Augusto De Luca fotografa Pupella Maggio

Pupella Maggio straordinaria attrice napoletana una delle più grandi partner di Eduardo De Filippo.
Alla fine degli anni ’80 Pupella abitava a Roma pur ricordando sempre con grande nostalgia la sua Napoli. Io, dopo averle telefonato, con il mio assistente e il fedele Bank fotografico (lampada con avanti un diffusore), da Napoli mi misi in viaggio per andare a ritrarla.
Dopo qualche giro per Roma, all’epoca non esistevano i navigatori, trovammo casa sua e quando lei apri la porta io fui investito da un intenso odore che conoscevo molto bene: era profumo di ragù. Ricordo che di riflesso inspirai profondamente con il naso, socchiudendo gli occhi…mi sembrò di essere a Napoli. Pupella era una donna gentile ed umile e anche se per me rappresentava un’icona, un monumento del teatro napoletano, il suo modo di fare mi fece sentire subito a mio agio.
Allora cominciai a cercare un posto per fotografarla. Guardandomi intorno mi colpi su di una mensola un ritratto di Eduardo con una sua scritta: “ a Pupella con amore, quello selvaggio del teatro “. Capii che avrei fatto la mia foto proprio insieme a quel ritratto. Le chiesi di prendere una maschera di Pulcinella che avevo notato nell’altra stanza, misi la luce in modo tale che sul viso di Pupella ci fosse una luce uguale alla luce che nella foto colpiva il viso di Eduardo e scattai. Sembrava quasi che Eduardo stesse li con noi in quel momento, illuminato dalla stessa luce…dal mio Bank.

Pupella Maggio – foto di Augusto De Luca
Pupella Maggio e Augusto De Luca




Mahler, ovvero la colonna sonora del Secolo Lungo

Tardo pomeriggio di un sabato di fine febbraio, in cui pare che l’inverno – fino a questo momento piuttosto mite – si sia ricordato tutt’insieme della propria esistenza e di essere ancora in tempo per prendere a schiaffi con la sua tramontana le gote dei romani che passeggiano per strada. È in programma in questi giorni la Sinfonia n°4 “Italiana” di Felix Mendelssohn e la Sinfonia n°1 “Titano” di Gustav Mahler. Il viaggio in macchina in direzione auditorium lo passo sgomento e angosciato come tutti quanti nell’ascoltare alla radio ciò che sta succedendo in queste ore in Ucraina e giungo al Parco della Musica con la voglia di svuotare per un po’ la mente dai pensieri per riempirla di emozioni positive. Emozioni che non tardano ad arrivare, complice uno straordinario Daniele Gatti alla direzione di un’orchestra di Santa Cecilia che sembra aver acquisito sotto la sua bacchetta un nuovo smalto e una nuova verve comunicativa.

Se è vero che la musica è la forma d’arte effimera per eccellenza, che nasce e muore nello stesso istante in cui vengono prodotti i suoni, e che nessuna registrazione suonata da un impianto hi-fi potrà mai sostituire la spazialità e le sfumature di un’orchestra dal vivo dentro una sala da concerto, credo che ciò sia particolarmente vero per la musica di Mahler.

Ho sempre pensato che Mahler fosse il compositore la cui vita e la cui arte avessero rappresentato, in anticipo di qualche decennio, l’Uomo di quello che lo storico Eric Hobsbawm definì Secolo Breve, con tutte le sue contraddizioni, i suoi drammi esistenziali, il suo cosmopolitismo, le sue conquiste e le sue sconfitte e la sua incapacità di esprimere appieno sé stesso e la complessità del mondo. Mahler è l’artista dei grandi conflitti interiori, dei successi e degli abissi, dei contrasti fortissimi che difficilmente trovano un loro equilibrio. Così, analizzando la sua vita, ci si accorge che fu uno stimatissimo direttore d’orchestra, che però in vita quasi mai fu preso in considerazione come compositore; fu il grande interprete delle opere di Mozart e del suo contemporaneo Puccini, ma è colui che scrisse solamente lieder e sinfonie, senza mai avventurarsi nel melodramma; è l’ebreo che comincia ad avvertire sulla propria pelle il crescente antisemitismo nella Mitteleuropa e che si converte al cattolicesimo, rimanendo però, agli occhi del pubblico, sempre l’ebreo boemo, nonostante ebreo non fosse più e nonostante potesse definirsi a ben diritto viennese, essendo divenuto (tra l’altro) il direttore stabile dell’Opera di Stato di Vienna, una delle istituzioni musicali tuttora più prestigiose al mondo; è colui che sentì la necessità di avere a disposizione una quantità di mezzi espressivi senza precedenti, che sfocerà in quell’Ottava, chiamata la Sinfonia dei Mille per il numero di esecutori richiesti; è colui che negli ultimi anni rimarrà affascinato dal misticismo orientale e dalla poetica cinese; è colui che porterà alle estreme possibilità espressive il sistema tonale, che proprio nelle sue ultime sinfonie comincerà a scricchiolare, lasciando presagire quel crollo totale che si verificò pochi anni dopo la sua morte. Pur cosciente di essersi spinto verso un punto di non ritorno, Mahler probabilmente non se la sentì di fare un ulteriore passo verso l’ignoto, lasciando la responsabilità al suo discepolo Schönberg, che di lì a qualche anno divenne l’alfiere ed il teorizzatore del sistema dodecafonico.

E poi la sua vita è segnata dal dramma esistenziale, che sembra il percorso della storia del dramma che vivrà l’Uomo del Novecento. Sappiamo che soffriva di una nevrosi che all’epoca veniva definita follia del dubbio e che probabilmente oggi verrebbe collocata nel disturbo ossessivo-compulsivo. Ebbe un incontro con Sigmund Freud che lo aiutò molto a far luce sui suoi complessi e a guardare sotto un’altra luce sua moglie, Alma Schindler, di 19 anni più giovane e donna dalla brillantissima mente, ambita e corteggiata dagli intellettuali di mezza Europa (ebbe relazioni e matrimoni, tra i vari, con Gustav Klimt, Oskar Kokoschka, Walter Gropius…).

Nelle sue composizioni, Mahler non dà quasi mai certezze, ma lascia l’ascoltatore nel dubbio e nella tempesta. Spesso si nota la sua difficoltà a trovare una soluzione ad un garbuglio in cui si è immerso, suo malgrado. E nel risolverlo ha bisogno di un numero sempre maggiore di mezzi espressivi: nella sua Sesta Sinfonia, ad esempio, utilizza un martello enorme che percuote una cassa di legno rivestita di cuoio e lo fa per tre volte, come le volte che il Destino busserà alla sua porta. Nell’ultimo movimento, più si è vicini a una conclusione e più i dilemmi aumentano, più si aggiungono complicazioni e gomitoli da sbrogliare. Si avverte quasi la difficoltà nel comunicare la complessità dell’esistenza e dell’universo in cui l’Uomo è immerso. E cosa non è, se non ciò che vivrà l’umanità nel XX secolo?

Ma torniamo al concerto e a quella Prima Sinfonia che è riecheggiata nella sala Santa Cecilia di Roma in questo freddo ed inquieto pomeriggio del XXI secolo. Ho sempre pensato che questa sinfonia fosse quasi folle nella sua sfrontatezza, nella sua audacia e nel suo mostrarsi così diversa e difficilmente collocabile rispetto alla musica sinfonica che fino ad allora era stata composta. Siamo nel 1889 e l’allora ventottenne Mahler dovette lasciare quanto meno perplesso il pubblico di Budapest, dove questo suo primo capolavoro fu eseguito per la prima volta. Ma, oltre alle considerazioni fatte sulla sua musica poc’anzi, non possiamo non notare una certa ironia nelle sue partiture, spesso amara, nonché un gusto per il grottesco e per la parodia, come si nota in quello che potrebbe sembrare uno jodel da taverna nel secondo movimento di questa sinfonia.

Forse l’elemento più ricorrente nelle composizioni di Mahler è però quello della Natura e dei suoi suoni, come esplicitamente si può udire nel primo movimento di questa Prima Sinfonia (e poi di nuovo nel finale), dove i cinguettii degli uccelli riecheggiano insieme ai gorgoglii dei ruscelli.

Mahler è anche un cittadino del mondo, nonostante sia strettamente e indissolubilmente legato alla sua Vienna. Lo si capisce chiaramente non tanto perché trascorse la sua vita in giro per l’Europa e per gli Stati Uniti invitato a dirigere le più grandi orchestre, ma perché – come nel primo movimento di questa sinfonia – si odono il passare di fanfare militari e di bande di paese, così come danze e melodie popolari di varie parti d’Europa. Egli non dimentica neppure le sue origini rurali e il suo amore per la montagna, testimoniato anche dai suoi frequenti soggiorni di isolamento ristoratore nella sua casa tra le montagne dell’allora austriaca Toblach – oggi Dobbiaco, in Italia. La sua ricerca non si limita, però, solo alle espressioni esteriori dell’essere umano, ma è in lui presente una forte dimensione spirituale che spesso coincide con la trascendenza del divino delle religioni monoteiste a cui fu educato e a cui aderì, ma che a volte sembra quasi aderire ad una dimensione legata alla correlazione tra tutti gli esseri viventi e le forze della natura, più vicina alla concezione orientale del divino (come si intuisce nella sua Nona).

La cosa che sicuramente ha reso famosa questa Prima Sinfonia è quel bizzarro trattamento della famosa melodia del Bruder Martin: si tratta della nenia infantile della nostrana Fra’ Martino campanaro, patrimonio da secoli degli infanti di ogni angolo del Vecchio Continente. Come si fa nel famoso gioco attorno a questa canzoncina, Mahler ripete la melodia a canone, ma variandola e soprattutto trasportandola in tonalità minore, il che le fa assumere le sembianze di una parodia di una marcia funebre. Il fatto di affidare le prime esposizioni del tema – tra i vari – a due strumenti gravi come il contrabbasso e la tuba in registri insolitamente acuti, dà a questa marcia un sapore decisamente grottesco. Come ebbe a dire il direttore Bruno Walter (discepolo e collaboratore dello stesso Mahler) “siamo condotti in un inferno che non ha forse l’eguale nella letteratura sinfonica”. Il tono parodistico prende vigore con l’entrata di un tema dal sapore “ungherese”, accennato dagli oboi con il controcanto delle trombe. C’è spazio anche per un frammento lirico, con la citazione dell’ultimo dei suoi Lieder eines fahrenden Gesellen; ritornano però la spettrale marcia iniziale e il beffardo tema tzigano, che rafforzano ancor più l’effetto di annichilimento: questa canzoncina infantile che si trasforma in marcia funebre potrebbe essere elevata a simbolo dell’universo mahleriano.

Ed è proprio mentre ascoltavo inebriato di emozioni forti e contrastanti questo movimento, che ho pensato che quella fosse la colonna sonora perfetta per questi giorni in cui assistiamo con incredulità e apprensione all’avvicendarsi del conflitto armato in Ucraina.

È rimasta famosa la frase che una volta Mahler pronunciò: “il mio tempo verrà”. Era conscio che la sua musica avrebbe fatto fatica ad essere accettata durante la sua vita, ma che avrebbe sicuramente trovato spazio nei decenni a venire. Ed il suo tempo è effettivamente arrivato, dopo la metà del ‘900, ma nonostante la velocità a cui procede la storia negli ultimi decenni, sembra che quell’epoca non sia poi tanto diversa da quella attuale.

Hobsbawm si sbagliava. Quel secolo, che doveva sembrare breve, si è dimostrato lunghissimo.




BIRD 100. Charlie Parker, nonostante tutto

Avevo circa venti anni quando cominciai ad ascoltare e ad amare la musica di Charlie Parker. Erano già diversi anni che ascoltavo jazz. Durante gli anni della mia adolescenza avevo eletto quella musica come mio riferimento culturale. Ero l’unico penso di tutto il liceo che preferiva ascoltare Benny Goodman piuttosto che uno dei tanti cantanti pop che andavano all’epoca. Un po’ ciò mi rendeva orgoglioso e mi faceva sentire come uno davvero anticonformista e non allineato. Già, perché quelli che all’epoca si definivano alternativi e si identificavano in certi generi musicali, a me sembravano tutti uguali, estremamente stereotipati. Non erano anticonformisti, ma semplicemente conformi a un sistema che era diverso rispetto ad un altro sistema che loro consideravano mainstream.

