Dialogo immaginario tra un soldato e la persona che ama

” Mi sento tanto sporco piccola mia.

Puzza questa giacca che indosso, Dio mio se puzza, non solo per il fango che è rimasto attaccato. Puzza per ciò che ho perso durante questi mesi, come se ogni giorno una parte di me, della mia pelle sana, si fosse staccata dal corpo lasciando marcire tutto il resto.

Se potessi, vorrei ritrovare ogni pezzo che non c’è più, rimetterlo a posto riattaccandolo con calma, ago e filo alla mano, lontano da questo sottofondo di morte; magari seduto sulla poltrona del salone, vicino agli odori della nostra cucina, per tornare ad essere almeno una parte di quello che ero.

 Spiegarti cosa è stato sarebbe impossibile, non solo per la sofferenza che mi provocherebbe, ma perché so che ometterei tanti particolari essenziali. Ho vissuto un tempo bastardo, di una crudeltà razionale; ogni cosa era studiata per fare del male ed il male è diventato la mia normalità, quasi una religione che credevo potesse salvarmi la vita.

 Ieri, in un villaggio vicino alla base, ho tenuto in braccio una bambina scampata ad un bombardamento aereo.

Sai, era letteralmente terrorizzata. L’ho raccolta da terra, tremava. Mentre la sollevavo m’è venuto istintivo guardarla negli occhi ed ho visto una cosa alla quale non ero preparato, non so, una consapevolezza. Lo sguardo lucido di chi non giudica ma già sa, di chi riflette la tua immagine e ti uccide.

Ieri sono morto amore mio, e non pensavo potesse essere così doloroso.”




LA SCELTA

Mentre camminava per strada diede un calcio di piatto ad un pacchetto di sigarette per terra. La scatola spiccò il volo allontanandosi di parecchi metri; quel gesto, per un istante, la fece sentire onnipotente.

Stava andando in aeroporto a prendere il suo compagno, volo Parigi – Roma.
L’aria fredda sul viso mentre cercava di raggiungere l’automobile sembrava ridestarla da un torpore esistenziale. Si trovò improvvisamente ad immaginare un blocco dei trasporti aerei, provando un istintivo senso di euforia che censurò quasi subito.
Cosa le stava accadendo?

Quell’uomo era il motivo per il quale aveva intenzione di cambiare progetti di vita. La distanza era stata un peso troppo grande ed il distacco da lui innaturale: si tornava ad un punto di partenza preparandosi ad una nuova attesa, un ritorno, un nuovo ricordo, che si susseguivano incessantemente. Ma se prima questo ciclo sembrava portare nuova vita, ora era diverso.

A passi sempre più veloci raggiunse l’automobile, aprì lo sportello e si sedette rendendosi conto che quel silenzio intorno le apparteneva. 

“Cosa si sceglie veramente?” fu la domanda che le balenò in testa poco prima di mettere in moto. Il legame tra lei ed il suo compagno che dinamiche aveva avuto?
Un legame incuneatosi silenziosamente nelle loro vite di persone estranee, che aveva dato vita ad un film fatto di tanti luoghi comuni. Una frittata semplice, in un momento di particolare appetito, scambiata per una prelibatezza.

Inserì allora la chiave per l’accensione dell’auto, ma esitò nel girarla. Uno, due, tre secondi.
Troppi.
Lui stava sicuramente atterrando, non aveva senso arrivare in ritardo e farlo aspettare. Le venne allora in mente una parola poco familiare che le era mancata per tutto il tempo: ‘ tenerezza’.

Passarono altri istanti. Ad un certo punto riaprì di scatto la portiera, scese dall’auto, richiuse con forza e cominciò a camminare velocemente in direzione di casa. Così, all’improvviso, mentre il rumore dei suoi passi sembrava riprodurre il battito del cuore.
L’aereo, l’appuntamento, il telefono che di lì a poco avrebbe squillato. Tutto cancellato in un attimo.
Le falcate sempre più veloci, il fiato grosso e l’aria fredda che risvegliava altri pensieri.

