1874-2024: centocinquant’anni di Impressionismo

Parigi, 1874: l’arte cambia e non sarà più come prima. 

Ebbene sì, siamo giunti all’anniversario della corrente artistica più apprezzata dagli osservatori per via delle scene allegre, vitali, rappresentate sulle tele: l’Impressionismo.                                                                                 

La Francia era appena uscita da un lungo conflitto con la Prussia e in questo contesto di crisi gli artisti ripensano a un nuovo modo di fare arte e a nuovi soggetti, tratti della vita moderna, o dalla natura come paesaggi dai colori chiari e dal tocco vibrante, il tutto abbozzato all’aperto. Gli artisti che dipingevano all’aperto e senza uso di un disegno preparatorio avevano preso a modello lo stile romantico di Delacroix, l’autore de “La zattera della Medusa”, il verismo di Courbet (”Gli spaccapietre”, o “Il funerale di Ornans”) e i paesaggi dei pittori della scuola di Barbizon, per i quali l’ambientazione naturale diventa il luogo giusto, umile, dove collocare personaggi semplici. Altre due caratteristiche importanti per la nascita della corrente sono la forte contrapposizione con la pittura accademica ufficiale e le teorie scientifiche sul complementarismo del colore, elaborate dal chimico di M-Eugene Chevreul.

JEAN LOUIS THÉODORE GÉRICAULT-La zattera della Medusa (Le Radeau de la Méduse) – Museo del Louvre, 1818-19

JEAN DESIRE’ GUSTAVE COURBET- a sn Funerale a Ornans (Un enterrement à Ornans) – a ds Gli spaccapietre (Les Casseurs de pierres) Museo del Louvre, 1818-19

Scuola di Barbizon – JEAN- FRANCOIS MILLET-Le Spigolatrici (Des glaneuses) – Musée d’Orsay, 1857

Acquisiti questi elementi, i nostri pittori portano sulla tela l’impressione che gli effetti di luce, producono sugli oggetti o sulle persone; negando la vita o la produzione dell’atelier ed ecco perché vince a tutti gli effetti la pittura en plein-air (all’aria aperta). Il risultato finale è una fusione fra natura e oggetto, senza linea di confine o di contorno.

I protagonisti di questa nuova avventura artistica sono E. Monet, E.Manet, J.-F. Bazille, A.Sisley, C. Pissarro, A.Renoir, E.Degas (anche se lui è l’unico a ritrarre i suoi soggetti negli ambienti chiusi), B. Morisot, M.Cassatt e altri.

Il giorno del battesimo è il 14 Aprile, quando alcuni artisti dopo esser stati rifiutati con le loro opere dalla giuria del Salon des Refusés del 1873, hanno deciso di presentare al mondo i loro dipinti nello studio prestigioso del fotografo Nadar sul Boulevard des Capucines e ad allestire la mostra è stata la pittrice e cognata di Manet: Berthe Morisot. All’evento sono state messe in mostra 175 opere di 30 pittori e tutt’oggi conserviamo il primo catalogo della mostra per eccellenza dell’Impressionismo. Il nome del gruppo viene dato dal critico Louis Leroy, giornalista della rivista Le Charivari, dopo aver visto il dipinto di Monet “Impression soleil levant”. Tuttavia, la stampa non è stata nell’immediato totalmente negativa nei confronti dell’esposizione, come potrebbe suggerire l’esempio di Leroy, bensì fu dalla seconda mostra che gli impressionisti ricevettero le critiche più forti, tanto che alcuni pittori avevano deciso di non partecipare più alle future esposizioni, anche a causa delle pressioni politiche francesi di fine Ottocento, alle difficoltà finanziarie in cui erano caduti gli stessi pittori e al disinteresse della borghesia di comprare le loro opere, ritenute brutte e poco affini al gusto dell’epoca, che era ancora vicino all’Accademia.          
Renoir e Sisley non avevano partecipato alla terza mostra del 1879, Monet aveva disertato la quarta del 1880 e alla quinta dell’anno seguente che venne evitata anche da Renoir e Sisley. In tutto sono state otto le mostre successive organizzate dagli artisti, che come si è visto non hanno avuto successo. L’ultima del 1886 mette in evidenza l’abbandono dell’importanza delle mostre collegiali a cui partecipare, per continuare ognuno a dipingere con il proprio stile impressionista. Lo stesso anno diventa anche l’anno della fortuna critica della corrente impressionista grazie alla pittrice americana Mary Cassat, che fa conoscere negli USA i suoi colleghi e amici francesi ed è da quel momento che a Boston si tiene la mostra sui pittori impressionisti e poi a New York, dove James Sutton, direttore dell’American Art Association invita Durand-Ruel, critico e protettore degli impressionisti, a realizzare una mostra su di loro. Questa aveva portato un tale successo fra il pubblico e la stampa ne aveva acclamato la fama sia dei pittori che dello stile artistico, che porterà lo stesso ad aprire una galleria d’arte nel 1887 a New York; questo spiega perché molte opere impressioniste si trovino nei musei americani. In Francia il tempio della cultura impressionista diventerà alla fine degli anni Ottanta del Novecento il Museo d’Orsey.

CLAUDE MONET- Impressione, levar del sole (Impression, soleil levant)- al Musée Marmottan Monet, 1872

La corrente impressionista può essere considerata come una fenice, muore e rinasce dalle sue ceneri, anche perché lo stile non muore con i pittori o perché sono venuti nuovi stili artistici come le Avanguardie di inizio Novecento, ma continua con nuovi pittori (anche contemporanei come Jeremy Mann ed Eduard Gordeev) e i dipinti in sé e per sé produrranno dentro i visitatori le emozioni e le gioie di chi ha realizzato le opere e dei soggetti ritratti (anche di chi non sapeva di essere ritratto). 

I pittori impressionisti sono stati i primi a utilizzare i tubetti dei colori in metallo morbido, inventati dal ritrattista americano John Rand nel 1841 proprio per sostituire ridurre il tempo di preparazione colori (prima il pigmento veniva ridotto in polvere con un mortaio e al momento dell’utilizzo si mescolava con l’olio, come legante e conservato nelle vesciche del maiale). Pertanto il tubetto ha reso più agile il trasporto consentendo a quei pittori che volevano ritrarre all’aria aperta per tutto il tempo necessario per completare l’opera.  





Augusto De Luca fotografa con Polaroid Big Shot

Cercavo da tempo qualche testimonianza di una mia mostra che feci all’inizio degli anni ’80 in una storica galleria napoletana che, in quel periodo, era molto attiva: Ricerca Aperta.
Proprio l’altro giorno, sfogliando un mio libro, ho trovato inaspettatamente, fra le sue pagine, alcune foto di quell’evento, non ricordavo assolutamente la loro esistenza e, sfortunatamente, non ne conosco l’autore.
Sono istantanee un po’ sfocate e piene di grana, che mi hanno fatto rivivere quello straordinario e particolare avvenimento della mia carriera di fotografo.
Lo spazio espositivo, punto di riferimento per la diffusione della cultura fotografica a Napoli, il cui impegno era tutto profuso a diffondere l’idea della fotografia come traccia d’identità, si trovava nella zona di Materdei ed era anche il posto dove i due proprietari e bravissimi fotografi Gianni Rollin, che purtroppo ci ha lasciato diversi anni fa, e la moglie Lucia Patalano, lavoravano, stampavano e accoglievano affettuosamente gli amici che passavano di lì.
Insieme a loro collaboravano anche Rino Vellecco e, come critico, Gabriele Perretta. Erano anche in contatto con la galleria ‘Il Diaframma’ di Milano, il cui Direttore era Lanfranco Colombo, personaggio chiave della fotografia italiana, che, spesso, si poteva incontrare anche nelle stanze della galleria partenopea.
In quello spazio hanno esposto la maggior parte dei fotografi campani e anche io ebbi il piacere di organizzare una mia mostra che però aveva qualcosa di particolare: era un work in progress.
Una mia amica e bravissima artista, Lucia Gangheri, si occupò dell’allestimento di ‘Mostra a Ricerca Aperta’. Usò dei pannelli neri, contornati da sottili cornici gialle che, durante la serata inaugurale, avrei poi riempito poi con i ritratti polaroid manipolati e non, realizzati ai visitatori.
Infatti, fotografavo gli intervenuti all’evento in una stanzetta laterale, adoperando due diverse fotocamere, una Polaroid LAND 1000, con pellicola SX 70 manipolabile, e una rarissima Polaroid BIG SHOT a strappo, una vera icona. Quest’ultima, di colore nero e molto lunga, era uguale a quella che solitamente utilizzava Andy Warhol per realizzare la maggior parte dei suoi ritratti. La Big Shot è stata una delle fotocamere Polaroid più insolite mai introdotte dalla Polaroid. Prodotta dal 1971 al 1973, era progettata solo per l’uso in ritratto e aveva una distanza fissa di solo un metro circa. Poiché la fotocamera era a fuoco fisso, il fotografo doveva muoversi avanti e indietro finché il soggetto non appariva a fuoco. Warhol era particolarmente entusiasta di questa macchina fotografica, che oggi, per la sua eccentricità, è diventata un cult tra le Polaroid. La qualità dei ritratti era sorprendente. Mi aiutavano a reggere alcuni sfondi e anche per altre operazioni, alcuni miei assistenti, tra cui Bruno Cristillo, che, oggi, è un rinomato fotografo casertano.
A fine serata tutti i riquadri dell’allestimento nella galleria che prima erano vuoti, furono pieni di immagini scattate una dopo l’altra e l’esposizione fu completata. Fu una sfida riuscita, il cui ricordo, tuttora, mi dà una grande soddisfazione.
Mi piacerebbe, un giorno, poter ripetere quell’entusiasmante esperimento, anche se, purtroppo, il materiale polaroid di oggi o non esiste più o, se si riesce a trovare, non ha la qualità e le caratteristiche di una volta. Bei tempi!

 

Polaroid big shot – con Augusto De Luca
Polaroid big shot – con Augusto De Luca
Polaroid big shot – con Augusto De Luca




Gioventù bruciata

Il 24 febbraio 1956 fu proiettato per la prima volta in Italia il film Gioventù bruciata (in inglese Rebel Without a Cause), di Nicholas Ray. Violento, visionario, straniante, il film si imponeva immediatamente per la sua originalità formale, sottolineata da una recitazione volutamente sopra le righe e dall’uso del procedimento Vistavision, che permetteva di allargare l’inquadratura molto di più del normale e di disporre molti personaggi in orizzontale come soldati di un esercito o ballerini di un musical. Ma la novità non fu solo questa. Doloroso, struggente, angoscioso,  il film metteva in scena gli adolescenti sbandati e perduti degli anni ’50 che gli adulti non volevano guardare in faccia: i figli degeneri di una società presuntuosa, tronfia, malata, il cui simbolo straordinario era James Dean, un angelo capitato per caso all’inferno, maledetto come Caino, il figlio che pur essendo opposto a suo padre ripete il suo destino di colpa. L’anniversario andrebbe ricordato, ma in Italia oggi tutti hanno altro da pensare o da ricordare. Neppure Nicholas Ray viene ricordato con particolare entusiasmo. Sì, d’accordo, per carità è un classico, celebrato da tutti: il suo nome non si può passare sotto silenzio. Dopo di che, sistemato il Mito sul piedistallo, tutti gli voltano le spalle e pensano ad altro. Che cosa dovrebbero fare? Mah, cominciamo a mettere nel cassonetto tutta la paccottiglia presuntuosa, furba e deprimente che ci ha afflitto negli ultimi trent’anni. E cominciamo a mandare al diavolo anche la nostra aria da saccenti, che sanno tutto di tutto senza sapere niente di niente. Ritorniamo agli anni Cinquanta, duri, inesorabili. Ricominciamo a tremare.

Il film di Ray riprende il titolo da un celebre saggio, uscito una decina di anni prima, senza tuttavia riprenderne il contenuto. Nel 1944 lo psicoanalista Robert Lindner aveva scritto un saggio  su un detenuto in Pennsylvania intitolato Rebel Without a Cause.  Il libro puntava il dito su un individuo particolare: lo psicopatico, il personaggio sinistro,  imprevedibile e inquietante che era balzato con prepotenza sugli schermi all’epoca di Al Capone in film come Scarface di Howard Hawks,  provocando violente reazioni nel pubblico conservatore che aveva ostacolato in ogni modo il regista che aveva osato affrontare il problema. Nonostante ciò altri registi, caparbi e solitari, portarono alla ribalta, con vigore, il destino di eroi che non avevano nulla di eroico con il piede sempre sull’orlo di un abisso, come James  Cagney e Humphrey Bogart nella Furia umana, nei Ruggenti anni venti e in Una pallottola per Roy di Raoul Walsh.  Dieci anni dopo il proibizionismo, mentre la guerra infuriava e i primi reduci con la morte nel cuore cominciavano a popolare i bar di tutta l’America, si cominciò a parlare apertamente dei disadattati, perduti al mondo, pieni di odio per gli altri e per sé stessi. Lindner veniva dalla scuola di Erik Erikson, che aveva parlato per primo della “identità negativa” dei giovani, un atteggiamento di radicale insofferenza contro tutto e tutti, un grido di rivolta da parte di chi si sente una pecora nera, un rifiuto, un rottame. Lindner partiva da lì ed andava oltre l’età giovanile, considerando la “identità negativa” un  atteggiamento globale da parte di esseri ai margini della vita cosiddetta “civile”, il cui unico modo di affermarsi era distruggere. Nella sua prospettiva: «Lo psicopatico è un ribelle, un individuo con zelo quasi religioso, i codici e le norme sociali prevalenti, un ribelle senza una causa, un agitatore senza uno slogan, un rivoluzionario senza un programma. In altre parole, la sua ribellione vuole raggiungere scopi che soddisfano solo lui; è incapace di qualunque impegno che vada a vantaggio di altri. Tutti i suoi sforzi, quale che sia la loro forma, rappresentano investimenti finalizzati a soddisfare le sue voglie e i suoi desideri immediati».

Il libro di Lindner fece scalpore al punto che la Warner Bros ne comprò i diritti nel 1946. Le tesi dello psicoanalista suscitarono discussioni a catena e ispirarono intellettuali ed artisti, che svilupparono e rielaborarono le sue idee, fino a trasformarle del tutto e poi metterle da parte, come avvenne nel film di Ray, che non ha nulla a che vedere col libro se non il titolo. Tra il 1945 e il 1955 furono molti i film e i libri sui loosers: i perdenti, struggenti e disperati, magnificamente interpretati da attori come Humphrey Bogart o Robert Mitchum. A questa categoria appartiene senza dubbio il protagonista del primo film di Ray, La donna del bandito, un giovane con il cuore di un bambino e la mente di un criminale, che vorrebbe riscattarsi e non può farlo, perseguitato dal destino o da sé stesso. I film successivi del regista portarono sulla scena esseri dello stesso genere: fragili, smarriti, innocenti, violenti. Tutti padri spirituali dei ribelli senza una causa rappresentati da James Dean. 

Si avrebbe torto, però, se si privilegiasse, come molti critici fanno, solo questo filone interpretativo: senza dubbio i giovani di Nicolas Ray sono collegati strettamente agli antieroi a cui abbiamo accennato. Ma sono collegati anche ad altri personaggi, che di solito non vengono ricordati. Se è vero che Dean è il figlio legittimo dei gangsters col cuore spezzato di Scarface o la Furia umana,  è anche vero che è il figlio naturale di Tom Joad di Furore del 1939 e di tutti gli emarginati e i dannati della terra, portati sullo schermo dal grande cinema roosveltiano di John Ford. Dietro a questo tipo di film c’erano romanzi di successo, come quelli di Steinbeck e dei suoi contemporanei. Uno di questi, Un albero cresce a Brooklin di Betty Smith del 1943, descriveva la vita difficile e senza speranza di riscatto dei proletari e sottoproletari di New York e in particolare quella di John Nolan,  un uomo di grande talento ed umanità, costretto a trascinarsi in una vita di stenti e di alcolismo. Dal romanzo fu tratto un film nel 1945, il primo film di Elia Kazan, in cui Nicholas Ray fece il suo esordio nel mondo del cinema come aiuto regista. Un film bellissimo, con uno straordinario James Dunn, che vinse l’Oscar per la sua interpretazione di John Nolan. Quest’uomo, così pieno di difetti, questo perdente incapace di vivere, è il vero cuore pulsante della vita di tutti quelli che lo circondano. Il suo epitaffio, pronunciato senza enfasi dal suo datore di lavoro, che doveva sopportare le sue sbornie e le sue continue assenze, è questo: «Ti faceva sempre sentire bene. Ti faceva ridere. Era come una conchiglia che non si finisce mai di ascoltare, come non si finisce mai di dire che cosa canta. Dava sempre questo a tutti. Era un uomo meraviglioso».

Questo uomo unico, che sembra un pessimo padre è invece il vero padre che tutti vorrebbero avere. Come James Dean, che sembra un figlio bisognoso del padre e invece ha la stoffa del vero padre che ogni essere umano potrebbe desiderare. Lo dice con grande candore il suo amico Plato in Gioventù bruciata, prima della drammatica sfida sulle auto in corsa verso il burrone: «Sì, lui è il mio miglior amico…Non parla molto, ma quando lo fa allora capisci che quando dice una cosa parla sul serio. È veramente  sincero. Quest’estate forse mi porterà con sé a cacciare e a pescare. Voglio che mi insegni come farlo perché so che non si arrabbierà se sbaglio.».

Molti ammiratori del regista hanno visto in questo rovesciamento di ruoli una tendenza rivoluzionaria ed hanno enfatizzato la carica eversiva del suo cinema. Altri, al contrario, hanno sottolineato i limiti di quest’esaltazione giovanile che può sfociare nel giovanilismo e hanno invitato a cercare altrove l’aspetto rivoluzionario dei film di Ray. Ha scritto a riguardo Emiliano Morreale: «L’adesione di Ray alla generazione dei giovani del dopoguerra non ha la coscienza che avrà, nella fase successiva, quella di Arthur Penn per i ragazzi del Movement. Anche perché con i suoi giovani Ray non può vedere una vicinanza politica o ideale (tutto sommato, nonostante la sua militanza in gruppi artistici radicali, egli rimarrà sostanzialmente un apolitico), ma solo istintiva, vitale. E, in fondo, proiettiva.». In questo senso: «Gioventù bruciata è la storia di una paternità narcisistica e (dunque) fallimentare. Plato viene quasi tecnicamente ucciso da Jim, che lo disarma a sua insaputa e lo convince ad andare incontro alla polizia.». Ma se questo è vero perché mai il film è divenuto sin dal primo momento l’emblema dell’adolescenza? Il miracolo è avvenuto grazie allo stile del regista che attraverso le sue scelte anticonvenzionali riesce a incarnare visivamente il rifiuto delle convenzioni dei giovani di allora e di sempre. «Lo stile di Ray diventa, con la sua astrazione e il suo uso antirealistico ma vitalista dei segni filmici di un’epoca (il colore e lo schermo panoramico, la recitazione dell’Actors Studio e le cadenze da musical), una specie di resa filmica, visiva, delle inquietudini di una generazione. È per questo che, al di là delle sue incertezze ideologiche, il film ha una natura così dirompente, e diventa davvero simbolo di una generazione e perfino precursore di sensibilità di là da venire. È il mondo interiore di Jim che lo stile del regista riesce a ricreare, in un tesissimo equilibrio di punti di vista che offre una visualizzazione di quella entità nuova che prendeva il nome di ‘giovani’. » (E. Morreale, Ribelli senza causa, in Nicholas Ray, a cura di E. Martini, Milano-Torino 2009, pp. 76-79).

 

 

 

 

 

 

 




Augusto De Luca fotografa Roberto Murolo

Abito a Napoli, nel quartiere Vomero, dall’età di otto anni e, fino ai trenta, ho vissuto a casa di mio padre, dietro piazza Vanvitelli.
Quasi ogni giorno, uscendo, passavo in via Domenico Cimarosa, dove, alla finestra del primo piano di un antico palazzo di inizio Novecento, era sempre affacciato Roberto Murolo, che rispondeva, agitando la mano, a tutti i passanti che gli sorridevano.

Anche io, ogni volta, lo salutavo, e lui faceva un cenno, alzando la testa, come se mi conoscesse.
Amavo la timbrica della sua voce, che rendeva uniche tutte le sue canzoni. Poi, nel 1994, io e la giornalista Gargiulo andammo a casa sua per ritrarlo ed intervistarlo.
Appena entrai nel salone della sua casa, Murolo, vestito con jeans, scarpe da ginnastica e un gilet rosa, diede il benvenuto alla giornalista e, rivolgendosi a me, disse:
“Ciao, come stai? Ma abiti qui vicino?”
Io gli risposi:
“Sì maestro, proprio qui dietro, non pensavo che mi riconoscesse”.
E lui, facendosi una bella risata, replicò:
“Ho ottantadue anni, ma sono ancora lucido e con gli occhiali ci vedo benissimo”.
Rimasi sorpreso, perché erano molte le persone che passavano ogni giorno sotto la sua finestra salutandolo. Ci fece accomodare e cominciò a raccontare tutta la sua vita. Era molto preoccupato per l’inquinamento, lo smog, ma soprattutto per la politica italiana.
Alla fine gli chiesi di prendere la sua chitarra, che era appoggiata sul divano, e cominciò a suonarla. Immediatamente, afferrai la mia fotocamera e cominciai a scattare.

Mi colpì molto il fatto che per tutto il tempo avesse stampato sul viso uno stupendo sorriso luminoso che infondeva simpatia, allegria e una sorta di serenità interiore che lo caratterizzava.
Dopo una buona mezz’ora, ci accompagnò alla porta e, sull’uscio di casa, mentre ci allontanavamo, mi disse sorridendo:
“Allora ci vediamo domani…”.

 
 
 
Roberto Murolo – foto di Augusto De Luca




Augusto De Luca fotografa Marisa Laurito

Marisa Laurito ha iniziato la sua carriera artistica lavorando con la compagnia teatrale di Eduardo De Filippo e, alla fine degli anni ’80, dopo il successo avuto con la trasmissione Quelli della notte, era diventata la regina indiscussa della televisione.?Dovevo fotografarla per il mio libro ‘Napoli Donna’, ma in quel periodo era talmente ricercata e piena d’impegni che assolutamente nessuno riusciva ad avere un appuntamento con lei, anche perché aveva appena iniziato con grande successo la conduzione del suo nuovo programma televisivo Marisa la nuit.
L’unica possibilità per me era allora ritrarla alla RAI. Dopo vari tentativi, finalmente riuscii a trovare un aggancio e ad intrufolarmi nello studio televisivo proprio durante una puntata della trasmissione.
Nella sala l’artista, con la sua grande verve, presentava alcuni personaggi e filmati e, di fronte, senza mai essere inquadrato dalle telecamere, c’era Renzo Arbore, di cui si sentiva soltanto la voce mentre interagiva con lei.
Il mio fu veramente un blitz rischioso in tutti i sensi, anche perché il tempo a mia disposizione per il click era praticamente quasi nullo. Infatti, Marisa mi spiegò che avrei potuto fare qualche scatto solo durante quei due o tre minuti di pausa in cui andavano in onda i filmati e lei non era in diretta. Non ci sarebbe stato altro tempo materiale, dati i ritmi serrati.
Nello studio, tra i tanti oggetti di scenografia, c’era una palma con una luna sullo sfondo e ne approfittai; le chiesi di mettersi in posa proprio lì e, in un lampo, la fotografai. Feci un unico scatto.
Alla fine degli anni ’80 le fotocamere erano analogiche ed il risultato lo si poteva visionare solo dopo che la pellicola veniva sviluppata, quindi, fino ad allora tenni, il fiato sospeso. Fortunatamente andò tutto bene e questa che pubblico è la foto di cui parlo.
Come amo le fotocamere digitali e la possibilità di vedere subito nel piccolo monitor sul retro le immagini appena realizzate!
Marisa venne alla mia mostra agli Incontri Internazionali d’Arte a Roma e poi la rividi anche successivamente, in diverse altre occasioni. Donna vulcanica e simpaticissima, dalla battuta sempre pronta. In una parola: meravigliosa.

Credo che sia molto appropriata la stupenda descrizione che fa di lei la giornalista Gargiulo:
“Il suo fascino è soffice come un babà al rhum, pastoso come un gattò di patate e cremoso come un bignè alla crema”.

 

Polaroid con Marisa Laurito e Augusto De Luca
Marisa Laurito – foto di Augusto De Luca




Augusto De Luca fotografa Mario Insenga

Sono amico di Mario Insenga da quando ero ragazzino, più o meno una cinquantina d’anni. Conoscevo bene anche tutta la sua famiglia e d’estate ci incontravamo nella sua splendida villa ad Ischia, dove preparavamo brani da suonare in diversi locali dell’isola.
Insieme abbiamo fatto parte di molti gruppi dalle denominazioni più strane, in quel periodo, infatti, erano di moda nomi lunghi e particolari e noi ci adattammo. Ricordo una band che chiamammo ‘La Tristezza del Rospo’, che dopo innumerevoli variazioni diventerà, con il tempo, ‘Blue Staff’.
Avevamo ottimi strumenti musicali e, di solito, i brani da montare li provavamo nello scantinato della mia casa al Vomero.
Mio padre si era preoccupato di far foderare di legno la stanza, il che la rendeva sicuramente più bella, ma, soprattutto, per quanto possibile, provava ad isolarla almeno un po’ acusticamente, così da placare le lamentele dei condomini del palazzo che, puntualmente, pretendevano abbassassimo il volume degli amplificatori.
Mario, dopo essersi laureato in ingegneria, decise di dedicarsi totalmente alla musica blues, io, invece, dopo la laurea in giurisprudenza, ho smesso di suonare e ho continuato professionalmente quello che avevo iniziato per gioco: fotografare.
Bravissimo percussionista, autore della maggior parte dei testi, cominciò successivamente a sfruttare anche la sua voce molto adatta a quel genere musicale che affonda le radici nell’anima tormentata della Chicago dei primi del Novecento. Oggi, a distanza di anni, è un punto di riferimento, un maestro nel panorama del blues italiano.
L’ultima volta che abbiamo suonato insieme è stato alla fine degli anni 90, quando mi invitò per una jam session insieme nel Big Mama, storico locale di Roma. Io portai la mia chitarra e con il suo storico gruppo i ‘Blue Stuff’, fondato nel 1982, ci divertimmo tantissimo.
Una band rivoluzionaria nell’ambito della musica del diavolo, che, reinterpretando il blues delle origini fa della ricerca e della sperimentazione i suoi punti di forza, usando il napoletano come lingua nei testi delle canzoni.
Una carriera strepitosa, con tournée in Italia e all’estero e jam session con bluesman come Willie Mabon, Jimmy Dawkins, Blind John Davis, Little Pat Rushing, Magic Slim, Sammy Lawhorn, Albert Collins, Billy Preston, Sarasota Slim, Billy C. Farlow, Little Willie Littlefield, Charlie Musselwhite, Luisiana Red, Sunnyland Slim e tanti altri.
Ormai da anni, Mario tiene laboratori di blues e seminari per associazioni musicali, istituti scolastici, librerie, festival. Che meraviglia ascoltarlo!

Per fotografarlo andai in una sala prove fuori Napoli, dove, in un cortile laterale, c’era una struttura in legno che mi ricordava le copertine dei dischi di alcuni gruppi americani di country blues. Era proprio quello che volevo; avevo sempre immaginato il mio amico in un ambiente simile, molto rurale, campestre, che evocava le musiche dei Canned Heat o Creedence Clearwater Revival.
Dopo lo scatto ci spostammo e, mentre chiacchieravamo, mi accorsi della sua ombra sul muro. Mi piacque molto e lo immortalai in una seconda immagine.
È da un po’ che non lo incontro, ma la nostra amicizia rimane salda e ogni volta che ci vediamo sembra sempre di esserci lasciati il giorno prima…

 

Mario Insenga – foto di Augusto De Luca
Mario Insenga . foto di Augusto De Luca




Augusto De Luca fotografa Salvatore Accardo

Quella mattina andai al Teatro San Carlo di Napoli dove avevo un appuntamento con Salvatore Accardo.
Entrai e un signore garbato si offrì di accompagnarmi dal Maestro. Attraversammo stanze, corridoi e cunicoli piccoli e grandi. Sembrava di essere in un labirinto senza fine.
Dopo vari saliscendi, arrivammo in un ambiente stretto e lungo e cominciai a sentire, in lontananza, una stupenda melodia, era il meraviglioso suono di un violino; subito capii di essere vicino alla meta.
Entrai in una stanza laterale dove vidi Accardo che, nello scorgermi, smise di suonare e mi salutò agitando l’archetto con la mano destra.
Dopo i soliti convenevoli cominciammo a parlare di musica.
Cosa poteva chiedergli immediatamente, un amante come me di antiquariato e di oggetti d’arte in generale?
“Maestro, ma è vero che lei possiede due autentici violini Stradivari?”
Lui, senza parlare, mi fece cenno di seguirlo mentre si dirigeva verso alcune custodie che erano su di una panca in fondo alla stanza.
Delicatamente, come se stesse scoperchiando uno scrigno prezioso, ne aprì una: dentro c’era uno splendido violino. Avrei voluto accostarmi, ma lui, con gentilezza, mi fece capire che non dovevo toccarlo.
Rimasi estasiato da quella visione, dalle calde venature di quel legno lavorato trecento anni fa da Antonio Stradivari. Non avevo mai visto così da vicino uno strumento che è sicuramente un’icona per tutti ed ero affascinato, quasi ipnotizzato da quell’opera d’arte.
Il Maestro mi confessò che per lui il violino era come il prolungamento del suo corpo, cosa che mi colpì molto, perché anche io ho sempre affermato lo stesso della mia fotocamera.
Dopo tutte queste emozioni ci mettemmo al lavoro.

Scattai molto e poi scelsi una polaroid manipolata, che avrei pubblicato nel mio libro “Trentuno napoletani di fine secolo”, per Electa Napoli, 1995, e un’altra in bianco e nero più tradizionale, in cui mi piacevano i suoi occhi socchiusi e il volto assorto e concentrato, come immerso in una sorta d’ispirazione.
Quella era stata proprio una mattinata da ricordare e raccontare.

 

Salvatore Accardo – foto Augusto De Luca
Salvatore Accardo – polaroid di Augusto De Luca

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Augusto De Luca fotografa Pietra Montecorvino

In realtà il vero nome di Pietra Montecorvino è Barbara D’Alessandro e io la conobbi subito dopo il grande successo avuto con il film di Renzo Arbore “FF.SS.” – Cioè: “…che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?”.
Allora abitava al Vomero Alto, proprio di fronte casa mia.
Appena la incontrai le scattai alcune polaroid che ho cercato, ma purtroppo non ho trovato; successivamente non ci siamo più incrociati, perché sposò Eugenio Bennato e si trasferì.
Solo qualche anno fa decisi di ritrarla e la contattai tramite Facebook. Andai a casa sua, sulla salita adiacente alla chiesa di Santa Maria di Piedigrotta e, quando entrai, mi salutò affettuosamente e ricordammo insieme i vecchi tempi.
Ha un’abitazione molto particolare, calda ed accogliente, piena di oggetti originali, aperta a tutti gli amici che continuamente la vanno a trovare, con un terrazzino che ha una splendida veduta sul Vesuvio, dove spesso prende il sole.
Pietra sprizza napoletanità da ogni poro della pelle; è una donna verace, autentica, simpatica e avvolgente. Non potrebbe che essere nata a Napoli.
Nel frattempo, si era fatta ora di pranzo e mi invitò a mangiare qualcosa insieme. Dopo l’immancabile caffè e una sigaretta, cominciai a fotografarla.
Scattai molte foto, lei sa muoversi e sa recitare molto bene davanti ad un obiettivo. Scelsi questa fotografia, con alle spalle un bellissimo dipinto realizzato dal figlio Fulvio Bennato, artista e musicista poliedrico, perché nell’immagine traspare tutta la sua natura di ‘female rock singer’ dalla voce graffiante, versione partenopea.
Quando terminai le riprese mi chiese di andarla ancora a trovare, cosa che farò appena possibile, e porterò con me la mia inseparabile Leica; infatti, desidero realizzarle ancora tanti scatti.
Mi diverte molto fotografarla perché, di fronte all’obiettivo, è spigliata e, qualche volta, anche sfrontata, come nella vita.
Sicuramente Pietra è proprio un bel personaggio ed anche un’amica.

 

Pietra Montecorvino – foto di Augusto De Luca

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Augusto De Luca fotografa Elena Croce

Nonostante avessi fotografato tantissimi personaggi famosi, quella mattina ero veramente molto emozionato. Avevo appuntamento con Elena Croce, la figlia del grande Benedetto.
Mi aspettava nella sua casa estiva ad Albori, in costiera amalfitana, e quando venne ad aprire la porta e la guardai, non nascondo che rimasi impressionato e stupito dalla grande somiglianza con il padre, che conoscevo attraverso le foto che avevo visto sui libri di scuola, sui giornali o in qualche documentario storico in televisione.
Era una donna molto austera ma anche canzonatoria. Aveva un’ironia seria, composta, mai troppo esplicita, che si intuiva fra le righe del discorso.
Dopo un mio primo momento d’imbarazzo, stato d’animo che solitamente non mi appartiene, ma forse in quella occasione si può comprendere, ci sedemmo e lei subito mi chiese perché la volessi fotografare.
Già a telefono, sommariamente, le avevo accennato qualcosa, così le parlai, in maniera dettagliata, del mio progetto e le spiegai che stavo ritraendo alcune tra le donne napoletane che mi avevano affascinato e che amavo di più per un libro fotografico, ‘Napoli Donna’, che sarebbe poi stato pubblicato dal Centro il Diaframma/Edizioni Editphoto.
Mi chiese anche chi avevo fotografato e quando, tra le tante, nominai Jeanne Carola Francesconi, autrice di un volume che ha venduto milioni di copie, ‘La cucina napoletana’, vangelo di centinaia di donne, lei, sorridendo, mi disse:
“Io ho il vizio di scrivere e sono stata sempre una donna di casa estremamente invalida, non sono una brava cuoca”.
Allora, voltandomi, notai a terra, appoggiato al muro vicino ad un cassettone antico, uno specchio, dalla forma inusuale, una mezza luna e, in quel momento, mi venne l’idea.
Lo presi, lo piantai in un vaso sul balcone che affacciava sul mare e scattai.
Sinceramente non so perché ebbi quell’intuizione. Come spiegazione, a posteriori, potrei pensare che avendo lei quell’enorme somiglianza con suo padre, per me, inconsciamente, il suo viso rappresentava il riflesso, lo specchio di quello. Ma forse… un buon analista potrebbe spiegarlo meglio.

 

Elena Croce – foto di Augusto De Luca

Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright 




Augusto De Luca fotografa Renato Carosone

Quel giorno avevo un appuntamento con un mito, un’icona della musica italiana.
Le canzoni di Renato Carosone facevano parte della mia storia; avevano accompagnato e rallegrato la mia infanzia, la mia adolescenza, fino a diventare in età adulta indelebili mantra che canticchiavo inconsapevolmente mentre ero indaffarato tra una faccenda e un’altra.
Ricordo che mentre mi recavo a casa sua, a Roma in un quartiere nei pressi di Corso Francia, mi sembrava di andare da un conoscente, da un amico, da un un parente: uno che conoscevo da molto tempo. Con la televisione Carosone era entrato tante di quelle volte in casa mia che ormai mi era familiare. Era una di quelle persone che inevitabilmente avevo imparato ad amare, proprio come il grande Totò.
Mi venne ad aprire e mi fece subito accomodare in un grande salone dove campeggiava un bellissimo pianoforte nero, a coda lunga: una vera meraviglia. Poi per rompere il ghiaccio sorridendo con un’espressione di sfottò mi disse:

Tu ti chiami Augusto…ma sei romano?”

Ed io risposi stando al suo gioco:

No maestro, non ho rapporti di parentela con Cesare. Sono napoletano verace

Allora lui sorridendo mi diede una pacca sulla spalla e citando le
parole di una sua famosissima canzone replicò:

Sient’ a mme, nun ce sta niente ‘a fa’
Ok, napulitan

Ci sedemmo, mi offri l’immancabile caffè e cominciò a raccontarmi del suo inizio, degli anni passati a suonare in Africa, delle sue
frequentazioni nella Galleria Umberto I di Napoli, luogo di incontro di tanti artisti. Disse che le cose importanti, quelle che contano,
sono la semplicità e la modestia e che il pubblico si accorge dalla luce degli occhi se un artista é modesto.
Poi si mise al piano e cominciò a suonare. Carosone stava suonando per me. Io avevo tra le mani la fotocamera ma l’abbassai e cominciai ad
ascoltarlo come in trance, mentre lui con un sorriso indelebile stampato sul viso, mi guardava fisso negli occhi.
Dopo qualche brano mi portò in una stanza adiacente piena di quadri.
Erano tutti suoi lavori pittorici: di matrice cubista. Fui molto sorpreso perché non conoscevo questo suo lato creativo e perché non
erano opere dilettantesche ma di una fattura, di una bellezza e raffinatezza rara.
Lui me le mostrò una alla volta, raccontandomi con grande passione ed entusiasmo la loro storia.
Quella mattina avevo vissuto talmente tante emozioni che sinceramente fu una delle poche volte che gli scatti realizzati passarono in
secondo piano.
In macchina mentre tornavo a casa, pensai che era proprio vero:
Carosone aveva una luce negli occhi che esprimeva modestia…era quella la sua grandezza.

 

 
Renato Carosono – foto di Augusto De Luca




Augusto De Luca fotografa Armando De Stefano

Il 16 marzo 2021 ci ha lasciati il Maestro Armando De Stefano, classe 1926. Di lui mi rimane un bellissimo ricordo.
Da ragazzino, ogni volta che andavo a trovare mio zio Peppino, restavo incantato dalla bellezza realistica di un grande quadro tondo appeso dietro la scrivania del suo studio. L’opera ritraeva un personaggio dallo sguardo severo, con un mantello rosso scuro e in testa una feluca con una coccarda.
Non sapevo chi fosse l’autore, né cosa rappresentasse, ma la sua bellezza classica, ipnotica, rimandava sicuramente a capolavori antichi di altra epoca. Con il tempo scoprii che era un lavoro sulla Rivoluzione partenopea del 1799 di Armando De Stefano.
Questo straordinario artista napoletano ha realizzato dipinti su grandi temi, dall’Inquisizione a Masaniello. Allievo del grande Emilio Notte, ha insegnato per quarant’anni all’Accademia di Belle Arti di Napoli.
Artista figurativo, ha creato nel 1947, con altri colleghi il Gruppo Sud, poi ha fatto parte del movimento realista italiano con Guttuso, Zigaina, Vespignani, Francese, Attardi.
Qualche anno fa, ricordando quella tela che avevo sempre amato, che per me aveva un valore affettivo, decisi di fotografare colui che, a tutti gli effetti, era l’icona vivente della pittura napoletana.
Lo contattai ed andai a casa sua, in un antico palazzo vicino al Museo Archeologico Nazionale. Già dall’ingresso mi accorsi dell’incanto dell’abitazione: i soffitti erano altissimi, le stanze enormi e pieni di arredi e opere preziose. La casa perfetta per un’amante dell’Arte.
De Stefano mi condusse in fondo, nell’ultima camera, che era piena dei suoi capolavori. Erano talmente tanti da ostruire il passaggio.
Per me che dovevo fotografarlo, tutto quel materiale rappresentava uno straordinario set, uno sfondo surreale per il suo ritratto.
Mi guardai intorno, presi il calco in gesso di una testa e lo misi in primo piano, poi feci lo feci accomodare di profilo, utilizzando, come sfondo, uno dei sui splendidi dipinti e scattai.
Tre soggetti si univano e si intrecciavano in un’unica foto, sottolineando ed evidenziando, con grande intensità, i loro contorni ed i loro profili unici.