Ma non era solo quello. A me piaceva davvero quella musica. La trovavo coinvolgente, energica, vera. Ogni qualvolta che avevo qualche soldo da parte raccattato dalle mance di compleanni o feste, ne approfittavo per andare a comprare un disco jazz alla Ricordi di via del Corso o, meglio, di via Giulio Cesare a Roma. All’epoca rimasi molto colpito dalla storia e dal personaggio di Billie Holiday. La classica artista maledetta intorno alla quale ne era nato un mito. Caso simile, da questo punto di vista, era quello di Charlie Parker.

Uomo dalle intuizioni geniali e degli eccessi oltre ogni limite, Bird – questo il suo soprannome – aveva fatto irruzione nel mondo del jazz e della musica in generale prendendo a schiaffi in faccia chi credeva che dalla musica non ci si potesse aspettare nulla di nuovo, che quanto si era sentito bastava. Invece, circa a metà degli anni ’40, era nata una nuova generazione di musicisti preparatissimi, molto motivati, che avevano un loro linguaggio, un loro slang, che sfidavano l’establishment dello showbiz e che suscitavano ammirazione e allo stesso tempo irritazione suonando a tempi velocissimi, con un virtuosismo inaudito, temi spesso presi in prestito da canzoni alla moda ma delle quali rimodulavano gli accordi e le melodie. Era quel genere che fu poi chiamato bebop. I boppers erano dei ragazzi che spiazzavano la vecchia generazione e che facevano sempre parlare di sé, vuoi per la loro musica, vuoi per il loro comportamento. In realtà, a posteriori, sappiamo che erano molto più legati alla tradizione di quanto può sembrare e di quanto si dicesse. Per tantissimo tempo il bebop fu considerato solo come musica di rottura. In realtà era una naturale evoluzione di quella che era stata la musica fino a quegli anni. Semplicemente l’epoca era cambiata, c’era stato un conflitto mondiale e con esso era cambiata la società con tutto ciò che comportano i cambiamenti storici. In più, negli anni della guerra, vi era stato un buco di documentazione sonora di qualche anno, per cui, quando l’industria discografica si riprese, il bebop fu percepito come un fulmine a ciel sereno.

Bene, di questo movimento avanguardistico chiamato bebop, Charlie Parker fu senza ombra di dubbio il mentore, il profeta, il personaggio da seguire e da imitare. Prima di lui forse solo Louis Armstrong, venti anni prima, aveva avuto un impatto così forte nella musica ma anche nel costume. Un altro musicista che ebbe un’influenza fondamentale su molti jazzisti fu, nella seconda metà degli anni ’30, il sassofonista Lester Young, di cui Parker fu un assiduo studioso. Al fianco di Parker vi erano musicisti incredibili come Dizzy Gillespie, Thelonious Monk, Bud Powell, Max Roach, Fats Navarro e tanti altri. Dalla sua ascesa, nessun sassofonista (ma oserei dire nessun musicista) poté provare a dire qualcosa senza in qualche modo rifarsi a quel modello. Vennero fuori decine di sassofonisti bebop cloni di Parker; gente che aveva imparato a memoria i suoi assoli “tirandoli giù” dai suoi 78 giri. Ancora oggi molti sassofonisti studiano sui pentagrammi del Charlie Parker Omnibook.

Questo per quanto riguarda l’aspetto musicale; ma, come dicevamo prima, Parker non fu solo un musicista geniale, fu anche un personaggio fuori le righe, classico esempio di genio e sregolatezza. La stampa, la TV e gli scrittori hanno sempre avuto questo morboso interesse, questa goduria nell’andare a scavare nelle ombre dei personaggi famosi. Lo vediamo anche recentemente analizzando come i media si siano occupati della cantante Amy Winehouse. Quante volte abbiamo letto titoli sensazionalistici su riviste di gossip che la immortalavano in stato confusionale con un bicchiere di whiskey in mano o che descrivevano con minuzia di particolari gli attimi in cui aveva avuto un collasso? È una vecchia storia. Ecco, con Charlie Parker avvenne la stessa cosa. I suoi eccessi, la sua dipendenza dalle droghe, i suoi comportamenti al limite della follia erano pane per i denti per i giornali. Non che i suoi eccessi non fossero veri, anzi. Ma i rischi in questo caso sono due: il primo è che passi in secondo piano il valore artistico; il secondo che si mitizzino certi comportamenti dando luogo da una parte a una condanna moralistica priva di redenzione, dall’altra a un’ammirazione che porta a imitazione.

Purtroppo della generazione dei boppers ne morirono molti, anche giovanissimi, dilaniati dall’uso sconsiderato delle droghe e dell’alcool. Ragazzi pieni di talento e di vitalità che caddero nel falso mito che quegli eccessi potessero essere la chiave della creatività. Purtroppo questa era una convinzione diffusa all’epoca e che si ripeté ancora negli anni a venire. Dizzy Gillespie, che riuscì bene o male sempre a stare alla larga da certi giri, nonostante ci convivesse quotidianamente, continuò incessantemente a tirar fuori capolavori fino alla vecchiaia, sempre con la stessa vitalità, allegria ed entusiasmo.

Dicevo… Avevo 19-20 anni quando cominciai ad approfondire l’ascolto di Charlie Parker. Sì, mi affascinava un po’ il suo aspetto di artista dannato, ma mi entusiasmava prima ancora la sua musica. E no, per me Bird non era dramma di vivere, non era depressione né malinconia. Per me le sue note erano gioia di vivere, erano vitalità, erano la quintessenza dell’entusiasmo e dell’irruenza, quella sana, quella bella. Percepivo che Parker non sentiva solo la necessità di comunicare attraverso la musica, ma aveva urgenza di farlo. Allora ribaltai il punto di vista rispetto a quanto avevo fino ad allora letto su di lui. Cominciai a capire che Parker fece quello che ha fatto nonostante la droga, nonostante i suoi problemi psichici e non grazie ad essi.

Mi procurai un film di cui la critica aveva tessuto le lodi. Era Bird, pellicola del 1988 diretta da Clint Eastwood. Non capivo nulla di cinema e continuo a non capirci nulla ora. Probabilmente, come avevo letto, la fotografia, i soggetti, i costumi, la recitazione erano grandiosi, ma a me quella volta fece rabbia quel film. Lo trovai artefatto, raccontava il personaggio in modo forzatamente distorto, godendo nell’esaltare il dramma della vita di Parker. Mi sembrò che a tratti puzzasse anche di razzismo. Sono passati molti anni e non ricordo più molto di quell’unica visione del film. Mi era rimasta però quella brutta sensazione. Essendo stato invitato a scrivere qualche riga in occasione del centenario della nascita di Charlie Parker ho deciso di rispolverare quel DVD e di riguardarlo. E niente… Mi sono addormentato dopo 40 minuti. Probabilmente la mia percezione è stata irrimediabilmente influenzata dall’impressione che ebbi all’epoca, poco più che adolescente, o forse ho solo verificato che all’epoca non mi sbagliavo.

Charles “Charlie” Parker, Jr nacque a Kansas City il 29 agosto 1920. È passato un secolo ma la sua musica continua ad essere un faro per migliaia di musicisti in tutto il mondo. C’è da rimanere sbigottiti per quanto abbia saputo influenzare la musica nonostante la sua breve vita, nonostante i suoi problemi, nonostante tutto. Bird era un bel ragazzone, era un musicista fenomenale, era una persona di un’intelligenza fuori dal comune. Bird era un genio.

 

 

 





ERIC DOLPHY: UN GENIALE GESSETTO SULLA LAVAGNA

Questo articolo esce in simultanea su La Bottega del Barbieri 

Primi anni selvaggi di quell’anarchia che era internet quando cominciò ad essere nelle case di tutti. Ero già appassionato di jazz e avevo già letto qualche libro su questa musica, ma ne sapevo ancora poco. Da uno di quei programmi peer-to-peer di dubbio valore legale scaricai un video di Charles Mingus. Non sapevo bene cosa aspettarmi. Aprii il file e già il fatto che non si trattava di un film porno camuffato sotto un titolo improbabile mi sollevò. Si trattava di un video del 1964 di un concerto del sestetto di Mingus che eseguiva Take The A Train. Il gruppo era fantastico, Mingus era uno sciamano; c’era energia, quel gruppo era vibrante e mi chiedevo come facesse quel pubblico di rincoglioniti a rimanere così impassibile di fronte a quella pulsione.

Il pezzo inizia, il gruppo introduce il famoso tema e poi è il trombettista Johnny Coles a fare il primo assolo per poi passare il testimone al pianista Jaki Byard. Fa un assolo bellissimo, mettendo in mostra inizialmente uno stile stride piano che si rifà alla tradizione per poi proseguire con un linguaggio più moderno. Poi arriva lui. È strambo, tutti smettono di suonare lasciando questo tizio a suonare in totale libertà. Si tratta di Eric Dolphy con il suo clarinetto basso. Cosa diavolo sta suonando? Ero scioccato. Le frasi melodiche erano spigolose, intervalli ampissimi si susseguivano a grande velocità. Pensai che non stava suonando, ma che stava maltrattando quello strumento. Vogliamo parlare poi del suono? Per me il clarinetto basso era quello di Harry Carney: caldo, sensuale, legnoso. Qui era aspro, stridulo, nervoso. Insomma… brutto! Era il gessetto spezzato sulla lavagna di scuola. Però tutto quel caos aveva un senso. Non erano note suonate a caso. Si capiva che Dolphy stava improvvisando un assolo ma che non si stava improvvisando! Dovetti guardare più e più volte quel video. Alla fine conclusi che Eric Dolphy era un semidio e che il rumore di quel gessetto sulla lavagna addirittura lo trovavo godibilissimo!

Da allora cominciai ad ascoltare le sue registrazioni. Dolphy è stato uno dei musicisti di jazz più originali della storia. Mai scontato, mai superficiale e soprattutto molto originale. L’originalità è forse la caratteristica più importante per un musicista jazz e lui suonava in un modo inimitabile, che non aveva precedenti e che non ha avuto imitatori.

Non starò qui a parlare della sua vita e di ciò che ha
registrato. Nel web c’è già sufficiente materiale da consultare. In questi
giorni, però, è doveroso ricordarlo per un doppio anniversario. Eric Dolphy
nacque a Los Angeles il 20 giugno 1928 e morì, a soli 36 anni, a Berlino, il 29
giugno 1964, pochissimo tempo dopo la data di quel concerto che me lo
introdusse. Visse poco, troppo poco, ma lasciò all’umanità una straordinaria
eredità artistica.

Charles Mingus Sextet Feat. Eric Dolphy – Take The A Train – Recorded Norway, April 12, 1964
Charles Mingus – Bass
Eric Dolphy – Bass Clarinet
Clifford Jordan – Tenor Sax
Johnny Coles – Trumpet
Jaki Byard – Piano
Dannie Richmond – Drums





West End Blues, fenomeno sociale ai tempi della quarantena

Tempo di quarantena, tempo di reinventarci, tempo di condividere il più possibile, tempo di riscoprire cosa amiamo e cosa pensavamo fosse importante e che invece oggi ci appare superfluo, tempo in cui si scopre che tante cose non sono per niente scontate come ci sembravano fino a poche settimane fa.

È così che musicisti di ogni ordine e grado impiegano il loro tempo e la loro arte suonando il proprio strumento e, spesso, condividendo le proprie note attraverso i social o, meglio, dalla finestra del proprio appartamento, per consolare o far passare qualche minuto di svago agli abitanti dei palazzi limitrofi.

Musicisti di ogni ordine e grado. Chi prima strimpellava la chitarra in chiesa, chi cantava in un coro, chi si esibiva con la band del liceo in qualche pub, chi fino a pochi giorni prima si esibiva sul palco di un grande auditorium.

Ma quello che stiamo notando in questi giorni non sono solo esternazioni personali, scelte individuali; sta nascendo anche un interessante fenomeno globale che consiste nel condividere ciò che i musicisti sentono come un patrimonio condiviso e trasversale. Sì, perché ci sono canzoni, assoli, introduzioni di brani che hanno segnato la storia di alcuni generi musicali e che, a distanza di decenni, continuano a interessare ed appassionare generazioni di musicisti.

Succede così che il 21 marzo Todd Stoll, importante trombettista jazz americano, nonché Vice Presidente dell’Education Department del Jazz at Lincoln Center di New York, scrive un post lanciando quella che in gergo si chiama una challenge, ossia un appello-sfida. L’invito è quello di “postare un video di te che suoni l’iconica introduzione a West End Blues di Pops [Louis Armstrong] e taggare 10 amici”.