Si stava allontanando da una vita in corso cercando di convincersi che non era giusto, che non c’era nulla di ragionevole in quella fuga, che avrebbe dovuto affrontare la situazione in maniera diversa. 
Ed invece continuò a camminare verso casa con la sensazione di aver cambiato maldestramente copione, cominciando a recitare una parte che le calzava a pennello.
Finalmente si sentì bene, quasi leggera, e per la seconda volta in quella sera, davvero onnipotente.





Assunta

“State boni, ce n’è per tutti”  

Diceva sempre così quando noi nipoti le saltavamo addosso per avere un bacio. La conquista più grande era riuscire a sedersi sopra una sua gamba e farle fare cavalluccio “Madonna quanto pesano ‘sti  ragazzini…  so’ anziana io.”

Nonna Assunta era vedova. Raccontava sempre che nonno Ezio era stato dato per disperso nella campagna di Russia; a quell’età non avevo ben capito perché fosse dovuto andare fin laggiù, quando da noi, di campagna, ce n’era tanta.

Lei aveva un vezzo: portare i capelli lunghi raccolti dentro una retina. Sembravano una nuvoletta intrappolata per non disperdersi in aria. Ogni tanto, quando le stavo in braccio, mettevo il naso in mezzo a quella strana acconciatura e annusavo forte, come fanno i cuccioli che si calmano con  certi odori. Dopo un po’ mi diceva “Mò però basta, bella de’ nonna, che a forza d’annusa’ me fai er solletico” poi rivolta a mia madre “Nannare’, ma come mai ‘sta creatura m’annusa sempre in testa? Pare un segugio”. Valle a spiegare che quel vizio, con le persone che amo, non l’ho ancora perso.

Ieri sono tornata a casa tua, Assunta.

La serratura d’ingresso è difettosa, per aprire mi sono fatta aiutare dal portiere. Le imposte delle finestre erano chiuse, le ho spalancate tutte per far circolare un po’ d’aria. In cucina è entrato un bel raggio di sole che ha illuminato tanti granelli di polvere, come minuscole luci in sospensione; è stato allora che ho pensato che la vita non si ferma anche quando sembra il contrario, che qualcosa, sempre, accade.

Poi mi sono fatta coraggio e sono andata nell’altra camera. Ho visto la retina per i capelli appoggiata sul comodino ed ho scosso la testa, interdetta. Zia s’è scordata di rimettertela ed io non me ne sono accorta. Allora l’ho presa e ci ho giocato un po’ con le dita. Poi mi sono sdraiata sul tuo letto e l’ho annusata forte. Era come riaverti là, tutta mia. Annusavo quell’intreccio di fili e guardavo il soffitto; poi immaginavo oltre il soffitto, fino a vedere il cielo terso del paese in cui sei nata. Con tono ironico mi avresti sicuramente detto “Annusala un’ultima volta e basta, bella de nonna, che me fai er solletico. Poi, buttala via quella retina”.

E così ho fatto.

Adesso sei finalmente libera, Assunti’.

Vai.

Ogni tanto tornerò a casa tua, per sdraiarmi un po’ sul letto ed immaginare di volare con te chissà dove, mentre guardo i tuoi capelli bianchi muoversi nel vento.     

 





SIBERIA

Un forte sibilo seguito da un tonfo a ridosso del villaggio di Akay, Siberia meridionale.

Gli abitanti del luogo si precipitarono a vedere cosa fosse successo, mentre l’odore di bruciato cominciava a diffondersi nell’aria. Davanti ai loro occhi l’immagine di un missile fumante piantato a terra, come un enorme fiore di metallo cresciuto in mezzo all’erba. Uno dei tanti razzi vettori spaziali usati nella vicina base di Baikonur per mettere in orbita i satelliti, caduto dal cielo dopo aver portato a termine la sua missione.

