Ad ERNESTA, perché sappia.

Ernesta ha 91 anni, la conosco da quando ne aveva 45.

Lei aveva 45 anni ed io 19.

È stata una sua  richiesta a metterci in contatto:

– Signora Fortinelli conosce qualcuno da indirizzarci per una
sostituzione, una persona in gamba che saprebbe occuparsi di quel gruppo
impegnativo di bambini?

Il filo della mia vita ha iniziato ad intrecciarsi con quello di
Ernesta, a partire da una telefonata che ho ricevuto dopo quella richiesta.

A 19 anni ero tutta occhi e cuore, nessuna esperienza di lavoro,
solo una notevole capacità di guardare e di attribuire significati e una
curiosità appassionata per i processi di crescita, quelli che fanno di un
essere vivente una persona.

Ernesta mi osservava ed io ero molto preoccupata di non essere
all’altezza del compito che mi era stato affidato, mi sembrava che lei potesse
riconoscere ogni mia mancanza, scoprire tutte le lacune, nonostante la mia
attenzione a non farmi cogliere in fallo.

Di certo vedeva la ragazza capace d’intrattenere, si accorgeva di quanto piacessi ai bambini con i miei capelli lunghi e la chitarra spesso con me, doveva aver intuito anche la mia tendenza ad utilizzare un pensiero divergente che mi portava ad agire in modo non sempre comprensibile, ma sono sicura che s’interrogasse, senza darsi una risposta, anche su quanto sarei riuscita a trasmettere conoscenze e a promuovere lo sviluppo di abilità.

Conoscenze, abilità sono parole che posso usare  oggi con la piena competenza che ho raggiunto
nel mio percorso lavorativo, allora sapevo solo di non sapere tante cose e
avevo paura della mia ignoranza, soprattutto avevo paura di sbagliare e di
essere giudicata non all’altezza.

Nella valutazione che decretava il mio passaggio in ruolo,
Ernesta aveva scritto un “discreto” riferito non so più a cosa, forse
alla cultura generale, che mi è bruciato per tanti anni ed ha oscurato ogni
altro aspetto giudicato eccellente, ma è anche stato lo stimolo per continuare
a studiare.

Ho iniziato a lavorare, con un contratto a tempo indeterminato,
che avevo appena concluso il primo anno di università. Avrei potuto
interrompere gli studi, come qualcuno si auspicava, convinto che studiare
avrebbe potuto danneggiare la mia vista, ma io volevo imparare a fare meglio il
mio mestiere e così, piuttosto che interrompere, ho integrato gli studi di
Filosofia con la Pedagogia.

Ernesta, nel tempo ha sempre favorito i miei studi, quelli
universitari ed altri di specializzazione, non direttamente attinenti
all’insegnamento, concedendomi permessi, all’epoca non dovuti,
“spacciandoli”, così sembrava nella prospettiva istituzionale  di allora, per aggiornamento.

In realtà nessuna mistificazione, nessun favoritismo, Ernesta
sapeva esattamente quanto l’Istituzione avrebbe guadagnato dalla mia
formazione.

Semplicemente si comportava come un capo lungimirante che
investe sul suo personale; l’ho capito anni dopo. 

Ernesta osservava, anche quando per me il tempo del lavoro si è
intrecciato con quello dell’amore: testimone involontaria e discreta di un
altro incontro determinante per la mia vita.

Tenere distinti il pubblico ed il privato, frequentando gli
stessi spazi e con gli stessi tempi, sotto gli occhi di qualche decina di
creature attentissime e sensibilissime alle emozioni, è stato il mio primo
esercizio “di confine”, sostenuto sempre dal bisogno di essere
corretta e professionale, di fronte a tutti, ma soprattutto alla nostra
Dirigente.

C’è un giorno in cui lo sguardo di Ernesta mi ha raggiunta con
un carico di stima e forse di affetto che ha cambiato il nostro rapporto, di
certo ha cambiato la mia percezione del valore che lei mi attribuiva e della
funzione che lei aveva nei miei confronti.

In una cappella di un ospedale.

