FOTOGRAFARE IL TEMPO
Non ci sono molti artisti che si sono soffermati a riflettere sul rapporto tra il teatro, ma ancor più il cinema, con la quarta dimensione: il tempo.
Perché il cinema in particolare? Perché il cinema, attraverso le sue tecniche consolidate (piano-sequenza, découpage e anacronie) è l’unica arte che può compiutamente rappresentare il tempo nella sua essenza.
Tra questi si registrano ancor meno fotografi proprio perché la fotografia, per sua natura, congela il tempo – lo annulla – in uno scatto.
Hiroshi Sugimoto invece, con la sua raffinata sensibilità orientale, ci dimostra come si possa riflettere sul tempo e come si possa compiutamente rappresentarlo.
Sugimoto, più volte, nel corso del suo percorso artistico, riprende un soggetto che ha la caratteristica di mutare nel tempo con tempi di scatto lunghissimi, quasi infiniti.
Forse, sotto un aspetto puramente visivo, la sua opera più famosa ed affascinante è la serie Seascapes, nella quale ritrae la linea d’orizzonte in località geograficamente molto distanti.
Eppure la riflessione più profonda, quella che ritrae il tempo nella sua essenza, sono le diverse serie dei Theaters, nelle quali riflette sul tempo di un’opera cinematografica all’interno di un luogo di spettacolo. Il concetto si basa sulla contrapposizione tra la rappresentazione della sintesi del tempo di una storia, ripresa dalla proiezione di un film intero su uno schermo cinematografico, in un tempo di posa della durata del film (ne deriva una immagine proiettata quasi completamente bianca, salvo qualche sbavatura), con quella della sala o dello spazio in cui viene proiettato il film, che viene congelato nel tempo dallo scatto fotografico.
Nella prima serie da lui realizzata, “Theaters”, l’Artista riprende la proiezione di un film all’interno di storiche sale cinematografiche americane, caratterizzate da magniloquenti decorazioni, emblema dell’età d’oro del cinema.
In un’altra serie, “Drive-In Theater”, Sugimoto innesta lo “spazio-tempo” dell’immagine di un film, proiettata sullo schermo, in un luogo particolare, il Drive-In dove si perde la condizione di “camera delle meraviglie” tipica della sala cinematografica – un luogo fuori dal mondo – perché il confine del luogo diviene la volta celeste, che, pur se lentamente, ha una condizione mutevole.
Lo scatto più affascinante, dove si coglie il diverso scorrere del tempo tra contenuto e contenitore, è Union City Drive-In, del 1993.
Il capolavoro tra le serie dei “Theaters”, tuttavia, è “Abandoned Theatre” del 2015. In questa Sugimoto fissa la sua attenzione sul rapporto tra un’opera estremamente significativa nella storia del cinema, nella vita delle persone e, probabilmente, dello stesso artista, con i segni del tempo, ambientando lo scatto a tempo di posa di capolavori del cinema, come Rashomon, Biancaneve o ancor più Mujo (The passing life, 1970), che è un film incentrato sul concetto buddista di “transitorietà” (aspetto centrale della riflessione sul tempo terreno), in sale storiche abbandonate, simili a quelle della prima serie, dove sono evidenti, attraverso il degrado delle strutture della sala, i segni del passare del tempo, della caducità della vita terrena.
Sugimoto, astraendosi dalla complicazione e dall’artificiosità della vita e dell’arte contemporanea, ci riporta ai temi basilari dell’arte e dell’esistenza. La rappresentazione del tempo per l’artista è minimalista e il tempo più “reale” è il tempo dello spirito, quello della riflessione sul significato della nostra vita terrena.