Tra la folla, increduli di fronte a quello spettacolo apocalittico, Dimitri e Liev si guardarono scambiandosi un cenno d’intesa e capirono cosa sarebbe accaduto di lì a qualche giorno; avrebbero aspettato che quel pezzo di metallo si raffreddasse e sarebbe poi partita l’esplorazione del mezzo alieno. La caduta del razzo, potenzialmente letale, si stava rivelando una benedizione estiva per quei due ragazzini, in un posto dimenticato dal mondo dove non accadeva mai niente di nuovo.

Una mattina decisero che fosse giunto il momento di mettere in atto il loro piano. Si diressero così verso il razzo, che primeggiava con la sua mole in  mezzo alla campagna. La prima cosa visibile era la scritta ‘Cosmos’ su una parte della fiancata, rimasta stranamente intatta, mentre il resto era solo un cilindro di lamiera contorta. Dimitri e Liev si resero conto che non sarebbe stato difficile arrampicarsi; bastava mettere i piedi in  alcune ammaccatture profonde e far forza con le braccia. Dimitri cominciò a salire per primo, mentre Liev lo seguì subito dopo imitandone i gesti. Giunti in cima, Dimitri si accucciò tra le lamiere e disse a Liev:

Oggi sarai il mio secondo pilota. Siediti e prepariamoci al lancio

Liev, serio e visibilmente emozionato, fece un cenno di assenso con la testa. Si accucciò anche lui, guardando in basso davanti a sé ed immaginando che ci fosse un pannello di controllo pronto per il lancio.

Liev, accendiamo i motori e spingiamoli al massimo!! viaaaaaaaaaaaa!!

E tutti e due alzarono quasi all’unisono le braccia verso il cielo, ridendo a crepapelle.

Bummmmmm!!! Oddio!!! siamo esplosi!!!”  fece Dimitri all’improvviso mentre Liev lo guardò dubbioso.
Immagina come sarebbe se fosse vero” continuò Dimitri  “di noi rimarrebbe solo un po’ di carne arrostita e basta

Smettila!” urlò Liev con una smorfia di disgusto.

Magari al nostro funerale avremmo avuto anche gli onori militari” aggiunse Dimitri sorridendo sadicamente.

E che me ne faccio degli onori militari una volta morto?”  sbottò Liev.

Poi, facendosi più serio e pensieroso disse “Dimitri, ma tu cosa vuoi essere da grande?

mmm… da grande… credo il pilota di auto. Correre, correre veloce, avere tante belle donne e vodka a fiumi

Invece a me piacerebbe davvero essere astronauta” fece Liev “potrei spiare il mondo dall’alto, andare in galassie lontane. Mi vedrebbero tutti in televisione, ci pensi?

E le donne? guarda che nello spazio non te la puoi spassare con le donne. Deve essere dura mentre sei sospeso in aria

Cretino…” sorrise Liev “le donne mi aspetterebbero adoranti a terra, me la spasserei al ritorno

Ad un tratto smisero di parlare, quasi assopiti in quei pensieri di futuro. Intorno, solo dolci colline che somigliavano a mammelle verdi e tanto silenzio, interrotto dal suono del vento tra gli alberi.

Sono sicuro che diventerai astronauta…” disse all’improvviso Dimitri

Ed io sono sicuro che tu farai il pilota” gli rispose Liev

Con uno scatto di reni Dimitri si alzò velocemente, facendo cenno a Liev di seguirlo. Era ora di andare.
Una volta scesi, Dimitri si fermò e con tono baritonale disse:

Oggi, caro Liev, siamo esplosi. Ma domani si torna. Dobbiamo perfezionare a tutti i costi questa benedetta partenza per lo spazio

Liev si mise sull’attenti “Agli ordini! Ce la faremo prima o poi ne sono sicuro, dovessimo esplodere altre cento volte

Un’ultima occhiata al razzo prima di andare via e poi, saltellando soddisfatti in mezzo al verde, si diressero verso casa.
Il fiore di metallo rimase improvvisamente solo, aspettando di rivederli per sbocciare nella loro sfrenata fantasia. Nella meravigliosa illusione di animarsi ancora di vita vera.