 

Armando De Stefano – foto di Augusto De Luca




Augusto De Luca fotografa Angela Luce

Era la fine degli anni ’80 quando andai a casa di Angela Luce, in una splendida abitazione superpanoramica nei pressi di via Orazio a Napoli.
L’avevo sempre stimata, come donna, per la sua bellezza, e come attrice e cantante, per la sua bravura. Carismatica e sensuale tanto da aver posato come modella per due opere del pittore Aligi Sassu, una delle quali intitolata proprio ‘Angela’.
L’avevo ammirata nei film con Eduardo, Mastroianni, Gassman, De Sica, Tognazzi, Sordi, Totò e tanti altri Mostri della settima Arte, mentre alternava, in modo sublime, recitazione al canto.
Amavo la sua femminilità e il suo carattere forte che veniva fuori quando era in scena. Insomma, ero particolarmente emozionato all’idea di incontrare un’artista unica, la cui carriera, seppur costellata di tappe di straordinario prestigio, viene troppo spesso dimenticata.
Bussai alla sua porta e mi venne ad aprire con un sincero e luminoso sorriso sul viso. Nonostante non fosse più una ragazzina, quei suoi grandi occhi neri emanavano una luce che catturava come una calamita; aveva una grazia e un fascino irresistibile.
Mi presentai con un mazzo di rose rosse e lei immediatamente corse dentro, prese un vaso e, con delicatezza, come se accarezzasse ogni bocciolo, ve lo adagiò.
Nel salone c’era un pianoforte a mezza coda su cui poggiavano decine di targhe e premi che erano anche disseminati in tutta la stanza, tanto da coprire addirittura una parte del pavimento.
Ci accomodammo sul divano e facemmo quattro chiacchiere, sorseggiando dell’ottimo caffè che ebbe lei stessa la premura di prepararmi.
Si aprì molto con me, cosa che apprezzai particolarmente, raccontandomi anche alcuni dettagli della sua vita privata; uno, in particolare, mi colpì moltissimo:
Come donna ho perso, come artista ho vinto.
Angela non si è mai sposata e non ha avuto figli. Affermò che la solitudine era la sua compagna quotidiana, ma che se si è in pace con sé stessi si sta bene anche da soli.
Allora la presi per mano e, per fotografarla, la portai vicino ai fiori che le avevo donato. Le chiesi anche di prendere un ventaglio e scattai, facendo in modo che il suo viso fosse proprio incorniciato dalle rose e dal quell’intramontabile oggetto di seduzione femminile.
Vicino alla porta d’ingresso, prima di andarmene, Angela mi regalò alcuni suoi dischi autografati e mi ringraziò di averle dedicato il mio tempo.
Mentre tornavo in auto a casa, pensai di aver conosciuto senza dubbio una gran donna, vera e coraggiosa. Verace eppure delicatissima. Straordinaria!

 

 





PARTE LA CAMPAGNA STAR LIGHT DEL MIT

CONTRO LA TRANSFOBIA

Lavoro, Casa, Studio, Sport e Servizi: questi gli ambiti su cui è incentrata la campagna Star Light, che, attraverso un concept basato sulla visibilità dell’aggettivo trans, concilia la denuncia delle frequenti e trasversali violazioni dei diritti umani delle persone trans con un approccio positivo di affermazione ed empowerment.

Realizzato in partnership con l’associazione Centro Donna e Giustizia di Ferrara e finanziato dall’Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) nell’ambito del PON INCLUSIONE con il contributo del Fondo Sociale Europeo 2014-2020, la campagna Star Light lancia un messaggio contro la transfobia e dà visibilità al lavoro di accoglienza e sostegno svolto dal Centro Antidiscriminazione STAR per le persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+ e in particolare per le persone trans e non binarie.

Lo sportello, aperto a partire dal 25 Luglio 2022, è rivolto alle persone della comunità LGBTQIA+ che necessitano di sostegno per la fuoriuscita da situazioni di violenza omolesbobitransfobica o vulnerabilità. Lavorando in rete con servizi territoriali e centri di accoglienza competenti, STAR garantisce un luogo sicuro e fornisce supporto psicologico, assistenza legale, affiancamento per l’inserimento lavorativo, con l’obiettivo di supportare la possibilità di vivere una vita libera ed autodeterminata.

Promossi dall’UNAR a partire dal 2007, i Centri Regionali Antidiscriminazione costituiscono infatti una rete di presidi il cui compito è quello di contrastare i fenomeni di discriminazione, diffondendo al contempo la cultura del rispetto dei diritti umani e delle pari opportunità. Presenti su quasi tutto il territorio nazionale, si tratta di organizzazioni essenziali per la tutela delle soggettività marginalizzate.

Il presidente del MIT Mazen Masoud, da sempre impegnato nella difesa dei diritti delle persone LGBTQIA+, racconta: “Ancor prima di STAR, il MIT fin dalla sua nascita ha denunciato la violenza, la discriminazione, la non tutela delle persone trans. Da quando abbiamo aperto STAR la gente chiama ogni giorno. Il numero dedicato allo sportello ha cominciato ad essere molto diffuso, essendo attivo 24 ore su 24 riceviamo richieste continuamente, anche durante tutto agosto, di domenica e nei giorni festivi”.

In un anno di attività STAR ha accolto 154 persone di età compresa tra i 19 e i 70 anni, di cui 45% di nazionalità italiana e 55% con background migratorio. Chiamano non solo persone dall’Italia, ma anche residenti all’estero in cerca di aiuto. “Non ci aspettavamo un numero del genere, ma sono effettivamente arrivate molte persone, tutte appartenenti a diversi contesti. Sono persone italiane o con un background migratorio, con diverse identità di genere: donne trans, uomini trans, persone non binarie. Tutte persone che hanno subito violenza. Si rivolgono a noi anche uomini cis gay, che chiamano ad esempio il nostro sportello antiviolenza, quello migranti o lo sportello carcere”.

Importante snodo, infatti, quello che vede l’intersezione tra omolesbobitransfobia e razzismo che le persone migranti subiscono arrivando in Italia: “La transfobia che si trasforma in altre varietà di discriminazione e violenza viene subita da quasi tutte le persone trans con background migratorio. Una donna trans sex worker nera migrante subisce tutto e di più rispetto a una donna trans italiana bianca di una certa classe. Il discorso sulla classe è infatti quello che mantiene il polso della discriminazione. È sicuramente diverso quando si tratta di sex worker migranti senza documenti, una detenuta in carcere o una persona in cerca di accoglienza, soprattutto se appena arrivata sul territorio e priva di una rete di supporto”.

La violenza, dunque, può assumere diverse forme: “Molti episodi di violenza avvengono in famiglia, in contesti amicali e in generale in contesti sociali, ma anche a livello istituzionale, da parte delle forze dell’ordine. Può succedere anche all’interno di servizi sanitari o scolastici, in posta, o all’interno delle commissioni territoriali. Tutte le persone che attraversano i nostri servizi e i nostri spazi sono portatrici di discriminazione multipla. Noi operatrici stesse subiamo discriminazione insieme alla persona che accompagniamo. Basta essere visibili per essere discriminat? e il corpo trans sicuramente lo è”.

Le persone che arrivano allo sportello STAR non sono tenute a denunciare le violenze subite: “Molto spesso è difficile per loro denunciare, per via della mancanza di fiducia nelle istituzioni. A volte le segnalazioni che riceviamo ci portano ad offrire un supporto anche soltanto psicologico: il MIT è infatti un punto di riferimento, uno spazio safe in cui trovare persone alla pari, un sostegno da parte di persone trans per persone trans”.

La lotta verso un cambiamento radicale e verso una prospettiva di libertà è sempre in corso: “È un processo lungo, e per questo per noi STAR Light non è una semplice campagna comunicativa, è molto di più. Qui parliamo di storie, storie di persone vere”.

https://e.pcloud.link/publink/show?code=kZxAJsZi6AtOqytPyVhQUbEtrl6NhaWeBRk

(clicca sul link per visualizzare la galleria delle foto!)

 





Augusto De Luca fotografa lo Stadio dei Marmi

Nel settembre del 2011 mi telefonò Raffaele Morsella, un appassionato di fotografia con cui ho stretto, nel tempo, un bellissimo rapporto di amicizia.
Alcuni anni prima, credo nel 1998, aveva partecipato ad un mio corso di fotografia organizzato a Roma dal Circolo del Senato.
Insieme a Marsilio Casale, Armando Corsi e Igino Montanino, faceva parte di un gruppo di fotografi molto bravi, Fullframe.it, che operava anche su Internet, e voleva organizzare un mio stage. Accettai con molto piacere e, il mese successivo, andai nella città capitolina.
Oltre alle mie solite proiezioni, in cui svelo prevalentemente alcuni segreti sulla composizione dell’immagine, solitamente, con i partecipanti, esco anche in esterno, per mettere in pratica sul campo le nozioni acquisite.

Quella volta decisi di accompagnarli allo Stadio dei Marmi, dove avevo già realizzato alcune immagini per il mio libro ROMA NOSTRA, e portai con me anche una piccola Leica, per divertirmi un po’ facendo qualche scatto.

Lo Stadio è un impianto sportivo dedicato principalmente all’atletica leggera. Costruito tra il 1928 e il 1932, sorge all’interno del Foro Italico ed è impreziosito da 64 sculture dedicate a varie discipline. Un luogo metafisico, dove le statue bianche, in fila l’una dietro l’altra, circondano il perimetro del campo, creando un’atmosfera dechirichiana.

Nonostante quella mattina fosse pieno di gente, avvicinandomi molto ai soggetti scultorei, che sarebbero risultati poi in primo piano nelle foto e ricercando accuratamente tagli essenziali, eliminai tutto ciò che poteva essere di troppo nell’immagine.
Mi aiutò anche la giornata con un cielo terso privo di nuvole che faceva da sfondo ai soggetti accentuando la loro presenza nell’inquadratura. Il risultato fu inaspettatamente un lavoro fotografico che non avevo preventivato ma che ancora oggi é attuale ed amo moltissimo.

 
 
 
Stadio dei marmi – foto di Augusto De Luca
Stadio dei marmi – foto di Augusto De Luca
Stadio dei marmi – foto di Augusto De Luca
Stage a Roma con Augusto De Luca




Augusto De Luca fotografa Iabo

Quando iniziai a collezionare i graffiti su carta staccandoli dai muri della strada, non sapevo niente di street art, credevo fossero semplici disegni di ragazzi che si divertivano.
Una giornalista de ‘Il Mattino’ venutane a conoscenza, pubblicò un articolo su cinque colonne intitolato ‘Il Cacciatore di Graffiti’ al cui interno c’era anche una foto che mi ritraeva mentre avevo tra le mani un lavoro dell’artista Iabo.
Quest’ultimo, vistala, colse l’occasione e mi contattò. Fu così che lo conobbi. Mi propose una performance, un video risposta ironica degli street artist in cui mi avrebbe catturato ed imprigionato. Accettai e realizzammo insieme ‘Iabo cattura il Cacciatore di Graffiti’, che ebbe un grande successo.
Fu l’inizio di una straordinaria collaborazione artistica durata per molti anni.
Uno dei tanti lavori insieme è stato anche ‘Madre Snaturata’: performance contro il Museo Madre.
Tra noi è nata anche una forte amicizia e spesso ci incontriamo per scambiarci opinioni, consigli e discuterne insieme. Un ragazzo in gamba, molto professionale nel suo lavoro. Insomma, uno dei pochi artisti che non lascia niente al caso, proprio come me che cerco sempre di programmare nei minimi particolari ogni progetto. Le sue idee quasi sempre coincidono con le mie e abbiamo molte affinità, soprattutto per quanto riguarda il mondo dell’arte.
Spesso, mentre è all’opera, vado a fotografarlo e, tra una mangiata e una chiacchiera, passo un po’ di tempo con lui.
Anche Iabo mi ha dedicato alcuni ritratti bellissimi e quello che vi propongo di seguito è l’ultimo realizzato.
Quanto invece all’istantanea che pubblico qui è stata realizzata mentre Iabo dipingeva nel suo studio alcuni grandi quadri ironici su Hitler, che poi espose all’Auditorium Parco della Musica di Roma, nell’ambito della mostra ‘Scala Mercalli il terremoto della street art Italiana’, a cura di Gianluca Marziani.
Il click fu assolutamente casuale e inaspettato. Mentre scattavo mi accorsi che, dalla finestra, la luce proiettava il suo profilo sul dipinto, creando un netto doppione che prontamente immortalai.
Il ritratto originale è a colori ed è anche molto bello, ma ho sempre preferito proporlo in bianco e nero per evidenziare ed esaltare maggiormente la contrapposizione dei soggetti; l’osservatore, infatti, concentra e rimanda subito lo sguardo dal soggetto all’ombra, senza farsi catturare e distrarre da un eventuale cromatismo.

 

Iabo – foto di Augusto De Luca
Iabo e Augusto De Luca
Ritratto di Augusto De Luca – di Iabo




Augusto De Luca fotografa Concetta Barra

Artista per caso, grande attrice e cantante, interprete straordinaria della cultura napoletana, fu Roberto De Simone, che lavorava con il figlio Peppe Barra, a chiedere a Concetta Barra di intraprendere la carriera teatrale.?Viveva con il figlio all’ultimo piano di un palazzo antico in una stradina prima del Museo Archeologico Nazionale.
Io e il mio assistente andammo a prenderla con l’auto; volevo fotografarla in esterno, con qualche scorcio della città. Era troppo partenopea per immaginarla con uno sfondo diverso.
Appena salì a bordo cominciarono le sue straordinarie battute in napoletano. Eravamo in preda ad una continua crisi di riso. Non riuscivo più a guidare.
Ogni parola, ogni argomento provocava in Concetta un’immediata reazione verbale, una pronta ed intelligente freddura che, accompagnata alla sua mimica facciale, diventava irresistibile. Sembrava quasi che avesse dentro di sé un copione naturale da cui attingeva inesauribili gag argute e spiritose. Un vulcano in eruzione, un’esplosione di allegria compiaciuta.
Si divertiva molto a divertire e noi eravamo felici di assistere, anzi, di essere coprotagonisti in quello spettacolo di varietà del tutto improvvisato.
Ad un tratto ci disse:
“Sono napoletana e sarei stata napoletana anche se fossi nata a Milano… sono sicura che in quel caso avrei inventato ‘o panettone ca’ pummarola ‘ncoppa”.
Girammo ancora un po’ e arrivati a Mergellina cominciammo a passeggiare sul lungomare. Era una stupenda giornata di sole e io, guardandomi attorno, decisi di fotografarla insieme al Vesuvio che, appena accennato, doveva fare capolino in fondo all’immagine, per sottolineare che Concetta era Napoli e che Napoli era Concetta.
Come nella scenografia di un teatro vuoto, di un palcoscenico, di una quinta teatrale dove il protagonista è il suo viso incorniciato da un meraviglioso scialle arabeggiante e il Vesuvio il suo unico partner con cui duettare… insomma, l’apologia, l’esaltazione della napoletanità nella sua essenza più vera.

 

Concetta Barra – foto di Augusto De Luca




Esselunga per le famiglie, uno spot discutibile

La pubblicità dispensatrice di sogni si intromette vistosamente nella nostra quotidianità, dai primi ingenui Caroselli a una più sofisticata comunicazione che tiene conto del cambiamento sociale.
Oggi la suggestione è veicolata da una pesca, protagonista il marchio Esselunga. Lo spot immagino lo conosciate, ma per vostra comodità è riportato qui https://www.youtube.com/watch?v=sFE9VvAym3Q per la regia di Rudi Rosenberg, incaricato dall’agenzia Small di New York.
Emozionare i consumatori per indurli all’acquisto è la missione dei creativi che realizzano i messaggi pubblicitari; Esselunga si spinge oltre con questo imbarazzante spot che l’azienda stessa definisce al passo coi tempi. I media parlano di “roventi polemiche” generate da questa innovativa proposta.
Qui si fa leva su qualcosa di più profondo e radicale di una fugace emozione, lo spot fa leva sui sentimenti di una bambina evidentemente afflitta per la separazione dei genitori, nell’ambito di una famiglia del ceto medio benestante, un dettaglio non trascurabile: i poveri non hanno i soldi per divorziare e fanno la spesa al discount.
Senza alcun intento moralista nella mia critica, trasecolo di fronte alla quantità di commenti entusiastici sui social, di chi, stanco delle proposte pubblicitarie standardizzate, si commuove per la vicenda umana della famiglia divisa, finalmente “reale” e opposta alla famiglia perfetta la cui felicità trabocca da una scatola di biscotti per la prima colazione.
Nel corto di Esselunga si intravede la sofferenza, il bisogno infantile di un riferimento univoco di coesione familiare, il bisogno di un nido che accolga e rassicuri.
Vorrei ricordare come la famiglia nucleare sia il modello vincente di architrave della società occidentale.
La prima doverosa osservazione è l’estrema semplificazione dei problemi di una coppia in crisi, come suggerisce la narrazione e il coinvolgimento di una creatura fragile, la bambina, che vive dolorosamente la relazione conflittuale dei genitori. A questo riguardo riporto un parere professionale, quello di Ariella Williams, psicoterapeuta:
“Vedo un messaggio subliminale pericoloso, di facile digeribilità perché sciropposo: 1) state insieme per amore dei figli e 2) per tornare insieme basta poco. In entrambi i casi, è una mistificazione e una banalizzazione di problemi seri di coppia, e dei bambini di quelle coppie, trattati invece come capricci facilmente risolvibili.
Si sottintende la promozione del modello della famiglia tradizionale voluta dalla destra. Lo trovo mostruoso”.
In effetti la nostra premier Giorgia Meloni lo definisce bello e toccante.
Dov’è finita l’etica della comunicazione pubblicitaria? Chi pensano di prendere per i fondelli gli ideatori della campagna Esselunga? Sfido chiunque abbia vissuto una separazione dal proprio partner ad identificarsi serenamente nei due amorevoli genitori di una bambina sulla quale grava il peso del fallimento della relazione di coppia. Non mancano infatti, sui social, i commenti infastiditi di chi ha divorziato fra lacrime e sangue.
Inoltre, l’onda emotiva generata dal corto rischia di mettere fuori fuoco la strategia pubblicitaria dell’azienda: fare la spesa all’Esselunga potrebbe passare in secondo piano rispetto alla narrazione. E un supermercato non rimette insieme una famiglia, una mistificazione al servizio della mercificazione dei sentimenti.
Ridateci il Mulino Bianco!

 





La fine della storia

Gli ultimi episodi di giustizia “fai da te” che si sono verificati a Roma e in Italia, cittadini che picchiano o tentano di linciare gli autori di veri o presunti crimini, sono stati analizzati fin qui in maniera totalmente superficiale. Approfondire fa paura, per la fotografia del presente che viene scattata. Intanto raccolgono molti consensi e su questo ci dovremmo interrogare più di ogni altra cosa. Sono da deprecare, ovviamente, ma ci raccontano molto di come si vive nella realtà, di come sono nate e prosperino le mafie. La criminalità organizzata, a cui sono legati la maggior parte dei picchiatori, si è assunta il ruolo che molti cittadini imputano allo Stato di aver abbandonato. Sembra un ritorno al secolo scorso, quando la mafia veniva ritenuta l’ente a cui rivolgersi per riparare ai torti subiti dai cittadini poveri ed emarginati e su questo costruiva, e costruisce, le sue fortune. Non ti difende lo Stato, ti difende la mafia, questa è l’offerta che sempre più persone accettano. C’è un primo strato in cui avviene un crimine odioso, per esempio lo scippo di una vecchietta, la violenza su una persona indifesa, che porta a solidarizzare con chi fa “giustizia” contro quella violenza. I giustizieri però non sono sceriffi senza macchia, romantici “riparatori” senza fini di lucro dei torti, come avviene negli spaghetti-western. Sono persone che commettono crimini altrettanto odiosi e che vedono in questi reati due minacce specifiche allo svolgimento dei loro affari: l’invasione del territorio che controllano da parte di delinquenti non legati a loro e il rischio di attirare su quel territorio l’attenzione delle forze dell’ordine. Il secondo strato, profondamente penetrato nella pelle di chi vive in situazioni di emarginazione urbana, è la cultura accecante della doppia morale. L’accettazione della violenza contro piccoli delinquenti facendo finta di non vedere la violenza dei grandi delinquenti. Il travisamento definitivo del concetto di “giustizia”. Non è diverso da quando la grande distribuzione si “mangia” i piccoli supermercati portandoli al fallimento, è la logica del mercato. A far chiudere gli occhi è l’ormai noto “welfare” alternativo della criminalità organizzata. Fino a 200 euro al giorno per avvisare quando arrivano polizia o carabinieri contro i nemmeno 400 euro al mese del sussidio di Stato. Il terzo strato riguarda la politica. In questo campo non c’è opposizione. Esercito, mobilitazioni spettacolari di un giorno per lasciare il giorno dopo tutto come prima, nessun fondo pubblico o pochi spiccioli per combattere sul territorio la disgregazione sociale. Del resto hanno iniziato le amministrazioni di centrosinistra e hanno proseguito i cinque cosi a sdoganare l’orripilante approccio alla povertà come decoro urbano. La destra si limita a pensare e fare ciò che ha sempre fatto. Se ne esce? No. Inutile essere ipocriti e buonisti, da qui ai prossimi anni non si vede nessuna alternativa. Poi, se vogliamo raccontarci favole e sogni possiamo farlo, almeno quello è gratis. Il che non significa che non sia possibile combattere la criminalità organizzata, ma per farlo occorre chi pensa non chi mena e al momento tutti menano i più deboli: la criminalità, lo Stato, gli ignavi.
 




Augusto De Luca fotografa Lina Mangiacapre

Lina Mangiacapre, scomparsa purtroppo nel 2002 a soli 56 anni, era un’artista a tutto tondo: regista, musicista, pittrice, fotografa, scrittrice e poetessa.
Sicuramente un personaggio molto singolare ed eccentrico, ribelle e fantasioso della scena artistica partenopea, continuamente alla ricerca di libertà, che aveva posto il mito al centro della sua ricerca e ideato la ‘psicofavola’ come metodo teatrale e di autocoscienza.
Femminista storica, laureata in filosofia, era una donna intelligente e colta, mai banale, che faceva dell’arte e della creatività forme di lotta politica per l’emancipazione femminile, così come politiche erano le azioni performative che conduceva con uno dei gruppi più importanti del movimento femminista, le Nemesiache, il suo collettivo fondato nel 1970, che, pur avendo un ampio raggio d’azione tra Milano, Roma e Parigi, era fortemente radicato sul territorio napoletano.
Mente geniale e creativa, riteneva il cinema la ‘sintesi di tutte le arti’. A lei dobbiamo, tra l’altro, l’ideazione della Rassegna del Cinema femminista di Sorrento ‘L’altro sguardo’, primo festival del genere in Europa, e l’istituzione del Premio cinematografico ‘Elvira Notari’ alla Mostra del Cinema di Venezia, divenuto, dopo la sua morte, il Premio ‘Lina Mangiacapre’.
Le tante delle sublimi metamorfosi di Lina sono state immortalate nel docufilm ‘Lina Mangiacapre Artista del Femminismo’ di Nadia Pizzuti, che ha curato il soggetto insieme a Tristana Dini, dedicandosi personalmente alla sceneggiatura, realizzato grazie ad una raccolta di crowdfunding e dopo un attento e lungo lavoro di raccolta di materiale di repertorio.
In circa 40 minuti, tra voci fuori campo, testimonianze delle Nemesiache, vignette, disegni e animazione originali e riprese nella casa dell’artista a Posillipo e in altre zone della città, indagando itinerari collegati fra loro e valorizzando la sua verve ironica e giocosa
Presente a tutti gli eventi artistici della città di Napoli, la incontravo spessissimo ovunque e quando qualche volta mancava ad un avvenimento artistico, cosa che accadeva raramente, la sua assenza si notava sicuramente.
Sorridente, con un look molto personale, provocatorio e senza tempo, caratterizzato da quei vivaci vestiti punk rock, dark o mitologici che amava tanto, bombette e cilindri, ciocche di capelli colorate, il suo aspetto androgino da queer ante litteram la rendeva riconoscibilissima.
Altro segno distintivo erano gli stupendi occhiali a farfalla, sempre diversi, che collezionava. Era molto affettuosa con me ed io la stimavo ed apprezzavo per la sua libertà e per il suo coraggio nella diversità. Lina diceva spesso che bisognava riprendere l’arte dell’amore come pratica di rivoluzione.
Un giorno le chiesi di ritrarla e lei ne fu felicissima.
Prendemmo un appuntamento ed andai nella sua casa studio, piena di oggetti particolari, cappelli e occhiali alati. Le chiesi di indossarne qualcuno e iniziai a fotografare.
Però mi attirarono in particolar modo un violino e un manifesto di Pier Paolo Pasolini che lei adorava.
Nel primo scatto misi insieme il profilo di Lina con il ritratto di PPP su cui avevo appoggiato i suoi famosi occhiali, in modo da unire ed intrecciare in qualche modo le loro vite e le loro personalità.
Nella seconda inquadratura, invece, la ritrassi come una guerriera che al posto di un’arma, impugna e brandisce uno strumento musicale.
Quando stampai le due foto, fui molto soddisfatto del risultato perché entrambe le immagini rispecchiavano il mio progetto e il mio intento.
A Lina è stata dedicata una sezione al National Museum of Women in the Arts di Washington e il Comune di Napoli, in ricordo delle sue lotte femministe ed anche del suo amore per la città, ha deciso di dedicarle un belvedere in via Posillipo, nei pressi di Piazza San Luigi.
Siamo tutti diversi ma nessuno più di Lina è stata una persona meravigliosamente unica e irripetibile.

Lina Mangiacapre – foto di Augusto De Luca
Lina Mangiacapre – foto di Augusto De Luca




La questione O’Connor

È sempre complesso parlare di Irlanda.
Se non altro esulando dall’immaginario sospinto da pubblicità turistiche e da quando Fiorella Mannoia ne fece una poetica/patetica rappresentazione musicale per una promozione valida per una qualsiasi estate dei primi anni ‘90.
Artisti, musicisti, attori, oriundi.
Un popolo di emigranti, con una identità forte da un lato, e vendibile da un altro.
Non sto qui a raccontare la “mia Irlanda”, quantomeno a cercare di capire cosa ha caratterizzato la persona e la voce di Sinead O’Connor nel mainstream cultural musicale.
Quello che mi fa riflettere è, però, averla relegata secondo le azioni eclatanti della donna, irlandese.
L’Isola, la chiamerò così, ha sempre desiderato l’unione delle sue 32 contee, di cui 6 in Ulster, occupate già da Guglielmo d’Orange dopo l’anno 1000 in nome della supremazia della religione protestante. Mera scusa per motivi imperialistici e politici.
La svendita della Repubblica, dopo la rivolta di Pasqua del 1916, iniziò con il progressivo allontanamento dell’ideale socialista, come rivendicazione di classe, sostenuto da Michael Collins e James Connolly.
Uno Stato, una nazione, dove il più longevo e reggente presidente del Fianna Fail, Eamonn De Valera, ha sostenuto la pace imposta dalle trattative con i britannici.
Ma le due Irlande rimangono separate, per mano della monarchia dell’isola dirimpetto, e soprattutto per le sostanziali differenze che la religione impone.
I cattolici del Nord, diversi da quelli della Repubblica, non hanno quella morale ferrea e vaticanista ad oltranza.
La Repubblica d’Irlanda ha continuato negli anni ad essere un satellite della corona britannica.
Non possiede un esercito armato, se non per scopo difensivo, ed è un paese neutrale.
I sentimenti antibritannici ne fecero un paese filonazista negli anni ’30, fino al bombardamento di Belfast della Luftwaffe.
Dopo questa sintetica e doverosa premessa, quello che mi ha dato spunto per scribacchiare un pensiero esteso, oltre alla morte di una delle voci provenienti dall’Isola, è quel gesto che fece strappando la foto di Papa Giovanni Paolo II.
Un atto più che altro proteso a cercare di comunicare ciò che è stato negli anni un paese teocratico sommerso.
Nella sua “pace” ottenuta con la svendita delle 6 contee, ha proliferato il peggio della vergogna del cattolicesimo.
Non a caso c’è una vasta letteratura e filmografia di denuncia di soprusi e violenze, se non omicidi, nelle strutture religiose sparse nell’isola.
“Magdalene sister’s” di Peter Mullan è un film che ben spiega una vicenda sommersa.
Gli irlandesi sono un popolo diverso e diversificato. A volte mi viene da citare il Molise, da cui provengo, e di cui si sa molto poco, a parte la battuta sulla sua non esistenza. Diviso al suo interno, anche per oasi linguistiche, oltre che per rivalità tra i capoluoghi.
Non voglio scrivere per una commemorazione della cantante, ma posso capire le lacerazioni interne di una donna, di quella Terra, spesso abbandonata all’alcolismo, come fuga dalla realtà, di una regione dell’Europa che era seconda solo alla Calabria per povertà e disagio.

Per la questione Nordirlandese magari mi metterò d’impegno un giorno…

 





Augusto De Luca fotografa Lino Cannavacciuolo

Il violino è uno strumento che mi ha sempre affascinato per il suono, ma anche per le venature e le sinuosità delle forme dei suoi legni.
Ricordo sempre con stupore e ammirazione, la bellezza di uno dei due Stradivari di Salvatore Accardo, che ebbi la fortuna di ammirare da vicino.
Detto questo, mi aveva sempre incuriosito il suono di un violino che molte volte avevo ascoltato nei brani e nei concerti di grandi artisti come Pino Daniele, Peppe Barra, Lucio Dalla, Adriano Celentano, Tullio De Piscopo, Edoardo Bennato e Claudio Baglioni.
Era uno strumento con un suono unico, passionale, vigoroso, travolgente, infuocato, ma anche moderno. Ma chi era quel musicista che mi aveva sempre affascinato? Di chi era quella mano dal tocco sicuro, nervoso eppure dolcissimo, capace di straziarmi l’anima, facendomi attraversare una varietà infinita di emozioni?
Quel maestro, e poi scoprii anche ottimo compositore, era Lino Cannavacciuolo ed io desideravo conoscerlo e fotografarlo.
Un musicista poliedrico, travolgente, che fa della sublime ricerca di nuovi linguaggi musicali e della sperimentazione la sua chiave di volta, e che, con tecnica sapienziale, riesce ad equilibrare in modo assolutamente personalissimo, tradizione ed innovazione.
Un vero e proprio animale da palcoscenico, dalla forte presenza scenica, che calamita l’attenzione in modo quasi ipnotico. Tanto bravo da aver lavorato anche con Eduardo De Filippo, Luca De Filippo, Roberto De Simone e aver curato la colonna sonora di importanti film per la regia di Massimo Andrei, Fabrizio Costa, Giacomo Campiotti, Luca Ribuoli, Eugenio Cappuccino, e che, nel corso della sua carriera, ha ricevuto prestigiosi premi e riconoscimenti.
Cominciai a chiedere ai tanti amici che ho nell’ambiente musicale, riuscii ad avere il suo numero telefono, lo contattai e, qualche giorno dopo, mi recai nella sua casa a Pozzuoli (NA).
Lino è un vero artista, innamorato del suo strumento. Quando lo prende per suonarlo gli brillano gli occhi e le sue mani volano sulle sue corde. Entrammo nel salotto di casa ed imbracciò il violino elettrico per farsi fotografare, ma io gli dissi che avrei preferito ritrarlo con un violino classico di legno; allora lui andò a prenderlo e, tornato, cominciò a suonare.
Incantato da quel suono rimasi lì, di fronte a lui, incapace di scattare, concentrato ad ascoltarlo; solo dopo un po’ di tempo realizzai che se volevo cominciare a lavorare, dovevo liberarmi di quella deliziosa suggestione .
Feci molti scatti ma poi fui attratto dal terrazzo assolato di quella stanza. Uscimmo e sfruttai tutta quella luce per utilizzare l’ombra del violino come secondo soggetto da correlare al profilo dell’artista.

Quindi decisi di realizzare anche un’altra immagine, qui pubblicata con il riccio appoggiato alla sua fronte, come se lo strumento e il musicista entrassero in una relazione più profonda, quasi simbiotica.

Alla fine, fui molto soddisfatto di quegli scatti e, mentre stavo per andarmene, Lino mi chiese di fotografare per il suo sito una piccola sala di registrazione che aveva al primo piano di quella casa.
Feci uno scatto a colori e lui, per ringraziarmi, mi regalò due suoi CD, che ascoltai in macchina al ritorno. Erano talmente belli che dei brividi mi attraversarono tutto il corpo mentre pensavo che quell’uomo era davvero un genio.

Lino Canavacciuolo – foto di Augusto De Luca
Lino Cannavacciuolo – foto Augusto De Luca




Augusto De Luca fotografa Peppe Morra

Ho iniziato a frequentare assiduamente le esposizioni di Giuseppe Morra, noto come Peppe, dall’inizio della mia carriera di fotografo negli anni ’70. 

Gallerista raffinato e colto, collezionista, mecenate, squisito ricercatore e valorizzatore della cultura delle comunicazioni visive, senza fermarsi alla prima impressione e scavando nel profondo, si è distinto dagli altri proponendo artisti importanti ma che operano al di fuori di schemi tradizionali e commerciali, come quelli dell’Azionismo Viennese della Body Art.

A seguito di molteplici contatti con Lucio Amelio, su cui mi sono soffermato in precedenza, ne è diventato presto amico e, dopo aver creato al Vomero il Centro d’Arte Europa, con Luigi Mainolfi, Giuseppe Maraniello, Errico Ruotolo, ha accolto con gioia il suo prezioso suggerimento di inaugurare uno spazio al centro di Napoli, per poi andare oltre e diventare un promotore culturale, dando vita al Museo Nitsch e, con alcuni amici, al Quartiere dell’Arte.

Convinto assertore dell’individuale capacità di concepire l’esistenza senza legarsi a schemi mentali precostituiti o alle mode del momento, ha fatto del suo interesse per la filosofia la molla propulsiva della sua indagine sulla Bellezza, compiendo, di continuo, scelte molto singolari ma sempre vincenti.

Per citarne una: nella sua vecchia galleria Studio Morra, sita in un antico palazzo di via Calabritto a Napoli, Marina Abramovi? realizzò, nel 1974, la famosissima performance, la Rythm 0, restando passivamente immobile per sei ore, dalle 20:00 alle 2:00 del mattino, a completa disposizione del pubblico. Su di un tavolo c’erano fiori, strumenti di tortura e persino una pistola con un colpo. Chiunque, in questo lasso di tempo, dopo aver letto le istruzioni riportate a corredo dei 72 oggetti forniti, le avrebbe potuto fare tutto ciò che voleva: ferirla, muoverla, denudarla.

Insomma, si trattava di un esperimento nell’esperimento per indagare le tensioni del genere umano tra abbandono e controllo. E solo un innovatore come Peppe avrebbe potuto intuire le potenzialità di questa pièce.

Per fargli un ritratto andai a trovarlo nel suo suggestivo Museo in vico Lungo Pontecorvo, nel cuore di Napoli, un’ex centrale elettrica dedicata dal 2008 al grande artista viennese Hermann Nitsch.

Come sempre, Peppe si fece trovare vestito di nero, fatico a ricordarlo con indosso abiti di colore diverso. Mi accolse con grande affetto, mettendosi a mia completa disposizione. Girammo un po’ tutte le stanze del Nitsch, alla ricerca di un luogo che gli facesse da sfondo. In verità gli spazi erano tutti bellissimi ed io feci diversi scatti, ma alla fine scelsi le due immagini che pubblico qui.

La prima realizzata su di una scaletta che porta ad alcune stanze di sotto, perché mi piaceva il movimento di quei muri alle sue spalle, e la seconda, più essenziale e minimalista, sul magnifico belvedere all’ingresso dell’edificio, con il dettaglio del Vesuvio sullo sfondo alle sue spalle e una tenda bianca a sinistra, che bilanciava il ritratto a destra.

Prima di andar via gli chiesi di farmi incontrare Nitsch per realizzargli un ritratto, cosa alquanto difficile data l’età e la riservatezza del personaggio. Ne fu entusiasta e mi promise che appena il performance artist austriaco fosse venuto nuovamente in città, lo avrebbe convinto organizzando l’incontro… cosa che puntualmente fece, mostrandomi, ancora una volta, la sua serietà e affidabilità come amico e come uomo.

 

 

Peppe Morra – foto di Augusto De Luca
Peppe Morra – foto di Augusto De Luca

 

 

Augusto De Luca, Peppe Morra, Hermann Nitsch




Daniele Barbieri e Gianluca Cicinelli, 365, Calamaro edizioni, 2023

Ma guarda un po’ in che pasticciaccio brutto si sono trovati gli ineffabili Barbieri e Cicinelli! Chiamati in causa da un delirante messaggio di un fantomatico “365” (dubbio: sarà un lui, una lei o un gruppo eversivo?). Hanno ricevuto il preavviso che di lì a 365 giorni verrà uccisa una persona, e lo stesso messaggio è stato inviato per conoscenza a un funzionario del ministero degli Interni, il colonnello Palermo, (che ho immaginato esprimersi con la medesima koinè del commissario Ingravallo). E ora si trovano lì, negli uffici della Digos, a cercare di elaborare una strategia. Inizia così questo esilarante romanzo di Barbieri e Cicinelli, già movimentisti post-sessantottini nella realtà e nella fiction, dentro la quale si sono calati in prima persona.

Dico subito che “365” (che, nei meandri della mia mente, mi ha fatto pensare oltre che a Gadda -molto alla lontana- anche al compianto Paolo Pietrangeli del romanzo “Tremagi e il rasoio di Occam”, un suo giallo metropolitano purtroppo poco conosciuto.

Perché noi ex-sessantottini siamo fatti così. Come tutti i diversamente giovani viviamo di ricordi, ogni tanto ci si inumidiscono gli occhi ripensando a fatti e compagni e canzoni di quegli anni (Contessa, p.e.) e amiamo fare analogie, accostamenti, far incastrare riferimenti in un grande puzzle che rappresenta quel nostro passato. Due volte si ripete in “365” il mantra:

“Certo eravamo giovani, eravamo arroganti (…) ma avevamo ragione noi”. E chi di noi non se lo è sempre ripetuto? Anche Barbieri e Cicinelli se lo ripetono, perché adesso devono fare presto e cercare di mettere insieme indizi per capire chi può essere l’autore della minaccia e soprattutto perché sono stati messi al corrente proprio loro. Una ipotesi è che possa essere una scheggia impazzita del movimento.

Ho già detto che il testo è un divertissement scoppiettante ed esilarante. È un romanzo di trama fitto di dialoghi (e la koinè qui è soprattutto romanesca, con un pizzico di turpiloquio q.b. e con soste obbligate in una tavola calda di piazza Re di Roma per farsi una scorpacciata di supplì) e di battute talmente terrificanti da scompisciarsi dalle risate. Una tra tutte: Cicinelli osserva le stampe nell’ufficio del magistrato e pensa “Mirò? No questo non ha mirato, ha preso e ha buttato i colori a caso”. Non ci si può addentrare troppo nella trama perché è talmente ben congegnata e sorprenderà i lettori con una conclusione geniale . Dico per chiudere che il libro è dedicato al compianto Luigino Scricciolo, vittima del potere dello stato che lo condannò ingiustamente a vent’anni di reclusione per poi troppo tardi prosciorglierlo (chi per età non lo conosce può trovare in rete le prime informazioni).

Infine Barbieri e Cicinelli dichiarano di devolvere la quota che spetta loro per le vendite del libro all’Associazione Verso il Kurdistan.

E qui io penso, con un groppo in gola, ai nostri Lorenzo Orsetti e Giovanni Francesco Asperti che hanno dato la vita per il loro sogno di un Kurdistan unito e indipendente.

Non perdete questo libro. Vi regalerà  risate ed emozioni a non finire, credetemi.

 


Foto copertina libro: BENIGNO MOI

 




Augusto De Luca fotografa Lucio Amelio

Dalla metà degli anni ’70 all’inizio degli ’90, essere presenti agli eventi della galleria di Lucio Amelio in piazza dei Martiri a Napoli, era quasi un dovere, un obbligo per gli artisti che desideravano “esserci”, quelli cioè che volevano partecipare alla vita culturale partenopea.

La sua galleria era un luogo magico, piena di stimoli, posto unico nel suo genere.

Lucio portò a Napoli artisti internazionali le cui opere avevamo prima ammirato solo su giornali e riviste. Se ci si recava nelle sue due sale, facilmente si potevano incontrare personaggi come Warhol, Beuys, Mapplethorpe, Rauschenberg e tanti altri.

Lucio, però, si occupò e preoccupò anche degli artisti napoletani.

Io presi parte, infatti, a due eventi organizzati da lui: la ‘Rassegna della Nuova Creatività nel Mezzogiorno’ e al Goethe Institut ‘L’occhio Meccanico’. Ero all’inizio della mia carriera artistica e ricordo, in particolare, che, partecipando al primo degli eventi, chiaramente da principiante inesperto, allestii personalmente la mia mostra di fotografie.

Sicuramente il montaggio dei miei lavori sui muri non era perfetto e quando Lucio, che aveva un carattere molto forte ed era un perfezionista, entrò per controllare tutto l’allestimento, mi disse:

“Augusto… ma sono fotografie o caciocavalli?”

Si tolse la giacca, si rimboccò le maniche della camicia e rimise ad uno ad uno i chiodi e i quadri alle pareti.

Era così, molto diretto, forse duro qualche volta ma molto generoso.

Questa foto che pubblico è una polaroid SX-70 che ho manipolato dopo lo scatto.

Alle sue spalle c’è un opera di Keith Haring, artista famoso per i suoi caratteristici segni e che Lucio amava molto. Sull’abito poi, muovendo la pasta di sviluppo della pellicola con uno stecchino di legno, ho inserito anche io alcuni dei miei segni in modo da sottolineare e mettere in risalto nell’immagine quella che era la caratteristica dello street artist.