I post sono seguiti dall’hashtag #westendblueschallenge in modo che tutti possano trovare e vedere i video di coloro che stanno aderendo all’appello.  Non è più l’epoca della televisione, ma quella dei social network e il limite ma forse il bello di questo mezzo di comunicazione è il fatto che le cose bisogna cercarsele, bisogna volerle; non vengono trasmesse in modo univoco e c’è chi le recepisce più o meno passivamente e consapevolmente.

Sembra una cosa carina da fare. Subito rispondono vari trombettisti che postano la loro versione ritaggando altri colleghi. La cosa nel giro di poche ore diventa (è il caso di dirlo) virale. Ma non solo tra trombettisti e non solo negli Stati Uniti. Se un virus non conosce nazionalità né confini, la stessa cosa si può dire della musica.

Tra i primi in Italia a rilanciare la challenge è stato il trombettista Nicola Tariello che, come richiesto, ha postato la sua versione taggando altri dieci trombettisti e diffondendo la cosa in tutta la nazione.

Ma di cosa si tratta? West End Blues è un brano jazz composto da Joe ‘King’ Oliver ed inciso nel 1928 da Louis Armstrong con i suoi Hot Five. La sua introduzione alla tromba (o alla cornetta?) fu l’insieme di note più folgorante di tutta la prima metà del ‘900 nella musica popolare. Essa segnò all’epoca un gesto di rottura sorprendete, dato che combinava due idee – il break d’apertura […] e l’esteso chorus stoptime – in una cadenza a tempo libero.[1]  Fu una di quelle esternazioni piene di vitalità, genio e intuito che lasciarono di stucco qualunque musicista. Oggi forse alle nostre orecchie non pare così trasgressiva o audace, ma ciò è dovuto al fatto che abbiamo talmente interiorizzato (oserei dire geneticamente) quel modo di esprimersi che lo diamo per scontato. Ma, all’epoca, scontato non lo era affatto. Quelle poche note segnarono una svolta, cambiarono per sempre il corso della storia della musica e nulla poté più prescindere da esse. Schiere di trombettisti (ma non solo) per anni continuarono a risuonare quelle note sentite squillare dalla campana di un grammofono a 78 giri. Persino un sassofonista così moderno come Charlie Parker l’aveva studiata e di tanto in tanto la inseriva nei suoi assoli. [2]

Ma ora tralasciamo gli aspetti tecnici e quelli puramente storici. Ciò che è importante osservare, oggi, è come e perché poche note incise quasi un secolo fa stanno risuonando nelle case di mezzo mondo, durante una crisi globale senza precedenti, che vede le persone di qualsiasi grado sociale ed economico recluse in casa. Il fenomeno meriterebbe un’attenzione particolare non solo tra musicisti e musicologi ma anche tra sociologi. E il fenomeno è assolutamente trasversale: troviamo il ragazzino alle prime armi con la tromba come il super professionista con il sassofono. Già, perché si vedono musicisti con qualsiasi strumento condividere la loro versione di West End Blues: non solo trombettisti, ma anche sassofonisti, trombonisti, pianisti, violinisti, tubisti, clarinettisti, cornisti, strumenti modificati con l’elettronica e Dio solo sa quanti altri.

All’inizio di questo articolo parlavamo di un patrimonio condiviso. In una conversazione con il jazzista Giorgio Cuscito, ha detto:

«È come una call, un richiamo della foresta, un richiamo alla vita, non so cosa ha. Però è incredibile il rinnovato successo globale di questa cosa. Non solo, ma mi pare che sia trasversale: essendo scritto, lo suonano tutti: jazzisti e non.

Ci stiamo divertendo a farlo, ma non è soltanto un divertimento. Qui si è scelto questa cosa, non si sa perché, in questo momento. È fondamentale! Vuol dire che, in nome di una ricerca di un’unione in questo isolamento assurdo, per non sentirsi soli benché isolati, si è scelto un incipit di Louis Armstrong del 1928 e non tante altre introduzioni di altri brani come potrebbe essere quella di In The Mood. E invece no. E non so quale sia il motivo! È una cosa che andrebbe analizzata a livello musicologico in maniera molto attenta. Esce fuori che questo West End non lo conosce nessuno (a parte i trombettisti per via di Armstrong), ma ritorna ad essere quello che è: fondamentalmente il brano più importante della storia del jazz.

In tutto ciò credo che abbia anche a che fare la solarità di Armstrong, la sua personalità, il suo travalicare il fatto musicale in sé».

A me è venuta in mente una scena rimasta nella storia: alla caduta del muro di Berlino, nel 1989, fu suonata la IX di Beethoven da un’orchestra composta da musicisti provenienti da Est e da Ovest, diretti da Leonard Bernstein. Non so se sia il caso di paragonare i due episodi – sono epoche e situazioni differenti – ma nel piccolo grande mondo del jazz possiamo affermare senza ombra di dubbio che la West End Blues di Louis Armstrong è la nostra IX di Beethoven!

A questo punto ascoltiamo questa pietra miliare che ancora oggi anima tanti musicisti:

Si sta inoltre cercando di fare una playlist di tutti i video trovati in condivisione con questo hashtag. L’operazione è quasi impossibile dato il sempre crescente numero di video prodotti e condivisi, ma la playlist viene quotidianamente aggiornata!

Playlist dei video raccolti – [clicca sull’immagine]


Note

[1] Gunther Schuller, Il Jazz. Il periodo classico. EDT 1996.

[2] https://jazzontherecord.blogspot.com/2018/08/bird-quotes-satchmo.html





Hector Berlioz: storia di un compositore francese dell’800 innamorato dei nostri Appennini

Articolo edito su CAI Monterotondo
“Il Ginepro” n.4 – gennaio 2020 

Il nome di Hector Berlioz forse non dirà molto a chi non è familiare con la musica sinfonica. Per coloro che ne fossero appassionati, invece, è senza dubbio un personaggio di prim’ordine. Pochi però sanno che Berlioz, oltre che essere stato un grandissimo compositore, fu anche un frequentatore assiduo ed amante della campagna romana e dei nostri Appennini! Ma come ci è andato a finire un musicista colto francese dell’800 in mezzo ai monti abruzzesi?

Generalmente ci immaginiamo i musicisti di una certa epoca con delle appariscenti parrucche, nell’intento di allietare qualche corte europea o a scrivere in solitario musica da presentare in teatro per un pubblico altolocato. E di solito ce li immaginiamo seriosi e tutti immersi nel proprio lavorio cerebrale.

Ecco, Berlioz non era esattamente quel tipo di musicista… Dopo aver ricevuto un’educazione musicale per niente ortodossa, nel 1830, a 27 anni, consegnò all’umanità quello che è considerato il suo più grande capolavoro: la Sinfonia Fantastica. Opera complessa, immaginifica e scritta per un organico mastodontico, la Fantastica è universalmente riconosciuta come una pietra miliare della letteratura sinfonica, che aprì la strada alle future generazioni di compositori romantici. E fu in questo anno che ottenne il prestigioso Prix de Rome. Questo riconoscimento, istituito dal Conservatorio di Parigi e in vigore dal 1663 al 1968, consisteva in una borsa di studio che prevedeva la permanenza presso l’Accademia di Francia a Roma, a Villa Medici, per un anno intero e veniva assegnata ai vincitori del concorso in cinque discipline artistiche: architettura, scultura, pittura, incisione e musica.

Quella che per molti sarebbe stata un’occasione unica di crescita artistica, di frequentazione di ambienti raffinati, di proficui confronti tra artisti, non fu per il nostro musicista un’esperienza così esaltante. Anzi, in quell’ambiente accademico non si sentiva per niente a suo agio e mal sopportava la vita nella città romana, all’epoca decadente e non cosmopolita come poteva essere Parigi. Fu così che Berlioz cominciò a passare sempre meno tempo in Accademia e a Roma, fino ad assentarsi per intere settimane! Ma dove andava tutto questo tempo lontano dalla città? Cosa faceva? Perché? Sono queste le domande che si devono essere chiesti all’epoca i frequentanti dell’Accademia e i responsabili della borsa di studio. Ma è lo stesso Berlioz a raccontarcelo visto che, oltre ad essere un musicista, amava scrivere e lasciò molti diari narranti le sue avventure in Europa, alcune delle quali racchiuse nel volume Viaggio musicale in Germania e in Italia del 1844. Questi diari rimangono dunque un interessante spaccato non solo della vita di quei tempi, ma anche un resoconto dei paesaggi appenninici e delle genti che li popolavano nel XIX secolo.

«Approfittando della libertà che ci era accordata, io cedevo alla mia inclinazione per le esplorazioni avventurose e quando mi sentivo morire per la noia mi rifugiavo negli Abruzzi»

È così che per contrastare quello spleen (termine indicante la tristezza meditativa o la melancolia, tanto decantata nella letteratura francese dell’Ottocento), iniziò a recarsi di frequente a Subiaco, grande villaggio degli Stati pontifici, a qualche lega da Tivoli. In breve, Berlioz cominciò ad esplorare altri villaggi d’Appennino, spesso per lunghe battute di caccia:

«…ricordo quell’aspro paesaggio degli Abruzzi, dove ho tanto vagato; strani villaggi, mal popolati da abitanti malvestiti dallo sguardo sospettoso, armati di vecchi fucili scalcinati […]. Luoghi strani, la cui solitudine misteriosa mi ha colpito così profondamente! Ritrovo una folla di impressioni perdute e dimenticate. Subiaco, Alatri, Civitella, Genazzano, Isola di Sora, San Germano, Arce. […] il convento di San Benedetto a Subiaco, dove si trova la grotta che accolse San Benedetto, dove fioriscono ancora le rose che lui aveva piantato. Più in alto, sulla stessa montagna, ai bordi di un precipizio in fondo al quale mormora il vecchio Anio [Aniene], il ruscello caro a Orazio e a Virgilio […]. Di fronte, sull’altra riva dell’Anio, una montagna a forma di dorso di balena […]. Al di sotto una caverna, che si può raggiungere solo lasciandosi cadere dalla roccia posta in posizione più elevata, con il rischio di atterrare a pezzi cinquecento piedi più in basso». 

Anche all’uomo dell’Ottocento, così come al camminatore moderno, capitava dunque di evadere dalla città e di immergersi nella natura per cercare quel senso di libertà:

«Libertà di cuore, di mente, di anima di tutto; libertà di non far nulla, persino di non pensare; libertà di dimenticare il tempo, di disprezzare l’ambizione, di ridere della gloria, di non credere più nell’amore; libertà di andare a Nord, a Sud, a Est, a Ovest; di dormire in mezzo ai campi, di vivere di poco, di vagare senza scopo, di sognare, di restare sdraiato per giorni interi, assopito al soffio del tiepido scirocco! Libertà vera, assoluta, immensa! O grande e forte Italia! Italia selvaggia!»

Ovviamente, da musicista sensibile e raffinato, Berlioz non poteva che trarre ispirazione per le sue musiche e, quando possibile, rubare qualche idea melodica sentita tra le genti. Crispino ad esempio, un mezzo brigante suo compagno di avventure in montagna, soleva salutare il compositore con una frase di benvenuto cantata a squarciagola e che Berlioz avrebbe riportato in seguito come serenata nell’ultimo Atto della sua opera Benvenuto Cellini.

Oltre a Subiaco, che considerava un po’ la capitale della zona, Berlioz era solito frequentare anche i villaggi circostanti:

«Il più interessante di tutti, Civitella, un vero nido d’aquila, posato sulla punta di una roccia quasi inaccessibile, è un posto miserabile e puzzolente. La vista magnifica di cui si gode è la sola ricompensa alla fatica di una simile scalata. La strana conformazione delle rocce, nel loro fantastico ammasso, affascina gli occhi degli artisti». 

I paesi di Vicovaro, Olevano, Arsoli, Genazzano appaiono più o meno tutti dello stesso aspetto, con case grigie tutte attaccate, sentieri che sono dei gradini informi appena abbozzati nella roccia. La gente è abituata a vedere lo straniero come un artista abbiente: «Ovunque si incontravano dei poveri bambini seminudi che inseguivano gli stranieri gridando: Pittore! Pittore! Inglese! Mezzo baiocco! (Per loro, ogni straniero che viene a visitare il luogo è pittore oppure Inglese)».