Io seduta in un banco con un gruppetto di bimbi di 7 anni, tutta
tesa  a rendere comprensibile  per loro qualcosa d’incomprensibile e
d’inaccettabile per chiunque, come la morte di un bambino; Ernesta,  due, tre banchi dietro di noi si accorgeva di
ciò che stavo facendo e poteva immaginare a quale prezzo personale. Forse la
sola, in quella cappella colma di gente turbata.

Avevo 26 anni, la vita mi presentava la morte e lo sguardo di
Ernesta ratificava il mio ingresso nel mondo degli adulti: non ero più la
ragazzina volenterosa ed appassionata, ero una maestra, una brava maestra ed
Ernesta, da temuto capo giudicante, diventava uno  stimato riferimento per il mio viaggio. Un
modello.

Da allora vita e professione si sono intrecciate.

Ogni esperienza vissuta mi ha costruita come persona e come
maestra ed Ernesta, dalla sua posizione di Dirigente  dell’istituzione di cui facevo parte,  ha accompagnato, sempre con attenzione e
rispetto, questo mio costituirmi.

Tra le carte che conservo con la sua firma ci sono dei riconoscimenti professionali, le condoglianze per la morte precoce ed improvvisa di mio padre,  le congratulazioni per il conseguimento della laurea, una riflessione, in qualità di “testimone involontaria”, in occasione  del mio matrimonio.

Documenti tutti scritti su carta intestata e con uno stile
rigorosamente attento alla forma.

Devo ad Ernesta se ho imparato 
a riconoscere la sostanza anche attraverso la forma.

E così, strada facendo, è arrivato il tempo in cui il mio
sguardo su di lei è diventato più importante di quello suo su di me.

La osservavo nel suo modo di porsi, di gestire la comunicazione, di strutturare gli incontri, di organizzare , di tenere insieme struttura e contenuti, di dare valore, di promuovere… insomma la osservavo dirigere ed imparavo.

Ciò che ho studiato in seguito sulla comunicazione e sulla
gestione delle organizzazioni mi ha trovato pronta ad apprendere, come è
possibile fare solo quando si ha esperienza di ciò che si studia.

Dieci anni dopo il nostro primo incontro, Ernesta ha deciso di
lasciare la scuola.

 Il suo pensionamento
avrebbe potuto segnare la giusta conclusione del nostro rapporto, lei lasciava
un’istituzione cresciuta ed io avevo imparato abbastanza per continuare il mio
cammino senza di lei, senza modelli.

Ma non è andata così.

Di nuovo, come dieci anni prima, una telefonata, questa volta
senza intermediari, ha spalancato quella porta, che tutto faceva pensare si
sarebbe chiusa:

– Gloria ho deciso d’iscrivermi a Psicologia …

Paga della sua esperienza da Dirigente, Ernesta decideva di
misurarsi con nuovi apprendimenti e con nuovi percorsi lavorativi, era
interessata alla scuola di specializzazione che, a suo tempo, lei stessa mi
aveva permesso di frequentare, mi chiedeva suggerimenti e mi proponeva una
collaborazione.

L’appartamento vuoto, della famiglia di Ernesta, affacciato sui giardini
della Mole Adriana, è diventato il luogo dei nostri incontri e delle nostre
attività.

Il blu delle pareti dell’immenso salone, dalle cui finestre si
inquadrava distintamente  San Michele
arcangelo nell’atto di riporre la spada dopo aver sconfitto la peste, è stato
lo sfondo del  nostro procedere insieme,
fianco a fianco, da pari.

Due donne.

Ed è stato il tempo delle prime confidenze, dei progetti, della
co-conduzione dei gruppi, degli interventi di formazione, dello scambio sui
pazienti, dei confronti sulle tante esperienze che vivevamo, insieme e
separatamente.

Un tempo fecondissimo.

Eravamo capaci, Ernesta ed io, di parlare per ore, senza mai
stancarci, con il piacere di chi capisce e si sente capito, con la
soddisfazione di chi si accorge di costruire un pensiero condiviso che non è la
somma dei pensieri di ciascuno, ma ciò che 
nasce dall’incontro dei due.

Un’affinità intellettiva, la nostra, davvero rara.