(Questo é un mio video del 1985 in cui mostro il procedimento…)

Lucio Amelio – polaroid manipolata di Augusto De Luca




Dieci anni di Bande de Femmes

Tre giorni di dibattiti, arte, libri, idee, per festeggiare i primi 10 anni del festival: è Bande de femmes, banda di donne (e femministe) che nel gioco linguistico con il francese indica anche le strisce illustrate dei fumetti.
A Roma, nel cuore del Pigneto, torna dal 6 all’8 luglio l’iniziativa a cura di Sarah Di Nella, Ginevra Cassetta e Marta Capesciotti e organizzato dalla Libreria Tuba.
Anche quest’anno il festival è stato anticipato da una Notte a colori, il 1° luglio scorso, in cui vernissage di mostre di diverse artiste hanno animato diversi luoghi del quartiere e molte saranno visitabili anche nei prossimi giorni.
Il programma prevede diverse protagoniste dalla scena internazionale queer fra cui Frances Cannon, Roma De Las Heras e Cocoriot, ma anche il nuovo libro di Nicoz Balboa, tattoo artist e fumettista italiano, che con “Transformer” [Oblomov Edizioni] affronta il percorso della transizione di genere e l’accettazione della propria identità. Fra gli esordi segnaliamo in particolare la prima edizione italiana, “Anna” [Rulez edizioni], di Mia Oberländer, giovane autrice tedesca e la graphic novel di Santamatita, torinese, che presenta un’opera molto originale dal titolo “L’ultima estate al cimitero” [BAO Publishing], con sensibile ironia affronta un tema delicatissimo come quello del lutto e immagina un improbabile luogo di villeggiatura che sta per essere chiuso, con grande disorientamento dei sui consueti villeggianti.
E poi ancora, il 7 luglio si parlerà di fanzine e l’8 luglio un evento in collaborazione con l’associazione A Sud che intende coinvolgere anche la cittadinanza. Tre fumettiste disegneranno dal vivo alcune “Tavole narranti”: su supporti removibili, immagini esplicative del ciclo dei rifiuti per sensibilizzare e coinvolgere il pubblico e il quartiere su tematiche eco-femministe, ambientaliste e sull’emergenza climatica.
Come gli altri anni sono previste presentazioni ‘animate’, con traduzione Lis in diretta, traduzioni dalle lingue straniere, live painting con artist3 di varie nazionalità e incontri di vario genere – da Eccentriche, alla scoperta di storie che hanno rotto con le convenzioni, a
Dialoghi d’autrici, con la presentazione di un fumetto, passando per Matite fuori dai cardini, per stimolare dibattiti sui femminismi disegnati e Sceno/grafiche, un’immersione in mondi altri, tra arti, immaginari e nuovi linguaggi.
Il programma completo è consultabile online su www.bandedefemmes.it
Tutti gli eventi sono gratuiti.

 

Transformer 90
Transformer_ copertina
Nicoz Balboa
Fronte
L’ULTIMA ESTATE AL CIMITERO_p9
L’ULTIMA ESTATE AL CIMITERO_p8
Foto autore-SantaMatita
COVER L’ULTIMA ESTATE AL CIMITERO
ANNA 141




Augusto De Luca fotografa Pompei

Era da moltissimo tempo che desideravo tornare agli scavi di Pompei e, finalmente, qualche anno fa, era esattamente il 2011, io e Nataliya mia moglie, decidemmo di fare una visita proprio a quello stupendo sito archeologico, rimasto intatto per secoli sotto la cenere del Vesuvio.

La giornata era splendida e il cielo terso; per l’occasione, portai con me la piccolissima fotocamera Leica D-Luxe, con soli 10 megapixels.

In verità non avevo nessuna intenzione di lavorare, volevo al massimo fare qualche foto ricordo.

Quella mattina, per mia fortuna, c’era davvero poca gente e quella straordinaria città deserta appariva in tutta la sua bellezza piena di fascino, che riportava alla mente ricordi di una vita dove riecheggiavano suoni ed immagini fantasma di un passato lontano.

Cominciammo a girare per le antiche strade vuote, un tempo trafficate e piene di vita, e, quasi automaticamente, guardavo e scattavo, senza neanche rendermene conto. Tutto mi sembrava interessante e fotograficamente accattivante.

Perlustrammo il luogo in lungo e in largo per qualche ora, senza accorgercene e io feci davvero molte istantanee.

Quegli scatti volevano essere soprattutto degli appunti di viaggio, dei ricordi di scorci e frammenti che colpivano di volta in volta il mio sguardo facendomi sognare ad occhi aperti, senza nessuna pretesa e finalità professionali: souvenir di una mattina diversa in un luogo misterioso e magico, che apparteneva alla memoria, e che sollecitava in maniera così feconda la mia fantasia.

Tornato a casa, nel tardo pomeriggio, lavorando i file al computer, ho cercato di elaborare le immagini in modo da dare un carattere e un gusto retrò, che credo si addica meglio ad una città così antica e piena di storia; però, non è detto che cambi idea modificandole nuovamente, perché ancora non sono sicuro che quelle istantanee abbiano raggiunto la loro perfezione e la loro completezza, almeno per me.

Forse, prima o poi, attraverso di esse riuscirò a restituire, inequivocabilmente, proprio le stesse emozioni che provavo al momento dello scatto; mi occuperò presto di loro.

 

Pompei – foto di Augusto De Luca
Pompei – foto di Augusto De Luca
Pompei – foto di Augusto De Luca




Augusto De Luca fotografa Lucia Trisorio

Lo Studio Trisorio, alla Riviera di Chiaia, è una delle più importanti gallerie napoletane, punto di riferimento per tantissimi artisti, inaugurata il 16 ottobre 1974, dove hanno esposto tanti nomi illustri del panorama internazionale, molti dei quali precursori dei loro tempi. 

Conobbi i proprietari, Pasquale e Lucia, alla fine degli anni 70. Spesso andavo da loro per parlare dei miei nuovi lavori e ricevere qualche consiglio.

Lui, che purtroppo non c’è più, era un amico di cui fidarmi; mi incoraggiava con suggerimenti preziosi che ancora oggi mi sono utili. La moglie Lucia, per la grande esperienza che aveva, era per me, che cominciavo a compiere i primi passi nel mondo dell’arte, una fonte inesauribile di grande competenza da cui poter attingere. Persona di grande valore, è sempre stata al fianco del marito, con una presenza costante ma discreta. Come è vero che dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna!

Oggi è soprattutto una delle loro tre figlie, Laura, ad occuparsi dello spazio, e con il guizzo tipico di chi appartiene da sempre a questo meraviglioso universo, ha dato vita, nel 1996, ad ArteCinema, un suggestivo festival internazionale di film sull’arte contemporanea, che ha avuto un riscontro fortunatissimo anche tra i giovanissimi, avvicinandoli a queste magiche atmosfere. Da dietro le quinte, la madre, con la sua straordinaria abilità, continua ad aiutare e a dare indicazioni di rara maestria.

Nel corso del tempo la galleria, proseguendo nel suo lungimirante percorso di ricerca e innovazione, è divenuta tappa obbligata anche per gli studenti universitari, che hanno la possibilità di frequentare quegli stessi personaggi che si troveranno poi a studiare nei manuali di storia dell’arte.

Non per niente si tratta di una delle gallerie più longeve d’Italia, che, con competenza e passione, è in grado di collaborare attivamente anche con Istituzioni politiche e non, teatri importanti, come il San Carlo, e musei prestigiosi, come quello di Capodimonte, con il quale, prima della pandemia, è stato realizzato, con enorme successo, il progetto Incontri sensibili, con esibizioni importanti di artisti quali Louise Bourgeois e Jan Fabre.

Il 22 febbraio del 2020 Lucia è stata la prima di tre donne a ricevere, dalla Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, il Matronato alla carriera con laudatio pronunciata da Andrea Viliani.

Con la sua innata sensibilità per la Bellezza e il suo spiccato senso estetico lo Studio Trisorio ha ritenuto la fotografia una forma d’arte da esaltare, tanto che nella cerchia di amici di famiglia si annoverano tanti fotografi che hanno puntualmente esposto nei loro spazi, con mostre fotografiche divenute, ormai, appuntamenti imprescindibili nella programmazione degli eventi della galleria.

Nel 1980 organizzarono una mia mostra di fotografie a colori con la presentazione di Marina Miraglia, importante critica e storica d’arte. In quell’occasione i Trisorio riuscirono a vendere tutti i miei lavori e ricordo che, dopo l’inaugurazione, Lucia ci invitò a casa sua per terminare la serata con deliziose pietanze preparate con le sue mani per l’occasione. Era molto gratificante sentirsi coccolati dai propri galleristi.

Un giorno andai allo Studio con Osvaldo, uno dei miei due assistenti, ed una grande luce fissa da 2000 watt, per ritrarre Lucia. Lei, sempre schiva, era un po’ intimidita dall’idea di essere al centro dell’attenzione e certamente non si sentiva a suo agio. Pensai di realizzare un ritratto evidenziando proprio la sua riservatezza e il suo desiderio di anteporre sempre e comunque l’artista a tutto e a tutti.

Allora proiettai la luce sul mio assistente che, con una cartella sotto il braccio, avrebbe dovuto rappresentare uno dei tanti artisti che si avvicendavano nella galleria, creando un’ombra gigante rispetto alla figura di Lucia, che, in un angolo, quasi nel nascondimento, ma comunque presente e vigile, lo guidava e promuoveva, ricalcando così, il suo pensiero che mi ricordava il famoso motto “ubi maior minor cessat”.

A scatto avvenuto, mi accorsi che l’immagine rispecchiava in pieno la mia idea e fui soddisfatto del risultato.

Oggi incontro di rado Lucia, ma ogni volta che succede, provo una grandissima gioia e una profonda gratitudine.

 

Lucia Trisorio – foto di Augusto De Luca




Augusto De Luca fotografa Sergio Bruni

Io e la giornalista Giuliana Gargiulo quel giorno ci recammo all’Hotel Vesuvio in via Partenope a Napoli, dove puntualmente ogni mattina Sergio Bruni incontrava giornalisti e gestiva il suo lavoro tra un caffè e una sigaretta. 

Ci stava aspettando, era vestito di nero ed era molto serio in viso.

Di tanto in tanto, guardava fuori al finestrone, dove c’erano una splendida veduta di Castel dell’Ovo e del Vesuvio. Ogni volta che alzava lo sguardo e contemplava il panorama, si capiva che amava la sua città.

Disse che guardare il Golfo nutre i napoletani e li rende felici.
Poi ci parlò dell’inizio della sua carriera, della frequentazione nella Galleria Umberto I e di tutti i suoi successi, ma si infervorò particolarmente descrivendo la sua stretta amicizia con Eduardo.

Raccontò che un giorno il grande drammaturgo gli telefonò e gli disse:

“Sergitié, ‘a gente ‘o ssaje che dice?
Ca tu si ‘a voce e Napule e che Napule song’io.
Cheste che vene ‘a dicere?
Ca tu sì a voce mia”.

Io, pur emozionandomi molto mentre Bruni narrava la sua vita, continuavo a scattare con la mia fotocamera.

Feci molte foto; erano immagini che lo riprendevano mentre gesticolava parlando, io, invece, volevo fargli un ritratto ed avevo già in mente come realizzarlo: desideravo fotografarlo mentre cantava.

Gli chiesi di alzarsi e di attaccare con un suo brano, guardando fisso nell’obiettivo della mia Hasselblad.

Non si fece pregare, mi accontentò subito e, come se stesse sul palcoscenico di un teatro, con estrema disinvoltura, cominciò ad intonare quello che era stato da sempre il suo cavallo di battaglia, ‘Carmela’, interpretandolo con grande maestria.

Sergio Bruni cantava per me, chi l’avrebbe mai detto!

Scattai per tutta la durata della canzone che il talentuoso Artista eseguì a cappella per intero.

Poi, sempre molto serio in volto, ci salutò e si mise a sedere al suo solito posto. Dopo aver acceso l’ennesima sigaretta, cominciò ad ammirare nuovamente, con occhi sognanti, quella straordinaria veduta di Napoli che aveva di fronte.

Di quell’incontro mi rimane soprattutto il ricordo di un uomo che amava follemente la sua città.

 

Sergio Bruni – foto di Augusto De Luca
Sergio Bruni – foto di Augusto De Luca
Sergio Bruni – foto di Augusto De Luca




Rapito non mi ha “rapito”

Il film “Rapito” di Marco Bellocchio ha suscitato molte polemiche, ancora in corso. Ha anche generato una valanga di articoli elogiativi, spesso scopertamente strumentali alla pressione esercitata dai giornali italiani perché “l’Italia” ottenesse un premio al Festival di Cannes, quasi che un film sia espressione dell’Italia intera. Questo genere di manifestazioni non possono che destare sorpresa e diffidenza in chi sia dotato di senso critico e il primo che se ne dovrebbe rammaricare è proprio Bellocchio, autore di “Sbatti il mostro in prima pagina”, un’opera in cui veniva denunciata senza mezzi termini la manipolazione delle verità, scorretta e violenta, da parte dei mezzi di comunicazione di massa.  A dire il vero una simile gazzarra è un triste dejà vu: anche se non viene ricordato quasi da nessuno lo scandalo di oggi è una replica (un “remake”?) dello stesso scandalo sugli stessi, identici argomenti avvenuto tra 1997 e 2000.  Allora, in occasione della conclusione del processo di beatificazione di Pio IX (per la cronaca, avviato da tempo immemorabile), Giovanni Paolo II fu attaccato da una parte della stampa internazionale e da molti commentatori, più o meno qualificati a prendere la parola, perché promuoveva al rango di beato un uomo che si era macchiato del “crimine” rappresentato dal “caso Mortara”. Le reazioni critiche partivano da un libro di David Kretzer, The Kidnapping of Edgardo Mortara, New York Knopf, 1997. Le polemiche sono continuate nel tempo ed hanno generato altri libri, come l’edizione di una sorta di “memoriale” scritto da Mortara stesso in spagnolo, pubblicato da Vittorio Messori nel 2005 (Io, il bambino ebreo rapito da Pio IX, Milano, Mondadori, 2005), per dimostrare che la vittima del “rapimento”, divenuto poi sacerdote, non si considerava affatto “rapito” ed  era felice della sua conversione. 

A me pare che tutto questo clamore non favorisca la riflessione ed anzi sia piuttosto mistificante. Non entrerò dunque in questa ridda infernale e mi concentrerò  sull’unica cosa che i critici (ma anche gli spettatori), avrebbero dovuto fare fin dal principio: valutare il film dal punto di vista estetico.  Solo dopo aver esposto quello che penso mi permetterò di dire qualcosa  dal punto di vista storico, perché è funzionale a una migliore comprensione del film stesso.

“Rapito” è una  delusione. Mi dispiace molto doverlo dire perché sono un grande ammiratore di Bellocchio e ho scritto più di un articolo su di lui, elogiandolo apertamente e addirittura difendendolo da forzature e critiche sbagliate. In questo caso però devo arrendermi all’evidenza. Il film sembra una docu-fiction televisiva, girata senza convinzione, piatta, meccanica, prevedibile dalla prima all’ultima scena, tradizionale nelle inquadrature e nel montaggio, senza nessuna ellissi narrativa e senza un guizzo di regia sperimentale. Il che è tutto dire per un regista che ha girato opere veramente fantasiose e spiazzanti come Sorelle mai, che fa pensare alla furia di  Benvenuto Cellini  che per realizzare il Perseo fonde le posate e i piatti di casa preso da un empito selvaggio e sovrumano. Qui invece tutto è calma piatta. E meno male, perché quando qualche sussulto autoriale fa capolino è proprio proprio un disastro, come quando le caricature del papa diventano cartoni animati e pare la “Sirenetta” o quando Cristo  scende dalla croce, come nell’Anno che verrà di Lucio Dalla. Non parliamo poi di scene arraffazzonate  come quella dei funerali di Pio IX o quella dell’incubo horror del papa; o delle lacrime a fiumi di tutti, ogni scena che Dio comanda, comprese quelle che stillano come rugiada dagli occhi del cattivone Pio IX, buone solo per ammiratori attardati di De Amicis. Quanto alla colonna sonora, inqualificabile, per cui non c’è un volo di mosca senza un fortissimo dell’orchestra a palla, Dio mio, è un incubo da cui fatico ancora adesso a liberarmi.  Sorvolo sulla fotografia  tardo-Caravaggesca tutta luci e ombre, che va tanto di moda negli ultimi decenni e inganna lo spettatore facendogli credere che i “secoli bui” non fossero il Medioevo, ma tutto il passato avvolto dalle tenebre fino a che le “Magnifiche sorti e progressive” del Mondo Moderno  non  scoprirono finalmente la Luce, accomunando Illuminismo ed energia elettrica. Ma insomma, direte voi, non c’è proprio nulla di buono in questo film? Qualcosa di buono c’è e giustifica l’illusione ottica di tanti  spericolati critici: la parte “buona” è rappresentata dagli attori e, naturalmente, dalla grande professionalità  di Bellocchio nel dirigerli.  Fausto Ruso Alesi, nei panni di Salomone Mortara, è stupendo; altrettanto brava  è  Barbara Ronchi,  nei panni della madre del piccolo ebreo; e veramente bravi sono Enea Sala,  il bambino  che recita nel ruolo difficilissimo di Edgardo Mortara e Paolo Pierobon  nel ruolo altrettanto difficile di Pio IX. Convincentissimi, ovviamente, i mostri sacri  Fabrizio Gifuni e Filippo Timi, ma anche Antonio  Piovanelli,  un attore straordinario che mi ha fatto tanto piacere rivedere sullo schermo. Tutti gli altri sono sicuramente appropriati, misurati ed efficaci. Il che vuol dire che il casting è stato di primo ordine e di prim’ordine è stata la direzione di Bellocchio, che tiene in pugno tutta la sua piccola tribù senza sbagliare mai. Bene, direte voi.  Bella e accurata anche la scenografia di  Andrea Castorina. Allora vale la pena vedere il film? Certo che vale la pena. Come vale la pena vedere in tv tante  docufiction fatte bene. Ma nessuno ha mai pensato di presentare a Cannes questo tipo di opere e neppure di dire che  se non vincono premi, allora vuol dire che gli stranieri snobbano “l’Italia”  e non sanno che l’Italia s’è desta!

E a proposito dell’Italia s’è desta. Sul piano propriamente storico il film è un’altra delusione.  Per carità, non intendo fare il professorino,  impedire agli artisti di prendersi tutte le libertà e le licenze  che vogliono o scoprire “errori” da segnare con la matita rossa e blu. Dico solo che il film  si basa su una  storia vera e il suo significato scaturisce proprio da questo. Se si fosse trattato della vicenda di due sconosciuti, persi nel gran mare della storia, nessuno avrebbe avuto niente da dire. Ma se invece si parla di personaggi storici, allora  si  invita  lo spettatore a ricordarsi della storia, non a dimenticarla.  E invece la storia vera, la Storia dell’Ottocento  è solo un fondale di teatro. Faccio un esempio. Nel film si vede Pio IX alla vigila della Breccia di Porta Pia che si consulta coi suoi sottoposti, tra i quali un alto ufficiale che propone di combattere. Il papa sconsolato dice, rivolgendosi al cardinal Antonelli (l’ottimo Filippo Timi): “I francesi ci hanno abbandonato…”. Questa battuta è delirante: non è una licenza poetica, o un volo pindarico. E’ delirante e basta. Perché? Ma perché la Breccia di Porta Pia, come ricorda la didascalia del film stesso, avvenne il 20 settembre 1870, quando la Francia che avrebbe potuto proteggere il papa ormai non esisteva più. I francesi avevano  perso la battaglia di Sedan e Napoleone III aveva firmato la resa il 2 settembre 1870; il 3 settembre Parigi era insorta e il 4 settembre la Francia era divenuta una repubblica. A Parigi  sarebbe stata proclamata la Comune con tutte le conseguenze del caso. Pio IX non lo sapeva che cosa era successo? 

Voglio dire allora che il film presenta inaccuratezze? Ma non me ne può importare di meno! Il punto non è la possibile svista, che capita a tutti, a me per primo. Il punto è che nel film la storia ci sta per modo di dire. Si pensi alla figura di Pio IX. Per tutto il film è presentato come un uomo solo e indipendente, oltre che prepotente e umorale. Eppure quest’immagine è estremamente superficiale. In un libro recente uno storico estremamente autorevole come Roberto Rusconi ha giustamente definito Pio IX: «prigioniero del Vaticano»(1). Di tutto questo nel film non c’è traccia. Il contesto curiale e politico, l’insieme dei personaggi che circondavano il papa e lo condizionavano pesantemente non è minimamente ricordato. L’unico che compare è  il cardinal Antonelli (che per la cronaca non era un sacerdote, ma un laico, anche se aveva il titolo di cardinale): ma a vederlo nel film sembra un piccolo prete completamente soggetto al papa, mentre semmai era il contrario o almeno il contrario per molti aspetti che nessuno ricorda. Certo se l’unica cosa che importa è sottolineare lo “scandalo” del Papa-Re e l’arbitrarietà del suo potere di tiranno è superfluo ricordare che non era un uomo solo e che era addirittura un ostaggio nelle mani di altri. Ed anche che non è stato sempre lo stesso uomo nel corso del tempo e che è cambiato radicalmente con gli anni, cambiando parere su tutto, in particolare proprio sugli ebrei, a causa  di una serie di choc e dell’azione nefasta di certi personaggi. Tra questi ce n’era uno che nel film non viene minimamente ricordato e che invece avrebbe meritato più attenzione. Mi riferisco al Padre Antonio Bresciani, un autore che deve la sua triste fama a Francesco de Sanctis e soprattutto ad Antonio Gramsci. Perché questo gesuita,  ancora vivo tra 1858 e 1862,  gli anni in cui si svolge la prima parte del  film, avrebbe dovuto figurare in qualche modo nella pellicola? Non solo perché era un leader del partito conservatore, ma soprattutto perché aveva scritto un testo che ebbe un successo immenso L’ebreo di Verona, pubblicato a puntate nel 1850-51, ma ripubblicato in forma di libro nel 1861. Questo esempio straordinario  di feuilletton cattolico-conservatore  narrava la storia di un giovane ebreo che partecipa alle congiure dei cospiratori mazziniani, l’ultima manifestazione della diabolica setta dei seguaci della Rivoluzione Francese che adorano il diavolo con messe nere e sacrifici notturni. Il ragazzo, in piena buona fede, crede di lottare per un mondo migliore e vuole, naturalmente, che sia abbattuto il potere del papa, partecipando alle vicende che portano alla proclamazione della Repubblica Romana  dopo la fuga a Gaeta di Pio IX. Alla fine tuttavia, dopo un’odissea che lo porta in giro per l’Europa, si accorge della violenza disumana dei cospiratori e si converte al cristianesimo, abbandonando la sua  vita dissoluta. Per punizione i suoi ex compagni lo fanno uccidere da due sicari, un gesto tipico della loro crudeltà demoniaca.  

Il romanzo, rivisto in alcune parti personalmente da Pio IX, ebbe una popolarità incredibile ed ispirò pensieri e scritti di cattolici conservatori in tutta Europa. In esso si potevano leggere pagine rivoltanti sugli ebrei: «gente sozza, ignorante, taccagna, vigliacca che…purché  la risurrezione d’Europa  ricrocifigga e riseppellisca il Nazzareno,  ci darebbono insino alla pelle»(2);  ma anche e soprattutto pagine commoventi sulla redenzione dell’ebreo, che si convertiva e finalmente era un essere umano, anche a costo di perdere la vita.

Questo eroe della carta stampata  divenne un modello da seguire. E abbagliò tutti coloro che si riunivano intorno a Pio IX, dopo la caduta della Repubblica Romana (nella quale parecchi ebrei si erano distinti combattendo con onore (3)), in  anni  in cui si moltiplicarono in Italia saggi ed articoli nei quali si discuteva appassionatamente il problema dell’emancipazione degli ebrei. Il mito dell’ebreo buono che si converte e abbandona le idee mazziniane e la vita precedente era necessario per riconciliarsi con un  passato chiuso bruscamente e voltare pagina rispetto a pericolose tentazioni. Pio IX non era stato sempre il reazionario che divenne dopo il 1849. Nel breve periodo che passò tra la sua elezione il 16 giugno 1846 e la sua fuga a Gaeta il 24 novembre 1848 era stato per tutti esattamente l’opposto.  Dopo mesi di trionfi popolari e di decisioni inaudite come la concessione di  uno Statuto costituzionale  Pio IX abolì le mura del ghetto di Roma il 17 aprile 1848. 

Non fu una cosa facile. Tutti, a cominciare dagli ebrei, rimasero sconcertati e l’iniziativa  fu possibile solo grazie all’intervento deciso di personaggi come Ciceruacchio, il leader del popolo e degli innovatori, chiamato il  “re di Roma”. Ciceruacchio andò di persona al ghetto e cominciò a spicconare i muri per abbattere cancelli e sbarre, seguito dal popolo festante che sommerse, letteralmente, una folla ostile che avrebbe voluto invece attaccare gli ebrei. Ma la partita non era ancora chiusa. A pochi  mesi di distanza, il 24 ottobre, fu organizzata una sommossa contro gli ebrei che sarebbe sicuramente sfociata in un pogrom. Aizzati dal partito dei conservatori e corrotti da massicci  finanziamenti dell’Austria e della Francia, un gruppo di provocatori e di assassini si riunì intorno al ghetto, approfittando di un incidente (preordinato da chi?) nel quale un ebreo, Angelo Moscati, aveva ferito un cristiano, Sante Poccetti e una guardia civica. Cominciarono i primi tumulti e solo l’intervento  della Guardia Civica e dei Carabinieri fermò per un momento gli assalitori. Ma il giorno dopo tutto stava per precipitare. Sul giornale clericale “Cassandrino” apparve un articolo spaventoso che diceva che gli ebrei: «sgrassano i poveri cristiani come agnelli…Non si lamentino dunque se hanno di tanto in tanto questa sorta di nespole (= queste botte)…Non sieno i nemici degli uomini o gli uomini non li tratteranno sempre da cani barboni e mastini e daranno loro di cotali serviziali da fargli andare netta, netta l’anima…La fune e il sapone costano poco. Domani il resto.(4)».  Ma il papa non si fece intimidire. Il motivo era semplice aveva appena eletto come primo ministro un  uomo con un carattere di ferro: Pellegrino Rossi, che secondo Cavour era «una delle più belle figure del Risorgimento». Anche se moderato e fedele al Papa, Rossi era fermamente deciso a stroncare la mafia dei conservatori e dei reazionari.  Scrisse un  articolo nobilissimo sulla Gazzetta di Roma esortando i romani ad essere degni del loro nome e a considerare gli ebrei cittadini con uguali diritti a quelli degli altri, Poi prese di petto i facinorosi che volevano fare a pezzi gli ebrei: mandò valanghe di carabinieri a lui fedeli e di legionari della guardia civica di provata  fiducia e fece arrestare  tutti quelli che bisognava arrestare anche quando minacciavano ritorsioni ed erano garantiti dall’omertà prezzolata di clericali, austriaci, bavaresi e francesi.  I più prestigiosi giornali romani, come “L’Epoca”, la “Pallade”, “Il contemporaneo” esultarono e scrissero molti articoli a favore degli ebrei.  Il direttore del “Cassandrino” fu condannato a un  mese di prigione. Con  la stessa energia furono repressi altri tumulti della stessa matrice ad Ancona, a Ravenna e nel carcere di  Civitavecchia.   I reazionari e i servizi segreti austriaci, bavaresi e francesi reagirono come belve ferite. Si scatenarono, aprendo solchi nelle file degli innovatori e riuscendo ad assicurarsi i servizi di uomini che pure avevano appoggiato Rossi.  Dissero che il primo ministro era un dittatore, che avrebbe sconfitto i nemici del progresso e spinsero  contro di lui i rivoluzionari. Sparsero anche la voce che Rossi voleva la pace con l’Austria ed era ostile ai Savoia, il che era parzialmente vero, anche se non nei termini in cui veniva falsamente detto. Alla fine Rossi fu ucciso, dieci giorni dopo il suo articolo a favore della sicurezza degli ebrei, il 15 novembre 1848. La colpa fu data  ai rivoluzionari, che possono anche avere materialmente compiuto il delitto, ma non furono certo soli, né si mossero da soli, in uno stato in cui la polizia conosceva tutti uno per uno e  sorvegliava ogni giorno tutti con una miriade di spie e di informatori.  La cosa non sfuggì agli osservatori più intelligenti come ad esempio il diplomatico francese Ernest Burdel che  scrisse: «il clero conosce molto meglio dei repubblicani gli autori [dell’assassinio],… si è troppo dimenticato che il signor Rossi, di cui il partito reazionario temeva il talento, aveva colpito i beni ecclesiastici di un’ipoteca di 4.000.000 di scudi e perseguiva con perseveranza lo stabilimento, odioso a quel partito, di un governo costituzionale.(5)».

Pio IX ebbe uno choc tremendo in seguito alla morte di un uomo che gli era amico e passava il tempo con lui, giocando a biliardo e chiacchierando di politica. Coloro che avevano preparato l’attentato, gli stessi che avevano ordito la congiura contro di lui e che avrebbero voluto fare a pezzi gli ebrei, gente della risma di Bresciani, del cardinal  Antonelli, dell’ambasciatore bavarese e dell’ambasciatore della neonata repubblica francese, smaniosa di rubare il posto all’Austria sulla scena europea, accorsero immediatamente accanto al papa. Sfruttando lo choc del pontefice, mentre a Roma si scatenavano i tumulti e il popolo veniva respinto a fucilate dal palazzo papale, i reazionari lo convinsero a fuggire a Gaeta, a mettersi sotto la protezione del sanguinario Ferdinando di Borbone, a rinnegare tutto quello che aveva fatto. E Pio IX che non era certo il carattere adatto a reggere questa situazione, fu travolto e rimase alla fine intrappolato da sé stesso. Gli anni successivi furono gli anni della restaurazione e della riaffermazione non solo del potere del papa, ma anche del suo ruolo spirituale contro tutte le dottrine moderne che ne relativizzavano l’autorità e contro tutte le confessioni religiose considerate nemiche del cristianesimo, a cominciare da quella ebraica. Non è un caso, del resto,  se l’Ebreo di Verona fu ripubblicato nel 1861, quando il caso Mortara era scoppiato da tempo. Pio IX  aveva cambiato bruscamente opinione a proposito degli ebrei. Con l’enciclica Nostis et nobiscum del 1849  accettò drasticamente le opinioni dei più intransigenti, come Bresciani o Ferdinand Jabalot. Ha scritto a questo proposito De Cesaris: «Vi sarebbe stata una macchinazione contro la Chiesa cattolica, ordita da forze oscure, tra le quali  “l’ebreo” assunse presto un ruolo dominante…Gli ebrei furono allora rappresentati come pericolosi, perché responsabili dei processi di scristianizzazione dell’Europa.(6)».

Imboccata questa strada la Chiesa non tornò indietro. Nel 1864 Pio IX pubblicò il Sillabo, cioè  L’elenco  dei principali errori del nostro tempo, nel quale erano condannate le principali teorie rivoluzionarie e liberali moderne, in particolare: quelle che volevano la fine del dominio temporale dei papi (proposizione XXVI); l’ipotesi che l’uomo possa scegliersi la «religione che, col lume della ragione, reputi vera» (proposizione XV);  l’opinione che tutte le  confessioni religiose  siano uguali di fronte allo Stato (proposizione LXXVII).

Il caso Mortara va inquadrato in questo clima e in questo atteggiamento spirituale e politico: non si tratta solo della discutibile affermazione del valore del battesimo in base al diritto canonico e della protezione da accordare a un’anima ormai cristiana. Si tratta di qualcosa di più profondo e vasto: la  difesa ad oltranza di un cristianesimo conservatore, che considera anticristiano e immorale vivere al di fuori della Chiesa di allora, in senso spirituale e materiale. Contro la crociata internazionale  da parte di ebrei, massoni, rivoluzionari, socialisti, comunisti e atei la Chiesa deve proclamare la sua incrollabilità granitica. All’interno di questa mentalità,  chi avesse voluto sottrarre alla Chiesa un bambino che era stato salvato dalla dannazione attraverso il battesimo  era un nemico della Chiesa stessa. 

Se tutto questo è vero non ci si può limitare a presentare  il caso Mortara limitandosi al solo caso Mortara, alla sua drammaticità paradossale, alla vicenda tristissima dei coniugi Mortara, all’enigma del rifiuto della vittima di tornare indietro,  facendo riferimento alla storia in modo occasionale e distratto. La vicenda va collocata nel suo tempo, distinguendo nettamente le posizioni dei conservatori  da quelle di altri cattolici, a cominciare da quella dei sacerdoti che appoggiarono Garibaldi a rischio della vita come Don Giovanni Verità o  don Stefano Ramorino, fucilato insieme a Ciceruacchio dagli austriaci, lo stesso destino di Don Pietro Pappagallo fucilato dai nazisti  nel 1944 e reso immortale da Roma città aperta. Per finire con quella dei teorici di una visione meno integralista ed ottusa dei valori evangelici, di cui è ricchissima la letteratura teologica dell’Ottocento e di cui sarà ancor più ricco il Novecento. Sono queste correnti che hanno portato a un grande cambiamento dottrinale nel Concilio Vaticano II, proponendo nuove linee di pensiero, molto più importanti  di certe  plateali, demagogiche e incongrue richieste di “perdono” da parte di chi non ha commesso alcun crimine e non può addossarsi crimini non suoi. Crimini che in ogni caso  non appartengono all’essenza del cristianesimo e neppure alla Chiesa di oggi, ma solo a quella che il padre Marie-Domique Chenu chiamava “la chiesa costantiniana”, con tutte le sue follie, dalle crociate ai roghi dell’Inquisizione.

In conclusione: la docufiction di Bellocchio non ci sembra riuscita, né come fiction, né come documentario.  In ogni caso, però, è un film d’autore, che ritorna su temi e problemi che egli ha affrontato più volte nel corso della sua carriera. In questo senso, come “errore d’autore” è pur sempre un’opera che vale la pena conoscere, liberandoci dell’acrimonia  e delle polemiche.

  1. La santità del papa da san Pietro a Giovanni Paolo II, Roma 2010.
  2. Bresciani, L’ebreo di Verona, Napoli 1861, p. 59.
  3. Piattelli, Gli ebrei e la Repubblica Romana del 1849, in La rassegna mensile di Israele, 53(1987), pp. 229-233.
  4. Il ghetto ha dolor di corpo, in Il Cassandrino, I,  n. 49, 24 ottobre 1848, citato in R. Giovagnoli, Pellegrino Rossi e la rivoluzione romana, I, Roma 1898, p. 383.
  5. Burdel, Les prisons de Rome en 1851, in La presse, 3 settembre 1851 (citato in  S. Tomassini, Storia avventurosa della rivoluzione romana, Milano 2011, p. 468.
  6. De Cesaris, I cattolici, gli ebrei e “l’Ebreo”. Note su filogiudaismo e antigiudaismo in Italia, in  Ebrei, minoranze e Risorgimento. Storia, cultura, letteratura, a cura di M. Beer- A. Foa, Roma 2013 pp. 163-176, in particolare p. 171

 

 

assassinio di Rossi
Risposta a Cassandrino Viva gli Ebrei





CIAO PROF. Un ricordo a caldo di Paolo Portoghesi

Ho appena appreso della morte dell’Architetto Paolo Portoghesi e immediatamente il mio pensiero è andato agli anni dal 1981 al 1985, quando in qualità di collaboratore della MEFIT Consulting Engineers mi trovai a collaborare con l’Ing. Vittorio Gigliotti, Fondatore della MEFIT, e con l’Arch. Paolo Portoghesi, Progettista e responsabile del Settore Architettura.
Naturalmente, anche se da semplice collaboratore/disegnatore, ero spesso a contatto con l’arch. Portoghesi, anche per l’importanza dei due progetti in quel momento in corso: il nuovo aeroporto di Kartoum in Sudan e la Moschea e Centro Islamico di Roma.
Devo ammettere che per me, essendo alle prime armi in tutti i sensi, oltre al piacere di poter lavorare ed imparare “il mestiere” c’era anche l’orgoglio di dare il mio piccolo contributo in due progetti assolutamente importanti, ma soprattutto, progetti già in via di costruzione come poi è avvenuto.
Ma il ricordo più simpatico avuto con lui è stato quando andai a casa sua per portargli il libro che avevo scritto e sapere cosa ne pensava. Lui con molta naturalezza però mi portò nel retro della sua casa dove c’era uno spazio ampio all’aperto dove allevava Asini.Quella, mi fece capire, era la sua passione nascosta, di cui effettivamente, almeno io, non ero a conoscenza.
A quel punto mi disse di lasciargli il libro sul tavolo perché lo avrebbe guardato con calma.
Cosa che feci dopo averlo salutato e ringraziato cordialmente.
Non ho mai saputo se aveva mai dato uno sguardo al mio libro e non ho mai avuto il coraggio di chiederlo.
Ho preferito restare tra “color che son sospesi”.

Paolo Portoghesi – Aula Università di Architettura a Valle Giulia, Roma
La Moschea, interno – Roma




Augusto De Luca fotografa Luciano De Crescenzo

Incontrai Luciano De Crescenzo in un albergo napoletano dove lui solitamente preferiva alloggiare quando veniva in città. Era una persona straordinariamente simpatica, allegra e soprattutto colta.
Ogni parola, ogni frase diventavano motivo e spunto per raccontare aneddoti e storie incredibili.

Rimasi affascinato nel sentirlo parlare per un’oretta. A lui piaceva moltissimo conversare, incurante del tempo che trascorreva. Era un uomo che non aveva fretta.

Io, chiaramente, non riuscii a dire molto; erano talmente accattivanti i suoi discorsi che avevo solo voglia di ascoltarlo.

Il tutto era condito sempre e comunque da uno spiccato senso di ironia e comicità.

In particolare, in quell’incontro ricordo che mi parlò di una storia che lui aveva condiviso con Bud Spencer, pseudonimo di Carlo Pedersoli, proprio qualche mese prima a Napoli nella zona del Pallonetto, vicino al rione Santa Lucia, dove Bud era nato e dove spesso i due tornavano insieme a passeggiare.

Luciano mi raccontò che mentre camminavano, si avvicinò a Carlo uno scugnizzo, un ragazzino di circa sette, otto anni che continuava a ripetergli:

“Come sei grande, come sei forte, come sei grande, come sei forte…
io non ho un papà e mi piacerebbe che fossi tu il mio papà”.

Allora Carlo, imbarazzato, emozionato, commosso e, con gli occhi lucidi, gli rispose:

“Se vuoi puoi chiamarmi papà”.

Il ragazzino, prontamente, replicò:

“Papà, me le dai diecimila lire?”

All’epoca, infatti, c’erano ancora le lire.

Questa storia, raccontata da De Crescenzo, fu assolutamente esilarante ed io risi di cuore, a crepapelle, per un buon quarto d’ora.

Finalmente ci mettemmo a lavoro e realizzai una polaroid che manipolai e pubblicai poi nel libro ’31 Napoletani di fine secolo’ e molti altri scatti tra cui la foto che presento in questa pagina.

Rividi Luciano qualche tempo dopo e, con mia grande sorpresa, mi donò un suo disegno a penna da inserire nel mio libro ‘Napoli Grande Signora’.

Ne fui sinceramente onorato e gli promisi una mia fotografia di Napoli che a lui piaceva molto.

Grazie Luciano per le tue battute, per i tuoi film e i tuoi libri; i napoletani ti amano e ti ricordano con grande affetto insieme agli altri personaggi che hanno dato lustro alla città.

Luciano De Crescenzo – foto di Augusto De Luca
disegno di Luciano De Crescenzo




ANTICONFORMISMO DELL’IMMAGINE UMANA. Una rara testimonianza di ARTE RUPESTRE nella “Grotta dell’Arco” a Bellegra (ROMA)

A circa un’ora di macchina da Roma, a circa 65km, si trova la Grotta dell’Arco e precisamente a Bellegra, un Comune della Città Metropolitana della Capitale.

Una delle perle del Lazio che in pochissimi conoscono e che è possibile visitare sciegliendo tre diversi livelli a seconda delle esigenze: Turistico, Speleo Turistico e Speleo Avanzato. Noi abbiamo scelto quello turistico perché attratti dalla notizia della presenza rara di pitture rupestri raffiguranti figure umane.

La Grotta dell’Arco è una splendida cavità naturale carsica dei Monti Ernici abitata sin dall’età del ferro; diventa tempio votivo in età arcaica grazie alla presenza di un pozzo ed infine trova la sua ultima destinazione come mola per la macina del grano, che viene dismessa non appena arriva la corrente elettrica nel Comune, intorno al 1955. 