Foto copertina ©Jonas Bendiksen




“A Night Like This”

Finito il turno di lavoro si rese conto che non aveva voglia di rientrare subito a casa.
Salì allora in auto ed imboccò ad un certo punto la tangenziale provando un leggero senso di euforia nel sapere di non avere una meta precisa.
Dopo pochi chilometri di strada si immise nella piazzola di un autogrill e si fermò davanti al distributore di benzina per fare rifornimento.
‘Quaranta grazie’ disse a voce alta porgendo le chiavi del serbatoio al benzinaio.
Rimase in attesa nell’abitacolo, fissando un punto indefinito davanti a sé, mentre le luci delle auto lungo le corsie stradali passavano veloci. Carlo non capiva ancora bene cosa stesse facendo là in quel momento, ma gli sembrava giusto così. I ritorni a casa, in fondo, hanno senso quando sai che qualcuno ti aspetta. Voleva un cambiamento nel suo flusso di vita quella sera, fosse stato anche solo per un’ora.
Nel frattempo, all’esterno del bar dell’autogrill una donna parlava al telefono in maniera agitata camminando avanti e indietro; una presenza vivace che stonava con quell’area di sosta semivuota.
Finito il rifornimento, Carlo pagò il benzinaio e ripartì piano. La donna in quel momento concluse la telefonata, mise nervosamente il cellulare in borsa e cominciò ad incamminarsi in direzione dell’auto di Carlo. Con un gesto della mano gli fece segno di fermarsi e lui la assecondò.
Arrivò trafelata all’altezza della portiera dell’auto, lui abbassò un po’ il finestrino e lei disse:
“Mi scusi, ho bisogno di un passaggio”.
Carlo rimase interdetto, la donna se ne accorse ed insistette: “La prego”.
“Dove deve andare?” le chiese.
“Lei dove è diretto?”
“Non ho una meta precisa al momento”.
Lei allora disse “Non importa, va bene lo stesso”.
Sorpreso dalla situazione, Carlo le fece segno di salire e reclinò il corpo verso lo sportello del passeggero per aprirlo. Lei entrò richiudendolo con forza, accompagnata da un profumo fruttato misto ad un leggero odore di canfora. Da seduta lo guardò di nuovo, quasi ad assicurarsi che fosse al sicuro, e così ripartirono.
“Senta” disse lui “in genere non faccio salire persone estranee in macchina, ma mi rendo conto che questo non è un bel posto per una donna sola”.
“Capisco” rispose lei ” Non porto guai, non si preoccupi”.
Carlo era nervoso. Non capiva cosa le fosse successo e da tempo non si trovava in compagnia di una donna. Non sapeva se avesse fatto bene a farla salire e non sapeva se intavolare un discorso o rimanere zitto in attesa che fosse lei a farlo. Prese poi coraggio e disse:
“Mi chiamo Carlo”.
Lei rispose “Io sono Eva”.
“Eva.” ripeté lui, poi continuò: “Sto per lasciare la tangenziale, da che parte deve  andare?”
“Verso il centro” rispose lei, poi aggiunse “Sa, non chiedo mai passaggi in macchina, ma avevo bisogno di andare via di là”.
“Stia tranquilla” le rispose Carlo e non chiese spiegazioni sorprendendosi di se stesso.
Imboccarono così la strada verso il centro. Lui alzò il volume dell’autoradio, riconoscendo immediatamente la canzone che passava in quel momento:
“Say hello on a day like today / say it every time you move / the way that you look at me / makes me wish I was you”. Gli venne in mente una sera di tanti anni prima e si chiese se anche Eva ricordasse quella musica.
“Musica degli anni ’80” disse lui “anni spensierati quelli…”
Lei non disse nulla, come fosse altrove, poi all’improvviso gli chiese “come mai sei senza meta?”
Lui esitò un attimo “Mi succede ogni tanto, mi fa sentire libero”.
Lei ascoltò quella risposta continuando a divorare con gli occhi i frammenti di città che scorrevano lungo il finestrino laterale. Senza distogliere lo sguardo da fuori, ad un certo punto disse “Ho litigato al telefono con mio marito poco fa. Viene a prendermi la sera dopo il mio turno al bar dell’autogrill” poi fece una breve pausa e aggiunse “Mi ha tradita”.
Pochi secondi di silenzio poi Carlo fece sottovoce “Mi dispiace Eva…”
Si sentì a disagio in quel momento, quasi inadeguato. Era una situazione imprevista e troppo intima per due persone che si erano incontrate da poco. Continuò a fissare la strada capendo perfettamente come lei si sentisse. Certe confessioni sono parole lanciate nel vuoto e a volte non richiedono una risposta. Nei minuti che ne seguirono, solo la musica fece da sottofondo a quel pezzo di vita quotidiana.
Ad un certo punto si avvicinarono ad una fermata dell’autobus.
“Ecco, mi lasci pure là” fece lei indicando con la mano.
“Se vuole posso accompagnarla fino a dove deve andare”
“È gentile, ma meglio di no…” disse Eva “accosti pure”. Lui annuì ed accostò velocemente per farla scendere, mentre l’autobus si stava avvicinando. Lei lo salutò con un “Ciao” e poi disse “Grazie”. Lui rispose “Di nulla” e la seguì con lo sguardo mentre saliva sul bus.
La vide sedersi, uscendo definitivamente dal campo visivo, quasi inghiottita da quel tunnel di metallo.
Carlo ripartì e rimase accodato all’autobus per un breve tratto, poi con un sorpasso si congedò definitivamente dall’incontro con quella donna. 
Mentre guidava pensò all’imprevedibilità di certi momenti ed alla sensazione del distacco, seppur da una persona estranea che per poco tempo era stata parte della sua giornata. Da dentro l’abitacolo era come se vedesse la strada animata da sogni che sembravano lambire l’auto durante la corsa e che ogni tanto si materializzavano davanti ai suoi occhi. Ad un certo punto ebbe come la certezza che durante quel breve viaggio avesse vissuto di sfuggita uno di quei sogni, fino a riconsegnarlo, intatto, tra le braccia della notte. 