A forza di frequentare questi posti, Berlioz imparerà ad amare le genti del posto, apprezzando oltretutto l’avvenenza delle donne locali:

«Crispino conosceva tutte le ragazze ben pettinate, in un raggio di dieci leghe; conosceva le loro inclinazioni, le loro relazioni, le loro ambizioni, le loro passioni, quelle dei loro genitori e dei loro amanti; teneva un conto esatto dei gradi di virtù e della temperatura di ognuna, e quel termometro a volte era molto divertente da consultare».

Anche ai camminatori dell’Ottocento (e probabilmente molto più dei camminatori moderni, vestiti di tutto punto con abbigliamento tecnico) capitava non di rado di giungere alla mèta sfiniti e pieni di dolori causati dal lungo calpestio. Così poteva capitare che, giunti a S. Germano a Isola di Sora, un villaggio situato sul confine settentrionale del Regno di Napoli e notevole per un piccolo fiume che forma una bella cascata, i nostri eroi arrivassero con i piedi sanguinanti, […] accaldati, impolverati, esausti e resi furiosi dalla sete.

Nel suo peregrinare, Berlioz non mancò di visitare il convento di Montecassino, ma anche la città di Veroli (un grande villaggio che, da lontano, ha l’aria di una città e copre la sommità di una montagna) e Alatri, un altro masso abitato, più aspro e più selvaggio. Non doveva poi essere facile orientarsi tra i villaggi di quelle aspre montagne, il più delle volte privi di sentieri e senza attrezzature per orientarsi:

«Non c’erano sentieri segnati, seguivamo il letto dei torrenti, scavalcando con grande sforzo le rocce di cui erano ingombri. […] Più volte ci siamo persi in quel labirinto di rocce; bisognava allora inerpicarsi di nuovo su per la collina da cui eravamo scesi o gridare a qualche contadino, dal fondo di una gola: “Ohé!!! La strada d’Anticoli?”».

Arcinazzo Romano (da lui chiamato Arcinasso) appariva al francese come un grazioso villaggio, che si riduce a un’osteria, situata in mezzo a quelle steppe vaste e silenziose.

Tra le mille avventure di caccia con il fucile e la chitarra a tracolla, di frequentazioni di pastori e briganti e di conquiste di belle ragazze locali, uno dei luoghi visitati da Berlioz e descritto verso la fine dei suoi diari italiani è Isola Farnese: «Pare che sia il nome moderno dell’antica Veio, la capitale dei fieri nemici di Roma, i Volsci!».

Il periodo della borsa di studio a Roma, che doveva svolgersi in raffinati ambienti colti, si svolse dunque prevalentemente per monti e campagne, lasciando a Berlioz ricordi indelebili e molta tristezza:

«… Faccio un ultimo viaggio a Tivoli, ad Albano e a Palestrina; vendo il mio fucile, rompo la mia chitarra [ben prima di Hendrix…!]; scrivo su qualche album; offro un abbondante punch di addio agli amici; […] ho un istante di profonda tristezza al pensiero che, forse, lascio questa poetica contrada per non rivederla mai più. Gli amici mi accompagnano al Ponte Molle; salgo su di un’orribile carretta ed eccomi partito.

L’addio all’Italia aveva qualche cosa di solenne e irrevocabile e, pur senza riuscire a rendermi ben conto dei miei sentimenti, sentivo che mi lasciava l’animo oppresso».

 Le ultime tappe italiane del nostro protagonista saranno le grandi città che incontrerà nel suo viaggio di ritorno verso la Francia: Firenze, Milano e Torino.

A noi è rimasto l’appassionato ricordo di un uomo che amò profondamente l’Italia rurale, quella più selvaggia, quella più autentica e che passò momenti di vera libertà tra le nostre amate montagne!


 

 

Consigli per l’ascolto: 

Symphonie fantastique: Épisode de la vie d’un artiste, en cinq parties. Sinfonia a programma in 5 movimenti, considerato il capolavoro assoluto di Berlioz, esempio magistrale di orchestrazione e di inventiva melodica, armonica e timbrica.

Aroldo in Italia (Harold en Italie). Sinfonia a programma in 4 parti con viola solista, scritta sotto invito del celebre virtuoso violinista Niccolò Paganini

Benvenuto Cellini. Opera semiseria sulla vita dell’omonimo artista italiano del Cinquecento

 





Quando un evento può considerarsi Eco-friendly.

Articolo edito su CAI Monterotondo
“Il Ginepro” n.3 – novembre 2019 

L’estate che ci siamo da poco lasciati alle spalle e che ancora non sembra volersene andare ad autunno inoltrato, ha lasciato agli amanti della montagna molto di cui e su cui discutere.

Uno degli argomenti caldi che hanno occupato le pagine non solo delle riviste specializzate, ma anche dei quotidiani nazionali, è stata la serie di polemiche e discussioni nate in seguito al tour del cantante Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti.

Qualcuno meno addentro alla musica pop potrà forse chiedersi cosa abbiano a che fare i concerti di un cantante con l’ambiente montano.

Il Jova Beach Party è stato un tour con numeri da capogiro, che ha toccato molte spiagge italiane, fino ad arrivare su vette alpine come Plan de Corones, ad oltre 2000 metri di quota.

Diamo qualche numero: il tour si è concluso con 18 date tutte sold out, con un totale di oltre 600.000 spettatori, che fanno una media di più di 30.000 persone ad ogni evento, con punte di 45.000.

Sicuramente un clamoroso successo per il cantante italiano, ma che ha generato non poche polemiche intorno alle accuse di alterazione e in alcuni casi di devastazione degli ambienti nei quali si sono svolti gli eventi. La quasi totalità delle associazioni ambientaliste e dei gruppi di ricerca che si occupano di natura ed ecosistema si sono scagliate infatti contro questa serie di eventi, considerati invadenti e poco attenti agli equilibri degli ambienti in cui si svolgevano. Ci sono stati esposti e denunce giornalistiche e legali.

Si è parlato di rimozioni con mezzi meccanici di intere dune naturali e di estirpazione di vegetali autoctoni protetti, oltre alla difficile risistemazione dei siti dopo il passaggio di 40.000 persone.

Dal canto suo, l’artista si è difeso forte del parere favorevole di un’associazione di un certo peso, il WWF Italia. Da qui ne è nata un’ulteriore polemica di molte associazioni ambientaliste nei confronti del WWF che, a loro dire, da tempo non fa più gli interessi dell’ambiente, tradendo i principi per cui era nato.

Non è di certo questa la sede per entrare nel merito della polemica tra associazioni, ma di certo tutto questo clamore ci dà l’opportunità di riflettere sulla possibilità, sull’effettività e la non invasività di certi eventi in ambienti delicati da punto di vista naturalistico.

La data alpina al Plan de Corones, in val Pusteria – e qui entriamo nel merito di ciò che più ci riguarda – è stata l’occasione anche per un’icona della montagna come Reinhold Messner per dire la sua, scagliandosi in modo deciso contro questo tipo di eventi.

Queste le sue parole: “A Jovanotti ho detto che non ho nulla contro di lui. Anzi, lo stimo come artista. Il problema lo dico e lo ripeto è la location che è stata scelta. La montagna non è il luogo adatto per questo tipo di eventi”.

Il cantante, dal canto suo (!!!) ha cercato di rassicurare l’alpinista assicurando che il suo pubblico “è intelligente e avrebbe lasciato questa valle meglio di come l’ha trovata”.

Pace fatta? Solo apparentemente, perché poi Messner è tornato sul fatto affermando che “[…] la montagna è silenzio. Questo vale per le persone e ancora di più per gli animali. Domani sarà tutto come prima? Purtroppo non sarà così” ed aggiungendo che “Una cosa è un Museo della montagna, luogo di silenzio e di riflessione sull’evoluzione dell’alpinismo, […] altra cosa è un concerto con 27 mila persone che solo per arrivare in cima a Plan si sono fatte, nella stragrande maggioranza dei casi, chilometri e chilometri, in macchina. Significa inquinamento, ma soprattutto – insisto – rumore. Ci sono tanti altri posti dove si possono organizzare eventi di questo tipo”.

È questo forse che non ha capito Jovanotti: non basta che la gente non sporchi e che si impegni a lasciare tutto come stava. Migliaia di persone in un luogo particolare, tutte insieme e con un impatto sonoro molto forte, creano per forza di cose un’alterazione dei precari equilibri di un ambiente montano (si pensi solamente all’impatto sulla fauna selvatica…).

A questo punto, però, alcuni potrebbero – non del tutto a torto – ricordare come ormai sia una tradizione in tanti altipiani alpini, ospitare dei concerti di musica classica, alcuni dei quali anche trasmessi dalle emittenti televisive nazionali e che questi non abbiano mai acceso così grandi polemiche.

È un problema dunque di gusti musicali?

Di considerare una certa musica più degna di essere ospitata in un ambiente montano piuttosto di un’altra?

Forse per qualcuno un po’ snob potrà anche essere così, ma non è di certo questo il punto.

L’argomento non è quale musica va bene e quale no. Il problema, come detto, è quale impatto può avere un certo evento in certi ambienti. I concerti di musica classica (ma non solo di classica), nonostante il grande successo, generalmente attraggono un pubblico di gran lunga inferiore ai 30.000 di Jovanotti ed è un pubblico che generalmente o si trova già in loco per le proprie vacanze in montagna o ci va dopo una lunga escursione o al massimo sfruttando gli impianti di funivia già presenti. È quindi probabilmente un pubblico più consapevole dell’ambiente montano e delle sue peculiarità.

Chiaro è che, qualora si organizzasse una sinfonia di Beethoven con un’orchestra fortemente amplificata e con un potenziale pubblico di massa, il problema sarebbe il medesimo.

Credo sia buona cosa, a conclusione di questa riflessione, ricordare quali siano i principi e le linee guida che il Club Alpino Italiano, nell’organo della Commissione Centrale Tutela Ambiente Montano (T.A.M.), ha esposto nel Nuovo Bidecalogo:

“[…] si sono moltiplicati interventi ed eventi e manifestazioni aventi per teatro la montagna, quali, parchi gioco ed a tema, concerti in primis, proiezioni di filmati, manifestazioni teatrali e culturali che richiamano gran numero di partecipanti e spesso richiedono l’utilizzo di mezzi di trasporto a motore (elicotteri, altro), nonché l’installazione di attrezzature di supporto.

Risulta, tuttavia, che in determinate occasioni, il numero dei partecipanti e l’utilizzo di mezzi di trasporto e l’arredo si rivela incompatibile sia con il “carico antropico” sopportabile dalle zone coinvolte, sia con il forte impatto ambientale che tali manifestazioni producono.

Il CAI perciò si adopererà affinché la presenza dei partecipanti alle diverse manifestazioni sia commisurata alla capacità di sopportazione delle zone coinvolte, prevedendo, come già avviene per alcuni eventi, il numero chiuso. Dove prescritto, si accerterà che sia fatta la Valutazione di Incidenza Ambientale e che i mezzi di trasporto meccanici a motore siano limitati all’indispensabile con particolare riferimento al soccorso”.





Take the “A” Train: nascita di un capolavoro

Articolo edito su kindofduke.wordpress.com 

Ci sono brani o canzoni che immediatamente vengono associate ad un musicista. Questo è il caso di Take The “A” Train. Registrata per la prima volta in studio nel 1941, Take The “A” Train divenne subito la sigla d’apertura di ogni concerto dell’orchestra di Duke Ellington. Ma, sebbene ancora molti l’attribuiscano al Duca, non è ad Ellington che spetta la paternità della composizione ma al fidato amico e collega Billy Strayhorn.

Ma per scoprire la genesi (e gli sviluppi) di questo brano destinato a fare storia, facciamo un passo indietro e più precisamente alla fine del 1938, quando un giovane ragazzo di Pittsburgh, di buona educazione, dai modi garbati e con l’aspirazione di diventare un compositore “serio”, ha l’occasione di incontrare ed ascoltare per la prima volta Duke Ellington e la sua orchestra, che aveva così tanto ammirato dai dischi e dalla radio. A presentarlo al Duca fu un amico in comune, il quale fece introdurre il ventitreenne Strayhorn nel camerino di Ellington tra uno spettacolo e l’altro. Quest’ultimo, impegnato ad impomatarsi i capelli e sdraiato su di una sedia reclinabile, non fece neanche lo sforzo di aprire gli occhi per vedere chi avesse davanti. Semplicemente disse al giovanotto di accomodarsi al pianoforte e fargli sentire qualcosa. Per tutta risposta, Strayhorn suonò Sophisticated Lady esattamente come l’aveva poc’anzi sentita suonare dal suo autore. Finito di suonare, si rivolse al suo mentore e disse: «Questo era come tu l’hai suonato. Così invece è come io lo suonerei» e riprese il pezzo riarmonizzandolo e variandolo. A questo punto Ellington non giaceva più con gli occhi chiusi, ma si trovava seduto a fianco a quel ragazzo, rapito dal suo talento. Gli fece poi sentire altre sue canzoni, ma ormai Ellington era rimasto colpito.