UN PO’ DI STORIA DELLA GROTTA

La grotta è stata esplorata dagli speleologi per la prima volta nel 1925 e poi nel 1996 quando, grazie ad un attento e non poco faticoso lavoro di disostruzione, sono riusciti ad arrivare fino al fondo. Fino al 1911, il fondo valle dell’area ospitava un laghetto, il Pantano di Roiate, oramai prosciugato, che si rivela essere la parte superiore di un grande bacino sotterraneo che ha formato la Grotta dell’Arco, divenuto quindi condotto di sopravanzo del lago. Morfologicamente è una grande galleria percorsa da un torrente per oltre 1 km.

Uno degli aspetti più rilevanti di questo sito è che viene utilizzato dai Primitivi come rifugio e riparo, ma questo fatto viene colto tardi, solo quando gli speleologi, negli anni ’90, mettono in opera una passerella metallica nella zona di ingresso sia per districarsi nell’abbondante deposito di fango molle sia per studiare la morfologia  della cavità.

LE PITTURE RUPESTRI

In totale sono presenti quattro pitture in colore rosso e cinque in colore nero, queste ultime scarsamente visibili, tanto che noi non siamo riusciti a vederle.

Rilievo delle pitture in colore rosso 406-1.4 ed in colore nero 406-5.9

Le pitture costituiscono un insieme di raffigurazioni databili iconograficamente all’Età del Rame, e dagli studi si evince che queste pitture sembrerebbero state eseguite in antico sulla superficie rocciosa originaria e successivamente ricoperte da un deposito bianco molle, detto Latte di Luna che ha idratato il pigmento e lo fa sembrare fresco.

Tutte le figure, tranne una, sono antropomorfe e con connotati chiaramente maschili.
Le figure con entità sessuale hanno un corpo che è un grande segmento verticale in visione frontale con braccia, gambe e testa, qust’ultima resa con un motivo sub-quadrangolare.
Le figure antropomorfe asessuate hanno una testa resa con un motivo triangolare.

Figure umane stilizzate, Età del rame ca 4°millennio a.C., pittura rupestre. Grotta dell’Arco – Bellegra (Roma) ph. ©Raffaella Matocci

L’ANTICONFORMISMO DELL’IMMAGINE UMANA.

Alle rappresentazioni dell’arte rupestre di animali, che costituiscono le basi più comuni dell’iconografia paleolitica, gli artisti contrapposero la propria immagine, o quella dei loro simili, in maniera anticonformista e decisamente segmentale. Che fosse realista o schematica, mentre la figura dell’animale acquisisce, durante il Paleolitico, una forma pienamente espressiva, le figure umane sono sempre separate da esse e si inseriscono, entrambe, in un repertorio figurativo che contribuisce ad arricchirlo e a renderlo atipico.

Le figure umane occupano un posto numericamente secondario in rapporto a quelle degli animali poiché si conoscono solo circa 800 entità sessuali umane*, ma se si guarda attentamente, esse non sono così trascurabili come spesso si pensa, soprattutto quando si parla di arte parietale, perché frequentemente associate agli stessi animali e a differenti segni, in complesse composizioni che raggruppano più soggetti.

Testimonianze di figure antropomorfe si trovano maggiormente nelle grotte di Périgord in Francia, risalenti al periodo magdaleniano (Paleolitico superiore – 18-17.000 – 11-10.000 anni fa – periodo di massima espressione della pittura rupestre), e in misura minore nei Pirenei e nel Nord-Ovest della Spagna. Esse sono soprattutto più frequenti nelle plaquette tanto che un recente censimento delle figure umane sessuali ne riporta più di mezzo migliaio di rappresentazioni fatte contro circa 250 di quelle sulle pareti.

Le immagini umane rappresentate sono soggettive e di solito poco chiare; salvo in rari casi, i Preistorici non si facevano ritratti né riproduzioni fedeli alla realtà; così come invece accadeva per alcuni animali, molto spesso erano delle caricature o segmenti della loro immagine (sesso, mani, teste, tronchi), talvolta ricomposti con animali per realizzarne esseri immaginari o fantastici. Questa è una delle caratteristiche peculiari della pittura: malgrado variazioni formali e stilistiche importanti, le figure umane sono dipinte quasi sempre al di fuori della sfera del realismo e, soprattutto, non si vede mai nell’Arte Parietale una scena narrativa legata alla sessualità; l’unica eccezione la troviamo nelle incisioni nella Grotta dell’Addaura, a Mondello, in Sicilia

Complesso della Grotta dell’Addaura – Mondello (PA) – Dettagli delle composizioni

UN LUOGO RARO

A differenza della quasi totalità dei siti con arte rupestre centro-italiani costituiti da ripari sottoroccia, la Grotta dell’Arco di Bellegra costituisce uno dei rari esempi di raffigurazioni rupestri eseguite all’interno di cavità carsiche, assieme alla grotta di Val de Varri a Pescorocchiano (Rieti), alla grotta dei Pozzi della Piana a Todi (Perugia) e, probabilmente, alla grotta Antica presso il Monte Soratte a Sant’Oreste (Roma). Anche l’acqua gioca un ruolo importante perché generalmente è assente nei siti centro-italiani in cui è presente l’arte rupestre.

Queste grotte sono state classificate come le più interessanti del Lazio e le uniche in provincia di Roma ed offrono dei percorsi suggestivi e spettacolari caratterizzati da stalattiti, stalagmiti, inghiottitoi, laghetti e ruscelli.

Il percorso turistico è facilmente visitabile grazie alla comoda passerella, è adatto a tutti, senza limitazioni ed è anche idoneo per persone con disabilità.

Buona visita!

Immagine tratta da https://grottadellarco.sotterraneidiroma.it/

*(fonte Qu’est-ce que l’art préhistorique?  – Patrick Paillet – imprimeur en mai 2021)

Nota: Le informazioni riguardo le pitture rupestri sono state prese dagli Atti del Convegno tenutosi a Roma nel 2009 – Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio a cura di Giuseppina Ghini il cui testo specifico è stato scritto da Tommaso Mattioli – Università di Perugia, Dipartimento Uomo e Territorio.

Indirizzo:
La “Grotta dell’Arco” si trova nel comune di Bellegra e dista da Roma circa un’ora ed è gestita da “Sotterranei di Roma” dal 2017.

È raggiungibile comodamente dall’autostrada Roma – Napoli (Uscita Valmontone) oppure dall’Autostrada Roma – Aquila (Uscita Castel Madama).

Sito web: https://grottadellarco.sotterraneidiroma.it/

Altri siti con iconografie antropomorfe di pitture rupestri simili in Italia:
– Grotta Cala dei Genovese, Levanzo (Isole Egadi)
– Riparo di San Bartolomeo, Roccamorice (Abruzzo)
– Riparo di Sant’Onofrio I, Pescara (Abruzzo)
– Riparo di Formiche Rosse, Perugia (Umbria)
– Riparo di Schioppo, Perugia (Umbria)
– Riparo di Grotti, Rieti (Lazio)




Augusto De Luca fotografa Salvatore Pica

Come tanti intellettuali e uomini di cultura napoletani, Salvatore Pica, classe 1939, esperto di arte e design, è sempre stato un assiduo frequentatore delle gallerie cittadine, soprattutto quella di Lucio Amelio, suo caro amico, ed è proprio lì che l’ho conosciuto non so più nemmeno quanto tempo fa. 

Salvatore era una persona eclettica, speciale, un creativo come pochi. Sempre ironico e dalla battuta pronta, un uomo certamente molto simpatico, che subito riusciva a conquistare chiunque con i suoi aforismi originali.

Un’energia instancabile la sua improntata alla Bellezza e alla promozione della Cultura a tutto tondo: mostre, dibattiti, convegni, tutto pur di stuzzicare la curiosità ed andare oltre…

Un percorso di vita straordinario. Un ragazzo come tanti, cresciuto negli affascinanti intricati dedali della Pignasecca, che è riuscito a realizzare il suo sogno più grande: vivere d’arte.

Per lui, infatti, essa ha rappresentato un rifugio dal volgare quotidiano, un’oasi rassicurante dopo un’adolescenza segnata dalla morte di entrambi i genitori. I suoi coetanei si sarebbero persi, lui no, lui ha fatto della sua passione un lavoro, fino all’approdo sicuro al design, il suo pane quotidiano, la sua scelta di vita.

“L’incontro con il design è stato per me l’incontro con l’idea della vita altra, con una sua progettualità”.

Una frase che ripeteva spesso.

Oltre a promuovere il design italiano, nel suo originalissimo spazio, il Centro Ellisse di piazza Vittoria a Napoli, inaugurato nel 1968, il cui allestimento scenico fu curato proprio da Lucio Amelio, che lo abbellì con opere pittoriche e scultoree di diversi artisti, erano numerosi gli eventi dove spesso si potevano incontrare personaggi straordinari, come il geniale architetto e designer Alessandro Mendini.

Con la sua lungimiranza ha sempre utilizzato l’arte e la cultura come veicolo sociale di aggregazione del mercato, attirando l’attenzione di studenti di architettura, architetti o arredatori interessati alle esposizioni di mobili firmati da personaggi di rilievo del settore a cui seguivano puntualmente raffinate pubblicazioni esplicative.

Scopritore di talenti, ha spesso anche promosso esposizioni di artisti emergenti; insomma, un uomo poliedrico dai mille interessi, amante dell’arte, continuamente in fermento per inventare nuove soluzioni ed eventi e promuovere la creatività in ogni suo aspetto.

Una mattina sono andato nella sua bellissima casa in via Mergellina per fotografarlo e mi ha accolto, come sempre, con sincero affetto. Elegantissimo, in perfetto stile dandy, ma io volevo catturarne l’anima. Gli ho chiesto quindi di mettere un cappello a falde larghe, che spesso indossava e che lo caratterizzava in maniera particolare. Salvatore, senza indugiare, è corso dentro a prenderlo.

Dopo qualche scatto di prova ho notato nel salone della casa una scultura in plexiglass trasparente con la forma di un’ellisse che, immediatamente, mi ha ricordato proprio il nome del suo celebre spazio a piazza Vittoria.

La luce laterale creava un’ombra netta, dividendo il suo viso in due parti, e insieme al grande cappello quell’inquadratura diventava anche una straordinaria citazione alla famosa fotografia di Irving Penn scattata a Picasso.

Subito capii che sarebbe stato il ritratto che al termine delle riprese avrei scelto. Poi scattai ancora per un po’ di tempo, facendogli dei primi piani molto stretti e alla fine scelsi anche una di queste successive foto.

Ancora una volta andai via soddisfatto, come quando sono certo di avere l’immagine giusta. È una sensazione molto appagante che sicuramente mi ricorda costantemente quanto sia gratificante fotografare, cosa che mi fa amare sempre di più questo lavoro.

 

Salvatore Pica – foto di Augusto De Luca
Salvatore Pica – foto di Augusto De Luca




Il Sol dell’Avvenire

La visione de Il Sol dell’Avvenire di Nanni Moretti mi ha confermato la correttezza intellettuale della mia linea di ottusa impermeabilità alle opinioni altrui. È un bel film intanto proprio come film. Che significa fotografia, scenografie, sceneggiatura, attori che recitano bene. Il che fa già una bella differenza con tutta la mondezza in circolazione. Ci sono alcune scene da antologia, incredibilmente mai citate, a proposito di ottusità non dichiarate, a differenza della mia, in nessuna delle furiose recensioni tutte incentrate sulla personalità di Moretti e non sul film, che parlano di cinema e costituiscono una delle critiche più sensate mai viste e sentite al mercato delle immagini che ci circonda. A parte quella sul mondo di Netflix, che scavalca a sinistra la satira di Boris sull’algoritmo e il pubblico, la riflessione sulla rappresentazione della violenza tramite il tentato sabotaggio del film che sta producendo la moglie cinematografica di Moretti, Margherita Buy, meriterebbe da sola di essere sviluppata in un altro film o in un corso d’arte drammatica con Tarantino, che pure amo, e tanti suoi emuli, Sollima compreso, sul banco degli imputati.
C’è poi la politica. Poca, secondo me. Il 1956 non è soltanto l’anno della rivolta d’Ungheria, che avviene sul finire dell’anno, ma quello del rapporto sui crimini di Stalin al XX congresso del Pcus con cui a febbraio i comunisti devono fare i conti. Quello è il momento in cui sarebbe stato possibile che la storia del movimento comunista, a noi interessa quello italiano, prendesse un altro corso. Così non è stato. Solo la finzione cinematografica può riscrivere la storia, esattamente come fa Tarantino in C’era una volta Hollywood, paradossalmente il riferimento è quello. Gli invasori, i sopraffattori, i prepotenti, gli imperialisti di sinistra o “socialimperialisti” (come, ricordava ieri su fb Chicco Galmozzi, i comunisti di sinistra e libertari definirono la politica dei carri armati di Mosca) hanno sempre torto. Non capirlo, non stare dalla parte degli oppressi, allora come oggi, segna una differenza esistenziale che va molto oltre la politica. Semmai il rimpianto, che traspare nel film, è per un’epoca di coinvolgimento civile fortissimo delle persone nella vita pubblica, ormai perduto per sempre. Il finale circense e il riferimento a Fellini è a mio avviso un auto presa in giro del regista, con tutti gli attori di tutti i suoi film che sfilano. Forse per l’addio di Moretti al cinema, forse per semplice gioco di una leggerezza ritrovata, voglia di stare insieme a quelli con cui stiamo bene. La sconfitta politica e umana, dentro o fuori al Pci, ci riguarda tutti. Tutti quelli che comunisti si sono definiti o si definiscono, chi è rimasto fedele nei secoli alla linea del partito come chi ha creduto, con varie declinazioni, da quelle elettorali a quelle lottarmatiste passando per quelle movimentiste, che un altro comunismo non autoritario fosse possibile, è stato sconfitto dalla storia. Ma ci ha provato, ha messo al centro soprattutto la propria convinzione che con l’impegno personale fosse possibile cambiare il mondo. Ed è stato giusto provarci. È questo che manca oggi, è questa l’elegia, il rimpianto che esprime Il Sol dell’avvenire, il rifugio dalla sconfitta politica nella mediocrità di vite borghesi in cui nemmeno ti accorgi delle esigenze e dell’insoddisfazione della compagna che ti sta accanto da decenni, rendendola oggetto delle tue nevrosi. Ci sono un paio di scene, mai citate da nessuno nemmeno queste, in cui viene riproposta l’omofobia del Pci. A testimonianza di un fortissimo limite umano oltre che politico, l’insopportabile bigottismo e perbenismo piccolo borghese che ha caratterizzato la visione della vita di quell’organizzazione. Insomma, c’è davvero tanta roba di cui discutere nel film di Moretti. Spostare il dibattito sulla persona Moretti, perché queste sono le recensioni prevalenti del film in giro, dimostra da quanta povertà siamo circondati, esattamente la tesi di Moretti. Ovvero che abbiamo perso molto, quasi tutto, della nostra capacità di partecipare della Storia nelle parti principali, relegandoci nel ruolo secondario, da caratterista, dell’amico pettegolo, criticone e insopportabile, che appena lo vedi da lontano cambi strada per non incontrarlo. 

 





Augusto De Luca fotografa Riccardo Dalisi

Una figura poliedrica, che spazia in più campi artistici e non può essere racchiusa in una singola definizione quella di Riccardo Dalisi. 

Artista, architetto, designer, docente universitario alla Facoltà di Architettura dell’Università Federico II di Napoli, ma soprattutto mente intuitiva, innovativa, che fa della creatività la sua ragion d’essere e che restituisce al mondo, amplificandolo, il caleidoscopio della Bellezza in tutte le sue possibili sfaccettature.

Abituato com’era alla perfezione, con il suo inconfondibile guizzo era perennemente alla ricerca di altro; incontentabile nel senso più proficuo del termine, sperimentava di continuo per aprirsi a nuove possibilità artistiche, con risultati sempre eccellenti. Non a caso le sue opere trovano dimora fissa in alcuni dei più prestigiosi musei internazionali, oltre che in collezioni private di fortunatissimi pochi eletti.

Quella mattina andai a prenderlo a casa sua e, con la mia auto, ci recammo al suo studio in via Aniello Falcone.

Dalisi era una persona estremamente gentile ed affabile. Sul suo viso era perennemente stampato un sorriso dolcissimo, ma anche sbarazzino, dal quale traspariva una vena di autoironia.

Un artista sicuramente geniale, che plasma i materiali, creando sculture estremamente essenziali, ma di grande effetto e significato. Quelle stanze erano affollate di suoi lavori di ogni grandezza, uno studio “uovo”, ripieno di arte: c’erano opere in ferro di pochi centimetri e strutture enormi che arrivavano al soffitto.

È inimmaginabile la quantità di idee e di forme che affollavano ogni angolo, ogni parete e ogni ripiano di quei locali. Non dovevo far altro che guardarmi intorno e scegliere l’opera con cui ritrarlo. In verità realizzai diversi scatti, ma, alla fine, mi concentrai su di una grande scultura di ferro battuto. Feci in modo che il suo viso fosse incorniciato da quelle strutture metalliche e scattai proprio quando lui, spontaneamente, sfoggiò quel suo inconfondibile, malizioso, furbetto ed incantevole sorriso.

Si percepiva che il Maestro si stava divertendo molto. Al termine del nostro incontro volle regalarmi una piccolissima scultura che custodisco gelosamente e che spesso mostro con orgoglio agli amici che vengono a trovarmi… un bellissimo ricordo di un momento speciale.

Riccardo Dalisi – foto di Augusto De Luca

 





Augusto De Luca fotografa Firenze

La pubblicazione del mio libro fotografico Il Palazzo di Giustizia di Roma, nel 1997, ebbe un successo così grande che TAV Treno Alta Velocità, l’anno successivo, mi commissionò una nuova opera, “Firenze frammenti d’anima”, che pubblicai nel 1998 sempre con Gangemi Editore, patrocinata dal Presidente della Camera dei deputati e dal Comune di Firenze, che presentammo con una splendida mostra fotografica proprio a Firenze nell’incantevole Villa Strozzi. Le foto di questo mio libro sono accompagnate da intensi testi di celebri personaggi, tra cui Gino Bartali, Alessandro Benvenuti, Chiara Boni, Antonella Boralevi, Athina Cenci, Jury Chechi, Sandro Chia, Margherita Hack, Fiona May, Franco Pacini, Pierluigi Spadolini, Sergio Staino. La prefazione è a cura di Mario Luzi e l’introduzione è di Giorgio Albertazzi.

Firenze nell’immaginario collettivo è un’isola con un enorme quantità di tesori. Città e Arte si fondono in una sola “idea” dando vita al più grande museo del mondo. Camminare a Firenze, prendere un caffè, mangiare un panino per strada, rappresentano sempre una parentesi, una sosta anche inconsapevole in uno straordinario viaggio nella storia. Quando mi è stato chiesto di fotografarla e interpretarla, ho avuto paura, paura di non riuscire a cogliere lo spirito di questa città-capolavoro. Per gestire con facilità il lavoro, presi in fitto un bellissimo appartamento nel cuore di quello che, indiscutibilmente, è uno dei crocevia culturali più vivi del Vecchio Continente, passaggio obbligato di ogni  artista. Avevo così l’opportunità di visitare, nelle diverse ore del giorno, i vari luoghi da immortalare, valutando e scegliendo la luce che preferivo. Avevo anche la possibilità di girare la città quando era deserta, soffermandomi ed esaltando maggiormente le strutture architettoniche senza la presenza umana. Infatti, passeggiando per le sue vie piene di turisti e di studenti di ogni nazionalità diventa difficile cogliere certe atmosfere, certe vibrazioni che rimangono sommerse e che sono rintracciabili solo all’alba, quando la città è sospesa nel silenzio della sua monumentale bellezza, lontana dalla folla che è un aspetto nuovo di Firenze. Ho cercato, per quanto possibile, di restituirne l’aspetto più nascosto e forse più vero, attraverso i suoi eterni ed incontaminati frammenti d’anima che, nel continuo gioco tra luci ed ombre, restituiscono una veduta d’insieme frammentaria eppure completa, con richiami alla metafisica. Ho lavorato seguendo un processo di sottrazione, ricercando gli elementi minimali, prediligendo inquadrature dal basso verso l’alto, alternando diversi piani spaziali, giocando molto su ossimorici disequilibri tra figure e sfondo, così da esaltare armoniosamente il “tutto”, seguendo un personale alfabeto linguistico, decodificabile a partire dall’osservazione del più piccolo particolare che ne celebra la magia.

 

 





Augusto De Luca fotografa Renzo Arbore

Sono sempre stato un grande ammiratore, un fan sfegatato delle sue trasmissioni: Alto gradimento, L’altra domenica, Quelli della notte, Indietro tutta, e quando andai a Roma per fotografarlo non mi sembrava vero ed ero molto emozionato.? Renzo Arbore non ha mai sbagliato un colpo, inventando un modo sempre nuovo per intrattenere gli spettatori; forse il più grande showman italiano, un vero mito.
Aprì la porta sfoderando un grande sorriso a 360° che immediatamente mi fece sentire come un suo grande amico. Era quello il suo segreto, il suo carisma: la capacità di diventare subito familiare a chiunque.
Con un’espressione compiaciuta mi disse:
“Ciao, oggi è un giorno fortunato, mi porti a casa un po’ dell’amata Napoli”
Entrai e rimasi stupito. Sembrava un negozio di oggetti vintage dove regnavano souvenir, plastica e colori sgargianti. In un mobile verde a scaffali decine di cappelli e in fondo alla stanza un piccolo palco, un teatrino casalingo, su cui erano disposti vari strumenti: era lì che Renzo e i suoi amici musicisti provavano i nuovi brani musicali.?Insomma una casa luccicante per un uomo brillante.
Avrei potuto realizzare in quel contesto una quantità enorme di scatti, pieni di informazioni e dettagli stravaganti, ma decisi invece di rappresentarlo in maniera più sobria ed essenziale dove il suo sguardo ammiccante, capace di sedurre all’istante e il suo strumento preferito, il clarinetto, diventassero gli elementi fondamentali e centrali dell’immagine.
Renzo mi chiese cosa avrebbe dovuto indossare ed io lo tranquillizzai: andava bene così come stava.
Dopo l’ardua impresa di aver trovato finalmente uno scorcio di parete libera, posizionai la mia luce e scattai.
Lui era talmente abituato a stare dietro un obiettivo che, se ricordo bene, i miei scatti furono non più di tre, ma già il primo era quello buono.
Dopo un bel caffè premio, cominciò a raccontarmi di essersi laureato in Giurisprudenza a Napoli e che aveva molto amato la zuppa di soffritto, il musso, i taralli con il pepe e i crocchè.
Poi mi disse che alcune delle sue passeggiate preferite le faceva a San Sebastiano, alle botteghe di strumenti musicali.
Gli chiesi, allora, se si sentisse più foggiano o napoletano e lui mi rispose:
“Mi sento parte foggiano e parte nopeo”
sicuramente citando il grande Totò…

Renzo Arbore – foto di Augusto De Luca

 





Augusto De Luca fotografa Nino Longobardi

Era la metà degli anni ‘70 ed ero iscritto alla facoltà di giurisprudenza. I miei interessi primari erano le ragazzine e la musica. Suonavo la chitarra in diversi gruppi e amavo il rock e il blues. È in questo periodo che cominciai anche a fotografare spinto da un mio amico appassionato fotoamatore, e in breve tempo realizzai delle immagini a colori con elementi e correlazioni surreali. Per me però, l’arte era totalmente ignota, non conoscevo nessun autore, nessun movimento; tutto quello che facevo nasceva spontaneamente e istintivamente. Quando feci vedere le foto al mio amico architetto Fabio Della Sala, lui meravigliato e sorpreso mi disse che avrei dovuto mostrarle al famosissimo gallerista napoletano Lucio Amelio, ed io dopo qualche giorno mi recai proprio nella sua galleria in piazza dei Martiri, più per curiosità che altro.

Bussai e mi aprirono due ragazzi: Corrado Teano e Nino Longobardi che lavoravano in quello spazio come aiutanti, facendo un po’ di tutto. Mi dissero subito che Lucio era fuori Napoli e che sarei dovuto ritornare la settimana successiva. Nino mi chiese perché lo stessi cercando ed io gli risposi che avrei voluto mostrargli le mie fotografie, allora lui sorridendo mi disse: “se vuoi puoi farle vedere a me”. 

Fui felice di quella richiesta, anche perché prima di lui solo il mio amico architetto le aveva “esaminate”.

Attraversammo la prima grande stanza della galleria di Amelio ed entrammo nella seconda. Sulla sinistra c’era un piccolo divano con cuscini a strisce sottili; su quel divanetto si erano seduti artisti come Warhol, Mapplethorpe, Beuys, Rauschenberg, Haring e tanti altri. Nino si inginocchiò a terra ed io con lui. Poggiammo su quei cuscini l’album con le mie immagini e lui cominciò a sfogliarlo. Dopo le prime foto lui con una espressione compiaciuta si girò e disse: 

“ sai… mi ricordano le opere di René Magritte”. Come ho già accennato prima, totalmente ignorante in materia di arte, gli risposi: “ forse…ma io non conosco questo fotografo”. Lui allora senza infierire e sorridendo, mi parlo di questo grande pittore surrealista del novecento.

Fu così che  conobbi Nino Longobardi, che é un amico ma soprattutto un raffinatissimo e importante artista internazionale e iniziai a studiare finalmente la storia dell’arte. L’ho fotografato nel suo studio vicino Piazza Dante, dove sono raggruppati ovunque  teschi di gesso di varie grandezze, per la realizzazione delle sue straordinarie opere scultoree e pittoriche. Tra i vari scatti realizzati, questa foto che pubblico mi é sempre piaciuta molto perché esprime quella  simbiosi, quello stretto rapporto, quello scambio e perché no, quell’amore che c’é tra l’artista e la sua opera…ma anche un confronto e forse una sfida…

 

Nino Longobardi – foto di Augusto De Luca
Nino Longobardi, Corrado Teano e Augusto De Luca




Augusto De Luca fotografa James Senese

In quanti brani musicali di Pino Daniele abbiamo ascoltato e gustato quel sassofono che li caratterizzava in maniera assolutamente unica tanto da diventarne un elemento indispensabile ed irrinunciabile?
Era il sax del mitico James Senese che ricordiamo anche per aver suonato negli Showmen e in Napoli Centrale. 
Andai a fotografarlo a casa sua in un parco appena dopo il Real Bosco di Capodimonte. Appena entrato chiesi ad un uomo dove abitasse il grande musicista e quando alcune persone intorno sentirono che chiedevo di James si avvicinarono formando un gruppetto considerevole che in pochi secondi mi mise al corrente di tutte le sue abitudini, gli spostamenti e gli orari per incontrarlo e avere “udienza”. Capii che era molto amato e anche che era considerato come il fiore all’occhiello del quartiere…il “santo protettore”.
Bussai alla porta e James venne ad aprirmi. A prima vista mi ricordava vagamente Jimi Hendrix, rimasi subito colpito dal suo vocione profondo dai toni bassi e dal suo color cioccolato che era in totale contrasto con il marcato accento napoletano.
Fui affascinato dalla sua gentilezza, umiltà e soprattutto serenità. Entrammo nello studio dove custodiva alcuni strumenti e registratori, ma intuii subito che per fotografarlo mi sarei concentrato e avrei privilegiato soltanto il viso.
Di solito mi piace dare ad ogni personaggio un alone surreale. In quasi ogni ritratto c’è un elemento che è presente nel luogo dove incontro la persona da ritrarre che è legato a quel personaggio ma anche che mi colpisce e fa da trait d’union con la mia interiorità. Stavolta volevo raccontare maggiormente la profondità dello sguardo tralasciando la bellezza formale di tutta l’immagine. Volevo approfondire e fare un’analisi introspettiva del personaggio cercando di evocare alcuni tratti del carattere e della personalità. Desideravo insomma evidenziare il contenuto più che la forma.
James fu incuriosito dal fatto che io lo fotografassi a distanza così ravvicinata, ma mi lasciò fare divertito.
Dopo qualche scatto mi offrì un caffè e parlammo a lungo della sua esperienza e del suo rapporto con Pino. Ci furono anche momenti di sincera commozione ed io sarei rimasto lì ad ascoltarlo ancora per molte ore.

Quanta storia e quanta umanità avevo incontrato inaspettatamente quella mattina…

 

James Senese – foto di Augusto De Luca

James Senese e Augusto De Luca
James Senese e Augusto De Luca




Augusto De Luca fotografa Hermann Nitsch

Uno dei massimi esponenti dell’Azionismo Viennese.
Artista molto discusso per le sue performance provocatorie, ma già presente nella storia dell’arte internazionale. Hermann Nitsch non è un uomo che facilmente si lascia ritrarre, anche perché non essendo più un ragazzino, ha qualche problema di salute. Molto discreto, schivo e solitario, talvolta può apparire per questo motivo come un personaggio scontroso ed introverso. Dopo averlo conosciuto, però, ho avuto modo di apprezzare la sua dolcezza e affabilità che viene fuori poco alla volta frequentandolo e conversando con lui.
Per fotografarlo ho dovuto contattare il gallerista Giuseppe Morra, che conosco da anni e gli ha dedicato uno splendido palazzo di sua proprietà, ex centrale elettrica, che ora porta il nome di Museo Nitsch.
Vive nel suo castello di Prinzendorf a cinquanta chilometri da Vienna e raramente viene a Napoli, così per ritrarlo ho dovuto avere pazienza e attendere qualche settimana.
L’incontro avvenne proprio nel Museo a lui dedicato che ha un magnifico belvedere da dove si può ammirare tutta la città di Napoli; é proprio li che feci diversi scatti fotografici.
Nitsch mi assecondò in tutto e si mostrò molto incuriosito dal mio modo di fotografare. Solitamente sono molto veloce e dopo qualche click capisco di avere la foto giusta ma con lui approfittando della sua grande disponibilità e del tempo che mi dedicava, realizzai molte immagini con inquadrature diverse. In questa pagina  ho deciso di pubblicare questa foto rettangolare che amo molto e che mi ricorda il padre degli dei nell’Olimpo, per la barba e quelle nuvole gonfie e barocche alle sue spalle.
Anche la sua espressione e gli occhi immersi in pensieri lontani, gli danno un’aria immortale. Pubblico anche una foto quadrata con il suo profilo, che non mostro spesso.
Devo riconoscere che senza dubbio é stato un grande privilegio avere in posa avanti alla mia fotocamera un modello così illustre.

 

Hermann Nitsch – foto di Augusto De Luca
Hermann Nitsch – foto di Augusto De Luca
Augusto De Luca e Hermann Nitsch
Augusto De Luca e Hermann Nitsch




LE FOTO DI FAMIGLIA

Talvolta archiviate in un cassetto polveroso, come vuole la retorica dei ricordi, le foto di famiglia hanno invece una loro dignità quando fungono da macchina del tempo e ricostruzione della memoria personale o familiare.

A tal proposito vi racconto una storia vera, ossia la vicenda umana di un bambino di pochi anni, Marco, che perse precocemente la madre senza aver avuto il tempo di formarsi sia l’identità di figlio, sia di conservare una traccia di ricordo della fisionomia della mamma che lo aveva messo al mondo, figura determinante per ogni creatura di qualsiasi specie.

Con ciò non voglio incrementare la narrazione più o meno centrata sull’importanza o criticità della figura materna in tutti gli aspetti già evidenziati dalla psicologia e psicoanalisi, ma raccontare come le foto di famiglia siano state decisive, nella vita di Marco, per aiutarlo a “conoscere” la madre perduta: utilissima l’intuizione di una zia materna che gli mostrò, al momento opportuno, le foto che ritraevano la mamma nei vari momenti di vita familiare; un modo intelligente e sensibile per offrire un sostegno e arginare, per quanto possibile, un vuoto affettivo molto doloroso.

Per quanto riguarda la mia esperienza, le foto della famiglia di origine sono uno strumento identitario, un ritorno al passato che mi consente di ravvivare il ricordo delle mie radici, del contesto sociale e culturale nel quale sono cresciuta, degli affetti che hanno costellato la mia esistenza dalla nascita e la varietà di “comparse” occasionalmente presenti.

Si può essere più o meno d’accordo con questa interpretazione se generalizzabile, e ciò dipende da come si è portati a vivere il proprio passato con curiosità, affetto o fastidio; quindi per dare un contributo più specifico a questo tema, riporto il commento dell’amica Ariella Williams, psicoterapeuta:

“Ringrazio innanzi tutto Rita per avermi invitata a esprimere un mio commento, cosa che faccio più che volentieri concordando innanzitutto con le sue osservazioni.

Vorrei sottolineare in particolare il ruolo identitario che le foto hanno, non solo collegandoci al fluire stesso del tempo e creando un senso di appartenenza a una storia senza fine, ma mettendoci anche davanti a noi stessi, alla nostra evoluzione di persone nella sua unicità grazie a quelle figure e a quei momenti congelati nel tempo dall’obbiettivo, che hanno contribuito a creare la persona che siamo.

Sono quindi documenti della nostra crescita, degli ostacoli superati, delle tappe conquistate, delle perdite sofferte.
Per un bambino, le foto di famiglia possono essere il portale a una solida autostima, sviluppandone l’autoconsapevolezza e i nessi intrinseci col suo contesto affettivo e di vita, base indispensabile per un sano sviluppo psicoemotivo. Passare in rassegna le foto con un adulto che gliele descrive attingendo all’aneddotica familiare, offre preziose occasioni per rinforzare il legame di affetto e di fiducia tra loro.
Una foto non è solo uno scatto che fissa un attimo fuggente, ma collega il presente col passato mentre si cammina verso il futuro.”

Le foto di famiglia possono essere ritratti in posa formale, basti pensare alle famiglie reali o nobiliari, dinastie che si impongono all’attenzione del pubblico, o semplici scatti improvvisati di momenti memorabili della vita familiare: matrimoni, compleanni, viaggi, la laurea dei figli, ecc. : universi talvolta simili e sovrapponibili, frutto di un immaginario culturale condiviso dalle generazioni che si succedono.

Quando mia nipote Sofia ci chiederà come eravamo, troverà alcuni album fotografici pronti a soddisfare la sua curiosità. Il romanzo  familiare sarà preservato.

Dall’archivio fotografico di famiglia

In vacanza a Bormio
Io a due anni
Io e papà
Io e papà a Lavarone in cerca di funghi
Mia madre sorridente in fotografia
Mia sorella Mara




Augusto De Luca fotografa Peppe Barra

Quella mattina insieme a mia figlia Giulia che con la sua fotocamera doveva documentare il mio lavoro, ci recammo da Peppe Barra. Già ero stato nella sua casa quando alla fine degli anni ’80 avevo ritratto la mamma Concetta Barra. All’ultimo piano di un antico palazzo, con uno splendido terrazzo che affaccia sui tetti di Napoli, piena di oggetti antichi e una collezione stupenda di Madonne sotto campane di vetro, è una casa dove si respira l’antica tradizione napoletana. Peppe, straordinario interprete della nostra cultura, ci accolse con quel calore e quella giovialità che da sempre gli appartiene. Realizzai molti scatti sfruttando proprio tutto quello che avevo intorno. Qui pubblico solo due dei tanti ritratti eseguiti. Il primo lo realizzai al secondo piano della sua abitazione, dove sulla parete è dipinto un trompe-l’oeil con una maschera di Pulcinella. Misi la fotocamera su di un cavalletto in modo da avere uno sfondo fisso e chiesi a Peppe di caratterizzare i diversi scatti con un’espressione sempre diversa, replicando i vari stati d’animo di un Pulcinella in carne ed ossa; una maschera che nessuno meglio di lui poteva interpretare. Poi ho riunito le fotografie in un’unica immagine quadripartita proprio per sottolineare l’intensità delle sue “facce”. L’altra foto la realizzai sul terrazzo dove il suo profilo si contrapponeva a un’antica testa di un santo o forse di una bambola che poi al computer ho scurito per evidenziare maggiormente anche le ombre proiettate sul muro. Un modo per rimarcare le tante possibilità interpretative e i mille personaggi del teatro di Peppe Barra. Quella fu una giornata davvero intensa per me, che rimasi più che soddisfatto del lavoro eseguito e per mia figlia, che da molto tempo desiderava conoscere il grande ed inimitabile artista partenopeo.

 

Peppe Barra – foto di Augusto De Luca
Peppe Barra – foto di Augusto De Luca
Peppe Barra e Augusto De Luca
Peppe Barra con Augusto e Giulia De Luca




Augusto De Luca fotografa Michele Santoro

Michele era stato un amico di scuola della mia prima moglie Maria Grazia, ma i due per molti anni non si erano più frequentati. Alla fine degli anni ’80 casualmente si rincontrarono ed io ebbi modo allora di conoscerlo. Lui vide le mie fotografie, ne fu entusiasta e volle pubblicarle subito in alcuni giornali su cui scriveva in quel periodo. Poi, nel 1986, per la presentazione del mio primo libro “Napoli Mia”, mi fece un bellissimo regalo mandando in onda per l’occasione un servizio televisivo al telegiornale di Rai 3 nazionale. Nel 1987 Michele lavorava ancora per Rai 3 e gli fu proposto di condurre un programma televisivo intitolato ’Samarcanda’, mi contattò chiedendomi delle fotografie per pubblicizzare la nuova trasmissione ed anche altre immagini che già avevo e facevano parte di un altro mio lavoro in cui erano presenti alcune lune e soli rossi da utilizzare per la scenografia del programma; dovevano apparire infatti in diversi monitor disseminati nello studio televisivo. Io accettai e andai a Roma per fotografarlo. Il ritratto in bianco e nero che pubblico qui è stato realizzato proprio negli studi della Rai e la mano con il tre nel monitor indica appunto che è una trasmissione della terza rete. L’altra foto a colori la scattai sul Ponte Flaminio all’imbrunire e per schiarire il suo viso utilizzai un piccolo flash sulla fotocamera. Tra me e Michele c’è sempre stato un rapporto di reciproca stima e simpatia, non solo perché siamo entrambi dello stesso segno zodiacale, il cancro, ma anche perché ci accomuna una grande sensibilità ed emotività che spesso ci fa prendere decisioni basandoci sui sentimenti piuttosto che su quella che  sarebbe la scelta più razionale.

 

Michele Santoro – foto di Augusto De Luca
Michele Santoro – foto di Augusto De Luca
Augusto De Luca e Michele Santoro




Augusto De Luca fotografa Lina Wertmüller

 

Dal 1995 ho vissuto per diversi anni a Roma e quando mi trovavo nei pressi di Piazza del Popolo quasi sempre mi recavo a casa di Lina Wertmüller in una stradina laterale appena dietro la piazza. Conoscevo Lina perché aveva firmato delle bellissime prefazioni a due miei libri fotografici: “NAPOLI DONNA” in cui scrisse delle napoletane: “le sue figliole sono come lei (Napoli) di sapienza antica” e “ROMA NOSTRA” sulla città eterna.

In questo appartamento su due livelli Lina spalancava sempre le sue porte soprattutto a chi era napoletano.

Amava Napoli e le sue tradizioni. Tra un piano e l’altro c’era una accogliente scala di legno e salendo, a destra sulla parete, mi ha sempre colpito un bellissimo, enorme ritratto su tela di San Gennaro fine ‘600 sicuramente attribuibile a Francesco Solimena o a qualcuno assai vicino a lui.

Puntualmente con un mezzo sorriso e un’aria complice e sorniona, dopo un po’, la domanda era sempre la stessa: ”ma le vuoi due pizzelle?”. Sembrava non aspettasse altro che il mio consenso. Ogni volta ordinava delle piccole pizzette con pomodoro, mozzarella e una foglia di basilico, calde e profumatissime. A casa sua erano immancabili. Credo che fossero il suo piatto preferito.

Così in una di queste mie visite le chiesi se potevo farle un ritratto. Mi feci dare uno dei tantissimi e famosissimi suoi paia di occhiali bianchi, andammo sul terrazzo per avere con il cielo azzurro uno sfondo omogeneo e io cominciai a scattare. Lei sorrideva mentre la inquadravo perché non capiva bene cosa facessi con quegli occhiali che mantenevo con la mia mano sinistra avanti all’obiettivo.

Quando dopo qualche giorno le portai la foto mi disse: “ma la foto é agli occhiali o a me? Ah, si, certo…siamo una cosa sola“ e sorrise compiaciuta.

Proprio qualche anno prima di morire, Ha ricevuto un meritatissimo Oscar alla carriera. Grande donna.

 
 

 

 

 

 
 
Lina Wertmüller – foto di Augusto De Luca




Augusto De Luca fotografa Enzo Avitabile

Ho sempre amato molto soprattutto due musicisti napoletani, Pino Daniele ed Enzo Avitabile, molto diversi tra loro ma entrambi geniali.

Enzo Avitabile ha realizzato tanti brani musicali di grandissima qualità. Musicista e compositore raffinato, spesso miscela suoni e lingue di differenti luoghi del mondo creando un sound tutto suo, unico ed originale. I testi dei suoi brani sono intrisi di verità e talvolta le parole stesse diventano musica fondendosi con le note degli strumenti.