 





Ahmed.

L’aveva sognata. Se ne ricordò mentre preparava l’ennesima pizza nel suo locale, uno dei più frequentati nella zona universitaria.

È strano come funzionino le associazioni di idee – l’impasto ricoperto di farina e la salsa di pomodoro, il contrasto tra bianco e rosso, un’immagine abituale che in quel momento gli fece venire in mente il sogno. L’aveva sognata invasa dal bianco accecante della luce africana e dal rosso, quello del sangue proveniente dal mattatoio vicino al porto, che colava nel mare facendo accorrere a decine gli squali: Massaua, l’Eritrea, erano offuscate nella memoria ma certi particolari tornarono nitidi. Quel sogno era stato come un viaggio nel tempo. Si era rivisto bambino, seduto fuori dalla soglia di casa. Aveva risentito i vagiti provenire da una delle finestre e poco dopo era arrivato il suono gioioso della zaghrouta fatto dalle donne, che annunciava la nascita di un altro fratello. Nel sogno ricordò poi di aver sbattuto improvvisamente i piedi per terra e come per magia di essersi ritrovato a volare sopra il porto della città: dall’alto aveva visto le sagome degli squali che procedevano isterici in direzione del mattatoio, attratti dal sangue in acqua. All’improvviso la sensazione di cadere nel mare ed il risveglio di colpo che ne era seguito. Era stato un sogno di ritorno a luoghi d’infanzia e a paure con le quali si era abituato a convivere.

Fuggito dall’Eritrea, Ahmed era approdato in quella pizzeria che era ormai un luogo di incontro di tanti studenti universitari.

Mentre il ricordo del sogno era quasi svanito entrò nel locale Giacomo, studente fuori sede e presenza abituale. Quella sera l’atmosfera era particolarmente rilassata, non passavano molti clienti e questo ad Ahmed non dispiaceva; quel sogno lo aveva risucchiato in una spirale di malinconia, rallentandone i gesti. 

“Ciao Giacomo, il solito?”

“Si Ahmed grazie. Ti vedo stanco stasera.”