Di lì a breve Ellington si decise a farlo entrare nella sua organizzazione, sebbene non avesse ancora chiaro in quale ruolo. Dapprima, così, gli diede da scrivere i testi per delle canzoni da lui composte, invitandolo ad andare a casa sua, ad Harlem, New York, dove, insieme al figlio Mercer, avrebbe potuto occuparsi appieno del lavoro mentre lui e la sua orchestra erano in tournée. In quel periodo Strayhorn si occupò anche di scrivere nuovi arrangiamenti, ma i tempi erano ormai maturi per consegnare finalmente ad Ellington qualcosa di proprio pugno. Il destino, per una volta, volle sorridergli… Succedeva, infatti che, dal 1940 al 1941, una disputa tra le società di autori ASCAP e BMI tolse la possibilità per i loro associati di eseguire pubblicamente loro composizioni. Ellington, che era socio ASCAP, dovette correre ai ripari, incoraggiando le abilità compositive di suo figlio Mercer, il trombonista Juan Tizol e, appunto, Billy Strayhorn.

Memore delle indicazioni che Ellington diede a Strayhorn la prima volta che lo invitò alla sua residenza a Harlem («Take the “A” Train to Sugar Hill»), Strayhorn consegnò ad Ellington la partitura di un brano che, per stessa ammissione del suo autore, pagava un tributo a Fletcher Henderson, ma che suonava così squisitamente ellingtoniano. Così, infatti, affermò il compositore e musicologo Gunther Schuller nel 2007:

«Avrò ascoltato Take the “A” Train quanto… Diecimila volte? Ad oggi è ancora difficile per me accettare pienamente che è una composizione di Strayhorn. Dio mio, questo pezzo è così puro Ellington! È incredibile!».

A detta dell’autore, Take The “A” Train nacque senza sforzo (“fu come scrivere una lettera a un amico”).

Cover

Il 15 febbraio del 1941 l’orchestra di Ellington entrò negli studi della RCA-Victor per incidere quella che sarebbe divenuta la sigla dell’orchestra, sostituendo Sepia Panorama. Questa registrazione divenne una hit e rimase negli annali non solo per essere stato il primo brano di Strayhorn ad essere inciso da Ellington e la sua orchestra, ma anche per aver dato a battesimo in studio di incisione il trombettista e cantante Ray Nance, da poco entrato nell’orchestra, il cui assolo fu talmente in sintonia con lo spirito del pezzo che tuttora viene citato da schiere di trombettisti.

Come ha scritto il musicologo Walter van de Leur (il massimo esperto della musica di Strayhorn): «Con le sue melodie ad ottavi, il tema dal sapore bebop di “A” Train è sorprendentemente moderno, sebbene i cambi di accordi sembrano avere un debito con la composizione del 1930 di Jimmy McHugh e Dorothy Fields, Exactly Like You». Il brano ha la classica struttura di 32 misure AABA e l’orchestrazione sembra quasi un esercizio di imitazione degli stilemi della Swing Era. Nonostante ciò, brani come Cottontail e Take The “A” Train ci suggeriscono che già agli inizi degli anni ’40, la rivoluzione del bebop era nell’aria.

Manoscritto originale della partitura di Take The “A” Train di Billy Strayhorn

Sarebbe impossibile, a questo punto, elencare le innumerevoli esecuzioni di questo brano. Per dare un’idea, gli storici Luciano Massagli e Giovanni M. Volonté hanno contato più di 1100 esecuzioni registrate del brano! Ma assai di più furono le esecuzioni dal vivo non registrate… Vale però la pena soffermarsi su alcune esecuzioni particolarmente interessanti.

Nel 1944 l’allora ventenne Joya Sherrill scrisse un testo per il brano che fu presentato ad Ellington, il quale ne rimase piacevolmente colpito e la assunse come cantante. Il testo alludeva a quell’élite nera (di cui faceva parte lo stesso Ellington) che viveva a Sugar Hill.

You must take the A Train
To go to Sugar Hill way up in Harlem
If you miss the A Train
You’ll find you’ve missed the quickest way to Harlem
Hurry, get on, now, it’s coming
Listen to those rails a-thrumming (All Aboard!)
Get on the A Train
Soon you will be on Sugar Hill in Harlem

Manhattan MuralsUna versione estesa di “A Train” fu arrangiata, in collaborazione con lo stesso Ellington, per il concerto alla Carnegie Hall di New York del novembre 1948, con il titolo Manhattan Murals.

 

 

 

 

La prima pagina della partitura di Manhattan Murals

PettifordVersione notevole è la registrazione per la Mercer Records che fece Oscar Pettiford nel 1950, piuttosto particolare non solo perché si ascolta Strayhorn alla celesta, ma anche perché è uno dei primissimi assoli di violoncello jazz mai registrati, ad opera di Pettiford.

È del 1952, invece, un’altra versione estesa del brano molto nota, questa volta registrata in studio con la voce di Betty Roché, la quale dopo una lunga introduzione di Ellington al pianoforte, si avventura anche in un lungo assolo scat.

Take The “A” Train divenne anche la vetrina per il talentuoso contrabbassista Ernie Shepard, che si unì all’orchestra ellingtoniana per un breve periodo nei primi anni ‘60

Ma chi più di tutti ne fece un cavallo di battaglia (e non solo, come abbiamo visto, con la tromba) fu l’estroso Ray Nance, musicista tuttofare dell’orchestra (era infatti, oltre che trombettista, violinista, cantante, ballerino ed entertainer!). Qui lo vediamo in uno dei suoi tanti show:

Furono davvero poche le occasioni di vedere Billy Strayhorn esibirsi in pubblico. Una di esse fu durante un concerto di Ellington negli anni ’60, in cui il boss chiamò l’autore del brano sul palco, il quale, timidamente, sedette al pianoforte e attaccò il suo cavallo di battaglia:

Non furono rare le volte che, soprattutto negli ultimi anni della sua carriera, Duke Ellington suonò A Train da solo al pianoforte o in trio con la sezione ritmica. Negli anni elaborò e arricchì la melodia e l’armonia del brano del suo amico, nonché il ritmo, facendolo diventare un bel jazz waltz.

Con questa carrellata di video concludiamo questo viaggio. Ricordate: se a New York dovete arrivare a Sugar Hill, ricordatevi di prendere il Treno A!




MOON MAIDEN!

Cosa ci fa un musicista come Duke Ellington nel mezzo di uno studio televisivo arredato di moduli lunari ed immagini di razzi spaziali? 

È il 20 luglio del 1969 e Neil Armstrong e Buzz Aldrin entrano nella storia mettendo piede sul suolo lunare. L’evento è elettrizzante e tiene il pubblico incollato alla TV, consapevole di assistere a qualcosa di unico nella storia. L’emittente televisiva ABC (American Broadcasting Network) quella sera fa uno speciale sulla missione Apollo 11 e, tra gli ospiti in studio, viene invitato Duke Ellington al quale viene commissionato un lavoro musicale per l’occasione. Accompagnato da Paul Kondziela al contrabbasso e Rufus Jones alla batteria (all’epoca nelle fila della sua orchestra) e dalla chitarra di Al Chernet, troviamo un Ellington nell’insolita veste di narratore e cantante. Il brano che presenta è Moon Maiden, dal testo molto raffinato e sottile.

Andando a spulciare nell’immensa
produzione ellingtoniana, si può individuare almeno una decina di titoli aventi
come tema la luna o lo spazio. È evidente, dunque, che, come ogni sognatore e
come tanti artisti, Ellington abbia trovato nell’immagine e nella simbologia
lunare una fonte di ispirazione.

Torniamo così indietro di 27 anni, con un brano sognante e d’atmosfera dal titolo Moon Mist, composto nel 1942 non da Duke Ellington, ma dal figlio Mercer Ellington per l’orchestra del padre. A proposito di questo brano, l’autore disse: “[mio padre] non ci mise una nota, ma cancellò ciò che non era di buon gusto. Moon Mist fu un brano che scrisse quasi per esclusione!” È interessante notare che prima di giungere a questo titolo, il brano fu inizialmente intitolato Mist on the Moon (foschia sulla luna) e successivamente Moon Mist con il sottotitolo Atmosphere.

Come accaduto con suo figlio Mercer, Duke Ellington si avvalse spesso della collaborazione dei musicisti del suo entourage come il portoricano Juan Tizol (famoso per essere l’autore di Caravan), il quale compose per l’orchestra del Duca un brano dalle tinte latine come Moon Over Cuba, o il clarinettista Jimmy Hamilton che compose la meno nota, ma altrettanto sognante Moonstone.

Rimaniamo in questa epoca, ma cambiamo atmosfera e ritmo. Questa volta siamo nel 1958, anno in cui Duke Ellington pubblica, sotto la casa discografica Columbia, un album alquanto insolito, sia per la formazione, sia per la musica. Non si tratta infatti della consueta orchestra, ma di una formazione ridotta che vede, oltre alla ritmica piano-batteria-contrabbasso, tre dei solisti dell’orchestra più avvezzi con il linguaggio jazzistico più moderno, quello di matrice bebop: Paul Gonsalves al sax tenore, Jimmy Hamilton al clarinetto e Clark Terry al flicorno, i quali vengono sorretti da un coro di tre tromboni. Tale formazione, chiamata per l’occasione Duke Ellington’s Spacemen, darà luogo all’album The Cosmic Scene, sulle cui note di copertina si legge “sul perché questi nove [musicisti] debbano essere chiamati “Spacemen”, gli storici del jazz avranno da inventarsi le loro proprie ragioni. Duke ha utilizzato questa parola appena il primo satellite americano è andato in orbita e, forse, con l’idea di offrire il jazz sui viaggi verso la luna, si sta semplicemente esercitando sulle dimensioni della band che potrà entrare in un veicolo spaziale. Escluso lui, ovviamente. Duke Ellington, a meno che le sue abitudine cambieranno, andrà sulla luna in treno!”.  Il produttore discografico Irving Townsend, che scrisse queste parole, fa riferimento alla fobia di Ellington per gli aerei, con cui, suo malgrado, dovette convivere viste le numerose tournées intercontinentali.

Ed ora torniamo da dove eravamo partiti, ovvero allo sbarco dell’uomo sulla luna. Come accennato già all’inizio, ad Ellington fu commissionato un brano per celebrare l’impresa. Deve aver avuto particolarmente a cuore questo compito, visto che lo troviamo non solo come compositore e pianista, ma anche come narratore-cantante (se così si può dire) ed autore del testo. Testo che, ad un’attenta analisi, si scopre essere molto più intrigante e sottile di quanto ci si aspetterebbe. Innanzi tutto il titolo Moon Maiden. Il termine maiden può avere due accezioni: come sostantivo significa fanciulla, mentre come aggettivo indica qualcosa di inaugurale (ad es. la frase This is my maiden speech significa Questo è il mio primo discorso/discorso inaugurale). Quindi potremmo tradurre Moon Maiden sia come candida luna che, prendendoci qualche libertà interpretativa, come vergine luna. Dato che l’ispirazione del poemetto è il primo sbarco dell’Uomo sulla Luna, entrambe le accezioni hanno senso! Se dal titolo questa doppia chiave di lettura può sembrare un po’ forzata, analizzando tutto il poemetto, ci accorgiamo che il parallelismo tra la conquista della luna ed il corteggiamento di una ragazza è la chiave di lettura. Vale la pena dunque andare avanti nel tentativo di tradurre questo testo tanto breve quanto denso. Leggiamo i primi due versi cercando di rendere poeticamente accettabile la traduzione in italiano:

Moon Maiden, way out there in the blue
Moon Maiden, got to get with you

Potremmo tradurli con:

Candida Luna, là fuori nel blu
Vergine Luna, devo entrare nella tua orbita

I
successivi versi recitano:

I’ve made my approach and then revolved
But my big problem is still unresolved.