Ci siamo frequentate assiduamente, fino a quando tempi e
distanze non sono diventati un limite.

Ernesta, adeguandosi al suo tempo e rispettando le esigenze
della sua famiglia ha organizzato lo studio vicino a casa, permettendo a me di
rimanere, da sola, a lavorare tra le pareti blu dell’appartamento a piazza
Adriana.

I nostri incontri, meno frequenti, non hanno mai smesso di
nutrirci.

Man mano che si andavano alleggerendo dalle esigenze lavorative,
sono diventati occasione di confronti esistenziali, di confidenze  profonde, d’intimità insolite.

Il parlarsi ha lasciato sempre più il posto alla condivisione silenziosa, facendoci scoprire una vicinanza nuova, resa possibile anche dall’esserci ritrovate, come trent’anni prima, a condividere, questa volta complici, la perdita di una creatura giovane ed amata.

E così, molto lentamente, con le nostre andature diventate diverse per via dell’età, Ernesta ed io siamo approdate al tempo in cui, io ho potuto posare il mio sguardo di donna ancora forte su di lei, donna resa fragile dall’età, e sentirmi piena di tenerezza e di gratitudine.

È con questi sentimenti che la guardo stamattina, mentre ordina,
con la sua solita eleganza,  un riso alla
crema di scampi, perché nella casa dove ha voluto trasferirsi dopo la sua
caduta non lo servono mai.

Non è stato facile organizzare la visita ad Ernesta, siamo tre
amiche, tre colleghe, tre donne grandi che vogliono fare qualcosa di
gradito  alla loro stimata Dirigente di
un tempo.

È una luminosa giornata di primavera, la brezza marina e il
calore del sole accarezzano il nostro ritrovarci insieme, fatto di ricordi, di
chiacchiere allegre, di battute e di considerazioni serie.

Il tempo scorre fluido, senza imbarazzi, senza incertezze, in
una confidenza per niente scontata.

Dimentichiamo in fretta che Ernesta ha 91 anni, siamo solo
quattro donne che hanno tanto da dirsi.

Mentre la riaccompagniamo alla casa, Ernesta ci ringrazia, lo fa
in macchina, guardando davanti a sé, dopo una pausa in cui deve aver sentito
affiorare il piacere di quello che era successo nelle ore prima, lo fa con la
sua nuova voce incerta:

 – Voi non potete
immaginare cosa avete fatto per me oggi, che gioia mi avete dato nel
permettermi degli scambi così stimolanti e belli!

Sembra commossa, noi lo siamo.

Tenerezza e gratitudine.





QUANDO BATTE FORTE IL CUORE

Visso (MC)© MjZ

Ormai è il mio cuore che comanda. Dopo un bel po’ di anni di dibattimenti interiori in cui pancia e testa hanno spadroneggiato, è il suo turno.

Arriva prima di me, con quella manciata di secondi di anticipo che mi costringe a fermarmi e ad ascoltare.

Mi hanno lasciata eccezionalmente da sola.

Da che vedo peggio, gli amici attenti mi tengono d’occhio e non vogliono che mi allontani, sanno che rischio.

La mia amica è dovuta andare a parlare con un tecnico del Comune per delle carte che riguardano la sua casa demolita.

In piedi, davanti alla vecchia piscina che è diventata sede degli uffici comunali, mi accerto che non ci siano ostacoli particolari e inizio a camminare.

Voglio raggiungere le SAE.

Ora che sono state quasi tutte consegnate, devo fotografarle, per sostituire, come promesso, l’immagine delle roulotte degli “Irriducibili” che, da novembre 2016, sta sulla copertina del mio profilo Facebook.

Immagine tratta dal profilo Fb di Gloria Franco

La giornata è luminosa, perfino troppo. Misuro ogni passo, nella borsa ho il bastone, ma non lo voglio usare, mi piace la sensazione di libertà che mi dà il camminare, sia pur con prudenza, in un posto che conosco tanto bene.

Vado avanti, ed è allora che lo sento: batte forte, in modo scomposto, palpita, mi accorcia il respiro……d’accordo, ascolto.