L’ho conosciuto ed ammirato già tantissimi anni fa, negli anni ’70, quando io suonavo la chitarra in un gruppo rock. All’epoca per provare i “pezzi” andavamo nel garage del nostro amico Antonello Lamberti a Rione Alto (zona Vomero alto). Per suonare ci alternavamo con altri gruppi più esperti di noi e tra questi c’erano gli ACHEI. Enzo giovanissimo suonava il sassofono con loro e noi ragazzi spesso li guardavamo e ascoltavamo con ammirazione per imparare. Già allora Enzo si notava per la sua tecnica e inventiva da fuoriclasse.

Ma tornando al ritratto, l’incontro per le riprese è avvenuto nella casa di Avitabile dove insieme abbiamo studiato e preparato i vari scatti. 

Enzo mi ha raccontato dei suoi nuovi esperimenti, delle ricerche e degli ultimi progetti. Mi ha parlato dei suoi studi sulle musiche di popoli diversi, affascinandomi con la sua dialettica e la sua grande cultura. Proprio queste sue fusioni e contaminazioni musicali con inserti dalle atmosfere talvolta esotiche mi hanno ispirato e quando ho cominciato a guardami attorno per trovare qualche cosa che richiamasse le impressioni che avevo vissuto nell’ascoltarlo parlare con così tanta passione, ho notato su di un divano un telo con una trama zebrata che mi ricordava l’Africa; subito decisi che quello sarebbe stato lo sfondo di uno dei ritratti che avrei realizzato.

Ora avevo solo bisogno di un elemento che lo rappresentasse in maniera inequivocabile e allora chiesi a Enzo di posare con un singolare strumento inventato proprio da lui chiamato “saxella”, un ibrido tra un sassofono e una ciaramella che produce un misterioso suono di timbrica orientale. Tutto era pronto e in armonia, il mix di ingredienti era avanti a me, provammo alcune pose e alla fine lo scatto fu appagante come accade ogni volta che sento che non avrei potuto fare di meglio. In auto tornando verso casa ero molto contento soprattutto perché avevo capito e imparato tante cose.

Avevo incontrato un grande con un cuore grande.

 

 

Enzo Avitabile – foto di Augusto De Luca

Augusto De Luca e Enzo Avitabile
Augusto De Luca e Enzo Avitabile




Augusto De Luca fotografa Carla Fracci

Sono passati diversi anni, ma il ricordo di quell’incontro, la memoria di quel momento magico resterà per sempre. Erano i primi anni novanta, per essere precisi il 1991 e da poco era uscito in tutte le librerie il libro “Napoli Donna”, con i miei ritratti di trentasette importanti donne napoletane, accompagnati dalle interviste della giornalista Giuliana Gargiulo. Avendo avuto un notevole successo, io e Giuliana decidemmo di realizzare un altro libro, stavolta sulle donne di Milano, libro che però per vari motivi non fu mai pubblicato. Preparammo allora una scaletta di nomi illustri e la prima della lista fu Carla Fracci. Il caso volle che dopo neanche un mese la straordinaria ballerina insieme al marito Beppe Menegatti venissero a Napoli proprio a casa di Giuliana che li ospitò. Ricordo bene infatti che la conobbi ad una cena in casa sua. Le proposi di partecipare al progetto e lei ne fu subito entusiasta. Era andato tutto bene… però la Fracci sarebbe rimasta a Napoli pochi giorni, io dovevo subito trovare una location e soprattutto decidere come fotografarla. Cominciai allora a documentarmi e a cercare…. leggendo la sua biografia capii dalla data di nascita che il suo segno zodiacale era il leone, un segno che le calza a pennello; infatti io l’avevo sempre considerata una donna molto forte, una vera guerriera, caratterialmente e professionalmente. Mi ricordai allora che a casa della mia amica Valeria Carità, in un antico palazzo a Monte di Dio, avevo visto un grande leone di pietra. Immediatamente organizzai tutto e il giorno dopo io e Carla Fracci ci recammo in quella lussuosa casa. Lei era bellissima, delicata ed eterea come una porcellana cinese e indossò lo stupendo vestito merlettato che si vede nella foto. Dopo qualche prova e pochi scatti capii che avevo la foto giusta. Finalmente potevo rilassarmi. Passammo un po’ di tempo a chiacchierare e poi la riaccompagnai. La rividi a Milano perché venne ad una mia mostra fotografica alla galleria “Diaframma” in via Brera. Le diedi il suo ritratto e lei subito mi disse: ” Bella…..e poi il leone è il mio segno zodiacale”! Capii di aver fatto centro.

 

 

Carla Fracci – foto di Augusto De Luca
Augusto De Luca e Carla Fracci
Carla Fracci – Augusto De Luca




Augusto De Luca fotografa Pupella Maggio

Pupella Maggio straordinaria attrice napoletana una delle più grandi partner di Eduardo De Filippo.
Alla fine degli anni ’80 Pupella abitava a Roma pur ricordando sempre con grande nostalgia la sua Napoli. Io, dopo averle telefonato, con il mio assistente e il fedele Bank fotografico (lampada con avanti un diffusore), da Napoli mi misi in viaggio per andare a ritrarla.
Dopo qualche giro per Roma, all’epoca non esistevano i navigatori, trovammo casa sua e quando lei apri la porta io fui investito da un intenso odore che conoscevo molto bene: era profumo di ragù. Ricordo che di riflesso inspirai profondamente con il naso, socchiudendo gli occhi…mi sembrò di essere a Napoli. Pupella era una donna gentile ed umile e anche se per me rappresentava un’icona, un monumento del teatro napoletano, il suo modo di fare mi fece sentire subito a mio agio.
Allora cominciai a cercare un posto per fotografarla. Guardandomi intorno mi colpi su di una mensola un ritratto di Eduardo con una sua scritta: “ a Pupella con amore, quello selvaggio del teatro “. Capii che avrei fatto la mia foto proprio insieme a quel ritratto. Le chiesi di prendere una maschera di Pulcinella che avevo notato nell’altra stanza, misi la luce in modo tale che sul viso di Pupella ci fosse una luce uguale alla luce che nella foto colpiva il viso di Eduardo e scattai. Sembrava quasi che Eduardo stesse li con noi in quel momento, illuminato dalla stessa luce…dal mio Bank.

Pupella Maggio – foto di Augusto De Luca
Pupella Maggio e Augusto De Luca




Polvere

Eppure ne è passato di tempo.
Tornare con tutto il coraggio, tenendo per me tutte le emozioni, nascoste e celate in una razionalità che vede solo il “materiale”.
A quasi 52 anni, “tocco” oggetti dell’infanzia, della pubertà, dell’adolescenza…
Recupero qualcosa, ma solo ciò che può essere funzionale.
Il letto dove leggevo i fumetti mentre mia Madre spicciava casa, con le finestre aperte, e l’odore delle mele e dei mandarini.
Le macchie di smalto da modellismo sulla macchina da cucire.
La cassettiera dove tenevo tutte le polo Fred Perry, le camicie a quadretti, le bretelle.
Il mobile delle 14 paia di Doc Martens.
E poi.
Lo specchio dove lottavo con l’immagine riflessa della mia obesità, dove mi perdevo a schiacciare i brufoli, o a guardare i miei denti storti, e via via i capelli caduti a 20 anni…
Il silenzio.
E quella luce del pomeriggio dalla finestra della cucina.
La nicchia del mobile letto dove dormivo, l’unico metro quadrato di casa dove avevo il Cubo Philips. Altro che “vai in castigo in camera tua!”
Quale camera?
E il castigo di essere nato a Primavalle, e non poterlo dire perché i benpensanti ti bollavano…
I quaderni, le pagelle, gli adesivi della AS ROMA.
L’orologio a cucù dei nonni in Molise, le viti dei mobili fatti da mio zio Gino, smontati dall’altro zio Antonio e la tribolazione di uno sfratto all’età di 10 anni…
Il pupazzo del grillo parlante, i modellini degli aerei…
Il pavimento.
Dove mio Padre ha esalato l’ultimo respiro, nudo, ancora caldo, ed io, aprendo la porta, più arrabbiato che addolorato, per tutto quello che la Vita gli ha riservato.
Una guerra, i fallimenti, le perdite, le malattie…
Gli presi il braccio…
Nudo.
Come un bambino che “torna” da dove è venuto…
E le scale del palazzo, quelle che guardavo quando ero senza lavoro, nero, lasciato a casa perché “oggi piove”.
Niente paga.
E quelle scale, ancora, da salire ubriaco, fatto di qualcosa. E ridere su quelle scale con mio Fratello.
Per non piangere.
E camminare sempre a testa alta, nel quartiere, perché i figli di Armandino e Dalia non si sono mai immischiati col malaffare o con la droga.
E la salvazione tra preti della parrocchia e la politica, idealista, mai con nessun partito, nessuna tessera.
E infine la polvere…
Oggi mi sembra di aver mangiato tutta la polvere dei miei quasi 52 anni.
Quella polvere che molto spesso, per dignità ed integrità ho sempre tolto dalle mie spalle, rinnovandomi, con impegno e dedizione, con sofferenza soffocata.
E soprattutto col coraggio.
Grazie Mamma, grazie Papà.
Grazie a mio Fratello.
Avrei voluto di più, non è stato possibile,
ma oggi è importante per me apprezzare tutto quello che ho.
?
 




S1: E4 “Addison”

Addison ha dodici anni e, come si dice in questi casi, tutta la vita di fronte a sé. È nata nella parte ricca del mondo, è una giovane donna bianca e questo è ancora in molti casi un privilegio. È una studente delle medie alla Buffalo Middle School di Kenova, nel West Virginia, Stati Uniti d’America. Fa parte della squadra di pallavolo scolastica, pratica l’atletica e corre in pista, pensa, come tante ragazze della sua età, che l’istruzione sia importante per lei che vuole fare grandi cose. Una piccola grandissima cosa per il suo bene e per il bene comune l’ha già fatta. Ha testimoniato in opposizione alla nuova legge statale sull’aborto, di fronte ai parlamentari della Camera del West Virginia, mostrando di avere un coraggio che a molte persone adulte spesso manca. Addison ha parlato contro la Camera che approvava un disegno di legge per vietare l’aborto nello Stato, dove attualmente è legale fino a 20 settimane dopo la fecondazione, consentendo esenzioni limitate per emergenze mediche e complicazioni, ma non per stupro o incesto. Lo stato del West Virginia  è uno dei molti Stati a guida repubblicana a limitare l’accesso alle strutture per l’aborto dopo che la Corte Suprema degli Stati Uniti, lo scorso 24 giugno, ha rovesciato la sentenza Roe v. Wade ribaltando 50 anni di precedenti legali e rispedendo il diritto di aborto nelle mani dei singoli Stati, tranne per quei rari casi in cui il Congresso degli Stati Uniti non decida di intervenire.

Addison la mattina che doveva intervenire ha deciso di indossare una bandana verde sulla testa proprio per ricordare il colore scelto dalle donne argentine come simbolo di chi protesta per conservare il diritto di scelta in materia di aborto. Senza incertezza nel tono di voce ha sfruttato i 45 secondi a sua disposizione, si è rivolta ai legislatori e ha chiesto: “Se un uomo decide che sono un oggetto e mi fa cose indicibili e devastanti, dovrei, io, una bambina, essere costretta per vostra scelta a portare a termine una gravidanza indesiderata e dare alla luce un altro bambino?” e ha esortato la Camera a riconsiderare la decisione che stavano per prendere, dicendo: “Alcuni qui dicono di essere pro-vita. E la mia vita? La mia vita, il mio futuro forse non importa? Non contano nulla per voi?”. Durante la pubblica udienza insieme a Addison hanno parlato altre 90 donne, condividendo le loro storie personali sull’aborto o sui diritti delle donne. Tra loro anche Rita Ray, oggi una elegante signora di 80 anni che ha abortito nel 1959, 14 anni prima che le interruzioni di gravidanza fossero considerate un diritto costituzionale e, dopo di lei, ha parlato Ash Orr: “Sono stata violentata a 10 anni, ditemi perché sarebbe stato giusto portare in grembo il figlio del mio violentatore”. È stata una sessione molto animata, con la sicurezza costretta a scortare fuori dall’aula molte donne giudicate troppo scalmanate. La lucidità di Addison ha fatto impazzire la rete: il video del suo intervento è subito diventato virale, è stato rilanciato in America e nel mondo milioni di volte. Soprattutto dopo le polemiche sul caso della bimba di 10 anni, stuprata e rimasta incinta in Ohio, costretta ha raggiungere l’Indiana – altro Stato dove la legge potrebbe cambiare presto – per vedersi riconosciuta la possibilità di praticare l’interruzione di una gravidanza non voluta.

Peccato che l’accorato appello di Addison non è bastato a convincere i deputati del West Virginia. Accogliendo l’invito di chi voleva modernizzare la legislazione vigente per adeguarla alla decisione della Corte Suprema, hanno infatti approvato, con una votazione dal risultato schiacciante di 69 a 23, un disegno di legge restrittivo.

I legislatori hanno previsto eccezioni alla legge nei casi in cui il feto non abbia battito cardiaco o non abbia comunque alcuna possibilità di sopravvivere, durante un’emergenza medica o una gravidanza ectopica – quando il feto si impianta fuori dall’utero e rappresenta un rischio per la salute della madre. Il discorso di Addison è forse servito perché venisse adottato un emendamento che consentirebbe l’aborto in caso di stupro o incesto, ma anche qui c’è un imbroglio: per il disegno di legge HB 302 l’aborto si potrebbe effettuare solo entro le 14 settimane di gravidanza e solo se lo stupro o l’incesto vengono denunciati alla polizia. Altri tentativi di emendamento da parte di legislatori democratici sono falliti, compreso un emendamento che avrebbe eliminato le sanzioni penali per chi pratica l’aborto.

 





Una risaia lontana dai mercati dell’arte

Documenta è il museo dei cento giorni, la rassegna d’arte contemporanea che ogni cinque anni, dalla città di Kassel nella Germania centro-occidentale, promuove movimenti artistici all’avanguardia. Arrivata quest’anno alla sua quindicesima edizione, dà letteralmente uno scossone all’idea di arte e di diffusione dell’arte, per diventare una mostra che vuole sovvertire le regole dell’arte e quelle della società. Si inizia con “un approccio curatoriale che mira a un diverso tipo di modello di utilizzo delle risorse orientato alla comunità – dal punto di vista economico, ma anche in termini di idee, conoscenze, programmi e innovazioni”. Il cambio è dato dalla nomina alla direzione artistica non a una sola persona, quasi sempre europea, ma ai nove membri di Ruangrupa, un collettivo indonesiano di artisti, architetti, ingegneri, sociologi, designer, musicisti e scrittori. “Cerchiamo di produrre una nuova estetica, un paradigma etico in cui lo spettatore è obsoleto”, afferma il gruppo nel manuale della mostra. “Il nostro lavoro non dovrebbe essere giudicato da un estraneo, ma in termini di benefici che porta alla comunità che lo crea”. Sovvertire le regole del circuito “altamente competitive, espansive a livello globale, avide e capitaliste” e fare di tutto per capovolgere l’istituzione di Documenta.

I Ruangrupa parlano di creazione attuale come di un ecosistema popolato da collettivi e professionisti non convenzionalmente associati all’arte contemporanea, ma piuttosto a “un’arte a misura d’uomo che opera nei servizi pubblici, nelle scuole, nelle banche, negli ospedali e nelle università, con un ibrido di prassi e forme”. Hanno scelto di organizzare la mostra secondo i principi del lumbung, termine indonesiano per indicare un granaio di riso dove la comunità del villaggio immagazzina il raccolto e lo gestisce collettivamente. Lumbung diventa il modello artistico ed economico interdisciplinare che risponde ai principi di collettività e equa condivisione delle risorse. La modalità con cui definire e organizzare la rassegna è l’altra piccola rivoluzione. Il risultato è un’opera corale firmata da 15 collettivi e 54 artisti per un totale di 1.500 creatori, la maggior parte proveniente dall’emisfero meridionale, praticamente sconosciuti o i cui nomi scompaiono sotto la sigla di un collettivo, divisi tra i cosiddetti membri lumbung e artisti lumbung, in riferimento al metodo di raccolta e gestione del riso. Chi visita Documenta 15 entra in una manifestazione “practice-based”, si trova in una mostra che è un racconto di pratiche ambientaliste, sociali, educative, economiche che appartengono al sud globale del mondo. Una rassegna che si dipana per 32 sedi, distribuita lungo quattro distretti, ciascuno contrassegnato da un colore e da un concetto: il giallo, al centro, corrisponde al cuore della città con i luoghi tradizionali di Documenta; il rosso a nord, nella zona universitaria, dedicato alle questioni sociali; a est, il circuito viola, nell’area di Bettenhausen, nei colossali spazi industriali della società Hübner, il riferimento è all’industria e alla produzione; e il percorso verde legato all’ecologia sulle rive del fiume Fulda. Per tutta l’esposizione l’idea dei Ruangrupa: “Dalla letteratura, alla sociologia, all’economia, alla musica elettronica o all’architettura, creiamo ambienti in cui le persone si relazionano o semplicemente si siedono per parlare di storia dimenticata, nuovi colonialismi e narrazioni migratorie. Non ci sarà molto lavoro, ma ci saranno molti processi”. Uno striscione di protesta è ben visibile sulla facciata Fridericianum: STOP THE KILLINGS. È realizzato dall’artista attivista Kiri Dalena, è un messaggio di RESBAK (Respond and Break the Silence Against the Killings) un collettivo di artisti fondato per organizzare la guerra alla droga nelle Filippine. All’interno dell’austero edificio neo-classico lo spazio espositivo è diventato Fridskul, una scuola utilizzata da artisti e collettivi per discutere e praticare diversi modelli di educazione orizzontale. È proprio questo il lumbung, luogo domestico e spazio sociale dove tutti possono riunirsi, trasformando il freddo spazio museale del Fridericianum in un luogo caldo e dinamico.

Il Wajukuu Art Project, un gruppo basato nello slum di Nairobi, ha realizzato un tunnel che conduce all’interno della Documenta Halle immergendo chi gira per la mostra nell’atmosfera Mukuru con metalli, giochi di luci e suoni che ricordano quelli della città d’origine. In Kenya il gruppo organizza corsi d’arte per i bambini abituati a lavorare nelle discariche. Il Baan Norg Collaborative Arts and Culture, viene dalla Thailandia e gestisce un progetto diviso in tre parti: una rampa per skateboard nella Halle, un teatro di ombre tipico tailandese, il Nang Yai, e un programma per aiutare lo scambio di latte e formaggio tra le fattorie di Nongpho e quelle di Kassel.

Britto Arts Trust è un collettivo del Bangladesh e si concentra sulle politiche nutrizionali e sulle comunità che subiscono gli effetti dell’industrializzazione. C’è anche chi lavora sul riconoscimento della diversità neurologica con artisti e creatori con complesse esigenze di supporto e chi ha organizzato una passeggiata nel parco lungo il fiume tra installazioni fatte da spazzatura per attirare l’attenzione sul trasporto di rifiuti elettronici e tessili verso i paesi del sud del mondo. Il collettivo The Black Archives con il proprio archivio storico composto da documenti e libri di scrittori e scienziati di origine surinamese o africana mostrano cosa possono diventare le pratiche archivistiche quando sono legate alle proteste di una comunità. Così come Les Archives des luttes des femmes en Algérie con più di 60 cartelloni di film, manifesti politici e fotografie relativi ai collettivi di femministe algerine dal 1962, anno di indipendenza del Paese, fino alle rivolte popolari del 2019. Sono esposte le opere di Ceija Stojka, artista rom, che ha raccontato l’olocausto del popolo gitano insieme a quelle di János Balázs, il primo artista rom-ungherese ad affermarsi come tale. Nell’Hallenbad Ost, la piscina costruita nel 1929 in stile Bauhaus , il collettivo indonesiano Taring Padi, che considera compiti primari l’organizzazione, l’educazione e il conflitto, presenta tutto il suo archivio su 600 metri quadri di esposizione. Striscioni di grande formato, poster xilografici e wayang kardus, le marionette di cartone a grandezza naturale, sono le opere d’arte che testimoniano le lotte operaie, contadine e sociali degli ultimi 22 anni. La chiesa di St. Kunigundis è stata trasformata da Atis Rezistans, collettivo di sculture haitiane, in un santuario voudou, pieno di assemblaggi di teschi e ossa umane, reperti di discarica e vecchie parti di automobili. Nella rotonda dell’Hessisches Landesmuseum vengono consegnati ai visitatori tablet e cuffie per attivare una scultura, che rende visibile con la realtà aumentata il sistema di credenze cosmologiche pan-pacifiche che ha ispirato i segni sulla facciata dell’opera d’arte. È uno dei tre contributi artistici di FAFSWAG, un collettivo di artisti lgbtq indigeni della Nuova Zelanda che protestano contro la “cancellazione delle persone e delle identità diverse di genere nelle culture del Pacifico”.

Nel grande piazzale della stazione ferroviaria, per terra, si trovano i disegni di Dan Perjovschi, è il suo Horizontal Newspaper su cui lavora in Romania dal 2010, i temi trattati sono appartenenza, comunità e futuro. Ovunque disseminate nei tanti luoghi di questa edizione di Documenta sono visibili le

insegne del pollo fritto Halal Fried Chicken di Hamja Ahsan, sono lì per mappare gli aspetti della storia islamica, fra sottoculture di fastfood urbane diasporiche e passato coloniale.

La città di Kassel fu il centro cruciale nella politica del Terzo Reich, snodo ferroviario e sede delle principali industrie di armamenti. Venne rasa al suolo dai bombardieri britannici nel 1943 e ricostruita in cemento armato compresso solo negli anni ’50. Per la poca distanza dal confine con la Deutsche Demokratische Republik divenne la “periferia del mondo libero”. Oggi questa risaia comune di arte fatta di archivi e pratiche dialogiche ed esperenziali più che visuali, racconta temi legati ai cambiamenti climatici, alle lotte contro le censure e le oppressioni politiche, contro le speculazioni che distruggono le economie locali, parla di antirazzismo e decolonizzazione, di riconoscimento di soggettività diverse, sposta lo sguardo occidentale verso la collettività nel suo significato più ampio. Con una guerra a un migliaio di chilometri di distanza a est non è solo un esercizio di stile.





Aldo Braibanti: come fu creato un mostro

SCHEDA (a cura di Giovanni Dell’Orto) ripresa  da www.wikipink.org

Aldo Braibanti (Fiorenzuola d’Arda, Piacenza 23 settembre 1922 – Castell’Arquato, 6 aprile 2014) è stato un artista italiano. Intellettuale “a tutto tondo”, nella sua vita si è occupato di poesia, arte, cinema, politica, teatro e letteratura.

Laureato in filosofia teoretica, prese parte alla Resistenza partigiana a Firenze (subendo torture e sevizie ad opera dei nazi-fascisti) ed aderì al Partito Comunista Italiano, di cui divenne membro del comitato centrale. Tra il 1946 ed il 1947 fu tra gli organizzatori del Festival mondiale della gioventù ma nel 1948 abbandonò la politica attiva, dimettendosi da tutti i suoi incarichi.

Studioso di mirmecologia e autore di ceramiche e di collages, ha tenuto mostre a Firenze, Oslo, Faenza, Messina, Milano e Roma. Sceneggiatore dei film Pochi stracci di sole, Il pianeta di fronte e Colloqui con un chicco di riso, nel 1960 pubblicò i quattro volumi de “Il Circo” (raccolta di poesie e saggi) e nello stesso anno dà alla luce l’opera “Guida per esposizione“.

Traduttore del diario di Cristoforo Colombo, nel 1969 diede alle stampe l’antologia “Le prigioni di Stato” mentre negli anni Settanta diventa autore e regista teatrale di numerose commedie tra cui Bandi di virulentia, Laboratorio dell’Anticrate, L’altra ferita, Il Mercatino e Theatri epistola. Autore e conduttore di numerosi programmi radiofonici, nel 1979 pubblica l’opera Object trouvé mentre successivamente collabora con la rivista milanese “Legenda”.

Altre sue opere letterarie di un certo valore furono Impresa dei prolegomeni acratici (1988) e Un giallo o mille (1998). Nel 2000 decise di dare vita al lungometraggio Quasi niente, un’edizione completa delle poesie dal 1940 al 1999.

Nel 2005, a causa delle pessime condizioni fisiche in cui Braibanti versava, alcuni parlamentari dell’Unione (tra cui Franco Grillini e Giovanna Melandri) proposero di assegnargli un vitalizio in base alla legge Bacchelli.

 

Copertina di: Il processo Braibanti di Gabriele Ferluga

 

Omosessuale dichiarato, Braibanti trascorse l’estate del 1960 a Como in compagnia di Piercarlo Toscani, un elettricista 19enne. Due anni dopo, quando ormai risiedeva nella Capitale, visse invece insieme al 18enne Giovanni Sanfratello, che aveva conosciuto quattro anni prima: il giovane aveva abbandonato la famiglia (cattolica e tradizionalista) in quanto i genitori avevano intenzione di farlo interdire per le sue frequentazioni di sinistra e con ambienti artistici.

Nel 1964 Ippolito Sanfratello, padre di Giovanni, denunciò Braibanti per plagio: in pratica, secondo l’accusa, i due ragazzi erano stati soggiogati dall’intellettuale, che li aveva ridotti a una sorta di “schiavitù mentale”.

Braibanti nella sua difesa fece notare che i ragazzi avevano deciso di seguirlo autonomamente e da adulti: durante il processo, Sanfratello avvalorò questa tesi, mentre Toscani depose contro di lui. Al termine delle udienze, nel 1968, l’imputato venne condannato a nove anni di reclusione, successivamente ridotti a sei ed infine a quattro (due gli vennero condonati in quanto ex partigiano).

La condanna suscitò ampia eco in tutta Italia, e a favore di Braibanti si mobilitarono numerosi intellettuali, fra i quali Alberto Moravia e Umberto Eco. Il processo rivelò infatti rapidamente la sua natura politica, proponendosi come l’estremo tentativo del vecchio ordine sociale (lo stesso che aveva già usato il tema dell’omosessualità nel caso dei balletti verdi), per imporre i propri valori contro la marea montante del Sessantotto. In effetti, a differenza di quanto è avvenuto in altre nazioni, nella storia italiana l’omosessualità è stata usata giudiziariamente per fini politici esclusivamente in questi due casi.

Braibanti fu scelto come “capro espiatorio” in quanto al tempo stesso comunista ed ex partigiano, ma anche omosessuale, in un periodo in cui l’omosessualità era giudicata “indifendibile” (in quando “degenerazione piccoloborghese”) anche e soprattutto tra le file della sinistra. La sua era quindi, dal punto di vista propagandistico, una figura “indifendibile”, utile per dimostrare che i comunisti stavano corrompendo la gioventù italiana e i valori famigliari tradizionali.
Va inoltre notato che la controversa legge sul plagio, introdotta nel codice penale durante il periodo fascista, portò nel dopoguerra ad una condanna in questo unico caso e fu successivamente abolita, senza essere più stata applicata, grazie all’infuocato dibattito scatenato dalla sua condanna, con sentenza della Corte costituzionale n. 96 del 08/06/1981.

Né esisteva ancora in Italia un movimento di liberazione omosessuale che potesse fare di questo processo un caso emblematico. Dalle colonne di “Tempo Illustrato”, Pier Paolo Pasolini fece notare che:

« Una delle cause della condanna al processo è la debolezza del Braibanti, nel senso che egli non aveva valori precostituiti, un aggancio a un sistema di vita, ad un modello culturale»

Lo stesso Braibanti non si è mai considerato parte del movimento gay.

In un’intervista, Braibanti disse che non si considerava una vittima e che, tra gli intellettuali di sinistra, gli era stata vicina in quei momenti soprattutto Elsa Morante.
Nella stessa intervista, riguardo alla nascita del movimento gay, egli dichiarò inoltre:

« Non farò mai il militante omosessuale, ma non mi piace dare un giudizio. Però penso che i movimenti gay e gli altri di questo tipo siano molto importanti, hanno la funzione di preparare molte persone che altrimenti sarebbero incapaci di inserirsi nella militanza, a sentirsi pari a coloro che credono di essere già pari e di poter combattere per la rivoluzione»

Sul suo caso al Teatro Nuovo di Napoli, dal 20 al 25 marzo 2012 è stato messo in scena su testi di Massimiliano Palmese, Il caso Braibanti, per la regia di Giuseppe Marini.

Un ricordo personale, leggendo «Il caso Braibanti» di Virginia Finzi Ghisi

di Daniele Barbieri

Non avevo ancora 20 anni quando il 14 luglio 1968 la Corte d’assise di Roma «in nome del popolo italiano» condannò Braibanti: 9 anni di carcere nella prima condanna per «plagio» della storia italiana. Rammento che il reato di plagio mentale, ovvero l’articolo 603 del Codice penale, fu dichiarato incostituzionale con la sentenza 96 dell’8 giugno 1981.

Non ricordo se – o quanto – seguii allora il processo sui giornali. Ma so per certo – ho ancora la copia con i miei appunti – che rimasi choccato nel gennaio 1969 leggendo il libretto (68 pagine per 200 lire) «Il caso Braibanti ovvero un processo di famiglia» scritto da Virginia Finzi Ghisi e pubblicato da libreria Feltrinelli nei tascabili della collana “Battaglie politiche”.

Scorro le mie sottolineature dell’epoca – più altre successive (lo avrò letto almeno 4 volte) – e rimango impressionato dalla lucidità di quell’analisi e dalla mostruosità di quel processo. Dopo aver raccontato i fatti, Virginia Finzi Ghisi scrive: «Cosa c’è dietro a questa condanna? Parlare di una “macchinazione” sembra fuori posto: gli attori non sono delinquenti né “pazzi” come il povero Giovanni Sanfratello. Sono tutte persone a posto, campioni – potremmo dire – di ogni settore di normalità perfetta: una madre piena di sollecitudine; un padre responsabile; un fratello che studia alla Cattolica. Essi inoltre non si presentano soli al processo: la loro sanità è comprovata da diversi psichiatri […] Quasi tutti i loro testimoni sono pii religiosi. Dunque, se non nasce da malvagità o da follia, questo è un processo intentato dalla sana rappresentanza della normalità, da un saldo spirito religioso […] e da una ferma convinzione religiosa».

Dietro i 5 personaggi chiave – «madre, padre, fratello, prete, Presidente» – ecco «l’obiettività della scienza». Su questi 5 simbolici protagonisti Virginia Finzi Ghisi ha costruito un ragionare che a me impressiona ancora oggi per sintesi e lucidità. Per questo più volte negli anni successivi pensai– di certo con Riccardo Mancini ma forse anche con altre persone (Valeria se ci sei… fatti sentire) – che sarebbe stato importante fare un documentario da far girare all’interno del movimento contro le istituzioni totali. Se frugassi bene nei cassetti miei e altrui forse troverei anche gli appunti per un testo “in difesa di Braibanti e contro la famiglia del capitalismo”. Che era l’idea di fondo del libretto di Virginia Finzi Ghisi: «La difesa di Braibanti sta in un nuovo processo. Il processo intentato da una famiglia deve diventare il processo alla famiglia e ai suoi alleati in funzione del sistema, come presa di coscienza dei meccanismi e delle strutture dell’alienazione». Quel processo alla famiglia in parte si farà negli anni successivi; basta andare a rileggere «Contro la famiglia» pubblicato da Marcello Baraghini per Stampa Alternativa e ricordare i tanti processi che subì il manuale e l’allegato poster «Toccarsi è bello». Eccoli qui sotto: magari ri-vederli facilita i ricordi chi chi allora c’era.

I materiali del processo a Braibanti si prestano a confermare la mostruosità di quella pretesa normalità e oggettività sempre invocata. Per fare una sola citazione nelle 9 regole che vengono imposte a Giovanni Sanfratello per uscire dal manicomio si legge persino: «evitare libri che non abbiano almeno 100 anni, esclusi quelli a carattere scolastico». E aveva ragione, ancora una volta, Virginia Finzi Ghisi a sottolineare come se qualcuno già nel ’68 dava per vinta la battaglia «contro la concezione autoritaria della famiglia, i pregiudizi, i “tabù”, il clericalismo, la deformazione del sesso nei ruoli del’uomo-maschio e della donna-femmina» più volte si sarà dovuto ricredere. La lotta è continuata e non è finita. Perfino le conquiste più importanti (in testa la legge contro i manicomi ispirata da Franco Basaglia) sono a rischio: ogni giorno lo vediamo – se vogliamo scrutare dietro le ingannevoli vetrine di una legge 180 poco voluta e ancor meno applicata – nella pratica, anche se magari in pochi hanno la faccia di rimpiangere ad alta voce i “bei tempi” dell’elettrochoc e delle istituzioni totali, non sottoposte a controlli e leggi.

Ma questo è un altro discorso che ci proietta nell’oggi e nel domani prossimo. Fa piacere che esca il film «Il caso Braibanti» di Carmen Giardina e Massimiiliano Palmese: vedi qui Il caso Braibanti al Pesaro Film Festival | il manifesto la presentazione di Alessandra Vanzi e qui Aldo Braibanti, capro espiatorio delle lotte del ’68 | il manifesto l’ articolo di Silvana Silvestri. Ne riparleremo.

Articolo già pubblicato ne La Bottega del Barbieri (www.labottegadelbarbieri.org)

In “bottega” cfr Scor-data: 14 luglio 1968 (di Francesco Masala, con preziosi link) sulla condanna di Aldo Braibanti; se non sapete cos’era Stampa Alternativa negli anni ’70 date un’occhiata qui: Baraghini mostro, Baraghini eroe

La scheda di wikipink su Aldo Braibanti indica come data di nascita il 23 settembre ma altrove si trova il 17 settembre.




Boipeba delle meraviglie: Cristina, la nuova Alice

ll 4 maggio la fotografa Cristina Cenciarelli ha inaugurato a Roma la sua mostra fotografica «Boipeba, luogo senza tempo». Le fotografie sono state presentate nelle sale della Galleria Candido Portinari, all’interno dell’ambasciata del Brasile, a piazza Navona.

L’isola di Boipeba si trova nello stato di Bahia (Salvador). E’ lì che Cristina, italiana dal cuore verde e giallo, ha scelto di vivere. Nel vedere le foto degli abitanti, capii perché Cristina ha chiamato quell’isola «luogo senza tempo». C’è nello sguardo dei pescatori fotografati una serenità operosa, che si lega al qui e ora. Il mare è buono, ti dà nutrimento ma può pure distruggerti la barca o rubarti la vita. Come dice Caimy in una sua canzone: «Pescador quando sai, nunca sabe se volta» (“Il pescatore quando esce, non sa mai se ritorna.”). Per lavorare con il mare, l’uomo deve essere vigile, l’attenzione concentrata nell’azione presente.

La gente di Boipeba é abituata ai grandi contrasti. Come vediamo dalle fotografie di Cristina, i tramonti incendiano il cielo e il mare di una luce così forte che spacca l’orizzonte. Dopo quel tramonto grandioso, tutta quella luce si trasforma in una notte fatta di nero assoluto. La gente di Boipeba è abituata.

Penso che i veri fotografi abbiano un occhio in più dei comuni mortali. E’ con quello che Cristina ci regala la sua Boipeba. La realtà è la stessa, ma guardata da lei è come se si rivelasse oltre le limitazioni della comune percezione. I veri fotografi arricchiscono il mondo, perché fanno vedere in profondità, come succede in questa mostra.

Conversare con lei è entrare in contatto con una donna che lasciò tutto per essere fedele ai valori in cui crede. «La prima volta che sono arrivata sull’isola, mi sono ricordata di una frase che Anaïs Nin aveva scritto su Fez: “Prima o poi, si arriva sempre in una città che è lo specchio della propria città interiore”. Ecco, Boipeba è il mio specchio».

«E Roma?» le domando. «Roma rappresenta le mie radici, le fondamenta come essere umano e donna; sicuramente mi ha insegnato a percepire la bellezza. Boipeba, invece, mi ha mostrato un’altra Cristina, la parte più nascosta, che dovevo trovare per completarmi. Mi ha dato una specie di seconda giovinezza, insolenza e capacità di affrontare dubbi e paure che derivano da una vita nuova. Mi ha regalato pure uno sguardo diverso».

Torno a pensare all’immagine dello specchio. Cristina mi ricorda il personaggio  creato dal matematico inglese  conosciuto con lo pseudonimo di Lewis Carroll. Cristina, come Alice, ebbe il coraggio di avventurarsi nel suo paese delle meraviglie, un luogo dove sfuggire al Tempo, esercitare l’arte della fotografia e vivere in profonda armonia con le persone e la natura. Alice e Cristina: capaci di avventurarsi nell’ignoto.  

 

L’allestimento di questa mostra rivela non solo la ricchezza interiore dell’artista, ma anche la sensibilità dei due curatori: Paola Asquini e Andrea Ottaviani. Lui, un bravo architetto, lei pure fotografa che sta per pubblicare un testo di narrativa. Entrambi hanno disposto le fotografie in due sale: nella prima le immagini degli abitanti di Boipeba, commentate dalla stessa fotografa in una registrazione di cui i visitatori possono usufruire, chiedendo gli auricolari, Nella seconda sala gli scatti mostrano i misteriosi aspetti religiosi del Candomblé: anche questo è Boipeba, l’isola che sbarcò a Roma grazie a Cristina.

La mostra resta aperta presso l’ambasciata del Brasile fino al 3 giugno: da lunedì a venerdì, dalle 10 alle 17. L’ingresso é gratuito.

 


Foto di Cristina Cenciarelli




IMMAGINA (PER ESEMPIO A MODICA)

È cominciato tutto come progetto di Giornalismo Televisivo per bambine e bambini, ragazze e ragazzi, come ce ne sono molti in giro per lo Stivale, a cura di associazioni culturali, centri di aggregazione, parrocchie, scuole, tanti da riempire pagine gialle. Ma è subito evidente che quell’esperienza è anche altro.

Qui il video https://www.youtube.com/watch?v=J7eQUCCPjvo

Rispetto a certi laboratori scolastici non si è consumata la liturgia della compilazione delle tabelle, per tempi destinati, risorse, e poi l’approvazione, lo sgranarsi asettico di abilità, conoscenze, competenze, obiettivi, finalità, l’analisi delle ricadute, gli strumenti di valutazione. La cosa ha preso un’altra piega, a partire dalla oggettiva originalità dell’esperienza, la qualità di ciò che veniva prodotto. L’amministrazione comunale di Modica concede a quelle bambine e bambini, a quelle ragazze e ragazzi, uno spazio proprio dove continuare ad incontrarsi, una vecchia chiesa abbandonata nel quartiere di Modica Alta.