Che potremmo tradurre come:

Mi sono fatto avanti e ti ho girato un po’ attorno
Ma il mio grande problema è rimasto irrisolto

Moon Maiden, listen here, my dear.
Your vibrations are coming in loud and clear
Cause I’m just a fly-by-night guy

Vergine Luna, ascoltami, mia cara.
Le tue vibrazioni arrivano forte e chiaro
Poiché sono solo un farfallone notturno.

Fly-by-night infatti
è un’espressione popolare che sta per “inaffidabile” ma qui è anche
perfetta nel senso letterale del volo e della notte! È così che farfallone è frivolo e civettuolo, ma
allo stesso tempo vola.

I versi
finali recitano:

But for you I might be quite the right “do right” guy
Moon Maiden, Moon Maiden, Lady de Luna

Qui the right “do
right” guy
sta per ragazzo
giusto al momento giusto
che è un’allusione alla “prima volta”
giusta, quella da ricordare!

Ricapitolando, potremmo tradurre in italiano questo poemetto
così, nel tentativo di rendere il più possibile il linguaggio poetico:

Candida Luna, là fuori nel blu
Vergine Luna, devo entrare nella tua orbita.
Mi sono fatto avanti e ti ho girato un po’ attorno
Ma il mio grande problema è rimasto irrisolto
Vergine Luna, ascoltami, mia cara.
Le tue vibrazioni arrivano forte e chiaro
Poiché sono solo un farfallone notturno.
Ma per te potrei essere proprio il ragazzo giusto al momento giusto
Candida Luna, Vergine Luna, Lady de Luna

Ma è ora di riascoltare questa
deliziosa miniatura, ma questa volta nella versione in studio di registrazione
che differisce sensibilmente da quella nello studio televisivo, innanzitutto
perché qui è Ellington solo che suona senza altri musicisti ad accompagnarlo.
Questa volta, però, non è alla tastiera del pianoforte che accompagna la sua
narrazione, ma a quella di una celesta, che conferisce al poema un’atmosfera
molto più eterea.
Ed ora non rimane che alzare gli occhi al cielo e farci cullare dalla voce
calda e suadente di Ellington.





Cammino nelle Terre Mutate.

https://www.facebook.com/agostinomarzoli/videos/10218425165967842/?t=41

Giorno 1 del #CamminoNelleTerreMutate

Fabriano – Matelica
Ore 8, ci si raduna tutti nella piazza di Fabriano. La maggior parte dei camminatori è arrivata ieri, alcuni invece hanno raggiunto il gruppo la mattina stessa. È bello vedere persone che hanno già fatto il cammino negli anni passati abbracciarsi come fossero fratelli e sorelle. Foto di rito nella piazza di Fabriano e si parte. In breve imbocchiamo un sentiero caratterizzato da grandi querce. Si incomincia a fare due chiacchiere col vicino di cammino. I nomi sono tanti da ricordare perché il gruppo è composto da una cinquantina di persone, ma in breve si comincia a riconoscere i visi. Ci sono persone dalla Sicilia al Trentino ed è bello vedere questo gruppo eterogeneo camminare insieme mosso dalle più disparate motivazioni, ognuno con le proprie aspettative.
La maggior parte di loro sono camminatori abituali. Io e pochi altri invece siamo al nostro battesimo per un cammino. Da qui il mio timore nel non sapere come sarà quest’esperienza e la paura di non farcela. Ma sento che le gambe reggono bene, i piedi non sono affaticati e questo mi dà coraggio. Chiacchiero con più persone e racconto del perché ho voluto fare proprio questo cammino (a voi lo spiegherò un’altra volta).
È metà mattina e si giunge al monastero di San Silvestro, dove padre Armando ci accoglie e ci racconta un po’ di cose e della sua fede. È bello ascoltarlo. Ci si rincammina e i sentieri nel bosco si alternano a quelli nei prati. Pranziamo e ci riposiamo un po’. Arrivati nel pomeriggio ad Esanatoglia ci fermiamo questa volta nell’unico bar aperto per rifocillarci un po’. I paesani ci guardano incuriositi ma mai con sospetto. A chi ce lo chiede spieghiamo chi siamo e cosa facciamo e che siamo partiti da Fabriano per arrivare, 14 giorni dopo, a L’Aquila. Da Esanatoglia a Matelica è un alternarsi di colline coltivate a grano, prati, campi di lavanda. In lontananza vediamo Matelica, la mèta di questa prima tappa. Sono passati una ventina di km, i piedi cominciano ad essere stanchi ma non mi fanno male, hanno solo bisogno di riposo. Finalmente l’arrivo all’agriturismo Deimar, dove veniamo accolti calorosamente. Monto la tenda e faccio la doccia. Dopo una giornata così anche i gesti più semplici come togliersi le scarpe o farsi una doccia diventano belli e importanti. La cena è buona ed abbondante.
A pancia piena si sta meglio ed ora la stanchezza comincia a farsi sentire. Entro in tenda e cerco di fare ordine nella mente. Spero di riuscire a riposare, perché quella che più temo è la seconda tappa. Ma oggi sono stato bene e non c’è motivo perché non debba andare bene anche domani.
Qui il terremoto si è sentito forte ma non ha fatto molti danni. Da domani, a Camerino, i segni del sisma saranno tangibili ed emotivamente sarà un’altra storia che spero di potervi raccontare come ho fatto oggi. 
Buona notte!

… continua

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Giorno 2 del #CamminoNelleTerreMutate

Matelica – Camerino
L’appuntamento di stamattina è nella bella piazza di Matelica. Nel mentre che ci raduniamo tutti, ci armiamo di volantini e li distribuiamo nel bar e alla gente che incontriamo per strada. Questo è un Cammino giovane e le persone del posto hanno bisogno di sapere che sul proprio territorio d’ora in poi vedranno passare donne e uomini con zaino e scarponi che molto probabilmente consumeranno qualcosa al bar, nella pizzeria o semplicemente avranno voglia di conoscere più da vicino questa realtà e chi la vive quotidianamente.
Abbandoniamo il paese e ci addentriamo nel verde dei campi e soprattutto nel giallo delle ginestre, sempre abbondantemente presenti. Ad un certo punto decidiamo di fermarci sotto ad una grande quercia e di stare 10 minuti in totale silenzio, ascoltando semplicemente gli uccelli o il fruscio del poco venticello che ogni tanto muove le foglie. Il silenzio e l’ascolto sono armi potenti, in grado di riallinearci con la natura di cui, ce lo dimentichiamo spesso, siamo parte.
Giungiamo in un piccolo paesino, Castel S. Angelo, frazione di Castelraimondo, dove facciamo una lunga pausa pranzo e dove un simpatico signore ci apre la chiesetta, di cui è il custode.
Il percorso di oggi purtroppo passa per buona parte sull’asfalto, che indurisce e stanca le piante dei piedi. Anche il caldo e l’umidità non ci aiutano.
Passiamo vicino, ma non ci entriamo, al paese di Pioraco. Beatrice, che ci vive e che è in cammino con noi, ci racconta di quando, la notte del 26 ottobre 2016, nella cartiera, si è sfiorata la tragedia perché i pesanti macchinari della fabbrica, con la scossa di terremoto, sono usciti fuori dai binari tirando giù tutta la struttura. Solo per una fortuita combinazione di eventi, in quell’istante gli operai della fabbrica non erano nella postazione di lavoro. Forse una casuale combinazione di eventi, come ce ne sono state tante. Forse è il caso di parlare di miracolo.
Ci fermiamo nella frazione di Seppio, dove l’unico bar è chiuso. Si affacciano però dalla finestra prima il parroco che ci dice che ci ha visto in televisione e poi la signora del bar, la quale ci dice che avrebbe aperto più tardi, ma visto l’eccezionalità ci apriva subito. Una birra è un buon integratore di sali minerali e un meritato premio.
Ancora tanto asfalto e Camerino appare sempre più vicino. Beatrice inizia a cantare la canzone di Jimmy Fontana “Che sarà” perché, mi dice, è stata scritta riferendosi a Camerino. Ci fermiamo alle pendici della città perché stanotte si dorme nel palazzetto dello sport. Domattina avremo la possibilità di visitarla.
Mentre finisco di scrivere questo diario mi trovo in ristorante e non so se è più grande la fame o il sonno.
Sono stanco, ma le gambe hanno retto e l’entusiasmo non manca.
Alla prossima tappa… Passo dopo passo.

… continua

Giorno 3 del #CamminoNelleTerreMutate

Camerino-Fiastra
“RICOSTRUIRE ORA CASE E COMUNITÀ”. È questa la frase che portiamo in giro con uno striscione per le strade e i paesi che incontriamo. Se c’è qualcosa che possiamo imparare dalle zone colpite dal sisma è che non basta ricostruire le case, ma è fondamentale ricucire la comunità. Ed è ciò che ci dice anche Roberta Grifantini, che ci accoglie calorosamente nella città di Camerino. Roberta viveva nel centro storico di Camerino e aveva una parafarmacia. Il palazzo dove viveva ora è inagibile e completamente imbragato con cavi di acciaio e chiavi di ferro. Per due anni la sua attività si è svolta in una tensostruttura: gelida d’inverno e asfissiante d’estate. Ma ha resistito e quello che ci ha chiesto è di parlare con chiunque della situazione di queste terre stravolte dal terremoto. Gli edifici messi in sicurezza a Camerino sono ancora pochi e buona parte del centro storico è ancora zona rossa. Roberta, nonostante tutto, non perde l’entusiasmo quando parla della sua città. Ci ha raccontato della storia gloriosa di Camerino e, commossa, di quando, pochi giorni fa, è venuto il Papa che ha incontrato sindaci, comuni cittadini e ha celebrato una messa. Si scusa con noi per non avere il timbro da apporre sulla credenziale del Cammino, ma ci dice che il suo timbro sarà uno spruzzo di un profumo da lei creato sulla credenziale.
Ci dispiace salutarla e, con la promessa di rispettare la sua richiesta (ovvero parlare delle zone terremotate ai nostri conoscenti) ci incamminiamo in questa nuova tappa. 
Oggi il caldo si è fatto sentire, ma il panorama ricompensava ogni fatica. La vista di un ciliegio pieno zeppo di squisiti frutti è stato motivo di grande soddisfazione per le nostre bocche affamate.
Arrivati a Polverina abbiamo pranzato e poi intrapreso un cammino abbastanza impegnativo in direzione Fiastra.
La rabbia e la frustrazione degli abitanti di queste terre è palpabile e viene esternata in eloquenti scritte addosso agli edifici inagibili.
L’ottima cena completata dai prodotti dai distillati offerti dalla signora Varnelli in persona è stata la giusta conclusione a questa impegnativa giornata che si è conclusa, per i più temerari, a mezzanotte, parlando e discutendo con persone che si stanno attivando per ricucire le ferite del territorio.
Vorrei raccontarvi molto di più, ma è mezzanotte inoltrata e domani la sveglia suonerà presto per affrontare una nuova tappa che si prospetta piuttosto impegnativa. Passo dopo passo…