Mi raggiunge subito la voce del fiume, vicinissimo e qualcosa si scioglie dentro di me al punto da inumidirmi gli occhi.

Mi chiedo se sia sempre stata così forte…ma come no!

Non c’è un posto nel paese, e per chilometri tutto intorno, in cui non si senta l’acqua scorrere e anche se non si sente, si sa che c’è.

Incrocio un uomo anziano, non lo riconosco, ma gli sorrido, penso che lui c’è nato con la voce del fiume nelle orecchie, chissà se si è accorto che a un certo punto è cessata, chissà se l’ha sentita forte come la sento io, quando è tornato a riascoltarla dopo più di un anno.

Io, incredibilmente, scopro solo ora quanto questa voce faccia parte della mia vita e soprattutto quanto mi manchi.

Visso (MC) © MjZ

Le SAE, un po’ inerpicate su un terrapieno ai piedi della montagna, s’impongono alla vista, perfino alla mia. Casette tutte uguali, schierate ordinatamente, con timidi sforzi di personalizzazione: vasi di fiori, qualche aiuola, una tendina, nel corridoio centrale una bicicletta da bimbo, un camioncino, ma non c’è nessuno. Sono le 11 di un sabato della stagione più bella dell’anno e non c’è nessuno.

Ci cammino a fianco finché non finiscono, poi, in cima alla salita, mi fermo e mi giro.

In mezzo al verde prepotente e ignaro, in lontananza, riesco a vedere il campanile della Collegiata e le fedelissime torri, in piedi.

Tutto sembra come sempre, al mio sguardo parziale.

Mi raggiunge una delicata brezza che mi invita a respirare più a fondo e, con l’aria leggera che fa spazio al mio cuore, arriva il profumo dei tigli in fiore, quel profumo famigliare e atteso che da bambina mi dava il benvenuto ai primi di giugno, finite le scuole, in questo luogo tanto amato, carico di promesse.

Ferma, a fianco alle SAE, respiro.

Respiro il verde della vegetazione, i profili delle montagne, il campanile, le torri, la voce del fiume, gli uccelli che cantano, il profumo dei tigli e della mortella, l’umido della terra lambita dall’acqua…

Respiro come se bevessi, con l’intenzione di nutrirmi, e mi sciolgo in lacrime.

Piango e ascolto.

Il mio cuore ora batte regolarmente, nella gabbia toracica, allargata dal respiro, possono circolare liberamente la nostalgia, il dolore, la gioia, i ricordi, le speranze e perfino la paura e la rabbia.

Visso (MC) © MjZ

Anche questa volta non vedrò la mia casa, ferita, tenuta insieme da pesanti impalcature con la speranza di poterla curare, un giorno, forse.

Torno dalla mia amica, spero che abbia avuto fortuna con le carte che le servono.

E continuo a respirare senza mai smettere di ascoltare.

Non conosco altra cura per questo dolore, profondissimo e indicibile, che accoglierlo e viverlo.

Tra poco incontrerò gli amici di una vita, ci siamo dati appuntamento oggi, tutti insieme, per ritrovarci. Tra noi c’è qualcuno che, dopo la botta grossa di ottobre di due anni fa, non ha ancora avuto il coraggio di venire a guardare, così da vicino, la devastazione e il dolore.

Insieme saluteremo la gente di sempre, le persone che da due anni lottano per restare e per tornare ad una vita possibile.

Ci abbracceremo, ci sorrideremo, cercheremo, come al solito senza grandi risultati, le parole per dire quanto è incredibile ciò che sta accadendo; qualcuno racconterà per l’ennesima volta quella notte; sentiremo parole di rassegnazione, di rabbia, o nessuna parola e tutti ci guarderemo con quello sguardo nuovo, a volte profondo, a volte fugace, che il terremoto ci ha dato.

Uno sguardo che dice: “lo so che stai soffrendo, anche se non posso capire il tuo dolore così come tu non puoi capire il mio.”

E’ incredibile quanto ci si possa sentire soli quando si è in così tanti a soffrire di dolori comuni e allo stesso tempo personalissimi e indicibili.

Soli, ma accomunati dalla stessa condizione di esseri umani.


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