 

ripuliscono, recuperano altari, cantoria, pulpito e sacrestia, la trasformano in luogo d’aggregazione, mettono su una biblioteca (incredibilmente cartacea) ma, soprattutto, quelle bambine e bambini, ragazze e ragazzi, 50 in tutto, d’età compresa tra i 7 ed i 17 anni, si organizzano, cominciano a ribaltare il paradigma che li relega a passivi recettori delle progettazioni di adulti, scelgono invece loro cosa fare. Iniziano un’interlocuzione serrata con le istituzioni, con le scuole, con associazioni ed enti culturali, programmano percorsi, promuovono eventi, si integrano nel territorio, ne divengono soggetti attivi, attori protagonisti della sua valorizzazione, disvelano identità culturali, ne trovano la sintesi con i nuovi strumenti espressivi. Il quartiere, quella parte di centro storico che s’allontana dai fasti da cartolina della Modica più in basso, quella che si istoria del barocco patrimonio dell’umanità, li accoglie, li riconosce. Quando occupano il piccolo slargo dinnanzi alla chiesa per il biomercato non se ne lagna nessuno, “ci organizziamo” dicono, anche se quel budello si restringe in altre curve e quei pochi posti d’auto disponibili fanno comodo, che il resto del quartiere è vicoli, scale, strade strette, difficile percorrerlo a quattro ruote, impossibile parcheggiarvi. Nell’estate del 2021 progettano e realizzano Le Vie dell’Immaginario, un percorso esattamente per quelle strade quasi dimenticate che non s’avvedono della mondanità donata dai passaggi di Montalbano. Trasformano piccole chiese, cortili, frammenti di archeologia incastonati tra i vicoli silenziosi in luoghi per esporre opere di artisti che celebrano i cento anni dalla nascita di Federico Fellini, i suoi film. In chiesa si ricostruiscono, con grande attenzione per i dettagli, scene significative dei film del regista di Otto e Mezzo. In tutto ci vanno quattromila persone. In cantiere c’è Le Vie dell’Immaginario per il 2022, dedicato ad Alice nel Paese delle Meraviglie. Quest’anno il gruppo si formalizza nell’associazione Immagina, un nome che evoca volontà di prodursi in un’idea, in una visione, dentro cui si consolida una matrice etica, non come prospettiva astratta, piuttosto come abito da lavoro. L’associazione ha una struttura politica, nel senso che recupera il significato etimologicamente più puro e profondo del termine, da quel concetto dimenticato della Polis greca, consolida i legami attraverso un rapporto orizzontale e democratico, si confronta e costruisce comunità, sistemi di relazioni. La capacità di strutturare percorsi culturali e, in definitiva, la loro realizzazione, prescinde da una visione “scolastica” dell’associazionismo, nemmeno appare mai autocelebrativa. Dei processi di formazione sociale recupera, invece, d’istinto, per osmosi, i paradigmi propri delle esperienze pedagogiche più innovative, il dialogo, la relazione tra pari. Offre un’opzione di sperimentazione civile di notevolissimo interesse, un punto di riferimento da cui attingere informazioni, proposte, modalità operative anche per la scuola. In questo senso si prefigura, anche per l’età di chi fa parte di Immagina, come una sorta di scuola oltre la scuola, dove il libro di testo s’accompagna alla pratica costruttiva del concepimento d’un nuovo vocabolario, d’una nuova grammatica della condivisione e della relazione sistemica. Lo sguardo ed il punto di vista di queste ragazze, di questi ragazzi, non si ferma al vissuto quotidiano del proprio territorio, si interroga sulle dinamiche sociali, sulle grandi questioni, con un approccio ragionato. Bellissimo, in questo senso, il video “Grammatica di pace”, per la qualità della realizzazione, la profondità del testo, immaginifico manifesto d’autentica, appassionata, sentita opposizione alla guerra. Il prodotto finale della loro azione quotidiana è libero da condizionamenti, è frutto di creazione dal basso, condivisa, non è giudicabile con pagelline o inutili pletore di indicatori che il mondo degli adulti pretende quale sterile quantificatore della formazione degli adolescenti, financo per misurarne la maturazione della personalità. I legacci burocratici della scuola appaiono d’improvviso inutili al cospetto di energie liberate: nessuno lì resta indietro, s’avverte la precisa prospettiva che ciascuno può dare qualcosa al collettivo, ricavarne molto di più in cambio, e questi ragazzi ne sono consapevoli. Si muovono dentro questo ruolo con naturalezza sorprendente, quasi a significare che v’è, in una generazione ritenuta da più parti inadeguata – l’alibi perfetto per burocrati indistinti per ingabbiarla ulteriormente dentro strutture piramidali -, un enorme potenziale relazionale inespresso. Potenziale che si libera, produce risultati imprevedibili e spiazzanti, che nulla hanno da invidiare qualitativamente alle produzioni cosiddette mature. Immagina è laboratorio sociale, culturale, politico in senso lato, dimostra sperimentalmente quanto sia dirimente ed indispensabile allontanare dai percorsi formativi le derive burocratiche, gli artefatti della valutazione, del giudizio, mostra, in definitiva, l’urgenza di ripensare radicalmente le prospettive educative e pedagogiche, gli spazi aggregativi dentro e fuori la scuola. Poiché sicuramente esiste una peculiarità della scuola delle conoscenze, dei saperi disciplinari, che necessita di più cospicui interventi in risorse umane, economiche e strutturali, non si può, al contempo, non pensare ad una scuola anche delle competenze relazionali, della critica, delle pratiche democratiche, dell’immaginario e della fantasia, nemmeno si può continuare a concepirla senza tempi ampi, ingolfandola nel burocraticismo di progettazioni verticistiche, sradicate da contesti e peculiarità umane e sociali, in definitiva dai talenti.

QUI IL VIDEO «Alice in Wonderland» del trio di Bill Evans (Transcription piano, bass, drums):

https://www.youtube.com/watch?v=GVH7Wb2IZq4&feature=youtu.be

articolo ripreso da chiedoaisassichenomevogliono con il permesso dell’autore




DELLA PACE DOMESTICA

La tata aveva il giorno di libertà e lei era stata costretta a sterilizzare i poppatoi. Avvertiva ancora l’odore acuto del disinfettante. Per distrarsene aveva deciso di smaltarsi le unghie dei piedi. Seduta sul divano, china sulle gambe stese sul tavolino, attingeva lo smalto da una boccetta a forma di lacrima. Stendeva quel rosso con metodo, dal basso verso l’alto, preoccupata di non formare grumi.

     L’appartamento, in un momento di tregua insperato, era silenzioso, come non accadeva da tempo. Poi un rumore di serratura: lui era tornato. Oltre la soglia, si era poggiato col gomito al pilastro della scala interna e l’aveva osservata in silenzio.

‘Stai calma,’ si era detta ‘stai calma’ e si era costretta a guardare la stanza intorno a lei: i libri, allineati in ordine decrescente d’altezza, nella libreria; la confezione di Seroxat, aperta sul mobile, accanto a un bicchiere vuoto; le cornici d’argento, disposte in modo da poter essere viste entrando, con le foto di loro due sorridenti. Era stato lui a imporre quelle scelte nell’arredamento; lei le aveva sempre subite.

     Non era riuscita a calmarsi, anzi sconforto e confusione, se possibile, erano cresciuti. Lo sguardo di lui, fisso sui suoi piedi nudi, la metteva in soggezione e le appannava il cervello. Con pudore li aveva seppelliti sotto un cuscino del divano, lo smalto, ancora fresco, l’aveva macchiato con uno sfregio rubino, simile a una ferita. 

«Non possiamo continuare così» lui aveva detto. 

«Sei tu che hai deciso di tradirmi».

Era stata in silenzio per tutto il giorno, da stupirsi del suono della propria voce.

«È la tua immaginazione».

«Se non è così perché sparisci e mi lasci sempre più sola?»

«Io lavoro».

«Non puoi lavorare venti ore al giorno. I sabati. Le domeniche».

«Se non lo facessi non avresti questa casa, la bambinaia, le carte di credito».

«Puoi riprenderti tutto e darlo a quelle che ti porti a letto».

«Non vado a letto con nessuna».

«Non mentire. Torna dalla tua segretaria o dalle sciampiste che ti fanno l’occhietto».

«È assurda questa gelosia».

«Quando è stata l’ultima volta che abbiamo fatto l’amore?»

«Non lo so. Sei sempre piena di astio. Da quando è nato Sergio, pensi solo a lui. Sei così sciatta».

«Sto tutta la giornata appresso al bambino. Non ho il tempo per fare la mantide. Inventa altre scuse per giustificare i tuoi tradimenti».

«Ottavia, non puoi essere convinta di questo. È solo la depressione post parto», lui aveva detto e le si era avvicinato.

Ottavia, gli occhi sgranati, si era alzata, gli aveva opposto in avanti le mani rabbrividendo per il contatto dei piedi nudi col parquet.

Erano rimasti a fronteggiarsi in silenzio, ciascuno ai confini dello spazio vitale dell’altro e lei aveva percepito l’odore della sua acqua di colonia: sapeva di fiori morti.

     Aveva passato una mano tra i capelli e gridato con astio a quell’effluvio: «Hai detto che eri a Milano per lavoro, l’altra settimana. Ma nella valigia ho trovato una ricevuta dell’Hotel delle Terme di Sciacca e, tra le tue mutande sporche, un capello biondo. Basta bugie. Torna dalle tue puttane».

«Avessi detto che andavo in una clinica del benessere per stare lontano dall’atmosfera di questa casa, avresti montato un casino dei tuoi. Non so di chi sia quel capello, se c’è veramente» lui aveva risposto, il viso di pallido, trasformato in una smorfia rugosa.

Poi, senza voltarle le spalle, aveva fatto due passi indietro, urtando lo spigolo del cassettone, quello di noce scuro comprato insieme in Umbria, perdendo quasi l’equilibrio. Si era mantenuto in piedi aggrappandosi con la sinistra al bordo del mobile, mentre afferrava con la destra, tra i sopramobili disposti sulla superficie lucida, un taglia carte d’avorio. L’aveva guardata, spostando lo sguardo, d’un azzurro avverso, da quell’oggetto acuminato a lei per uno, due, lunghissimi secondi, poi, tenendolo per le estremità, lo aveva spezzato e la casa si era riempita dell’eco di quel gesto.  Aveva gettato sul pavimento i pezzi d’osso e era uscito.

Il tonfo della porta richiusa si era fuso col pianto di un neonato.

Ottavia allora aveva portato le mani alle orecchie, scuotendo più volte, a destra e a sinistra, la testa.

‘Arrivo’ aveva pensato ‘mamma sta arrivando’.

     Su, in camera da letto, si era chinata sulla culla del figlio, lo aveva rigirato su un fianco e accennato una ninna finché non si fu riaddormentato. Ottavia, allora, gli aveva rimboccato le coperte, non serrandole ai lati: temeva sempre potesse soffocare.

     Era tornata in salotto, scendendo rapida le scale, tolto dalla parete un quadro, armeggiato con i pomelli della cassaforte. Il ticchettio dentato degli ingranaggi si confondeva con il tonfo accelerato del suo cuore. Aveva tuffato la mano nel buio, oltre lo sportello corazzato aperto ed estratto un balenare d’acciaio.

Si era precipitata al balcone, il pugno serrato intorno al calcio della pistola. Dall’alto aveva individuato la sagoma di lui, ferma a parlare con una donna. E era stato come se fosse di un’altra il braccio che, sollevandosi fino all’altezza dello sguardo, aveva puntato il naso metallico dell’arma sulla schiena di lui e sparato. Intorno alla figura del marito subito si era alzati sbuffi di bitume, neri come un’eruzione, lui si era voltato in direzione degli spari, l’aveva vista ritta dietro la ringhiera e con un grido si era nascosto, rotolando su se stesso, dietro un cassonetto, insieme all’altra donna. Ottavia aveva fissato inebetita la scena, poi senza un pensiero era rientrata in casa. Poggiandosi al corrimano aveva risalito turbata i gradini verso la zona notte, della casa, accompagnata dalla percezione crescente, di urla e sirene a graffiarle l’udito. Un baluginio di luce bianca e azzurra l’aveva avvolta roteando sui muri.

     Il piccolo non si era svegliato. Soltanto dopo che Ottavia si era chiusa con lui in bagno, Sergio aveva cominciato a lamentarsi con piccoli gorgoglii musicali. Ottavia avvertiva i battiti del cuore aumentare: da adesso tutto sarebbe cambiato.

Sergio si agitava e piangeva. Lei aveva poggiato le spalle alla parete e puntellandosi con i piedi cominciato a scivolare verso il pavimento, fino a trovarcisi seduta.

Nella mano destra stringeva la pistola, col braccio sinistro sorreggeva il peso del bambino. Le dita nude dei piedi inquadravano la parte inferiore del lavabo: una convessità oscena e paurosa.

Sergio continuava a piangere, lei lo cullava ondeggiando avanti e indietro col busto. Quando Sergio aveva smesso di piangere tutto era di nuovo in silenzio. Qualunque cosa potesse accaderle, non aveva più importanza. In quel momento le andava bene così: finalmente senza di lui.

Soltanto aveva freddo; molto. La mano destra, stretta sul calcio, le tremava e la canna della pistola picchiettava sul pavimento. Era come ipnotizzata da quel suono tondo e continuo.

A scuoterla, inaspettato, lo squillo del telefono.

‘Purché non svegli Sergio’ aveva pensato precipitandosi in corridoio e passato istintivamente la pistola sulla sinistra, cercando di tenerla lontana dal corpo del figlio. Questo gesto la portò a pensare che era inutile rispondere perché il bimbo era con lei, al sicuro. Ma era troppo tardi: stringeva già il portatile nella destra.

«Non riattacchi. Mi ascolti, per favore» una voce d’uomo diceva.     

«Ho già parlato con troppi dottori. No».

«Non sono medico. C’è il suo accanto a me. Se non vuole parlargli, possiamo farlo noi due. Il bambino è con lei? Mi dica almeno questo».

«Dorme. Chi sei e perché mi telefoni?»

«Mi chiamo Lupo, sono un ufficiale dei carabinieri, voglio aiutarla».   

A quelle parole, sbigottita, aveva rivisto se stessa sparare e il marito che si rivoltava sul selciato come una frittata.

Sergio si agitava nel sonno. Un rivolo di saliva gli scivolava dalla bocca, fino alla guancia. Ottavia aveva cercato di asciugarlo con il polso della camicetta e nel farlo aveva pressato un tasto del ricevitore e la comunicazione si era interrotta in un bit metallico. Era di nuovo sola. Non ebbe il tempo di arrendersi a una crisi di pianto, perché il telefono risquillò disperato.

«Capisco come ti senti» aveva ascoltato Lupo.

«Cosa ne sai. Stai mentendo; come lui».

«Sono stato malato anch’io, come te. A volte desideravo avere un tumore. Almeno sarebbe finita».

«Nessuno può capire come ci si sente» gli aveva risposto, poi continuò con veemenza: «E quelli che credi più vicini, quando trovi il coraggio di parlare, dopo un po’ non ti ascoltano più. Faceva così anche lui».

«Calmati, adesso calmati» la voce di Lupo la esortava dal ricevitore e per Ottavia fu come se ne avesse conosciuto il timbro da sempre.

«Gli facevo paura con la mia malattia, ma non aveva il coraggio di lasciarmi».

«Sei confusa e stanca. Fatti aiutare».

«Ho solo freddo» aveva risposto, mente avvertiva le ginocchia flettersi. Si era poggiata ancora una volta al muro e il freddo della parete si aggiunse a quello che provato e, ancora una volta, i pensieri e le immagini delle ultime ore l’avevano assalita. Il cuore a mille. Soltanto la voce di Lupo le impediva di sentirsi ancora più disperata e sola; la immaginava, quella voce, partire da un luogo lontano, trasformarsi in impulsi, imbucarsi dentro fasci di cavi e raggiungerla.

Sergio dormiva, ma Ottavia avvertiva il braccio su cui era steso intorpidirsi. Ebbe paura di non riuscire a reggerlo e lo strinse più forte; il piccolo aveva riaperto gli occhi azzurro liquido e cominciato a piangere.

‘Lupo non può non sentirlo’ aveva pensato.

«Penserete a lui?» Ottavia aveva chiesto alla voce.

«Stai sicura».

«Cosa vuoi che faccia».

«Sono dietro la porta, fammi entrare. Non devi avere paura».

‘No,no,no’ Ottavia pensava scendendo  verso il salone dentro una vertigine di confusione. Più di una volta ebbe la certezza di non farcela, ma ogni volta aveva trovato la forza di poggiare il piede nudo su uno scalino, poi su un altro e su un altro ancora.

«Ottavia, ci sei? Ci sei? Per piacere, ci sei?» la voce implorava dal ricevitore, mentre lei lottava con l’equilibrio, la fatica, i contorcimenti di Sergio e il peso della pistola.

Sull’ultimo gradino, prima del parquet del salone, si era fermata. Tutto intorno a lei tremolava. Gambe e occhi le dolevano per lo sforzo.

«Non ci riesco. Non ce la faccio a aprire la porta» aveva bisbigliato dentro il cordless.

«Stai calma: va benissimo così. Sei molto coraggiosa» Lupo disse «ho un passepartout. Entro io. Stai calma».

Poi aveva percepito un graffiare metallico intorno alla serratura e il ruotare dei cardini. La porta blindata si era scostata quel tanto da permettere a un uomo di entrare. E Ottavia lo aveva visto: appesantito e scuro di capelli. Infagottato dentro un giubbotto blu.

«Ottavia» l’aveva chiamata, come se anche lui la conoscesse da sempre, almeno il suo malessere, lei aveva pensato. E mentre Lupo le si avvicinava, con le braccia in avanti e le mani rivolte verso l’alto, non si era chiesta se quel gesto era un modo per non mostrarle ostilità o per offrirle un abbraccio: si era sforzata di recuperare le sue ultime forze e gli era andata incontro. Quando gli fu vicinissima aveva poggiato la fronte sulla sua spalla.

Lupo, senza gesti bruschi, le aveva sorretto il braccio su cui Sergio si agitava e soltanto allora Ottavia lasciò cadere la pistola sul pavimento; aveva affondato il viso nella tela del giubbotto di lui e pianto a dirotto.




Il punto d’incontro di due rette parallele

    Era in piedi, le spalle alla parete, al riparo. Guardò oltre la finestra: lo scirocco soffiava sulla campagna, i muretti a secco, le masserie, i filari di vite; tutto si confondeva in un’aurea da miraggio. Al centro del cortile vide una macchina ferma sotto l’ombra del grande ulivo e si confortò: ormai un cordone di sicurezza circondava l’agriturismo: non erano più in pericolo.

     «Mi stordisce questo posto, comandante Lupo» lei disse «dopo quello che abbiamo passato».

    Alle spalle di Lupo il condizionatore combatteva monocorde la battaglia contro la calura. Nella stanza un tavolo, due sedie, un fornello su cui gorgogliava una moka, due tazze di porcellana; anche se la fuga era finita i suoi sensi, però, rimanevano vigili: avvertì espandersi l’odore del caffè e sul filo di quell’aroma, i ricordi del loro recente passato si ripresentarono non invitati.

    E fu di nuovo a Tel Aviv, al tavolino di un bar, ad aspettare.

    Il suo mestiere era fatto d’attese e paura: dell’attesa di un segnale che confermasse la riuscita di un’operazione; della paura per la propria vita, per quella degli altri; per la missione sempre sul punto di abortire. Ma poi eccola arrivare; sedere, senza guardarlo, a un altro tavolo, giocare con gli occhiali da sole, ordinare un caffè e scacciare, con la sua presenza, ansia e tensione. 

    In Lupo la certezza di portare avanti l’operazione e il sollievo di rivederla si sovrapponevano. Perché, anche se disciplina e mestiere gli impedivano di ammetterlo, lei era diventata importante quanto la riuscita della missione. E adesso era lì, a tre metri; al collo i grani di una collana di corallo. Un codice: confermava l’invio, nell’ufficio import-export usato dal Servizio come base operativa, di un pony express. Chi nota un fattorino nell’atrio di un grattacielo commerciale? Avrebbe consegnato una busta con dentro un foglio fitto di numeri e conti bancari. Un altro tassello al tradimento di lei.

    Lupo avrebbe voluto parlarle, rassicurarla e rassicurarsi, ma erano in pubblico, costretti dalla copertura. Per tutti lui era un organizzatore culturale e lei la frequentatrice, poco assidua, di conferenze e mostre: tra loro doveva apparire soltanto una cordialità distaccata e formale. Lei, perfetta nella parte, gli dedicò un sorriso accennato e un saluto col capo. Poi si alzò passandogli vicino. Lo sguardo di Lupo la seguì fino alla Mercedes, guidata da un arabo robusto, con cui andò via.

    Come sempre si scoprì turbato da lei e desiderò smettesse il doppio gioco, sempre più pericoloso, e si salvasse. Era stata per Lupo, fino ad un anno prima, soltanto una figura sullo sfondo della caccia a Saled Katami, il padre/padrone di un’organizzazione travestita da austera finanziaria internazionale, ma sempre pronta a sostenere con uomini e mezzi il terrorismo internazionale. Un’appariscente bellezza dai capelli ramati e dal corpo florido; arrivava alle mostre, con l’aria barocca delle donne mediorientali laiche e abbienti quando indossano abiti occidentali, scortata a distanza dall’autista arabo. Tutti la accoglievano e la corteggiavano, perché era il giocattolo personale di Katami. 

     A Lupo appariva lontana dal quel mondo e mai avrebbe pensato potesse rivelarsi l’anello debole della catena. Invece un giorno era arrivata in Istituto, col pretesto di iscriversi a un corso di cucina e gli aveva consegnato un foglietto.   

     «Ho copiato questi numeri dal pc di Saled. Non so. Forse possono esserti utili» gli aveva detto; a Lupo erano bastati pochi secondi per rendersi conto: quel foglietto manoscritto con numeri satellitari, e-mail e nomi di società, era la prima crepa alle difese di Katami. Aspettava quel momento da anni, ma non aveva avvertito nessun senso di trionfo, si era sorpreso, anzi, a fare i conti con la paura per il coinvolgimento di lei. Per arginare la deriva dei pensieri si era rifugiato nell’ortodossia del mestiere. Brusco aveva intascato il biglietto, sforzandosi di non pensare. Si era limitato a guardare le rughe d’espressione ai lati degli occhi di lei e a pensare che mai si sarebbe perdonato, se le fosse capitato qualcosa.

     Lei ne aveva retto lo sguardo e indicato un poster promozionale.

     «Ho imparato la lingua dalle suore. Sono cresciuta in istituto, sai. Ora voglio vederlo di persona il tuo paese» aveva detto, Facendo tintinnare i braccialetti al polso.

    «Ci andrai, quando sarà finita. È un impegno».

    Per mesi le sue informazioni avevano dato lavoro agli analisti e guidato l’azione del Servizio. Almeno fino a quando Lupo non l’aveva vista, sulla terrazza di un locale sul Mediterraneo, pallida in viso, portare a tracolla una borsa gialla. Un segnale concordato di pericolo. Mi sospettano e ho paura, diceva quel codice. Lupo aveva avvertito lo stomaco accartocciarsi e compreso: l’unica soluzione era la fuga. Via da Tel Aviv. Verso casa.

    In poche ore – secoli al suo senso d’urgenza – la finestra di fuga venne ristudiata, ricontrollata, attivata.

     La mattina dopo Lupo fu di fronte una palazzina grigia, pregando perché quel giorno lei rispettasse il consueto appuntamento dal parrucchiere. Quando l’aveva vista scendere dalla Mercedes seguita dall’autista e da un altro giannizzero aveva dato il via agli uomini, con rabbia e sollievo. Nel ricordo l’azione gli sembrava essersi svolta come al rallentatore, sovrastata dal battito anomalo del suo cuore; per entrare nel negozio occorreva attraversare un atrio: avevano agito lì e sorpreso i due mastini. Lui stesso aveva colpito, con un calzino pieno di monete, l’autista alla nuca, sferrandogli poi un calcio ai testicoli.

    Era salita sulla loro macchina muta, pallida e stupita. Lui le si era seduto accanto.

    «Hai paura?» le aveva chiesto, mentre le palme del lungomare scorrevano dal finestrino. Lei aveva intrecciato le dita delle mani, s’era addossata allo schienale, socchiuso gli occhi e ispirato forte, senza rispondergli.

        Insieme l’agente e la sua fonte, nascosti nella stiva di una petroliera Eni, avevano raggiunto Malta. Da lì, con un catamarano di linea, Pozzallo, mischiati alla torma dei frequentatori del casinò.

A Ibla, di fronte al duomo di San Giorgio, come due escursionisti qualunque tra gente qualunque. Seguendo una procedura mandata a memoria da sempre, Lupo era entrato nell’ufficio turistico della piazza e chiesto informazioni su un particolare arredo del castello di Donnafugata. Gli avevano consegnarono una busta; all’interno vi aveva trovato il cartoncino pubblicitario di un agriturismo, la casa sicura scelta per loro, e le chiavi di una macchina. Doveva portarla là e ricominciare ad attendere, come sempre aveva fatto in tutta la sua vita di spia. Succube di un riflesso pavloviano aveva percorso il basolato al braccio di lei e raggiunto un’utilitaria posteggiata appena oltre la zona pedonale.

    In macchina, assecondando i tornanti della collina, tra camion e station wagon di gitanti, non avevano parlato; assorbiti ciascuno dal sollievo che sembrava spingere avanti la vecchia Uno.

 Lo sfrigolio della moka allontanò quei ricordi. Il caffè era pronto. Lo versò nelle tazze. Lei era in piedi e lo guardava intensa.

    «Perché stai così lontano da me?» chiese.

    «Per non spaventarti».

    «Sei sempre così premuroso?»

    «È una regola: mai turbare una fonte».

    Lei prese la tazza, vi soffiò sopra. Lupo rivisse nella memoria tutte le volte in cui, durante gli appostamenti, l’aveva vista compiere quel gesto: nei night o seduta ai tavolini di un caffè. Con lo sguardo di chi non vuole essere carina lei bevve un lungo sorso e lui non poté trattenersi dal guardarle le labbra: una stilla di caffè si distribuiva a delta tra i solchi che le percorrevano quando assumeva quell’espressione dura.

    S’era cambiata d’abito e Lupo scoprì di avere di nuovo di fronte la donna di sempre e non più, come durante la fuga, il suo clone infagottato. 

     La fissò come fosse la prima volta: la giacca del tailleur le conteneva con difficoltà le forme, affondò lo sguardo nel solco dei suoi seni e avvertì un desiderio d’intimità e tenerezza, ma era in azione e non poteva permettersi fantasie. Arginò la carica del testosterone e si costrinse a guardare altrove.

    «Sono abituata a questi sguardi e a quello che viene dopo» lei disse.

     Lo sguardo di Lupo si posò sulla forma delle labbra di lei stampate dal rossetto sul bordo della tazzina. ‘Non sei più quella che ho sorvegliato per tante notti’ pensò ‘non è indelebile il tuo rossetto. Non avresti usato cosmetici di cattiva qualità prima’.

    «Perché hai scelto noi per tradire Katami?» le chiese d’istinto. Teneva la tazza di caffè tra le mani e il tepore lo confortava.

     «Sei stato tu» lei rispose sparandogli addosso gli occhi nero vino «vivevo con Saled e non m’importava da dove venisse il suo denaro. Poi sei arrivato tu e ho cominciato a chiedermi se fosse giusto continuare a non vedere. Ho seguito te».

    «Hai tradito Katami perché avevi già deciso a farlo» Lupo rispose d’impulso, maledicendo ancora una volta se stesso: mai disilludere una fonte. Ma con lei in quella stanza, scopriva di non essere più in grado di difendersi.

    «Mi confondi, comandante Lupo» lei riprese, come se comprendesse i pensieri di lui «mi parli e m’innamoro di te. Poi segui i tuoi pensieri e diventi un’altra persona e anche di questa m’innamoro. Ma tu non smetti e cambi di nuovo. Sei così con tutte le tue donne?»

    «Tu non sei una delle mie donne, signorina Schiraz».

    «Perché mi hai portata qui allora, perché mi hai salvato la vita?»

    «Perché i Servizi di mezzo mondo vogliono usare le tue informazioni contro Kaled, perché Forza 17 vuole ucciderti, il Mossad interrogarti prima che questo accada e  anche noi vogliamo la nostra parte e perché questo non è un gioco tra gentiluomini. Vuoi altri perché?»

    Lupo finì il caffè. Ne avvertì il gusto amaro precipitargli in gola e per un attimo s’illuse di avere ristabilito i ruoli: lui il controllore, lei la fonte da proteggere e sfruttare. Solo questo, niente di più. 

    «Cosa c’entra questo con noi due» Schiraz gli rispose, scrollò le spalle, proseguì:

«Ho avuto paura quando Saled mi ha scoperta e quando mi avete portato via. Ma adesso è finita. Sono stata povera. Non sai le violenze ho sopportate per uscirne. Non erano gentiluomini neanche quelli con cui andavo a letto. Ho sopportato e sono sopravvissuta. Ci riuscirò anche questa volta» disse con decisione.

    Lupo guardò dentro la tazza: alcune linee marrone, simili a lacrime, convergevano verso il fondo mischiandosi tra loro.

     ‘Come nella vita’ pensò ‘ciascuno per la sua strada ma tutti attratti da uno stesso centro di gravità’. E forse quella stanza era il loro.

    Fu sul punto di chiederglielo, ma Schiraz lo prevenne: «La mia vita è cambiata e da adesso voglio essere io a scegliere».

   Poi gli s’avvicinò e Lupo scoprì di volere attraversare la distanza tra loro, qualunque fosse. Si abbracciarono e in quel gesto, transitò tutta la loro vita passata, le paure, le ansie e i sentimenti che li avevano condotti tra quelle mura. Ma nessuno dei due, per quanto lo desiderasse, riuscì a liberarsi della soma trascinata fin lì.

    «È stata una cosa da fidanzati» le disse nella penombra.

    «È stata solo la passione tra due adulti. Non ha senso una storia tra noi» Shiraz disse.

    L’agente dentro di lui non poté darle torto. Non aveva parole. Quanto accaduto tra loro era soltanto un altro conto pagato alla vita: l’intersecarsi di due esistenze subito allontanate. La guardò negli occhi in silenzio.

     Poi gli squilli del telefono interno, annunciarono l’arrivo degli inquisitori.

        Erano in tre, guidati da una donna: giovane e sottile, non un filo di trucco. Indossava un pantalone minimal chic, da kapò; parlò per tutti: da quel momento, sottolineò, la testimone – così chiamo Schiraz – era sotto la loro tutela. Lupo comprese di essere  superfluo: l’operazione passava ai ‘regolari’. Gli era sempre stato difficile sopportarli, ma anche loro non sbavavano per gli ‘amici’. Interessi di bottega nel naturale ordine delle cose. Non dissimulò un ghigno di disgusto.

    Schiraz li guardava tutti come se nulla potesse più importale.

    «Sarai sola da adesso. Bada a te» Lupo le disse

    «Saprò guardarmi» lei gli sorrise.

    «Ne sono certo, signorina Schiraz» Lupo rispose e uscì; continenti interi ormai li separavano.

    Guidò nell’afa verso le luci di Modica.

     Doveva ancora officiare l’ultima liturgia della missione: il rapporto a Ulisse.  

    Camminò a piedi lungo la strada principale, a metà del viale giunse al portone di un edificio appena restaurato, all’altezza del suo sguardo la targa d’ottone di un ristorante; all’interno non più di sei tavoli imbanditi, su ciascuno una candela accesa.

    Ulisse era a un tavolo d’angolo. Gli sedette di fronte.

    «Ho ordinato per due» disse a Lupo e poi, come a concludere un discorso pensato tra sé: «È stato un buon lavoro».  

     Servirono una mousse decorata da chicchi caffè tostati, a Lupo ricordarono i capezzoli di Schiraz.

    «Voglio continuare ad occuparmene» disse, mentre Ulisse penetrava la gelatina col cucchiaio.

    Ulisse strinse le labbra, le arricciò, scosse il capo.

    «Sei troppo coinvolto» disse.

    «Lascerò il Servizio, altrimenti».

    «Puoi farlo, ma non la riavrai per questo. Incastrerà Katami e noi la nasconderemo. Sono le regole. Dovrai accettarle».

    «Andrò via lo stesso. Sono troppo stanco».

    «Hai solo bisogno di tempo».

    La parte razionale di lui, condivideva le ragioni di Ulisse: se avesse lasciato, col tempo avrebbe cominciato a odiare Schiraz: il loro era stato soltanto l’incontro casuale di due parallele.

    Lupo avrebbe voluto urlare, rovesciare il tavolo in terra, ma: «Non sarà una cosa breve, lo capisci» si limitò a dire.

    «Abbiamo tutto il tempo del mondo» Ulisse gli rispose, pagò il conto, andò via.

    Lupo si preparò a passare la notte in città. Il Servizio gli aveva prenotato un albergo affacciato sui vicoli.  Dette al portiere documenti falsi e un nome d’arte. Una prassi di sicurezza ripetuta da sempre in automatico, ma questa volta nel farlo avvertì una solitudine indicibile.

     Una volta in camera, uscì sul balcone a fumare. La brace della sigaretta tremava davanti ai suoi occhi. Non riuscì a resistere e fu di nuovo sulla strada.

    Camminò a testa bassa per il corso, attratto dall’insegna luminosa dell’unico bar ancora aperto. All’interno pochi avventori silenziosi. Nessuno si meravigliò del suo ingresso, né lo guardò con curiosità: l’ora tarda e l’aria pesta facevano di lui un membro d’elezione del club. Un giovane biondo reggeva in mano un bicchiere con all’interno un liquore rubino. Scuoteva la testa, sussurrava a se stesso. Lupo, senza capire perché, gli si sentì sodale.

‘Non c’è età per perdere la partita della vita’ pensò. Accese una sigaretta, ne seguì con lo sguardo il consumarsi. Tutto era immobile. Acquistò il giornale locale da un extracomunitario. Lo spiegò sul tavolo: la crisi economica avanzava, ma il governo annunciava provvedimenti; una nuova sopraelevata avrebbe decongestionato il traffico in città. La banalità di quelle informazioni lo sconvolse e comprese come il mondo andasse avanti lo stesso, indifferente alle disperazioni di ognuno. Vide su una pagina interna del giornale, di spalla a molte colonne, la foto in bianco e nero di una donna. Non ebbe bisogno della didascalia per riconoscere la donna a cui aveva consegnato Schiraz. A lei, magistrato in trincea si dovevano, raccontava l’articolo, gli arresti di alcuni esponenti mafiosi. Da domani sfruttando le informazioni di Schiraz, sarebbe diventata un eroe, pensò. Ma tutto questo aveva una vita autonoma, ormai. Non serviva combattere: le cose andavano avanti lo stesso.

    Guardò il ragazzo biondo a pochi passi da lui: aveva le lacrime agli occhi e lui, in quelle lacrime, misurò tutta la propria impotenza. Avrebbe voluto andargli vicino, consolarlo per la sua pena, qualunque fosse. Ma ormai sapeva: non ci sarebbe riuscito. Tutto sarebbe andato come doveva e quel dolore era inutile.

    Rimase seduto e ordinò un espresso, lo condì con molto zucchero: l’unica dolcezza che poteva permettersi ormai.

 




Dialogo immaginario tra un soldato e la persona che ama

” Mi sento tanto sporco piccola mia.

Puzza questa giacca che indosso, Dio mio se puzza, non solo per il fango che è rimasto attaccato. Puzza per ciò che ho perso durante questi mesi, come se ogni giorno una parte di me, della mia pelle sana, si fosse staccata dal corpo lasciando marcire tutto il resto.

Se potessi, vorrei ritrovare ogni pezzo che non c’è più, rimetterlo a posto riattaccandolo con calma, ago e filo alla mano, lontano da questo sottofondo di morte; magari seduto sulla poltrona del salone, vicino agli odori della nostra cucina, per tornare ad essere almeno una parte di quello che ero.

 Spiegarti cosa è stato sarebbe impossibile, non solo per la sofferenza che mi provocherebbe, ma perché so che ometterei tanti particolari essenziali. Ho vissuto un tempo bastardo, di una crudeltà razionale; ogni cosa era studiata per fare del male ed il male è diventato la mia normalità, quasi una religione che credevo potesse salvarmi la vita.

 Ieri, in un villaggio vicino alla base, ho tenuto in braccio una bambina scampata ad un bombardamento aereo.

Sai, era letteralmente terrorizzata. L’ho raccolta da terra, tremava. Mentre la sollevavo m’è venuto istintivo guardarla negli occhi ed ho visto una cosa alla quale non ero preparato, non so, una consapevolezza. Lo sguardo lucido di chi non giudica ma già sa, di chi riflette la tua immagine e ti uccide.

Ieri sono morto amore mio, e non pensavo potesse essere così doloroso.”




Io, le scuole di scrittura creativa, due biblioteche e un falò

Leggendo sempre più avvisi sui corsi di scrittura che si tengono in giro mi rendo conto di avere avuto una fortuna sfacciata nella vita. Proprio non ci riesco, questo sì è molto snob, a ritenere che si possa insegnare a scrivere. È una polemica, inutile e quindi più gustosa perché con un unico esito già scritto, che porto avanti da tempo, al punto che avevo anche stilato le regole per un corso di scrittura noiosa da contrapporre ai tanti e troppi corsi di scrittura creativa.

La scrittura è un sottoinsieme del racconto, una tecnica di racconto, ma l’abilità è affidata sempre più al racconto che all’oratore o allo scrittore, il raccontatore è un mezzo che si mette al servizio del racconto. Ma questo è soltanto uno dei tanti modi di guardare alla scrittura.

Un po’ sì, naturalmente, si può imparare a scrivere meglio, si può migliorare la forma, o come esprimere un concetto, si può imparare a modularlo, anche a costruire una struttura più complessa del semplice racconto, ma credo che l’utilità vera di questi corsi sia in realtà condividere con altri la tua passione, scambiarsi esperienze, sperando di avere la fortuna che le persone da cui impari siano oneste nello spiegarti che per dire qualsiasi cosa devi avere qualcosa da dire.

Perché il fine, almeno il mio fine, nello scrivere o più precisamente nel raccontare, che come accennato è questione più complessa della semplice scrittura e che andrebbe esaminata in un contesto di cui la scrittura è solo una parte, su cui non ci sono scuole efficaci, è la costruzione di universi paralleli in cui polemicamente vivere a parte, finché la realtà non si sarà adeguata alla mia idea di piacere.

Raccontare è un rito sciamanico, che per quanto tu cerchi di capire razionalmente come funzioni, quale sia la tecnica, quali i passaggi, rimane sempre appeso a un incanto che nessuna scuola può insegnare, a meno che come un rabdomante la scuola t’insegni a cercare la sorgente dei racconti, il luogo dove stanno tutti radunati in attesa di essere presi e sviluppati.  Tutte idee opinabili naturalmente, ma volevo condividere la fortuna che ho avuto a nascere in una casa con due biblioteche distinte e separate, con una sorgente che scorreva sempre da cui attingere. Tra i tanti motivi di attrito nelle nostre vite di questo non potrò mai rendere abbastanza merito ai miei genitori.

Scaffali separati

La prima biblioteca, quella paterna, era terribile, tutto ciò che un ragazzo non vorrebbe mai trovare come intralcio lungo la strada per feste, bevute, fumate, amori e avventure di vita vera. Oltre quattromila testi accumulati in cinquant’anni da mio padre, che si piccava di parlare in greco antico e partecipava a una sorta di olimpiadi del latino che si tenevano in quegli anni lontani, credo si chiamassero le Ciceroniadi, tutti i classici latini e greci (senza olive), tutti i principali autori italiani e stranieri dal settecento a ieri, uniti poi da una serie di enciclopedie e dizionari universali comprensivi di regionalismi. È stato difficile deludere mio padre ma ci sono riuscito con grande sforzo, dedizione e costanza verso l’obiettivo. Ho iniziato a leggere quella roba lì, al netto degli impegni scolastici, dopo essere entrato nei quarant’anni, quando finalmente la vita mi ha lasciato un po’ di tempo libero per nascondermi agli altri, per mangiare a casa, per fare finta di non essere in casa, per preferire libri a persone, soprattutto per godermi quello che leggevo.

Ma in quel frattempo lungo molti anni ho saccheggiato senza ritegno la seconda biblioteca di casa, quella di mia madre. Lauretta aveva soltanto la licenza elementare perché non stava bene a quell’epoca che le donne studiassero. Il padre picchiò lei e la sorella nascoste in bagno a leggere perché si distraevano dalle faccende di casa, e non è leggenda, anche questa è una storia di famiglia, ma era una lettrice di grande attenzione per variegati autori, come difficilmente ne ho conosciute in seguito.

La biblioteca di mia madre non aveva l’onore del soggiorno con le sue belle edizioni rilegate, era relegata in una stanzetta accanto alla cucina, immersa quindi negli odori che si levavano dai fornelli, cartaccia con copertine di cartone spiegazzato, apparentemente di “solo” mille titoli ma con un trucco essenziale alla loro infinita riproduzione: ogni tre mesi venivano rivenduti e altri venivano acquistati presso diversi comprotutto con cui negli anni si era stabilito un rapporto di fiducia. La biblioteca di mia madre era per il 90 per cento composta di gialli. Ecco, con quelli ho imparato più che a scrivere a credere nelle storie, nella loro importanza catartica sia per singole vite di merda che per i destini complessivi di merda dell’umanità intera: il senso della storia e di come raccontarla. Se c’è stato qualche giorno da grande in cui non ho fumato nemmeno una sigaretta non ce n’è stato nemmeno uno in cui non sono passato per la stanzetta a prendere un nuovo libro ed esaminare la questione arrivi e partenze dei libri. Come uccidere qualcuno in una stanza chiusa dall’interno senza lasciare tracce è stato per me un motivo di riflessione molto più profonda dei comandamenti cattolici.

Leggere di notte

Il via libera alla passione per la lettura arrivò intorno agli otto anni quando una zia mi regalò una lampada con il mollettone da mettere sulla testiera del letto in quanto non avevo il comodino; da quel momento in poi la notte è diventata un momento magico per leggere che ancora adesso mi tiene sveglio fino a ore incredibili, accompagnato da sempre dalla leggenda che dormo molto mentre in realtà dormo pochissimo e male, con amici, nemici e dialoghi immaginari che si svolgono tutta la notte sopra il mio letto. In tutti i miei traslochi, una ventina soltanto dentro Roma, portavo sempre con me queste innumerevoli scatole piene di libri, a cui nel frattempo si erano aggiunti altre migliaia di titoli della mia personale biblioteca, quella dei miei interessi, in prevalenza politici e di storia, migliaia di autori che forse soltanto le mamme sapevano che avevano scritto un libro, ma che magari un amico ti aveva detto che ci aveva trovato qualcosa della discussione che stavamo facendo ieri sera davanti a un vino buono e allora un occhio glielo butti. Nel 1999 ne avevo contati circa settemila.