… continua

Giorno 4 del #CamminoNelleTerreMutate

Fiastra-Ussita
Stamattina siamo stati avvisati che la prima parte del nostro percorso sarebbe stata molto impegnativa e così è stato. Ho dormito poco e male e la ripida e lunga salita nel bosco si fa sentire. È necessario ogni tanto fare una piccola pausa per riprendere fiato, ma alla fine tutti riescono a svalicare la montagna. A metà della salita però la nostra guida ci consiglia di voltarci… Dietro di noi si palesa un panorama incantato, con il lago di Fiastra ai piedi delle montagne. Poco più avanti il panorama si apre ulteriormente e si vede in lontananza, sopra una collina, la città di Camerino. Ci si stupisce sempre voltandosi, perché si rimane increduli di quanta strada si sia percorsa con la sola forza delle proprie gambe.
Superato il monte che sovrasta Fiastra si apre un altro tipo di paesaggio. Stavolta entriamo sempre più nel cuore del parco dei Sibillini e l’imponente Monte Bove si mostra in tutta la sua bellezza. 
Pranziamo nel posto meno ospitale che potessimo augurarci: l’erba è secca e non c’è un metro quadro di ombra. Si riparte così in direzione Ussita, immettendoci in un sentiero in discesa in mezzo al un bosco. Arrivati a valle entriamo nella frazione Sasso di Ussita e il contrasto con il bosco appena percorso è notevole. La prima cosa che vediamo è una casa che sembra esplosa da dentro. Via via che percorriamo la strada asfaltata gli edifici abbattuti o fortemente danneggiati non si contano più. Passiamo di fianco alle SAE, le casette provvisorie dei residenti, e una signora ci chiede da dove veniamo e ci ringrazia dicendo che è una gioia vedere tutta questa gente che passa a piedi. Arrivati a Ussita ci fermiamo al bar per il “terzo tempo” fatto di birre e gelati. I gestori ci accolgono calorosamente e ci raccontano la loro storia, di quanto sia stato difficile durante l’emergenza del terremoto e di quanto sia difficile ora che dovuto ricominciare da capo.
Ma Ussita, come altre terre colpite dal terremoto, è anche la storia di donne tostissime, che non si arrendono e che fanno di tutto per stare sul territorio e ricucire le comunità. C’è Chiara, originaria di Pioraco ma residente da anni a Bologna, che subito dopo il terremoto ha deciso di venire a vivere a Frontignano (frazione di Ussita) e a dare vita insieme ad altre persone a C.A.S.A., acronimo che sta per Cosa Accade Se Abitiamo, una residenza per artisti, studiosi e persone interessate a lavorare sul e per il territorio.
C’è anche Patrizia, una di quella manciata di persone che durante i giorni delle scosse violentissime di fine ottobre 2016 ha deciso di non mollare, di resistere arrangiandosi per mesi in una roulotte.
Questa sera dormiamo al campeggio Colorito. Il signore che ci accoglie ci racconta del giorno della scossa di terremoto: “sembrava una bomba atomica! Dal Monte Bove si sono staccate delle rocce che cadendo hanno creato una nuvola di polvere incredibile. Sembrava la fine del mondo!”
La serata si conclude con un concerto di musica celtica.
Domani si va a Campi di Norcia passando per la mia amata Visso.
Sono stanco e spero di riposare un po’ stanotte. Passo dopo passo…

P.S.: come ci è stato chiesto dai residenti, non pubblicherò, se non in via eccezionale, foto di macerie e distruzione. La spettacolarizzazione non serve. Serve che la gente venga a visitare questi posti di persona e che faccia qualche chiacchiera con i residenti.

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Giorno 5 del #CamminoNelleTerreMutate

Ussita-Campi
Ci sono giorni che quando la sera ripensi al mattino appena trascorso, questo sembra essere appartenuto al giorno prima. Questo è uno di quelli. La tappa è stata lunga e faticosa ma ricca di emozioni.
Abbiamo lasciato Ussita in direzione Visso. Siamo passati per la montagna finché la vista del maestoso Monte Bove non ci ha abbandonato per dare luogo ai territori di Visso. Arriviamo alla grande torre che sovrasta il paese ed entriamo nel centro abitato col solito striscione. Per me Visso non è una sorpresa: lo conoscevo bene prima degli eventi sismici e ci sono stato più volte in seguito. È uno strazio sapere che oltre quelle barriere che delimitano la zona rossa una volta c’era uno dei borghi più belli d’Italia.
Dopo aver pranzato partiamo alla volta di Campi di Norcia. Abbandoniamo la regione Marche per entrare nell’Umbria percorrendo una lunga strada sterrata tutta in salita. Il caldo asfissiante non aiuta per niente a sopportare la fatica, ma una fonte di acqua fredda rianima improvvisamente lo spirito di noi camminatori. Finalmente riusciamo a raggiungere i pratoni sopra le creste dietro il Monte Cardosa. Di nuovo una pausa per mangiucchiare qualcosina e ci tuffiamo lungo un ripido sentiero in discesa dal fondo ghiaioso che mette a dura prova le nostre ginocchia. Finalmente riusciamo a vedere il borgo di Campi. Il paese vecchio, arroccato in alto, è praticamente tutto distrutto. Il nostro campo base per questa sera è il bellissimo agriturismo Fonte Antica il cui proprietario ci accoglie con entusiasmo. La cena è invece organizzata dalle splendide persone della proloco di Campi. La loro struttura è stata soprannominata l’arca di Noè di Campi. Costruita con i migliori criteri antisismici, la struttura nel primo periodo post terremoto ha fatto da casa ad oltre 60 residenti. Oggi, il loro progetto “Back to Campi” è un esempio di forza di volontà, collaborazione e trasparenza. Le signore della proloco ci preparano un’ottima cena e io presidente ci dice che possiamo tornare sempre a Campi e che riceveremo sempre un sorriso e un piatto caldo.
Nella tragedia emergono storie e persone incredibili.
Quindi, se passate da queste parti, venite a visitare Campi di Norcia, andate alla proloco e andate a dormire all’agriturismo Fonte Antica, ne tornerete pieni di positività.
La stanchezza questa sera è davvero tanta. Domani sarà una tappa defaticante che dovrebbe concludersi per pranzo. Ci attende la città di Norcia!
Passo dopo passo…

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Giorno 6 del #CamminoNelleTerreMutate

Campi-Norcia
È mattina e dopo aver fatto colazione presso la struttura della proloco di Campi ci incamminiamo verso Norcia. Campi e i loro abitanti ci sono davvero rimasti nel cuore.
Quella di oggi è una passeggiata defaticante. Infatti prima di pranzo siamo già alla nostra mèta. Entriamo a Norcia come al solito col nostro striscione che recita “Ricostruire ora case comunità”. La gente ci guarda incuriosita, ma quando capisce chi siamo e cosa stiamo facendo spende parole di incoraggiamento e ringraziamento.
Norcia è diventata il simbolo del terremoto di ottobre 2016. Entrare nel centro storico ha un forte impatto emotivo. Aver visto il paese prima del 2016 e rivederlo oggi così ferito è duro da accettare. Ci sono tante cicatrici ma anche tante ferite ancora aperte. La rabbia della popolazione è anche qui evidente. Ci si lamenta per essere stati dimenticati, per aver ricevuto tante promesse non mantenute. Il proprietario del ristorante Nemo, presso cui ceniamo, ci dice che la frase che più odiano è quel “non vi lasceremo mai soli”.
Ora che l’emergenza del primo periodo post terremoto è finita è necessario venire in queste terre, che hanno ancora tanto da dare, e fare sentire agli abitanti la propria vicinanza. Credetemi, ciò ha un valore grandissimo.
Domani sarà una delle tappe che più temo dal punto di vista fisico. Si arriverà a Castelluccio, uno dei miei posti del cuore. Sarà bello e malinconico, lo so.
Spero di immergermi in tutta quell’energia che quel paradiso mi ha sempre dato.
Passo dopo passo…

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Giorno 7 del #CamminoNelleTerreMutate

Norcia-Castelluccio
La tappa che temevo di più dal punto di vista fisico si è oggi rivelata molto meno faticosa di quanto pensavo. Sarà che ormai siamo allenati o sarà che non c’era il caldo asfissiante dei giorni scorsi, ma i 1100 m di dislivello sono passati tutto sommato senza troppa fatica. A farci compagnia quattro simpatici asini.
La salita ci regala un panorama stupendo sulla piana di Norcia. Ma è quando scavalchiamo la montagna che l’impatto della vista è mozzafiato. Davanti a noi, enorme, maestoso ed elegante c’è il Redentore che domina il Piano Grande e tutta la catena dei Sibillini. Sullo sfondo, alla nostra sinistra, spicca quel che rimane di Castelluccio. Il paese, un tempo gioiello inestimabile, è per buona parte polverizzato.
Scendendo nel Pian Grande, una tavolozza di colori ci invade e ci lascia estasiati. È la famosa fioritura di Castelluccio, uno spettacolo che si ripete ogni anno e che attrae migliaia di turisti.
Per me non è una novità in quanto questi sono i miei luoghi del cuore, ma lo stupore e la meraviglia sono sempre gli stessi, come fosse la prima volta.
Stanotte dormiamo in Val di Canatra, dove abbiamo allestito le tende. Mia nonna, classe 1912, mi raccontava che in questo posto gli sposi dei paesi vicini venivano a passare la luna di miele. E ora capisco perché! La volta celeste è uno spettacolo senza uguali, in questo posto in cui i prati si alternano ai boschi.
Qui non c’è connessione internet e questo è un bene. La buonanotte ci viene data dalle melodie del violino di Francesco, che si è unito a noi oggi pomeriggio.
Stanotte penso che sono un uomo fortunato, perché ho già visto e vissuto una parte di Paradiso.

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Giorno 8 del #CamminoNelleTerreMutate

Castelluccio-Arquata del Tronto
Svegliarsi in Val di Canatra ha tutto un altro sapore, come le crostate preparate da Rubinia. C’è chi ha dormito male, chi poco, chi ha avuto freddo e chi, come me, era talmente stanco che non ha avuto modo di provare sensazioni durante il sonno pesantissimo. Nonostante ciò l’atmosfera è sempre positiva e si sorride sempre perché felici di stare facendo questa avventura.
Il giro di boa è stato fatto ed entriamo nella seconda settimana di cammino stanchi ma felici. Ci sono nuovi camminatori che si aggiungono al gruppo e altri, ormai divenuti amici, che purtroppo se ne vanno. Tempo di abbracci e di scambio di telefoni e si parte per questa nuova tappa. Anche oggi il Pian Grande di Castelluccio ci regala uno spettacolo unico con i suoi campi in fiore. Si arriva a Forca di Presta, dove ci rifocilliamo bevendo la fredda acqua del fontanile e riposando un po’. Oggi è tornato il caldo asfissiante, che rende le cose più difficili. Da questo punto in poi ci buttiamo in una discesa a picco per più di 1000 m di dislivello. A volte la discesa è più faticosa della salita, soprattutto se il sentiero ha un fondo sconnesso, la vegetazione lo rende a volte poco percorribile e il caldo non dà tregua. Alle nostre spalle, con le sue rocciose pareti a picco, c’è il Monte Vettore, il re indiscusso dei Monti Sibillini. Il pranzo è leggero e abbiamo modo di conoscere i gestori del progetto Monte Vector, che vi consiglio di vivamente di visitare. Anche loro ci chiedono di farci testimoni di queste terre, dei loro problemi e delle loro bellezze.
Finalmente la discesa finisce ed entriamo a Pretare, frazione di Arquata del Tronto. L’impatto è tremendo. Macerie su macerie caratterizzano ciò che un tempo era il paese. L’unica cosa che sembra rimasta intatta è in realtà l’unica che forse non avrebbe meritato di sopravvivere: un orribile campanile in cemento armato che sovrasta quello che doveva essere un bellissimo borgo. È difficile descrivere tutto ciò che vediamo; sembra uno scenario di guerra. 
A Piedilama la proloco ci dà un caloroso benvenuto facendoci trovare un bel rinfresco che divoriamo in pochi minuti. Anche qui la gente è tosta e resiste contro tutto e tutti.
È sera e la stanchezza sembra sommarsi a quella dei giorni precedenti. Domani si cambia regione e si entra in territorio laziale.
Passo dopo passo…

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Giorno 9 del #CamminoNelleTerreMutate

Arquata del Tronto-Accumoli
La giornata dei contrasti.
La giornata non inizia nel migliore dei modi. Nella notte c’è stata talmente tanta umidità che la tenda è zuppa e i panni che avevo steso li ritrovo più bagnati di quando li avevo lavati. Il mio umore non è dei migliori. Ma in cammino non c’è tanto tempo per lamentarsi; i problemi in qualche modo si risolveranno e, dopotutto, non sono questi i problemi. Passo dopo passo si va avanti verso la nuova mèta.
Giungiamo alle porte di Pescara del Tronto ed entriamo in assoluto silenzio. Non ci sono parole per descrivere cosa si prova nel vedere un cumulo di calcinacci immenso che è venuto giù dal versante della collina. Entriamo nel parco giochi del paese che è diventato il monumento alla memoria delle 52 vittime di Pescara. Ci mettiamo in cerchio stringendoci la mano. A stento si riesce a trattenere le lacrime. Una frase sullo striscione commemorativo recita: “Ora che siete cielo ricordarvi significa avervi accanto e credere che quei momenti non passeranno mai”. Vedo poi la fotografia in un cartello di Pescara prima del terremoto; gli faccio una foto, l’unica che scatto, per ricordarmi com’era un tempo il paese che non c’è più.
Continuiamo per la strada asfaltata con il groppo in gola e nessuno ha voglia di interrompere il silenzio.
Arriviamo a Capodacqua, dove alcune persone di gran cuore ci accolgono calorosamente. Non è solo tempo di pranzo, ma anche di riflessioni.
È tempo di ripartire e ci incamminiamo per un bellissimo sentiero nel bosco fino a giungere, nel comune di Accumoli, presso l’agriturismo Alta Montagna Bio. Qui ci offrono un’ottima birra artigianale locale e Katia ci offre degli squisiti taralli appena sfornati e gustosi assaggi di formaggi e salumi locali. Sarà per via dell’alcool, o perché abbiamo tutti voglia di rilassarci dopo la tensione accumolata, o per l’incredibile positività che ci trasmettono Katia e la sua bella famiglia, il pomeriggio si conclude tra balli, canti e abbracci.
Stasera dormiamo al B&B Lago Secco di Illica e prima di gustare un’ottima gricia, ascoltiamo uno psicologo che si è occupato delle ferite dell’anima di queste comunità.
Anche domani sarà sicuramente una giornata emotivamente impegnativa: si arriverà ad Amatrice, simbolo della tragedia del sisma di quel maledetto 24 agosto 2016.
Passo dopo passo…