“Si un po’. Anche tu mi pare non abbia una bella cera.”

“Infatti. Sto preparando l’esame di storia delle dottrine politiche, da Socrate a Marx, non so se mi spiego.”

“Roba pesante” fece Ahmed.

“Eccome! e tra qualche anno probabilmente non ricorderò quasi più niente.”

“Vero. Si dimentica tanto ma per fortuna qualcosa resta. Proprio poco fa ho avuto dei ricordi di  Massaua, il posto in cui sono nato. L’ho sognata la scorsa notte.”

“Un bel sogno allora” disse Giacomo.

“È stato un sogno strano.”

“Ma pensi mai di poter tornare a casa un giorno?” ribatté Giacomo.

“Quando scoprirò dov’è” rispose Ahmed.

“Credevo fosse l’Eritrea la tua casa.”

“No. Ha smesso di esserlo tanti anni fa, e anche se adesso vivo qui, ciò che mi circonda non mi somiglia e non mi appartiene.”

“Sai Ahmed, anche io non mi sento molto a casa in questa città, ma allo stesso tempo ho investito nella laurea e spero di trovare un lavoro qui quando finirò di studiare.”

“Ti capisco Giacomo. Sei ancora giovane, la troverai una strada e una casa prima o poi.”

A quel punto lo sguardo di Ahmed oltrepassò il bancone della pizza e si diresse fuori in direzione del marciapiede e poi in alto, verso il cielo già scuro.

Giacomo istintivamente seguì con lo sguardo il punto in cui gli occhi di Ahmed si erano fermati.

“Cosa c’è Ahmed?”

“Guarda che bella luna” gli  rispose Ahmed.  

“Non me ne ero accorto” disse Giacomo, “Pensa, l’avevo scambiata per la luce del lampione.”

Allora entrambi guardarono di nuovo verso l’alto per qualche istante.

La pizza che Giacomo aveva ordinato era ormai pronta. Il ragazzo pagò e prima di andare via fece un cenno di saluto con la testa.

Ahmed aveva avuto modo di incontrare tanti studenti negli anni: di alcuni aveva mantenuto traccia, molti erano andati via a cercare lavoro, altri erano rimasti , altri ancora passati come comparse e poi spariti  nel nulla.    

Quella sera chiuse il locale in anticipo, aveva voglia di fare due passi prima di tornare a casa. Il viale dell’università era insolitamente deserto e silenzioso. Cominciò a camminare accompagnato dal suono di tante immagini di luce –  Massaua era distante da tutto, ma la luna era la stessa di un tempo e ritesseva un filo di ricordi. Sembrava dare respiro ad altri giorni che sarebbero arrivati, prima o poi. Perché Ahmed questo lo sentiva. Sentiva che era ancora intenso in lui il richiamo di una vita nuova.

Arrivato a casa, salì le scale del palazzo, inserì la chiave nella porta, la aprì silenziosamente e vide solo la luce della spia della caldaia brillare nel buio. Carla era già addormentata.  Ahmed fece i soliti gesti prima di coricarsi accanto a lei e percepirne il calore del corpo. Avrebbe voluto raccontarle in quel preciso istante il sogno di Massaua e le sensazioni di fine serata, con la speranza che lei potesse capire. Pensò poi al fatto che nel sogno lui era volato via, forse per sfuggire a tutto quello che era venuto dopo: la guerra e quel senso di paura ed estraneità che comporta, quel non sentirsi più a casa da nessuna parte. Strinse allora forte Carla, quasi a volerla svegliare, ma lei non si mosse. Avrebbe avuto bisogno anche solo di una parola, un gesto di lei, per sentirsi nel presente. Le diede solo un bacio sui capelli e si voltò dall’altro lato, chiudendo gli occhi.