Ed eccomi qua, nell’estate del duemila, davanti a un cassonetto sull’Aurelia, poco dopo il primo grande distributore uscendo da Roma, qualche signora in vendita poco più in là, con benzina e alcol in mano, che sto dando fuoco a tutta la carta accumulata da me, da mia madre e da mio padre nel corso di molti decenni. Sono completamente ubriaco, è vero, non ci metto molto a convincere gli agenti delle volanti accorse che non sono perfettamente lucido anche se so perfettamente che cosa sto facendo. Me la caverò con una sgridata e una multa, meglio di così non poteva andare. Ci sono ragioni profonde se sono arrivato a fare questo ma ho deciso tanto tempo fa che fb non è il luogo per parlare di sé, della propria intimità, e poi non è questo il centro della storia (come vi potrà spiegare uno di quelli che fanno i corsi per insegnare a scrivere).

La fine di un’ossessione

Il punto è che dopo lo choc dei primi giorni mi sono sentito liberato da questa ossessione. L’ossessione intanto di trovare un posto per sistemarli tutti negli scaffali. L’ossessione di non limitarmi a leggerli ma fissarli nelle diverse edizioni per capirli. L’ossessione di rimanere deluso da uno scrittore che amo. L’ossessione di trovare analogie e differenze. L’ossessione degli errori nei testi storici. L’ossessione di non ritrovare un’atmosfera come me la ricordavo durante la prima lettura. L’ossessione non c’è più.

E così da quel giorno sono l’unico contenitore per tutte le parole che ho letto, senza l’ossessione di tenerle in un archivio ma rendendole vive. Non le posso ritrovare più sulla carta e nemmeno le cerco. Grazie al digitale e ai continui furti su siti illegali ho lentamente rimesso in piedi una biblioteca con circa duemila titoli. Molto più varia, devo confessare, della precedente, molti meno passaggi e autori obbligati, più ricchezza e personalizzazione. Dove non c’è l’impatto visivo che mi fa ricordare non solo dove ho messo il libro ma cosa stavo facendo e cosa è successo tutte le volte che ho tirato fuori da lì quel libro.

Insomma le parole sono uscite dai confini della biblioteca paterna e materna, anche se ancora non riesco a dargli un filo interamente mio. Sono sempre in bilico tra dare a questa passione la forma di una costanza e quindi della fine di un gioco a cui invece voglio continuare a giocare o pensare che la scrittura, la letteratura è cosa troppo seria per giocarci. Ma le parole sono comunque quelle, mi attraversano, a volte per brani interi altre soltanto con periodi, spuntano sollecitate da una frase che sento sull’autobus o leggo sui social. Ho imparato ad aggiungere le mie di parole per rovesciare un punto di vista ritenuto oggettivo, sovvertire una realtà data, ridere di ciò per cui tutti piangono. Quelle parole lette in tanti anni sono ormai mie, non appartengono più agli autori, basta un ultimo atto di coraggio e puoi cominciare a raccontare, non soltanto a scrivere. Perché un altro dono che nessuna scuola di scrittura ti può dare è imparare a rubare brani ricomponendoli e aggiungendovi le parole che mancano. La tua scuola di scrittura sei tu, la tua vita e i tuoi pensieri, un’unità antisismica e antiatomica dove nemmeno il più feroce dei nemici che tu possa immaginare può mettere piede se tu non vuoi.

 





Terminal 5

Quella che sto per raccontarvi è un’esperienza vissuta in prima persona in un giorno d’estate del 2021. In un mondo in cui si fa a gara a dare le notizie in diretta ed a raccontare le esperienze non appena fatte, ho avuto il bisogno di far sedimentare questa esperienza e sentito il desiderio di raccontarla dopo che il tempo ha rimesso in ordine le emozioni, senza però che esse perdessero vigore.

Ferragosto 2021. Mentre gli italiani si godono meritate giornate di sole allentando un po’ la tensione accumulata in questi mesi di distanziamenti e restrizioni dovute alla pandemia in corso, i notiziari di tutto il mondo rilanciano le immagini provenienti dall’Afghanistan: i talebani stanno entrando a Kabul e lo stanno facendo avanzando con incredibile velocità, generando panico e terrore tra i civili e facendo scappare a gambe levate i militari statunitensi e quelli alleati. Caos e panico sembrano le uniche parole che possono descrivere la situazione. Giorno dopo giorno è un susseguirsi di persone disperate che tentano di raggiungere l’aeroporto nella speranza di salire su un aereo cargo militare e fare un salto nel vuoto in un mondo che non conoscono, ma verso una vita che non potrà essere peggiore di quella che temono sarà d’ora in avanti a casa loro.

La situazione è talmente concitata che a un certo punto spuntano video di persone che si aggrappano agli aerei in partenza già sovraffollati. Resistono pochi secondi e, poco dopo il decollo, si sfracellano a terra. C’è chi dice che non può essere vero e che sia tutto un fotomontaggio, mentre opinionisti di tutto il mondo si affannano a fare analisi politiche e a sentenziare su chi ha torto e chi ha ragione.

È inevitabile… Anch’io mi appassiono a cosa sta succedendo da quelle parti e mi faccio tante domande e provo rabbia per tutto ciò che non si è riuscito ad evitare, dopo tanti anni di sofferenze e risorse impiegate. Guardo quei video che sembrano surreali ma, per quanto possa essere scioccato e indignato, mi sembra di guardare un film. Faccio fatica – per quanto razionalmente sappia che è tutto vero – a credere che tutto ciò stia realmente accadendo. Ai miei occhi è un appassionante film d’azione in cui i protagonisti vivono un’esperienza al cardiopalma ma alla fine finiscono felici e contenti dentro un aereo che li porterà lontani dal nemico. Certo, qualcuno non ce l’ha fatta, purtroppo, ma… L’umanità ha vinto! Hollywood è ora, senza bisogno di effetti speciali… Fico.

Da pochi mesi sono diventato socio Volontario di Croce Rossa e sto portando a termine il tirocinio seguente il corso e l’esame di accesso. Sto cercando di fare un po’ di esperienza prendendo servizio nei vari ambiti di cui si occupa il mio comitato. Al momento sento di non essere particolarmente tagliato a fare il soccorritore, ma mi sento a mio agio nello svolgere lavori nell’ambito del sociale. Nella chat del comitato, dove si elencano i servizi da fare e dove ci si attiva, viene pubblicato un appello un po’ diverso dal solito: “Buonasera, ci è stato richiesto supporto nel recupero di materiale alimentare per fronteggiare l’ondata di arrivi di ospiti di nazionalità afgana. L’attività vedrà impiegati nr.2 mezzi trasporto merci della struttura nazionale per la quale movimentazione si richiede il supporto del personale autista nello specifico […] con arrivo a Cesenatico nella prime ore della mattina, effettuato il carico il personale farà rientro a Roma nel primo pomeriggio. Qualcuno vuole dare la propria disponibilità?”. Passano sette minuti e già un primo Volontario si dichiara disponibile. Dopo meno di un’ora dalla sala operativa ci giunge la comunicazione che tutte le richieste sono state soddisfatte. Rimango sbalordito di come dei Volontari che hanno una loro vita, un lavoro, una famiglia, si siano immediatamente resi disponibili.

Le notizie si susseguono giorno dopo giorno e anche gli aerei militari italiani stanno partendo carichi di civili afgani. La Croce Rossa Italiana si attiva per organizzare l’accoglienza dei profughi. A dire il vero non c’è tempo per organizzare un bel niente, ma ci sono persone formate per intervenire nell’emergenza. Servono però tante persone e non c’è il tempo di addestrarli e dare direttive. Serve agire. Subito.

Nella chat del nostro comitato esce così un nuovo appello:

 

Davvero non c’è tempo. Quegli attori di quei film che vedevo nei notiziari stanno arrivando. E no, non sono affatto attori. Provo un po’ di vergogna per la mia stupidità.

Mi sento impotente e frastornato di fronte a degli avvenimenti che sono troppo grandi rispetto alla mia piccola realtà. Cosa possiamo fare noi italiani, noi occidentali? Cosa io posso fare? Posso solo rispondere all’appello. Non ho scuse, sono un Volontario di Croce Rossa e questa organizzazione sta facendo il possibile per far fronte all’emergenza. Non cambierò il mondo, non risolverò nulla, ma sento che qualcosa, seppur minima, la devo fare.

Sono però ancora un tirocinante e si richiedono Volontari effettivi. Mi metto così l’anima in pace. Manco a dirlo, il giorno dopo ci dicono che accetteranno il contributo anche di Volontari tirocinanti. È fatta: appena ho l’ok, offro la mia disponibilità per fare servizio in un turno della mattina.

Sono sincero… Un po’ me la sto facendo sotto, non so cosa aspettarmi. Non ho esperienza, non so cosa mi sarà chiesto di fare e non so se ne sarò in grado. È un’operazione che vede coinvolti tutti i comitati CRI di Roma e provincia, per cui non vedrò neanche i pochi Volontari del mio comitato che in questi mesi ho cominciato a conoscere.

26 agosto. L’appuntamento è per la mattina alle 6 al terminal 5 dell’aeroporto di Fiumicino. Parto di casa con netto anticipo. A quell’ora non c’è traffico, così arrivo alle 5:30 all’aeroporto. Già… ma dov’è il terminal 5? I cartelli indicano solamente i terminal 1 e 3. In effetti non ho mai sentito parlare di questo terminal 5. Faccio un po’ di giri con la macchina, chiedo a delle hostess che stanno per entrare in aeroporto e mi dicono che è distante da dove sono ora. Cerco di seguire le loro indicazioni ma mi perdo. Entro in un groviglio di strade adiacenti l’aeroporto. Chiedo a dei poliziotti. Mi trovo dalla parte opposta. Neanche il navigatore mi è d’aiuto. I minuti passano e l’orario dell’appuntamento si avvicina. Comincio ad agitarmi. Si accende pure una spia del quadro mai vista che segnala un qualche problema alla mia auto. Ci manca solo che mi si fermi la macchina! Le 6 sono passate e oltre ad agitarmi, comincio a perdere la speranza. Non so come, ma ad un certo punto decido, un po’ a caso, di prendere una stradina; la faccio fino in fondo e mi trovo davanti ad un ingresso con le sbarre. Chiedo a qualcuno lì fuori e mi dicono che quello è il terminal 5! Solo dopo verrò a sapere che è un terminal non destinato ai voli civili, ma utilizzato per voli militari e diplomatici e che non sono l’unico ad aver avuto problemi ad individuarlo.

Aeroporto Leonardo da Vinci, terminal 5, ore 6:15. Entro in questo terminal e mi ritrovo in mezzo ad una moltitudine di persone di ogni sorta. Alcune sono sedute a terra, altre chiacchierano tra loro, alcuni corrono freneticamente da una parte all’altra, altri danno presumibilmente degli ordini al megafono in un idioma a me sconosciuto. Fortunatamente i Volontari di Croce Rossa, con le loro uniformi rosse, sono facilmente individuabili. Provo a chiedere a qualcuno cosa devo fare e dove devo andare.

  • Hai già parlato con Mario?
  • Mario chi?
  • Il responsabile dell’operazione! Guarda, è quel signore laggiù con i capelli brizzolati che sta parlando con quelle infermiere, va’ da lui.
  • Buongiorno Mario, chiedo scusa per il ritardo, ma ho avuto difficoltà a trovare il posto. Come posso rendermi utile?
  • Tranquillo, non sei l’unico. Allora, quali brevetti hai tu?
  • Ehm… Sono un tirocinante…
  • Allora, le persone che vedi sono scese poco fa da un aereo, sono state tutte tamponate prima di entrare. Una volta entrate passano per il personale medico che si è sistemato là per una prima valutazione sanitaria, poi devono attendere in questa grande sala prima di essere chiamati dalla polizia, che nel frattempo ha allestito una questura temporanea con dei tavoli nell’altra sala per l’identificazione e fare i documenti necessari. Vedi queste persone con il megafono e il gilet arancione? Sono i mediatori culturali che danno informazioni nella loro lingua. A proposito, parli inglese?
  • Giusto un po’…
  • Vabbè, va’ da Maria, quella Volontaria laggiù, e dille che ti ho detto di darle una mano.

Mi presento a Maria e mi faccio spiegare la situazione: “Le persone presenti sono da poco scese dall’aereo, hanno fatto un viaggio di molte ore, sedute per lo più a terra e hanno una gran fame. Noi ora cerchiamo di distribuire le colazioni. Ci sono i thermos con il tè caldo, cornetti e biscotti confezionati, latte e purea di frutta. Per loro c’è roba sufficiente per farli magiare; il problema è che stanno per arrivare altri due aerei pieni di persone e questa roba non basterà per tutti. Dicono che dovrebbe arrivare un nuovo carico di roba da mangiare per le 10… Speriamo bene! Dunque… Tu, Giuseppe e Francesca organizzate una postazione da cui preparare e distribuire le colazioni. Fate il prima possibile perché soprattutto i bambini sono affamati!”. Chiedo se c’è un tavolino per preparare questo bar improvvisato. “Provate a cercare, ma non credo che lo troverete. Non c’è nulla, è tutto in divenire, inventatevi qualcosa!”.

Mi guardo negli occhi con Francesca, neanche il tempo di presentarci, e ci troviamo a vagare per il terminal in cerca di qualcosa che possa fungere da tavolino. Alla fine, con degli scatoloni rimediati, mettiamo su qualcosa che assomiglia ad un tavolino di Lego, ci mettiamo sopra i thermos e tutto ciò che abbiamo. Sfruttiamo i carrelli per i bagagli per trasportare le scatole con il cibo da una parte all’altra.

In tutto ciò non ho avuto il tempo di pensare, né di capire chi fossero e come fossero tutte quelle persone che aspettavano di ricevere un tè caldo da noi. Troppi volti, troppi suoni, ordini, gente che corre, ansia di non riuscire a soddisfare le aspettative. Fa un caldo boia e questa struttura è una serra priva di aria condizionata; i guanti in lattice e le mascherine in viso non aiutano. Io, che ho caldo anche a gennaio, comincio a tamponare il sudore sulla fronte con dei fazzolettini.

Bene o male riusciamo ad allestire la postazione e a servire le prime colazioni. Quasi nessuno parla inglese, ma ci si capisce. Le persone si accalcano intorno a noi e fatichiamo a servire tutti e a soddisfare le richieste di ognuno. Sono tutti molto composti e sicuramente più silenziosi di noi. Solo i bambini gridano: i più piccoli giocano, si rincorrono e vengono in continuazione a chiedere biscotti e cornetti, anche se li hanno già avuti. Sembrano fortunatamente ignari di cosa stanno vivendo e probabilmente per loro è una grande avventura. I bambini più grandi sembrano invece coscienti della situazione. Gli adulti sono seri ma molto composti nelle espressioni e nei comportamenti. Non capisco se ciò che traspare dai loro volti è più preoccupazione, più stanchezza o più la sensazione di avercela fatta a scappare dall’inferno.

Tutti hanno buttato nello stomaco qualcosa e un primo giro di colazioni è stato fatto. Ho finalmente modo di osservare da vicino i volti di quegli attori che attori ora non sono più ai miei occhi. Gli occhi… Le donne in particolar modo hanno degli occhi grandi e uno sguardo molto profondo. I bambini sono davvero bellissimi. Ho un attimo di respiro e, mentre ricordo a poche persone di tenere le mascherine alzate, passo tra loro a vedere se hanno bisogno di qualcosa. Incredibile ma vero: i bambini giocano proprio come giocavo io da piccolo, le donne accudiscono i propri figli, gli adolescenti sghignazzano tra loro e gli uomini si prendono cura delle mogli. Qualcuno attacca il telefono alla presa e prova a chiamare i familiari rimasti in patria.

Quanto sono stupido! Cosa avrebbero dovuto fare queste persone strane che avevo sempre visto in tv? Sto per dire qualcosa che potrebbe puzzare di retorica, ma io odio la retorica e vi assicuro che non è questo il caso né l’intenzione: a un certo punto ho avuto la netta sensazione di essere un essere umano in mezzo ad altri esseri umani. Davvero io ero come loro e loro come me. È come se tutte le sovrastrutture culturali, la differente lingua, le differenti espressioni, l’abbigliamento, fossero improvvisamente spariti. Mi sono sentito bene e grato per questa sensazione.

Ma c’è poco da poter pensare e fantasticare… Una ragazza mi fa cenno e, con l’aiuto di un mediatore culturale, mi dice che la sua bimba di pochi mesi che ha in braccio ha bisogno di mangiare. Ha il necessario per preparare la pappa, ma le serve dell’acqua calda. Le dico che gliela procureremo. Ma… Dove? Chiedo ad altri Volontari ma, quella che sembrava una richiesta semplice da soddisfare, diventa improvvisamente una sfida non da poco. In quel terminal non ci sono bar né macchinette automatiche. Nessuno sa come far fronte a questa richiesta e la bimba comincia a piangere. Abbiamo fatto tanto per dare da mangiare a tutti ed ora non siamo in grado di fare qualcosa per la persona che più di tutti ha il diritto e la necessità di mangiare. Nel frattempo dobbiamo continuare a lavorare ma chiediamo a chiunque se sa come risolvere la situazione. Dopo mezz’ora due Volontari mi portano una bottiglia piena di acqua calda.

  • Ma dove l’avete presa? – chiedo
  • Ce la siamo fatta riempire in un bar
  • Quale bar?
  • Uno al terminal 3
  • E come cavolo ci siete arrivati al terminal 3? È lontanissimo!
  • A piedi.

A poco a poco la sala grande dove siamo si svuota per riempire la sala adiacente dove c’è la questura e diversi bambini hanno la maglietta fradicia perché giocano a schizzarsi con l’acqua. Ma non c’è da rilassarsi, perché ci dicono che è appena atterrato un altro aereo. Non dobbiamo far altro che fare ciò che abbiamo fatto fino ad ora. Già, ma le colazioni sono quasi finite ed ora la gente è il doppio di prima! Mezz’ora fa doveva arrivare un furgone con il nuovo carico, ma ancora non si sa niente…

Ora entrambe le sale sono gremite di persone. In quella dove sono stati allestiti gli uffici della questura, sono quasi tutti seduti a terra, disposti in circoli. Ciò che mi fa in parte stare tranquillo è che, almeno tra quelli che ho visto oggi, non ci sono bambini senza genitori. Io e Francesca siamo costretti a distribuire le colazioni rimaste solamente a bambini e a qualche mamma. Nell’attesa nervosa che arrivi il furgone, cerchiamo un po’ di capire se c’è qualche esigenza particolare. Incredibile come dopo un’esperienza così provante, siano tutti estremamente gentili e rispettosi delle indicazioni che vengono date.

Dopo un’ora dall’orario che ci era stato indicato finalmente ci comunicano che il furgone sta arrivando. Usciamo fuori dal terminal in quattro con tre carrelli dei bagagli e aspettiamo. È un’occasione per rilassarci un attimo, anche se non vediamo l’ora che arrivi. Dopo un quarto d’ora di attesa, vediamo arrivare – come un miraggio – il furgone col simbolo della CRI! Come organizzarci ora? Saltano tutti i piani: io e Francesca veniamo mandati nella sala B e altri due Volontari nella sala A. Anche qui non abbiamo nulla per creare una piccola postazione; i pochi tavolini presenti sono occupati dai pc e dalle stampanti della questura, che nel frattempo sta lavorando a pieno ritmo. Non so come, ma proviamo ad individuare un punto dove posizionarci. Stavolta le persone sono meno composte, vuoi perché sono quasi tutti giovanissimi, vuoi perché semplicemente hanno fame. Siamo circondati da persone: chi vuole un tè, chi chiede se c’è del caffè, bambini che chiedono biscotti, una ragazza chiede un cornetto, cominciano a lamentarsi di essere serviti dopo di chi è arrivato più tardi. Io corro da una parte all’altra del terminal per portare scatoloni di latte e di cornetti, mentre Francesca, da sola, comincia a soddisfare le prime richieste. Finalmente finisco di portare il tutto e do una mano a Francesca nel preparare le colazioni. Ormai abbiamo imparato pure qualche parola in lingua pashto: choi è il tè, shish il latte e kik il cornetto. Siamo costretti a prendere dei cartoni vuoti e a posizionarli ad un metro da noi, come limite invalicabile per evitare di ritrovarci tutti addosso. A quel punto compare un ragazzo afgano che ai nostri occhi appare come un angelo. È uno di loro, ma parla perfettamente italiano! Non si presenta e non abbiamo neanche il tempo di chiedergli chi sia, ma lui si mette a fare da interprete e mediatore tra noi e gli afgani. Ci dice quel bimbo cosa vuole, ci dice di mettere lo zucchero nel tè di quella signora, dice ai ragazzi di stare buoni e in fila che ce n’è per tutti. Davvero una salvezza. Quando la pressione diminuisce ho modo di scambiarci due parole:

  • Grazie, sei stato preziosissimo!
  • Figurati, ero qua e ho pensato di darvi una mano
  • Ma tu perché parli italiano?
  • Perché ho fatto per tre anni il barista alla base militare italiana di Kabul
  • Ah, capisco. Parli benissimo italiano! Toglimi una curiosità: come ti sei trovato a lavorare con gli italiani?
  • Ah, benissimo! Persone molto gentili!

Non so se lo diceva perché stava parlando a un italiano, o perché non gli sembrava carino dire qualcosa di diverso dopo che stava ricevendo ospitalità dall’Italia. A me comunque è sembrato sincero. Come è apparso, però, si è dileguato.

In quella fase concitata c’è stata un’altra presenza rassicurante: una bambina che avrà avuto 9 anni che in qualche modo si era affezionata a me e Francesca. Non parlava ed era molto timida. Per tutto il tempo è stata di fianco a noi a guardarci mentre cercavamo di soddisfare le richieste di tutti. I suoi occhi sono bellissimi, grandi e verdi, la pelle olivastra e i lunghi capelli raccolti in due trecce. Potrebbe essere una bambina modella per una pubblicità della Benetton. Le diciamo qualcosa di carino che lei non può capire e ci ricambia con un sorriso, seppur nascosto dalla mascherina chirurgica.

Siamo andati oltre l’orario di fine servizio e ora la situazione sembra essersi normalizzata. Abbiamo terminato tutto ciò che avevamo, ma ora nessuno viene più a chiederci nulla. Cerchiamo di sistemare il tutto e fare un po’ di ordine. Incontriamo il responsabile, gli diciamo quello che abbiamo fatto e che abbiamo finito il turno. Ci ringrazia e ci dice che stanno entrando i Volontari del turno successivo. Nel frattempo vedo che da una parte c’è una Volontaria che ha gonfiato dei palloncini e sta facendo giocare i bambini. Domani queste persone andranno al centro di prima accoglienza di Avezzano.

Mi avvio all’uscita e un signore con la divisa della CRI mi chiede dove andare e che si scusa per il ritardo, ma non riusciva a trovare il terminal 5. Esco dal terminal felice di aver fatto questa esperienza, di aver condiviso – seppure per poche ore – parte della mia vita con queste persone. Ed esco un po’ meno stupido e superficiale.

Entro in macchina e la spia che mi avvisava di qualche ignoto problema non si accende più. Cerco comunque il suo significato nel libretto dell’auto, tanto per capire se sarei esploso da un momento all’altro o se mi fosse caduto l’intero motore sull’autostrada. Dice che si tratta dei freni usurati.

In realtà, li avevo cambiati giusto tre giorni prima.

Badea Cartan, gennaio 2022

 




L’impossibile archimedeo

Allosanfàn parte settima: ancora Aldo Palazzolo (*)

Recupero frammenti antichi, per creare un mosaico d’immagini e suggestioni, che meritano musica a sigla, musica in fondo.

https://www.youtube.com/watch?v=sUHAp1vAr8U&feature=emb_title

Charles Baudelaire si scagliò con tale veemenza sulla fotografia, da far venire mossa ogni foto nel raggio di chilometri dal suo Salon. Non era ammissibile, per il poeta vergine, che la fulminea attrazione dell’attimo spostasse lo sguardo dalla contemplazione elevatissima dell’arte pura nella sua rappresentazione più autentica, teatro, pittura, musica, poesia. Inaccettabile il processo di massificazione e tecnologizzazione dell’arte. L’industria si sostituiva al genio creativo, lo filtrava attraverso uno strumento, poneva anche gli inetti nella condizione di potersi definire artisti.

Charles Baudelaire

Poi si fece fotografare in poltrona dall’amico Nadar, e questi ne colse, nella sua posa disincantata, tutta la poetica, sublimandola nell’attimo, appunto.

Nadar aveva compiuto il miracolo, anzi no, la magia, di elevare la sua arte a livelli insospettabili, usando l’immagine del suo più feroce – e certamente credibile – avversario, per emanciparla dal mero tecnicismo cui rischiava di essere relegata per sempre. Di più, l’invasione di campo della fotografia, capace di raccontare il reale con efficacia assai maggiore del più attento iperrealismo manierista, sospinse tutte le altre arti figurative verso orizzonti nuovi, alla ricerca di realtà parallele cui l’occhio non poteva giungere.

Come vi fosse testimone invisibile, Aldo Palazzolo raccoglie l’eredità di Nadar, la attualizza che non gli vien bene fotografare Baudelaire in poltrona. Palazzolo ritrae l’artista, il detentore unico e assoluto dell’atto creativo che genera l’opera. Quello non è in vendita, nemmeno merce plausibile a scambio, appartiene solo all’artista. Solo le opere finite sono al dettaglio. La parola opera e la sua aggettivazione più consueta, finita, sono in stridente contraddizione. Opera offre un senso di dinamismo, di divenire. Finita è qualcosa che la smentisce. L’opera è viva quando non definitivamente plasmata, ancora si trasforma, cresce, matura, cambia, impara, persino. Poi il fermento si esaurisce, l’opera è finita, non c’è più niente che la renda viva. Completare l’opera significa, dunque, recitarne il de profundis? Si espongono, si leggono, si condividono, le lapidi funerarie dell’atto creativo? Le collezioni, le esposizioni, le biblioteche sarebbero nicchie votive per le spoglie mortali dello spirito d’artisti, del loro genio sepolto, e gallerie, abitazioni sontuose, ricche di ‘opere finite’, solo cimiteri. L’artista autentico conosce questo segreto, lo custodisce gelosamente. Gli altri sono mercenari, cercano critici che recitino litanie al capezzale dell’arte che muore. Ma dopo l’atto creativo ciò che resta è comunque il demiurgo, l’artista, una donna, un uomo.

Patty Smith
Franco Battiato
Giovanni Michelucci
Giuseppe Sinopoli
Lina Wertmuller
Maria Cumani Quasimodo
Mario Perniola
Rudolf Nureyev
Claudio Magris
Don Moye
Eva Rubinstein

Aldo Palazzolo è a questi che rivolge il suo sguardo, ne destruttura la natura artistica, restituisce al corpo, all’espressione, alla posa accidentale, la dimensione stessa d’opera d’arte. L’artista non è più semplice detentore dell’atto creativo, diventa esso stesso oggetto di quell’atto, immerso nella vertigine del bianco (il nulla che nasconde il tutto infinito dei colori) che ne definisce l’immagine scarnificata sino all’espressione essenziale. Poco importa se davanti l’obiettivo vi sia Patti Smith, Borges, Bufalino, Battiato o Sinopoli, ciò che resta è la natura umana estremizzata all’indispensabile, talmente minimale da spiazzare. Il genio guarda ad altezza d’occhio, da pari s’affratella al resto del genere umano, non è più vetta irraggiungibile, solo essenza d’umanità, dunque, capolavoro definitivo. Di più, talora, sorpresa, l’immagine si destruttura ancora nel gioco alchemico del caso d’una camera oscura, si trasforma e pare che ogni incavo esistenziale, ogni concretezza artistica venga trascinata dalle onde del Mare d’Ortigia, spinta da un Kaos rigenerativo che stravolge il dettaglio, ne rende le sfumature fondamentale quadratura del cerchio, l’impossibile ricerca d’Archimede.

https://www.youtube.com/watch?v=SG8dhxHiWXU&feature=emb_title

Aldo Palazzolo, dalla Siracusa matrigna, è fra i testimoni più importanti del nostro tempo avendo immortalato i più grandi protagonisti del mondo della cultura contemporanea. Personaggi illustri (tra gli altri, Patty Smith, Adonis, Giulio Andreotti, Gesualdo Bufalino, Rudol’f Nureev, Sinopoli, Julian Beck) ma anche dettagli sorprendenti ed inconsueti che racchiudono storie, segreti, interessanti sempre. Immagini che inquietano profondamente e spesso, quasi sempre anzi, seducono. Nel 1989 il critico Peter Weiermair lo segnala fra i ritrattisti più importanti al mondo allestendo l’esposizione e il catalogo per “Il ritratto nella Fotografia Contemporanea” con artisti come Andy Warhol, Robert Mapplethorpe, Annie Leibovitz, Bruce Weber, Mary Ellen Mark, Cleg & Guttman, Lynn Davis, Thomas Ruff. Ha esposto in manifestazioni di prestigio internazionale: da Arles, dov’è presente nel 1992 con una grande personale, alla Biennale di Venezia, ai festival di fotografia di Amsterdam, Liegi, Montpellier etc. Dal ’90 in poi vira verso una ricerca personalissima che lega l’elaborazione della foto alla riflessione sulla luce e sull’alchimia e che denomina “Liquid Light”. È stato fotografo di scena nel film “Il Garofano Rosso” ed ha curato le scenografie degli spettacoli “Change de Peu” a Geneve e “Le vecchie e il mare”, dal testo del poeta greco Jannis Rytsos, a Catania e Genova. Autore dei video-ritratti dedicati a Manlio Sgalambro, filosofo catanese, ed Enzo Sellerio, fotografo e fondatore dell’omonima casa editrice palermitana.

(*) ripreso da chiedoaisassichenomevogliono





La struttura dello sfruttamento

Ho lavorato per più di 10 anni nell’edilizia in nero. Finché non si tocca con mano cos’è quel mondo, fatto di caporalato, nessuna sicurezza né tutela, non ci si rende conto. Sei malato? A casa, e ne prendo un altro. Se sei fortunato ti fanno un contratto part-time, in busta ci sono 1240€ te ne danno 850,il resto lo “trattengono”. Oltre a far lavorare persone in età pensionabile, o già pensionati che hanno sì le competenze e la maestranza, ma ormai a causa dell’età riflessi e capacità sono al minimo.
Ruspisti, gruisti, camionisti…oltre a prendere soprattutto manovalanza dell’Est Europa che lavora irresponsabilmente per “natura” causa bassa estrazione culturale. Alcolisti e derelitti vari.
Gli imprenditori, quelli che si assegnano anche appalti pubblici, lavorano con macchinari professionali con manutenzione ridotta. Ho visto trivelle per pali del 1960…
Poi c’è il grande mondo delle piccole P.IVA dell’edilizia. Evadono tutto l’evadibile, IVA, contributi, sicurezza sul lavoro, manutenzione, attrezzi, vestiario, DPI.
E tutto questo è generalizzato in tutto il paese. Ma a Roma questo schifo è presente da secoli…
Non ho mai visto in vita mia un controllo di routine sui cantieri, a parte casi particolari ed eclatanti, dove spesso ci scappa il morto.
Filippo Falotico, 20 anni.
Roberto Peretto, 52 anni.
Marco Pozzetti, 54 anni.
Morti di lavoro.
Il cordoglio non basta più. Servono più ispettori, oltre ai 2000 già sbloccati dal ministro Orlando. E servono controlli a tappeto, veri. Perché non è normale che un’azienda, fino a pochi mesi fa, avesse appena l’8,7% di possibilità ogni anno di ricevere un controllo.
Non si può assistere inermi a quella che è una strage.
Non ci si può limitare alle preghiere se, ogni anno, più di 1000 persone muoiono lavorando.
 




DELIRIO D’ONNIPOTENZA

      “Ich bin ein berliner” «Sono berlinese» così JFKennedy gli aveva gridato contro da un palco a ridosso del muro, la porta di Brandeburgo sullo sfondo; Jacqueline accanto a lui, aggrappata al manico della Dior. Con questa foto in bianco e nero fissata a calce nella memoria, per tutte le volte in cui l’avevo guardata sui libri, percorrevo, giovane promessa del management pubblico nazionale, il corridoio verso il volo. Berlino ovest, esclave dell’Occidente, non eccitava i colleghi, che avevano attivato tutte le raccomandazioni possibili per ottenere destinazioni migliori; per questo ci mandavano me, orgoglio di una madre sarta e di un padre commesso.  

     Nel 1980 verso Berlino volavano soltanto le compagnie aeree dei vincitori la seconda guerra. Lasciatomi alle spalle i sorrisi delle hostess Alitalia, fettucciate Trussardi – eravamo il quinto paese industriale del mondo e così dovevamo presentarci – mi ritrovai prigioniero del trattamento spartano della neo privatizzata British Airways e di due addette cloni della Thacher. Ma non m’importava: volavo sull’unico corridoio aereo d’avvicinamento all’Est. Lo stesso del ponte aereo del ’49. Ero dentro la Storia. Oltre il finestrino scorreva la cortina di ferro: un’oscurità percorsa da luci giallastre.

     A Tegel, appena sbarcato, si materializzò una valchiria bionda, interessata a sapere se il viaggio di herr Doktor era stato piacevole. E, accidenti, ero io herr Doktor. Si, lo era stato e herr Doktor al momento era in overdose da testosterone e lei ne era la causa. Ai controlli di frontiera, Shengen era ancora sul grembo di Giove, il fremito orgoglioso dei glutei della fraulein mi introdusse nel miracolo della mia nuova vita: il passaporto diplomatico mi esentava da dogane e burocrazia. Superai al volo i mortali in coda per ritrovarmi poco dopo in una bolla di privilegi, per me inimmaginabili soltanto poco tempo prima quando, sorretto dagli zabaioni di mammà, deperivo sulla tesi di diritto internazionale. In un mondo di stipendi in dollari, di uffici direzionali, di stilografiche per siglare documenti e di segretarie che pensavano a tutto. Anche al ritiro delle camicie in lavanderia, guardandoti come un semidio. Quell’Eldorado stava al 185 di Kunfusterdamm: l’Istituto Italiano del Commercio Estero. Tra una konditorei, con in vetrina enormi fette di torta, e Kaiser William Churche, detta da me, neoberlinese, la “chiesa vecchia”.

     Il mio arrivo confortò il Direttore: poteva, affidandomeli, affrancarsi dai lavori marginali e concentrarsi sugli inciuci per essere trasferito. Io scrivevo tabelle e relazioni o facevo la ruota a signore, infagottate in tailleur rosso Valentino e in pelliccioni di volpe, al seguito dei politici nostrani in visita pontificale. Tutte volevano fossi io a guidarle perché giovane, educato e sempre in grado di indicare, durante lo shopping, dove far pipì. Questo però, soltanto dopo aver prenotato per i consorti un tavolo al “Bel Amì” o al “Cupido”.

     Erano anni formidabili. Vendevamo di tutto: dalle scarpe fuori moda, ai corpetti elasticizzati per donna, li chiamavano “body” cambiano significato a una parola inglese e sbigottendo gli anglosassoni.  Eravamo i cinesi d’Europa.

     Io ero entusiasta e super eccitato per tutto questo. Credevo potesse continuare sempre così.

    All’incrocio tra Ku’damm e ZooBahnof, su un’altana, un agente della Statd Polizei dirigeva il traffico. Come nei libri di Le Carrè.

     Nonostante il personale miracolo economico avevo preso casa in una zona periferica popolata da immigrati, lontana dalle luci e dai negozi del centro: TurkenStrasse, vicino check point Charlie e Postdammer Platz sfregiata dal Muro. Potevo vederlo il Muro dalle mie finestre: una landa popolata da cavalli di frisia, camminamenti, torrette e dall’uggiolare dei cani, delimitata da due barriere di cemento. Lo attraversavo spesso, orgoglioso del passaporto blue della Repubblica. Sorridevo al marine di turno a Charlie e ascoltavo il gutturale accento dei “vopos” e una volta oltrepassata la terra di nessuno, le postazioni militari e il filo spinato, precipitavo in luoghi più sorprendenti di quelli che lasciavo: facciate diroccate mi venivamo incontro ammorbate dall’odore ubiquo di cavoli bolliti e margarina cubana; ancora persistente nel ricordo. Anche il faccione di Lenin, nel giardino dell’ambasciata sovietica, ne sembrava disgustato.

     Da “loro” il privilegio mi veniva dal denaro, dai vestiti, dalle scarpe italiane, dalle sigarette di marca. Al Praha caffe, ad Alexander Platz, cercavo con l’immaginazione, agenti segreti a tramare tra i tavolini di formica incontravo però soltanto ragazze, felici di venire a cena con me per consolarmi poi dalla solitudine. Davanti gli “intershop”, i negozi speciali con merci di importazione, dove avevo accesso grazie al passaporto diplomatico della cara Repubblica, alcuni passanti mi chiedevano spesso di acquistare per loro prodotti occidentali. Io guardavo le desolate vetrine del socialismo reale ed entravo. Ne uscivo con in mano il Graal: confezioni industriali di shampoo o saponi, da consegnare agli interessati dentro androni scuri. Tutto questo mi piaceva. Una volta, per due pacchetti di MS, ho potuto visitare da solo il Pergamon Museum: sono salito sull’altare di Pergamo e ho toccato la porta di Babilonia. Chi era, mi chiedevo, tra i miei amici, anche tra quelli iscritti fin dalla nascita all’ordine notarile a poterselo permettere?

    Sotto gli alberi di Unter den Linten, verso Alexander Platz, non camminavo: lievitavo. Mi sentivo felice e invincibile. Sarebbe stato bello se tutto fosse durato all’infinito.

    A metà di un Aprile ogni giorno più tiepido il direttore entrò nel mio ufficio, accennò l’inizio un discorso, cercò tra le tasche qualcosa che non aveva, piantò lì, avvolse l’aria con l’indice come a rimandare, uscì; poi, durante una pausa pranzo a base di curry wrust sulla piazza del Ka.De.We. mi confidò il proprio dramma in tutti i suoi aspetti umani: l’Istituto era stato delegato ad assistere tre suore, studentesse dall’Università pontificia, durante la loro permanenza in città,  in arrivo proprio negli stessi giorni in cui herr Direktor aveva un appuntamento irrinunciabile a Roma col proprio “politico raccomandante” a cui chiedere la sede di Londra e, per quanto ci avesse provato, non era riuscito a rinviare l’arrivo delle monache perché la Direzione generale non voleva scontentare il Vaticano.

     «Posso seguirle io. Ho imparato da lei» dissi con sicurezza.

     «Credevo non te la saresti sentita» rispose.

     «Ho portato in giro così tanta gente su e giù per Ku-damm, perché dovrei preoccuparmi per delle monache?» risposi. Non c’erano limiti alle mie capacità, pensavo.

     Il Direttore assenti, sorrise quasi paterno, pagò in contanti senza addebitare il costo all’ufficio.

     Partì di lì a poco, ventiquattrore in resta, lasciandomi signore incontrastato dell’Eden: controllavo il lavoro degli altri, concedevo le ferie agli impiegati, eccitato dal potere. Mi sentivo invincibile e invulnerabile. Non dimenticavo le monache, però. Mi sarei impegnato allo spasimo con loro per dimostrare a tutti di cosa ero capace.

    Il giorno del loro avvento le attesi in aeroporto; azzimato e profumato come credevo dovesse presentarsi un dirigente del mio livello. Le vidi arrivare lungo il corridoio degli arrivi: tre coni neri dal passo sostenuto, con le gonne ampie e le tese laterali delle cuffie fluttuanti come ali bianche d’uccelli. Un naif vivente, sullo sfondo della pianura prussiana appena oltre le vetrate.

     Ordinaria amministrazione, avevo pensato e, senza dubbi né timori, avviai la liturgia: tra monumenti, chiese e visite ad associazioni di ricamatrici emigrate, tutto si procedeva al meglio. Le venerande ospiti si comportavano come in gita premio e assimilavano soddisfatte. Io, ogni giorno di più, avevo la certezza di riuscire a dominare tutto. Tra loro non c’era una leader, solo una più curiosa delle altre: un giorno, mentre indicavo le macerie del Reichstag appena oltre la porta di Brandeburgo, in una botta di trasgressione, mi chiese di andare di là. A vedere.

     Non c’erano limiti alle mie capacità, né al trattamento a cinque stelle che le suore dovevano ricevere, perché testimoniassero al mondo le mie capacità. Potevo tutto e le avrei accontentate.

     Vaticano e “l’altra parte”, si parlavano soltanto tramite la struttura diplomatica svizzera e non era facile per noi, paese Nato, ottenere visti temporanei per l’ingresso a est. Ma per me non era un problema: esibendo la mia migliore aria da bravo ragazzo corteggiai la moglie del console elvetico: come avrebbe potuto negarmi di intercedere sul marito perché ottenessi i visti?  Herr Seitz, il marito, era contrario, ma non resistette all’assedio coniugale. Le suore ebbero i pass.

Io non sarei andato con loro avevo già perso troppo tempo dietro quei gonnelloni, pensavo. Avevo tutto sotto controllo.