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Giorno 10 del #CamminoNelleTerreMutate

Accumoli-Amatrice
Dopo giorni di interminabili salite e discese, oggi una giornata tranquilla: siamo partiti più tardi del solito e il percorso è stato più dolce e breve degli altri giorni. 
Il tragitto si è articolato in un bellissimo sentiero nel bosco. Nelle nostre pause ci sono stati momenti di testimonianze e riflessioni, come la lettura di un estratto del libro “Filosofia del paesaggio” di Paolo D’Angelo.
Giungiamo nel territorio di Amatrice passando di fianco a pavimenti di cemento dove un tempo sorgevano case e vivevano persone. Sono talmente tanti che il rischio è che ci si faccia l’abitudine. Interi agglomerati di case ora hanno solo un basamento circondato dalla rete rossa da cantiere. 
Giungiamo alla frazione S. Angelo e ci sistemiamo nei pressi delle S.A.E.. Franco, presidente della sezione CAI di Amatrice, ci racconta dei soccorsi durante le concitate ore successive a quel maledetto 24 agosto 2016.
Abbiamo modo di visitare la chiesa di S.Angelo, i cui lavori di ristrutturazione erano terminati pochi giorni prima del terremoto e che ora è completamente crollata, portandosi giù anche il prezioso tetto e le numerose opere artistiche al suo interno.
Ma la meraviglia, quella positiva, si ha quando visitiamo il più grande e vecchio cerro d’Europa: una pianta di 640 anni e dal diametro di più di sei metri. Abbiamo un senso di rispetto assoluto verso quell’essere che è sopravvissuto a intere epoche. Quando ci accingiamo ad abbandonare il sito incontriamo un signore in macchina con un bambino: ci dice che suo figlio è il primo nato dopo il terremoto!
Ad allietare la squisita cena preparata dagli abitanti di S.Angelo (manco a dirlo con una superlativa amatriciana), la presenza di Paolina, amatriciana di 102 anni!
Domani si parte presto e si visiterà Amatrice capoluogo. Sarà ancora una giornata ricca di forti emozioni.
Passo dopo passo…

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Giorno 11 del #CamminoNelleTerreMutate

Amatrice-Campotosto
Oggi la nostra camminata inizia nella città simbolo del terremoto del 24 agosto 2016. Ci raduniamo intorno al monumento dedicato alle vittime: sono più di 200 ed è difficile far fronte alla commozione quando Franco intona il “Signore delle Cime”. Nel paese tante macerie ma anche tanti cantieri in funzione che fanno sperare.
Il cammino prosegue nel bosco con l’incantevole cornice dei Monti della Laga alla nostra sinistra. La meraviglia però si ha quando si apre definitivamente il panorama con il lago di Campotosto in basso e il massiccio del Gran Sasso sullo sfondo. 
Entriamo nel paese di Campotosto e sembra passeggiare in uno scenario da film horror: tutto è decadente e abbandonato. Le macerie si alternano ad edifici che vengono tenuti in piedi da scheletri di legno e ferro. Di Campotosto e degli ingenti danni subiti dal terremoto nessuno ne parla e nessuno ne ha parlato a suo tempo, quando, il 18 gennaio 2017, delle forti scosse distrussero il paese. In quei giorni, però, l’attenzione pubblica era tutta rivolta su Rigopiano. Giungiamo in quella che ora è la piazza di Campotosto dove i lavori a maglia di Assunta fanno bella mostra. 
La serata finisce nel migliore dei modi, tra vino, pasta e stornellatori.
I rapporti tra noi si stringono sempre di più ma comincia a nascere un po’ di malinconia perché questa avventura sta volgendo al termine.
Ho trovato nuovi amici e spero di trovarne altri, sempre in cammino, passo dopo passo.

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Giorno 12 del #CamminoNelleTerreMutate

Campotosto-Mascioni
Oggi è stata una delle tappe più belle e appaganti dal punto di vista paesaggistico. Lasciato il paese di Campotosto ci siamo incamminati fino a salire su un promontorio con una vista a 360 gradi mozzafiato. Intorno a noi le quattro cime più alte di Umbria, Marche, Lazio e Abruzzo: rispettivamente Redentore, Vettore, Gorzano e Corno Grande. Ai nostri piedi il lago di Campotosto.
C’è stato poi un momento speciale, in cui abbiamo condiviso le nostre emozioni e impressioni di questo cammino. Ognuno di noi porterà nel cuore questa esperienza, consapevole di aver fatto qualcosa di molto speciale.
Domani sarà una tappa impegnativa, ma ormai non ci ferma più nessuno. Passo dopo passo…

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Giorno 13 del #CamminoNelleTerreMutate

Mascioni-Collebrincioni
La penultima tappa è stata, come previsto, lunga e impegnativa. Ma è quando i piedi non ne vogliono più sapere e le gambe implorano riposo che si ha ancora la forza di cantare e di scherzare. Perché siamo tutti fratelli e sorelle, protagonisti di un’esperienza unica. 
La tappa è estenuante, ma la vista ripaga ampiamente gli sforzi. Le foto rendono solo minimamente la bellezza dei luoghi che calpestiamo e i panorami che ammiriamo.
Arriviamo a Collebrincioni stanchi morti ma carichi di voglia di festeggiare. Già, perché ormai il cammino sta volgendo al termine e questa è la serata dei festeggiamenti. La cittadinanza ci accoglie con un grande striscione di ringraziamento e ci offre una cena nel campo sportivo. E così ecco che la stanchezza sembra scomparire improvvisamente. È solo stato servito l’antipasto che già ci si scatena in balli sfrenati, che proseguono per tutta la cena e fino a notte inoltrata. C’è poi un momento per celebrare i camminatori che hanno effettuato almeno 8 tappe ai quali viene conferito un attestato: siamo ufficialmente dei “partigiani della terra”. L’orgoglio è alle stelle!
La cena e i festeggiamenti sarebbero finiti ma non si sa come i più temerari riescono a trovare ancora un po’ di benzina per giocare a pallone e ballare fino alle 3 del mattino.
Domani si arriva a L’Aquila e sarà il momento della gioia ma anche della malinconia. Vorremmo che tutto questo non finisse mai.
Passo dopo passo.

… continua

Giorno 14 del #CamminoNelleTerreMutate

Collebrincioni-L’Aquila
Conclusioni e riflessioni sul Cammino Nelle Terre Mutate.

Ho atteso un po’ di tempo prima di scrivere la pagina di diario di quest’ultima tappa del cammino. Le tante emozioni e i tanti pensieri avevano bisogno di un tempo di decantazione.
Più di una persona, al mio annuncio che avrei fatto questo cammino, mi chiese il perché avevo deciso di fare questa esperienza. Camminare nella natura e in montagna è l’unica attività fisica che faccio volentieri. Da sempre strenuo sostenitore della staticità, trovo nel trekking un valido motivo per muovermi, in quanto posso godere di paesaggi che altrimenti non potrei ammirare. Ma fare un cammino è un’esperienza per certi versi molto differente dal semplice escursionismo in giornata a cui ero abituato. In cammino bisogna fare i conti non solo con la fatica fisica, ma anche con quella psicologica. Finita la camminata non si torna svelti a casa per una doccia ed una meritata dormita. Bisogna pensare a montare la tenda, a lavare e stendere i panni, a farsi una doccia, a cenare. E così la mattina seguente bisogna disfare la tenda, risistemare il bagaglio ecc. Il cammino ti dà anche la possibilità di passare molto tempo con te stesso e con gli altri e quindi a conoscere, conoscersi e condividere. Ma perché ho scelto di fare proprio questo cammino? Mesi fa, su internet, lessi un articolo che parlava di questo Cammino nelle Terre Mutate: era un nuovo cammino, che percorreva la dorsale appenninica passando per le zone colpite dai terremoti degli ultimi anni e che si concludeva a L’Aquila. Comprai subito la guida e sentii come una chiamata, una voce che mi diceva che dovevo fare quell’esperienza. Ho un amore viscerale per i monti Sibillini, dove ho trascorso molte vacanze della mia vita e dove ho le mie radici. Gli eventi sismici che hanno colpito quei posti magici hanno rafforzato il mio rapporto con loro. Ho pensato che ho ricevuto tanto da quelle terre e dai loro abitanti e che questo cammino potesse essere un mio umile e piccolo modo per sdebitarmi e fare la mia parte. Ma ancora una volta sono stato io a ricevere tanto da queste terre. Il fatto poi che il cammino si concludeva alla basilica di Collemaggio era come la chiusa di un cerchio: nel 2009, anno del terremoto a L’Aquila, ero studente del conservatorio la cui sede era proprio di fianco a quella basilica. Ricordo ancora benissimo lo sgomento, la disperazione e il dolore provati in quei giorni successivi al terremoto. Ricordo i miei compagni di studio che improvvisamente si trovarono senza più un tetto sotto cui dormire e che piangevano la perdita di un amico o di un parente.
Dovevo in qualche modo dare una risposta a questa chiamata. Ho così deciso di partire, aggregandomi a questa Lunga Marcia. L’entusiasmo era a mille, ma anche la paura faceva la sua parte: “sarò in grado di fare questo cammino?” era la domanda che più mi tormentava. Ma per una volta ho deciso di buttarmi in un’esperienza totalmente nuova. Anche dormire in tenda per me era una novità.
Chi ha seguito questo mio diario quotidiano del Cammino, può essersi fatto un’idea delle sensazioni che ho avuto e di come sia andata. Ogni mia aspettativa è stata ampiamente superata. Personalmente non credo di aver superato i miei limiti, ma semplicemente ho capito che i miei limiti sono molto al di sopra di quanto pensassi. Ho imparato tanto dagli abitanti di quei posti, che amano la propria terra, le proprie radici, le proprie tradizioni sopra ogni cosa e che non mollano nonostante l’indifferenza della politica e dell’opinione pubblica, nonostante i mille problemi, nonostante tutto. Troppe volte si litiga per delle sciocchezze, si è attaccati in modo morboso alle cose materiali. Queste persone mi hanno insegnato che sono poche e semplici cose che davvero contano per vivere serenamente. 
Ho avuto anche l’occasione di condividere questo cammino con persone straordinarie. Vorrei citarle una ad una, ma rischierei di fare torto a qualcuno dimenticandomelo, per cui mi limito a ringraziare di cuore tutti i miei compagni e compagne di avventura che mi hanno dato tanto. Ma un ringraziamento speciale lo devo a tutte quelle persone che hanno organizzato e lavorato fattivamente alla riuscita di questa Lunga Marcia: sono persone che hanno donato tanto del loro tempo e delle loro energie per la riuscita di questa esperienza. Cito solo le associazioni che hanno reso tutto ciò possibile: Movimento TelluricoFederTrek Escursionismo e Ambiente e APE ROMA Associazione Proletari Escursionisti Sezione di Roma.
A noi camminatori è stato conferito il titolo di “Partigiano della terra” di cui vado orgoglioso ma che comporta anche una responsabilità: essere testimone di ciò che è successo in quelle terre e di come è la situazione attuale e di dire a tutti di fare un giro da quelle parti, di parlare con i loro abitanti, di godere di quelle terre, di fare in modo che ci sia una sensibilità maggiore riguardo il tema dei terremoti e dei dissesti idrogeologici.
Spero che questo sia solo il primo di tanti cammini.
Passo dopo passo!

Agostino Marzoli

Tutte le immagini contenute in questo articolo, lì dove specificato, sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright © Agostino Marzoli.

Una delle immagini di copertina è stata presa dal post di Facebook di Cristina Menghini – Guida Ambientale Escursionistica – L’Italia nello zaino