana, disco che può piacere o meno, ma che segna, indiscutibilmente, uno spartiacque tra ciò che era stato e quello che sarebbe avvenuto: finiscono gli anni dell’edonismo, del divertimento sfrenato, del disimpegno politico e nasce il “Grunge”, grido d’aiuto di una generazione stanca delle scalate sociali e degli “Yuppies”.

Irrompe prepotentemente sulla scena una generazione “fuori contesto”, ai margini , che trova in Kurt Cobain, in Eddie Vedder dei Pearl Jam, in Chris Cornell, negli Alice in Chains, bandiere da sventolare contro un mondo che li addita come “perdenti”.

Questa però non vuole essere un’analisi sociale di quel periodo, ma semplicemente una personalissima lista di “lati B” che sono stati “novanta” come “Use your illusion”, “Zombie”, Oasis, Blur e la pletora di Boy Bands che imperversavano.

I miei ricordi cominciano con un gruppo che ai più non dirà nulla: I Body Count, band formatasi nel 1990 e che, finita nel dimenticatoio troppo presto, è da considerarsi come progenitrice di un genere sulla cresta dell’onda ancora oggi: il “Gangsta”.

I tempi della guerra americana tra West Coast ed East Coast sono ancora lontani, ma Ice-T, fondatore e cantante, osa ciò che nel 1990 era impensabile, ovvero fondere in una canzone il Rap con il Metal, il Trash ed il Punk.

Loro “Manifesto” oltre la iper criticata “Cop Killer” è sicuramente “The Winner Lose” che più che un brano, è una denuncia, un grido di dolore contro l’abuso di droghe e le troppe vite buttate in nome di ideali effimeri come i soldi facili e il lusso.

L’arpeggio iniziale è un brivido…

Ci sono gruppi che legano il loro nome ad un singolo album o, addirittura, ad una canzone, un successo talmente travolgente che è capace di cancellare tutto quello che è stato fatto dopo, pur trattandosi di materiale valido se non superiore alla hit.

La seconda e terza canzone che vi propongo appartengono proprio a questa categoria,  che io definisco “canzoni nate nel momento sbagliato, figlie di una Dea Minore”.

Lo sapevate, ad esempio, che gli Europe non hanno scritto solo “The Final Countdown”? E che forse hanno scritto qualcosa di migliore?

Io sì, e me ne accorsi in un tardo pomeriggio del 1992, quando, sintonizzandomi su quella che all’epoca era Video Music, mi imbattei in questa canzone, che ascolto ancora oggi Prisoners in Paradise:

E se vi dicessi “More than Words”? Chi non la conosce? Ma quanti sanno il nome del gruppo autore della canzone? Alcuni di voi sicuramente, ma quanti sanno che Gary Cherone degli Extreme sarebbe poi diventato il cantante addirittura dei Queen, o che Nuno Bettencourt  è da considerarsi  uno dei più grandi chitarristi mai esistiti alla pari degli stranoti mostri sacri?

E quanti si sono mai imbattuti in questa Song for Love?

Gli anni Novanta, in Italia, sono stati anche e soprattutto i Litfiba, vero fenomeno di massa che esplose prima con il singolo “Tex” e che si consacrò con l’ultrafamoso album “Terremoto”, un successo i cui echi arrivarono anche in Spagna, dove quattro ragazzi di Saragozza avevano fondato, nel 1984, un gruppo chiamato “Heroes del Silencio”.

Il singolo “Entre dos tierras” tratto dall’album “El Espíritu Del Vino”, cavalcando l’onda del successo dei Litfiba, diventa un buon successo anche in Italia, ma come spesso accade, la canzone più bella si trova in altri lavori della band, in questo caso, addirittura in un album precedente.

L’album si chiama” Senderos de traición” e la canzone è Oración

Questa piccola fotografia sul lato sconosciuto degli anni Novanta finisce con quella che, per me, è La canzone del Decennio appena descritto.

Una cover di Harry Chapin portata alla ribalta, nel 1993, da un gruppo Hard Rock americano: gli Ugly Kid Joe, anche questo un nome per “addetti ai lavori”.

Cats in the Cradle parla del rapporto di un padre con il figlio, racconta di un padre assente, perché preso dai troppi impegni lavorativi, che perde tutte le tappe fondamentali della crescita di un bambino, che diventa ragazzo e poi uomo, avendo però la falsa speranza che un giorno avrebbe potuto recuperare il tempo perduto. Speranza che svanisce nel momento stesso in cui si accorge che il figlio è diventato come lui, troppo preso dalla propria vita per occuparsi di un padre ormai vecchio.

Cats in the Cradle ” è orgoglio, speranza, disillusione, rimpianti e, nonostante tutto, fiducia nel futuro; in sintesi quello che per tanti di noi sono stati gli anni Novanta.

Buon ascolto a tutti!


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CHIEDERÒ PERDONO AI SOGNI di Sorj Chalandon

Sapete cosa dicono gli alberi quando la scure entra nella foresta? Guardate, il manico è uno di noi!

Iscrizione sulle strade di Belfast

Immagine tratta da http://www.designity.net/foto/belfast/murals/

Bellissimo e terribile.

Due aggettivi per descrivere, in modo diretto, questo libro. La drammaticità descritta sta esclusivamente nella domanda che aleggia dentro le pagine di “Chiederò perdono ai sogni”.

Si può perdonare chi tradisce i propri amici, la propria idea, la propria terra?

La risposta non può che spettare al lettore, anche se, netta, rimane la sensazione che qualsiasi risposta soggettiva sia per forza sbagliata.

Immagine tratta da  https://www.ibs.it/chiedero-perdono-ai-sogni-libro-sorj-chalandon/e/9788889767665

Sorj Chalandon riesce, però, nel difficile compito di farci empatizzare con il suo protagonista, senza giustificarlo. Nessuna assoluzione, nessuna sentenza, nessuna condanna a morte o all’oblio, solo un’ esorabile attesa di un destino che si deve compiere; il destino di una terra, quella irlandese, che, da secoli, aspetta di tornare sotto un’unica bandiera.

Vi troverete a fare i conti con l’odio atavico degli indipendentisti irlandesi contro gli “invasori” britannici, torneranno dai meandri della vostra mente nomi come quelli di Michael Collins,”The Troubles”, date come il 1916, il volto di Daniel Day-Lewis che impersona Gerry Conlon in “Nel nome del padre”.

Troverete nella vostra coscienza la vita spezzata di un ragazzo irlandese che, insieme ad altri nove compagni, sceglierà la morte come ultimo grido di aiuto per una terra calpestata. Il suo nome eraRobert Gerard Sands, ma è passato alla storia semplicemente come Bobby Sands, ed è la sua comparsa nel libro, anche se per pochissime righe, a regalare il momento più emozionante del viaggio in Irlanda del Nord che, qualora decideste di leggere “Chiederò perdono ai sogni”, vi donerà Sorj Chalandon.

“Ognuno, repubblicano o non, ha il proprio particolare ruolo da giocare…”

“…la nostra vendetta sarà la risata dei nostri figli”

Immagine tratta da https://murbelfast.hypotheses.org/210


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