Immaginò di essere ancora una volta il bambino del sogno, seduto sull’uscio, ma stavolta non sarebbe volato via. Semplicemente sarebbe corso dentro casa a sbirciare quel fratello appena nato tra le braccia della madre, circondato da visi familiari. Magari poi sarebbe andato verso il porto a guardare la luce riflessa sul mare, sperando un giorno di non dover scappare da là, ma soltanto di poter partire per poi ritornare. Avrebbe cancellato le macchie di sangue del mattatoio e avrebbe fatto sì che al posto degli squali ci fossero tanti pesci colorati con i quali nuotare senza paura. Sarebbe stato bello rivivere quel sogno ritrovando tutto quello che aveva perso. La sola illusione che ciò fosse possibile lo fece sentire meglio. Immerso in quei pensieri si addormentò poi piano piano, grato di quel corpo amato sdraiato accanto al suo, mentre il ricordo della luce africana lo accompagnò nel sonno.           





La signorina.

Io la vedo quasi tutti i giorni la Signorina.

Arriva la mattina presto, nel momento in
cui comincio a spolverare l’ufficio del direttore. Mi piace
ascoltarne i passi che fanno eco lungo il corridoio del piano e
che la portano in una delle tante stanze, piena di faldoni. Una volta li
ho pure contati quei passi; mi sono concentrata sul rumore e mentalmente ho
cominciato a calcolare: quattordici. Dall’ascensore fino alla porta della sua
stanza sono quattordici, lo dico con certezza. Quattordici rintocchi
familiari che ogni mattina mi fanno compagnia mentre pulisco l’ufficio più
importante di tutto il palazzo. 

Lei non lo sa, ma ormai conosco a memoria le sue
mosse non appena varca la soglia della sua  stanza. Per prima cosa toglie la giacca,
appoggia la borsa su un mobile di legno, accende il computer che
comincia a fare strani suoni, poi controlla tutte le carte sulla scrivania che
ha di fronte: è precisa la Signorina,
me ne sono accorta.

Quando entro nella sua stanza per fare le
pulizie e lei ancora non c’è, mi diverto a guardare gli appunti
che lascia in giro. Una volta ho trovato sul suo tavolo una lettera d’amore:
sono rimasta sorpresa, l’aveva stampata dal computer come un documento qualsiasi
e dimenticata là. Quanto era bella quella lettera, per un attimo volevo
prenderla, ma poi ho avuto paura che entrasse qualcuno e mi vedesse e non ho
voluto rischiare.

Un’altra mattina, invece, avevo finito il turno e
me ne stavo andando; sono passata davanti alla porta della sua stanza
e ho sbirciato dentro, come faccio sempre per essere sicura che tutto sia
stato pulito:  la Signorina era lì da sola, in piedi con il viso rivolto
alla finestra e guardava fuori. Mi è sembrata triste, un pò come me quando
penso a Tonino mio che sta lontano. Mi ha fatto tenerezza vederla in quel
modo, ma non ho avuto il coraggio di dirle nulla perché mi sentivo in colpa per
averla guardata senza che lei se ne accorgesse; sono discreta, è
necessario per il mio lavoro, e poi certe cose io le capisco.

Da quel giorno è successo altre volte: la Signorina, immobile davanti alla
finestra con gli occhi persi chissà dove, che sembrano chiedere aiuto a
qualcuno là fuori. Una volta ho provato pure a guardare da un’altra finestra se
magari ci fosse una persona affacciata nel palazzo di fronte, per capire cosa
stesse realmente osservando: niente di niente, nessuno.

Non so perché, ma ho cominciato ad
affezionarmi alla Signorina e
penso che anche lei si sia affezionata un po’a me. Mi saluta sempre con un
sorriso quando mi vede, e questa cosa mi fa sentire bene.  

E così, ogni mattina, ho un compito speciale da
svolgere appena arrivo al lavoro: lucido lo specchio che è attaccato ad un
parete della sua stanza, quasi nascosto. Lo faccio per lei, perché so che di lì
a poco, in quell’angolo e davanti a quello specchio, la Signorina stenderà un po’ di trucco
sul viso,  prima che arrivino gli altri colleghi.

Un trucco leggero, come un utile
velo, per nascondere chissà quante cose.

Credo che in tutti questi anni solo a me sia stato concesso di vederla veramente senza quel velo, quasi bambina. Di questo le sono grata.