      Per un insondabile mistero della diplomazia soltanto le persone di nazionalità turca potevano transitare liberamente tra i due mondi e il mestiere più praticato tra i turchi di Berlino era quello del taxista; erano anche i meno cari e io stavo nel budget. Mi rivolsi allora a Mohammed, un baffuto immigrato, di cui a volte ci servivamo per incarichi di fiducia e insieme andammo a prendere le suore al loro albergo. Il taxista guidando silenzioso assorbì il tono autoritario delle mie istruzioni sul percorso da seguire dall’altra parte. Le suore aspettavano nella hall, in completi pantalone grigi che anticipavano di anni il “minimal” chic di Armani. Consegnai a una di loro un piccolo registratore a cassette – allora il meglio della tecnologia, oggi soltanto un oggetto di modernariato –  bastava, arrivate dall’altra parte, pressare il pulsante di avvio e una voce attoriale avrebbe descritto i singoli monumenti. Andai con loro in macchina fino a Charlie e restai sul marciapiedi anche dopo che il taxi attraversò la frontiera.

     A casa mi assopii in un sonno di compiaciuto nirvana. Poi lo squillo del telefono riempì la stanza, graffiandomi l’udito. Risposi, i sensi avvolti dal torpore. Era herr Seitz. Parlava un tedesco gutturale senza pause che, per quanti sforzi facessi proprio non capivo, lo sentivo senza ascoltarlo, mentre nella nebbia della mia mente si facevano strada le parole Mohammed, taxi, suore e io pian piano recuperai le coordinate di me stesso; fu un risveglio violento; come se il cielo mi fosse caduto sulla testa. Il tassista una volta dall’altra parte aveva perso l’orientamento ritrovandosi lui, le monache e il taxi al centro delle prove della parata del 1° Maggio, la Volkspolizai li aveva fermati, avevano sequestrato il registratore a cassetta, convinti fosse una prova dell’attività spionistica delle suore.

     Il console parlava e nel mio cervello i pensieri si scontravano tra loro restituendomi panico.

     Presi un taxi al volo e gridai all’autista di fare di correre e correre. Ku’damm scorreva veloce dal finestrino: non era più la strada principale del paese delle meraviglie, ma solo un buio pieno di puttane.

    Nello studio di herr Seitz era accesa soltanto la lampada da tavolo, la luce si rifletteva sul ripiano di vetro della scrivania; non riuscivo a guardarlo negli occhi. Lo ascoltavo parlare al telefono, ora autoritario, ora rispettoso e non capivo il suo tedesco. Stavo in piedi di fronte a lui aspettando e quell’attesa non era misurabile col tempo, ma con la stretta d’ansia che provavo allo stomaco. Poi da dietro le sue spalle il bip di un fax in arrivo. Il console poggiò le mani sull’orlo della scrivania, con una spinta all’indietro avvicinò la poltrona alla macchina, ne strappò un foglio, lo lesse. Si alzò guardandomi con occhi grigi. Andava oltre il muro a prenderle, mi comunicò.

Feci per seguirlo, ma herr Seitz mi congedò. E fu come leggere i suoi pensieri: “Kaine. Kaine. Non è affare per ragazzini.”

     Passai la notte in attesa, fumando. Ero affranto; e deluso per il mio fallimento; e terrorizzato per le conseguenze del mio pressapochismo: come da protocollo avrei dovuto essere con loro su quel taxi, invece di abbandonarle al caso. E, di colpo, seppi di non essere mai stato un semidio dell’Olimpo, ma soltanto un ragazzino così assorbito da se stesso da non sapere distinguere tra fantasie e realtà; solo e perso dentro una città sconosciuta e ostile  

     Rividi le suore l’indomani in ufficio, in buona forma ed eccitate per quanto accaduto. Avevano avuto paura, certamente, ma a ripensarci adesso, che tutto era finito, si erano divertite; adesso avevano anche argomenti, avendola vissuta, per testimoniare la barbarie di “quegli altri”. Erano lì per salutarmi, il console aveva programmato il loro ritorno per quello stesso giorno, via Zurigo. Nonostante il sollievo, ero infastidito dalla loro presenza: prove viventi, come erano, della mia sconfitta. Con la forza del pensiero le spinsi fuori dall’Istituto.

   Herr Seitz, quando chiamai per ringraziarlo, fu paterno ma brusco: aveva altro da fare, quella storia per lui, era finita.

 Evitando gli sguardi dei colleghi, aspettai, barricato in ufficio, il ritorno del Direttore e le reazione della Direzione Generale.

     I giorni passarono pieni della solita burocrazia e quando, il Direttore tornò era allegro e disteso; come se le suore non fossero mai esistite e nulla fosse accaduto. Ma non era così per me: avevo il cuore sulle montagne russe, evitavo di guardarlo negli occhi.

     «Sei troppo agitato» mi chiese «cosa ti succede?»

     Sforzandomi di non balbettare affrontai l’argomento, scusandomi e scusandomi.

    Alle mie parole la sua allegria si moltiplicò, facendomi sentire ridicolo. Mi poggiò una mano sulla spalla, rise ancora.

     «Non hai di preoccuparti; le monache non ci riguardano più: se ne occupano gli Esteri, come avrebbero dovuto fare dall’inizio. Scrivi una relazione e dimentica. E in Direzione sono soddisfatti per come hai affrontato l’emergenza e attivato gli svizzeri»

  Tirò su col naso, passò una mano tra i capelli e, con aria complice, mi confidò di essere in partenza per Londra. Al Ministero gli aveva garantito il trasferimento. E questo, in parte, era anche merito mio che lo avevo sostituito. La smettessi di pensare alle monache e gli dicessi, invece, in che modo poteva ricambiare il favore.

     «Mi conceda un mese di ferie. Voglio tornare da mia madre» risposi.                    

 

 




Un incontro di-vino con Ivano Barbieri: CHIANTI CLASSICO RISERVA 2011 AZ. VILLA A SESTA IN QUEL DI CASTELNUOVO BERARDENGA, SIENA.

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Dal colore rosso rubino intenso sangue di piccione, profondissimo e impenetrabile, si muove lentamente nel calice in tutta la sua bellezza disegnando archetti e lacrime di glicerina che lentamente ricadono fittissime tra di loro. Al naso è un impressionante ventaglio di note, profumi e sentori di ciliegia, amarene, more, mirtilli e tanta speziatura. Note balsamiche che virano dal mentolato alla canfora. Note di grafite, ferrose, ematiche, di sottobosco, cuoio e tabacco, liquirizia dolce per menzionarne alcune. Un susseguirsi di profumi intensi che devastano le mie narici. Note di cacao, torrefazione, china e rabarbaro, ciliegia sotto spirito, latte e menta. Esasperato lo assaggio mentre continuo a vederlo muovere nel calice. Piacevolissimo. Avvolgente, grasso in bocca, rinfrescante. Grande freschezza e sapidità. Trama tannica fantastica, fine ed elegante. Tannini setosi e un equilibrio alcolico da purosangue. Beva piacevolissima. In bocca si ripresentano tutti i sentori già individuati prima dell’ assaggio, ma adesso la dose è rincarata da ulteriori dettagli. Marmellata di amarene, rosa canina, viola mammola, china, alloro, goudron. Persistenza notevole, molto lunga. Occhi, naso, bocca, mente e cuore affascinati da questo bel CHIANTI CLASSICO RISERVA 2011. NON SOLO LO CONSIGLIO , MA SOPRATTUTTO FATENE UNA BELLA SCORTA!

 




Zerocalcare e lo spleen

Avvertenza.

Tra queste righe il demone dello spoiler regna sovrano, continuate a leggere sotto la vostra responsabilità.

Zerocalcare è andato in fissa con l’animazione, così tanto che Netflix ha deciso di dargli la possibilità di creare una serie tutta sua.

il risultato è Strappare lungo i bordi.

Partendo dallo storyboard de La profezia dell’armadillo, il nostro ci racconta a suo modo come sopravvivere al dolore e alla vita in tutte le sue sfumature. O forse no.

Se nel libro la protagonista è Camille, che soffre di disturbi alimentari, nella serie è Alice.

Alice è una ragazza come tante altre, come ognuno di noi. Nata all’interno di una società che non ha scelto, si trova a subire la precarietà e l’insicurezza.

Alice è uno specchio (e non mi stupirei se il nome scelto fosse per quello) nella quale ognuno di noi può specchiarsi.

Immedesimarsi in lei è così naturale che si arriva a comprendere la sua scelta.

Zero racconta la sua storia, il suo essere incompatibile con la vita stessa, senza dimenticare di farci ridere e usando tutta una serie di meravigliose citazioni (vi invito a scoprirle tutte)…

Queste due vite si incontrano e si legano, poi apparentemente si perdono.

Fino al viaggio in treno per il funerale di Alice in realtà si ride, e parecchio. Ma ben presto si tramuterà in un pianto impossibile da fermare.

Non voglio svelare altro.

Ma non è un mistero perché lui e questa serie hanno avuto successo.

Perché è sempre riuscito, pur mantenendo la sua identità geografica, a raccontare la mia generazione precaria. E molto, troppo di ognuno di noi.

Questa serie fa lo stesso, ti rovista l’anima senza pietà.

Come farebbe un ottimo psicologo.

Questa serie è un gioiello, uno di qui regali talmente preziosi da essere dolorosamente reali.

E che proprio per questo merita di esistere.




MURAKAMI: REALE E IRREALE SPESSO…

Già 3 volte (ma se ci penso arrivo a 4) ho tediato chi passa in “bottega” con il mio amore per Murakami. Adesso ho finito l’ultimo – mi pare – dei suoi 26 libri tradotti in italiano. Si tratta di 8 racconti riuniti sotto il titolo «Prima persona singolare» (150 pagine, 18 euro) pubblicato pochi mesi fa da Einaudi nella traduzione di Antonietta Pastore. Gli innamorati sono esigenti o permissivi? Fedeli ma permalosi o pronti a scivolare nel tradimento alla prima delusione? Non generalizzo ma per quanto riguarda il mio amato Haruki Murakami io sono rimasto freddo pochissime volte e più che altro per brevi racconti. In generale tutti i suoi libri – soprattutto quelli più surreali ma anche gli altri “realistici” – mi hanno sempre lasciato con il gusto di… proseguire: si trattasse di 150 pagine o di 800 all’ultima riga mi dicevo “già finito?”. E il mio amico Francesco Masala mi tiene bordone. Mentre le mie amiche Bianca e Fiorella un po’ mi prendono in giro perché per anni mi hanno “incalzato”… che DOVEVO leggere Murakami ma io rimandavo.
Nel pieno dell’amore cosa scrivo di «Prima persona singolare»?

È ancora “una cotta”?
Non so. Stavolta non so. Proprio non so.
Un racconto (quello sul baseball) lo giudico bruttarello e un altro («With the Beatles») annacquato. Quattro sono ben scritti ma non all’altezza del “mio innamoramento” e nel quartetto solo uno rimanda al Murakami che si muove fra universi paralleli (per questo alcune mie recensioni ai suoi libri sono apparse in “bottega” il Marte-dì che è il giorno dedicato, in parte, al fantastico); o meglio, come scrive lui, «avevo l’impressione che reale e irreale scambiassero posto a casaccio».
Però…  «La crema della vita» mi ha tenuto sveglio di notte perché anche io – come il protagonista – ho provato a immaginare «diversi centri, anzi infiniti centri, ma in un cerchio che non ha circonferenza»; il mio amico Fabio / Jolek – con il quale ho discusso del racconto – dice che il messaggio è chiaro … ma io «non ne ho la minima idea» (sì, come il protagonista). Comunque non farò spoiler.
Se avete tenuto il conto siamo a quota 7.
L’ottavo racconto è meraviglioso, vale da solo il prezzo del libro almeno per chi ama il jazz. Si intitola «Charlie Parker plays Bossa Nova»: sin dall’inizio “Bird” – il soprannome del sassofonista – torna a vivere. Ma altro non vi dirò.
«Ci potete credere?
Spero proprio di sì. Perché è una cosa accaduta davvero».

Regatevelo, magari il 29 agosto che è l’anniversario di Bird (e di un altro Francesco: quanti intrecci amicali oggi). Colonna sonora consigliata… beh non c’è bisogno di dirlo un album di Charlie Parker anche a casaccio: con una lieve preferenza per il qui citato «Relaxin at Camarillo» (un ospedale psichiatrico in California) e/o per «Lover Man» nella versione del 29 luglio 1946.
Sì, è ancora amore.

 

Questo articolo è stato ripreso da https://www.labottegadelbarbieri.org/?s=charlie+parker




Conferenza Globale delle Donne Indigene

Partecipazione alla politica, impatto della violenza sulle comunità e difesa dei territori, sono questi i temi di cui si è parlato durante la seconda Conferenza Globale delle Donne Indigene. L’evento ha riunito, in forma virtuale a causa della pandemia, 500 leader di donne indigene provenienti da diverse regioni ed esperienze – parlamentari, artiste, donne delle Nazioni Unite, sindache e attiviste sociali –  per dialogare e rafforzare il loro movimento globale. Con l’obiettivo di riscrivere e definire una nuova tabella di marcia per tutto il mondo indigeno. Dalla metà di agosto ai primi di settembre un calendario fitto di dibattiti e workshop con un orizzonte comune: “Niente di noi, senza di noi”, per ottenere visibilità e scrivere una agenda politica globale. Dalle maori della Nuova Zelanda alle ambientaliste delle Filippine, dalle comunità del Burundi e dalle donne Twa del bacino del Congo alle nepalesi e alle donne Sami della Norvegia, alle donne Quechua, le Maya, le Mapuche, le Yucateco e le Otom delle tante realtà indigene dell’America latina.

Venticinque anni dopo la Dichiarazione e la Piattaforma d’azione di Pechino, considerata un punto di svolta per l’agenda mondiale sulla parità di genere, donne e ragazze indigene, seguite da poche osservatrici esterne, si sono date appuntamento per dire quello che vogliono, con l’idea di rafforzare l’organizzazione per il riconoscimento dei loro diritti, perché ancora si ritrovano a dover combattere la violenza strutturale e la discriminazione e l’emarginazione che le colpisce, spesso costrette da sole a contrastare l’espropriazione delle terre che abitano, la violenza ambientale, il cambiamento climatico e l’imposizione di progetti di sviluppo decisi per loro da altri. Con i loro sistemi di vita e cultura sempre sotto assedio e delegittimati dagli stati egemoni, provenienti da quei sistemi coloniali economicamente dipendenti dal saccheggio delle risorse naturali e oggi politicamente organizzati dal neoliberismo e dalla politica di mercato. Così come si legge nelle conclusioni dello “Studio globale sulla situazione delle donne e delle ragazze indigene”, allegato al kit di lancio della conferenza.

Secondo le informazioni raccolte dalle organizzazioni partecipanti, le popolazioni indigene rappresentano il 6,2% della popolazione mondiale, ma costituiscono il 15% delle persone più povere del mondo. Inoltre, mentre c’è stato un miglioramento nell’accesso all’istruzione per le donne e le ragazze in tutto il mondo, le donne indigene si trovano ancora a dover lottare per l’accesso all’istruzione di base in particolare in Africa e nella regione Asia-Pacifico, così come all’istruzione secondaria e terziaria in tutte le altre regioni dove vivono, una difficoltà legata alle gravidanze infantili, ai matrimoni forzati, all’imposizione di svolgere un lavoro anche se minorenni o spesso una discriminazione vera e propria, legata al razzismo.

In più per tutte le donne indigene, indipendentemente dalla loro posizione geografica o dalla situazione socio-politica, gli indicatori di salute assumono valori costantemente più bassi rispetto a quelli delle popolazioni non indigene, con una aspettativa di vita più bassa e tassi più alti per la morbilità e mortalità materna.

La pandemia ha esacerbato disuguaglianze già esistenti: i vaccini non raggiungono queste comunità e, nei pochi territori dove arrivano, l’importanza della vaccinazione non viene spiegata nella lingua nativa e l’uso del monolinguismo dei servizi pubblici non permette un accesso equo all’assistenza sanitaria. Anche nella sfera economica le donne indigene sono state particolarmente colpite, perché la maggior parte di loro è coinvolta in attività produttive del settore informale. In molti paesi per il coronavirus gli imprenditori hanno avuto sussidi dai governi per poter sostenere la propria economia, ma nel caso delle donne indigene e delle loro imprese locali, non c’è stato alcun sostegno. Aumentando un divario sempre più difficile da superare.

Aprendo la conferenza Tarcila Rivera Zea, ex-membro del Forum Permanente per le Questioni Indigene dell’ONU e fondatrice di Chirapaq, l’associazione formata da donne andine e amazzoniche, ha detto: “Sappiamo che ogni sorella, ogni donna indigena, in ogni angolo del mondo, in ogni comunità, lotta, si sforza e affronta situazioni perché i nostri popoli e le nostre culture sopravvivano, e molte volte non siamo visibili. Contribuiamo, collaboriamo, resistiamo attivamente, ma siamo spesso invisibili”.

Tutto quello che ha detto Tarcila Rivera Zea nasce dalla sua storia. Da lei bambina di dieci anni che ha iniziato a lavorare come collaboratrice domestica, a lei giovane donna che ha dovuto imparare lo spagnolo per sopravvivere in Perù. La ribellione che sostiene è iniziata con lei, con la sua vita materiale, e lo stesso si può dire per la tante altre donne che hanno raccontato le proprie storie e le troppe violenze subite. Violenze dovute alla militarizzazione dei territori, violenze fisiche, psicologiche, economiche e lavorative che si ripetono sia all’interno che all’esterno delle comunità indigene.

Incontrarsi e dare voce alle tante realtà rappresentate è stato utile per analizzare la continuità dei progetti politici globali, per capire come rafforzarsi e quali buone pratiche hanno dato sostenibilità finora, per capire come andare avanti. Come stabilire nuove alleanze tra le loro comunità, il loro movimento, e altri settori. Come avviare un dialogo con le autorità invitate per dare eco agli accordi e alle risoluzioni che sono emerse come spazio di advocacy e per dare risonanza alle tante che chiedono di sradicare il razzismo e la discriminazione che si esprime nell’esclusione, nella negazione dei diritti e nell’invisibilità.

“Non siamo esotiche, non siamo folklore, siamo popoli con vita”. Essere indigene è una ricchezza per tutte loro, ma sembra che per il sistema formale sia ancora una fonte di vergogna. O comunque di disinteresse.

Questo articolo è stato già pubblicato sulla rivista Left

 





Sebastião Salgado, Amazonia

È sabato mattina ed è una assolata e calda giornata a Roma, così, dopo due anni pressoché barricata dalla pandemia, mi concedo una mostra fotografica. Il Maxxi è vicino casa, posso evitare i blocchi del traffico legati al G20 che si sta svolgendo presso la Nuvola di Fuksas e concedermi l’ultimo progetto fotografico di Sebastião Salgado, Amazonia, unica tappa italiana che potrà essere visionata fino al 13 febbraio 2022. 

Dopo i controlli del green pass e della temperatura accedo al primo piano attraverso una porta che immette subito in uno spazio buio. L’idea, come ci spiega Lélia Wanick Salgado (sua la curatela e il progetto di allestimento) è di mantenere l’area della mostra quasi completamente al buio, puntando la luce soltanto in direzione delle fotografie. Le pareti sono grigio scuro mentre spazi che ricordano le ocas (tipiche abitazioni indigene) sono dipinte con dell’ocra rossa.

Il contraccolpo è notevole, in sottofondo una traccia audio composta appositamente da Jean-Michel Jarre, ispirata ai suoni autentici della foresta, come il fruscìo degli alberi, i versi degli animali, il canto degli uccelli o il fragore dell’acqua che cade a picco dalle montagne.

Dopo il progetto Genesi, dedicato alle regioni più remote del pianeta per testimoniarne la maestosa bellezza, Salgado ha intrapreso una nuova serie di viaggi per catturare l’incredibile ricchezza e varietà della foresta amazzonica brasiliana e i modi di vita dei suoi popoli, stabilendosi nei loro villaggi per settimane e fotografando i diversi gruppi etnici.

La foresta dell’Amazzonia occupa infatti un terzo del continente sudamericano, un’area più estesa dell’intera Unione Europea. Questo progetto è durato sei anni durante i quali ha  selezionato una troupe di studiosi, ricercatori, intermediari con le tribù (lo stesso figlio di Salgado ha scelto questa come missione), e ha optato per un’attrezzatura il più leggera possibile: da anni è passato al digitale affiché nulla potesse distoglierlo dall’obiettivo finale, che è testimoniare, raccontare attraverso l’uso di un telone neutro avvolto nella tela cerata per fotografare gli indigeni senza alcuna prosopopea naturalistica ad interferire.

Sono esposte più di 200 fotografie che propongono un’immersione totale nella foresta amazzonica, invitandoci a riflettere sulla necessità di proteggerla.

La mostra è divisa in due parti. Nella prima le fotografie sono organizzate per ambientazione paesaggistica, con le sezioni che vanno dalla Panoramica della foresta in cui si presenta al visitatore l’Amazzonia vista dall’alto, a I fiumi volanti, una delle caratteristiche più straordinarie e allo stesso tempo meno conosciute della foresta pluviale, ovvero la grande quantità d’acqua che si innalza verso l’atmosfera. Tutta la forza, a volte devastante, delle piogge è raccontata in Tempeste tropicali, mentre Montagne presenta i rilievi montuosi che definiscono la vita del bacino amazzonico. Si prosegue con la sezione La foresta, un tempo definita “Inferno Verde”, oggi da vedere come uno straordinario tesoro della natura, per finire con Isole nel fiume, l’arcipelago che emerge dalle acque del Rio Negro. La seconda parte è dedicata alle diverse popolazioni indigene immortalate da Salgado nei suoi numerosi viaggi, come gli Awá-Guajá, che contano solo 450 membri e sono considerati la tribù più minacciata del pianeta, agli Yawanawá, che, sul punto di sparire, hanno ripreso il controllo delle proprie terre e la diffusione della loro cultura, prosperando, fino ai Korubo, fra le tribù con meno contatti esterni: proprio la spedizione di Salgado nel 2017 è stata la prima occasione in cui un team di documentaristi e giornalisti ha trascorso del tempo con loro.

Attirando l’attenzione sulla bellezza incomparabile di questa regione, Salgado vuole accendere i riflettori sulla necessità e l’urgenza di proteggerla insieme ai suoi abitanti.

La mostra mette in evidenza la fragilità di questo ecosistema, mostrando che nelle aree protette dove vivono le comunità indiane, guardiani ancestrali, la foresta non ha subito quasi alcun danno e ci invita a vedere, ascoltare e a riflettere sulla situazione ecologica e la relazione che gli uomini hanno oggi con essa.

Mette in evidenza Salgado: “La responsabilità della distruzione dell’Amazzonia riguarda il pianeta intero, perché quello è uno spazio minacciato da troppi anni – aggiunge – complice un governo terribile che non rispetta nulla. I problemi c’erano già prima del presidente Bolsonaro, una persona orrenda che non rispetta l’ambiente né gli indios. Quando è andato al potere, era stato già distrutto il 18% di quello spazio naturale. Queste foto – continua – sono nate perché ero convinto di essere in paradiso e avevo il dovere di testimoniare tutta quella bellezza, ma tutte insieme vogliono essere così la testimonianza di ciò che resta di quel patrimonio immenso che rischia di scomparire. Spetta a ogni singolo essere umano del pianeta prendere parte alla sua tutela affinché la vita e la natura possano sottrarsi a ulteriori episodi di distruzione e depredazione

Questa progetto-manifesto ci ricorda che l’Amazzonia, la più grande foresta pluviale del pianeta, rappresenta la maggiore riserva di CO2 e la più ricca concentrazione di biodiversità al mondo. Per questo è da considerarsi un bene di tutti, un bene comune da preservare e difendere.

Vorrei chiudere invitandoVi a vedere questa magnifica mostra ma anche ricordando che proprio oggi avrà inizio la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2021, conosciuta anche come COP (Conferenza delle Parti) 26. È l’evento che tutto il mondo attende: a Glasgow, in Scozia, dal 31 ottobre al 12 novembre 2021, quasi tutti Paesi della Terra si riuniranno per rinnovare i loro obiettivi in materia di clima e mettere un nuovo tassello alla battaglia più importante che l’umanità oggi si trovi ad affrontare. E questa volta, l’aspettativa è che le parti si impegnino per scopi più ambiziosi di quelli stabiliti dalla COP21 con l’Accordo di Parigi.

Molti l’hanno già definita “la migliore, nonché ultima, opportunità del mondo per tenere sotto controllo le conseguenze devastanti del climate change”. Solo per rendere l’idea di quanto questo progetto di Salgado sia centrato ed attuale, sembra che il presidente Bolsonaro si sia presentato a questa Conferenza delle Nazioni sul Climate Change Unite con una delegazione in cui non è figurato alcun indigeno.

 

 




Grotte di Pietrasecca, un’esperienza indimenticabile

La Riserva Naturale Grotte di Pietrasecca ha un estensione di circa 110 ettari, cela un ambiente di rara bellezza, capace di suscitare forti emozioni, permettendo anche avventure speleologiche irripetibili, a contatto diretto con la natura ed in totale sicurezza.

L’area circostante al borgo di Pietrasecca, nel comune di Carsoli (AQ), le cui abitazioni a strapiombo sulla roccia ne denunciano l’origine difensiva, è caratterizzata da marcati fenomeni carsici superficiali che, da sempre, hanno richiamato l ‘interesse della comunità scientifica.

Per tale motivo nel 1992, la Regione Abruzzo, ha istituito primo caso in Italia, una riserva Naturale “Speciale” per la tutela e valorizzazione di un ambiente carsico.

In tal senso, l’amministrazione comunale di Carsoli ha sottoscritto apposite convenzioni con l’Università degli studi Dell’Aquila e con la Federazione Speleologica Abruzzese.

LA GROTTA DEL CERVO scoperta nel 1984, ha subito animato entusiasmi e curiosità per la sua straordinaria bellezza.

L’ingresso piuttosto ristretto, immette in un’ampia galleria lunga circa 400 metri, caratterizzata dalla presenza di straordinarie concrezioni candide di varia forma e struttura.

Deve la sua importanza al ritrovamento al suo interno delle ossa di un cervo di notevole interesse paleontologico e di monete romane del IV-V sec. d.c.

Forse per alluvioni o in occasione di un terremoto nel 1456 l’apertura si ostruì tornando alla luce solo nel 1984; in questa grotta vengono attualmente condotti studi sulla paleo sismicità da parte dell’Università degli studi Dell’Aquila.

La guida ambientale e speleologa Valentina Lustrati ci racconta che la grotta è lasciata allo stato naturale, senza passerelle ed illuminazioni, per tanto si vive un’esperienza completamente nuova ed assolutamente emozionante. La visita si svolge ad orari prestabiliti. Vengono forniti caschi con luce frontale e guanti e quello che viene richiesto al visitatore è semplicemente un abbigliamento adeguato, giacca e scarpe con suola in gomma scolpita. Insieme si percorre un sentiero di 350 metri immersi nel verde che porta fino all’ingresso di quello che risulta essere un mondo incantato, fatto di brillanti concrezioni, saloni immensi, uno spettacolo per gli occhi e l’anima.

Grande soddisfazione si denota dalle parole del Presidente del comitato di gestione Salvatore Callipo e dal Sindaco di Carsoli (Aq) Velia Nazzarro per i grandi risultati ottenuti e sui riscontri positivi delle persone che vengono a visitare la riserva.

Impegno e collaborazione sono alla base di tutti i risultati attuali e futuri.

Questa riserva e le sue grotte meritano di essere visitate da tutti, uno spettacolo unico.

 

 

La grotta del cervo




SUN RA, IL SIGNORE DEGLI ANELLI DI SATURNO

Il 30 maggio del 1993
Sun Ra lasciava il Pianeta Terra.
Ma la musica del visionario
del jazz non ha mai smesso
di raggiungerci: tra continue
ristampe e un flusso
costante e incredibile
di inediti, il “Living Myth”
è più vivo
(e più mitico) che mai.

 

 

Track 01. The Ship Landed Long Ago

Un’immagine, ricorrente in tanta fantascienza: accompagnata da suoni e luci rutilanti, la navicella aliena discende fin quasi a toccare terra; dal portellone dell’astronave, un fascio luminoso è proiettato sugli sprovveduti terrestri; i loro corpi sono smaterializzati e catturati dal fascio di luce; sospesi, fluttuanti, sulla soglia fra due mondi…

E così [apparve] questo riflettore. Somigliava ad un riflettore, ma adesso lo definirei più una macchina di energia, e mi illuminò. Il mio corpo si trasformò in un fascio luminoso. Come sai, quando un riflettore fa luce su qualcosa, si vedono anche dei piccoli granelli di polvere. Era proprio così che sembrava: io riuscivo a vedere attraverso il mio corpo ed iniziai a salire, ad una velocità impressionante, verso un’altra dimensione, un altro pianeta”?(Sun Ra in Sinkler, 1992).*

Tutto ciò non è però l’incipit né di un film né di un fumetto, né di un romanzo di fantascienza. Si tratta piuttosto della storia con cui Herman Poole Blount, un giovane musicista nero dell’Alabama, nel 1936 dichiarò di essere un alieno, e divenne Le Sony’r Sun Ra… l’afronauta Sun Ra, tra i primi sperimentatori della “musica spaziale”, obliquo esponente del free jazz e afrofuturista ante litteram.

La sua storia è la storia di un mistero: my story è così vicino a mystery. Sun Ra lo affermava spesso: “Io penso a me stesso come a un completo mistero. Per me stesso” (Sun Ra, 2008). Un mistero, quello dell’alieno venuto da Saturno per parlare al mondo attraverso la musica, al quale invitiamo a credere. Leggere questo rapimento alieno non come un’allegoria, ma lasciandosi scivolare nel mistero di questa impossibilità, può rivelare un infinito numero di possibilità, di linee di fuga per interrogare i concetti complessi di ‘cultura’, ‘identità’, ‘umano’, ‘spazio-tempo’ e ‘radici’. Sono linee di fuga che interessano così tanto lo spazio esterno a noi, quanto quello interno. La divisione stessa tra lo spazio interno e quello esterno anzi esplode: non allegoria, ma allucinazione. Un’allucinazione, un disorientamento fisico e mentale nello spazio-tempo… un time warp, un tempo piegato e ripiegato, non disteso in maniera lineare.
Basato sull’equazione fra la slave ship e l’astronave, l’Afrofuturismo, o fantascienza afrodiasporica, segue proprio questa linea di (dis)orientamento nello spazio, piegando il concetto del tempo finché le divisioni rigide tra passato, presente e futuro collassano verso un assetto mobile, sempre in continua ri-definizione. La fiction di questo movimento creativo prova ad immaginare l’impossibile: snodando e riannodando frasi diasporiche di passato nel presente, attualizza le potenzialità della cultura tecnologica pop, generando nuovi territori emotivi futuribili.

Track 02. I’m Not Human

Nel 1984, Semiotext(e) pubblica un’intervista di Rick Theis a Sun Ra, intitolata “Fallen Angel”. A settant’anni dal suo ‘arrivo’ sulla terra, Sun Ra ribadisce di non essere umano: né lui, né nessun nero ‘diasporico’ lo sono.

“Io non sono umano. Non ho mai chiamato nessuno “madre”. […] Non ho mai chiamato nessuno “padre”. Non mi è mai venuto in mente di farlo. […] [Q]uesto pianeta non è abitato soltanto da umani: è abitato anche da alieni. […] Il punto caldo di questa scena sono gli Stati Uniti. […] Non è mai successo, nell’intera storia del mondo, che un popolo intero sia stato preso e portato in un altro posto attraverso la Sezione Commerciale, se non qui. […] Qui è successo. […] A quella gente non serviva il passaporto. Sono entrati come gente fuori posto. […] Semplicemente, quelli lì hanno preso della gente e l’hanno fatta entrare dicendo: “Non prestar loro attenzione, non sono nulla…sono quasi bestie”
(Sun Ra, 1984).
 

L’affermazione “Io non sono umano” acquista maggiore potenza spiazzante se letta sullo sfondo dei movimenti per l’empowerment dei neri americani, caratterizzati dalla volontà di opporre alla cultura bianca, nella quale il nero era designato come sub-umano, l’umanità del popolo nero. Necessaria per questa rivendicazione era la costruzione di una logica identitaria come base ideologica per la possibilità del cambiamento politico. Nel corpo del movimento per i diritti civili e del Black Power, la rilettura che Sun Ra dava del concetto di alienazione si poneva invece come linea di dissonanza e allo stesso tempo come una linea di costruzione, che attraversava e accelerava il movimento del corpo stesso. “Io non sono umano”, allora, è una trasformazione(in)corporea: un’affermazione che innesca un divenire, dentro fuori dal corpo.

Nel film di John Coney del 1974 Space is the Place, Sun Ra si materializza improvvisamente fra i giovani militanti del Black Power di un piccolo centro sociale giovanile di Oakland. I ragazzi si fanno beffe dei suoi sgargianti abiti spaziali alla egiziana e delle sue scarpe zeppate, così come della sua chiamata ad imbarcarsi per un viaggio intergalattico; alla fine gli chiedono:

“Sei reale?”. “Non sono reale. Sono proprio come voi. Voi non esistete in questa società. Se voi esisteste, la vostra gente non starebbe lottando per la parità di diritti… Perciò, sia io che voi, siamo miti. Io non vengo da voi in veste di ‘essere reale’; vengo presso di voi come mito. Perché ecco cosa sono i neri: miti”
(Sun Ra dal film Space is the Place).

Track 03. Tone Scientists

Per Sun Ra la cultura nera non è il punto di arrivo di una ricerca volta all’indietro, verso le origini, to dig and get to the root; è piuttosto il punto di partenza per un’ulteriore rielaborazione, che procede attraverso un uso straordinario della tecnologia come mezzo d’invenzione. Quella di Sun Ra è una produzione artistica che presenta un’idea complessa dell’identità nera, mettendo in relazione materiali fantascientifici, mezzi tecnologici ed elementi storici delle culture di deriva(zione) africana per esplorare e mappare uno spazio di esistenza del nero che è ancora e sempre a venire. La sua musica è aliena, perché non parla della strada, né la riproduce, ma si apre alla creazione; ed è diasporica, perché raccoglie la molteplicità, tanto quanto il continuum della cultura nera.
Quando Sun Ra dice space non parla di uno spazio vuoto al di sopra delle nostre teste, ma di uno spazio pieno in cui noi ci muoviamo; space is the place, ovvero il luogo mobile in cui materiali, corpi, discorsi e affetti si articolano gli uni con gli altri.

Sun Ra amava giocare con le parole, e spesso ne usava i suoni per veicolare la sua filosofia tra passato e futuro: “Darwin non aveva colto il quadro completo. […] Anch’io parlo di evolution, ma lo scrivo e-v-e-r-lution [«sempre- luzione»]” (Szwed, 2013). Un’evoluzione che, così, non procede seguendo linee di progresso, ma attraverso incessanti concatenamenti, allacciamenti e slacciamenti, pieghe, loops, senza fine…?L’interesse per le prime strumentazioni elettroniche, come il Solovox, i primi sintetizzatori, come il Moog, i primi apparecchi di registrazione paper-backed, come l’Ampex, e le pulsazioni elettriche della città, può procedere così di pari passo con lo studio della religione egiziana, del Book of the Dead, della Cabbala, con le riletture della Bibbia.

Track 04. Finding the Universe in a Grain of Sound

Nella musica di Sun Ra continuamente si costruiscono assemblaggi: la cultura, bianca e nera, è continuamente tradotta (trasportata). È dinamismo. Come le storie sono assenti e presenti nella memoria, così i frammenti culturali sono assenti e presenti nell’evento sonoro. L’evento sonoro, a sua volta, è la pratica stessa attraverso cui si generano e si sfaldano, continuamente, nuove soggettività. Chiudendo l’introduzione a The Black Atlantic, il critico britannico Paul Gilroy invita ad ascoltare proprio la musica per sentire la diaspora (cfr. Gilroy, 2003). Centrando il suo scritto intorno alla nave come tecnologia in movimento, Gilroy presenta l’Atlantico nero come una rete transnazionale che non si sviluppa secondo la forma di una radice, ma in maniera rizomatica. L’enfasi è sugli spazi creativi in cui la modernità è tanto vissuta quanto resistita.
La nave spaziale su cui sale Sun Ra viaggia attraverso la musica: in essa, le infinite potenzialità combinatorie della cultura afrodiasporica sono continuamente attualizzate, perché allo stesso tempo tutte le altre combinazioni sono virtualmente presenti nel tessuto musicale.

 

Sun Ra era solito impegnare la sua Arkestra in lunghe ed estenuanti sessions. Preparata la partitura di un pezzo e mostratala ai musicisti, li invitava a dimenticare immediatamente quanto scritto. La memoria stessa, o l’amnesia, sarebbe stata il terreno di mezzo da cui partire ad ogni esecuzione dell’evento sonoro, cosicchè ogni tentativo di ripetizione di un pezzo diventava una differente versione del pezzo stesso, influenzata tanto dalle direzioni di Sun Ra, quanto dai luoghi e dalle reazioni dei musicisti e del pubblico.
La musica, così, non era mai veramente completa e anzi doveva restare sempre aperta, affinché potesse compiere il proprio compito, che era quello di suscitare degli effetti (affetti), ogni volta diversi. Sun Ra, i musicisti, il pubblico, gli spazi modificano la musica, e sono da essa modificati. Così il nuovo entra nel mondo.
Tra tutte le infinite possibilità combinatorie dei suoni, alcune di esse sono momentaneamente raccolte in una specifica esecuzione, che sembra consolidarsi pian piano in una melodia; allo stesso tempo, però, tutte le altre possibilità non sono tagliate fuori, anzi continuamente intervengono, salendo e scendendo di volume o intensità e seguendo scansioni ritmiche diverse, un contrappunto, una linea di fuga nel momentaneo assemblaggio di un pezzo. L’evento sonoro, campo di forze, battaglia fra forze, abbozza un centro sonoro ripetitivo, circoscrive una traccia musicale marcata da segni riconoscibili, si lancia verso l’improvvisazione liberando un potenziale. Sun Ra aveva inventato un accordo speciale per destrutturare la musica: lo chiamava “space chord” e si tratta di solito di un accordo dissonante che egli suona improvvisamente, nel momento esatto in cui il suono inizia a consolidarsi in un ritornello, sciogliendo nuovamente la materia sonora, che fugge in diverse direzioni…

 

I brani di Sun Ra e dell’Arkestra non hanno nessuna struttura narrativa, non raccontano una storia, ma continuamente catturano e rilasciano delle sensazioni, delle energie, non per un fine ultimo, ma per la gioia stessa della combinazione. Non a caso, A Joyful Noise è il titolo di un video documentario su Sun Ra e la sua Arkestra diretto da Robert Mugge nel 1981. La musica qui è quindi un lavoro di assemblaggio e sfaldamento continuo del caos che procede per sintesi, micro-unità di suono, connessioni imprevedibili.
Lo spazio cosmico è, per Sun Ra, proprio questo significante così aperto da sfuggire alla significazione: il suono è sfaldato, sfogliato, split e sliced secondo una serie infinita di assi; un’operazione che, naturalmente, l’uso di effetti elettronici aiuta a compiere, introducendo distorsioni sonore che rivelano la materialità del suono stesso, molto più vicina alle grida del teatro della crudeltà di Antonin Artaud che agli inni della chiesa battista nera. È pure vero che Sun Ra si muove all’interno di una tradizione nera, quella del jazz e quindi dell’improvvisazione; eppure, il jazz di Sun Ra è diverso.
L’orchestra di Sun Ra, pur nella scia delle orchestre nere, le bands, non è un’orkestra… è un’Arkestra. In un’orchestra tradizionale, infatti, ogni ruolo è assegnato, come in un corpo umano; nell’Arkestra di Sun Ra, però, questo corpo non è umano e il legame tra forma e funzione è interrotto dalla trans-formazione, cosicché il suono diventa pura intensità in libera circolazione. Nelle note di accompagnamento all’album Space is the Place (1973), sotto l’elenco dei musicisti e l’indicazione dello strumento da ciascuno suonato, compare una scritta: “Come tutti i marines sono fucilieri, tutti i membri dell’Arkestra sono percussionisti”.

 

Questa piccola nota contiene moltissimo. Da un lato, infatti, sottolinea questa esplorazione del corpo tanto dello strumento quanto dello strumentista, svincolata dalle abitudini manuali e mentali, verso la liberazione di energie pure. Da un altro lato, essa sottolinea l’importanza delle percussioni nella musica di Sun Ra. Nelle esibizioni dal vivo, le percussioni generano associazioni visive. In questa accelerazione della sensazione, anche l’abito, la luce, il colore sono musica.
Lo spazio acustico è un campo di relazioni, che, attraverso il labirinto dell’orecchio, raggiunge i centri nervosi e si ripropaga all’occhio, ma anche alla pelle e alle membra che danzano, costruendo un cosmo. È il suono che (è) danza.
Infine, l’immagine dei fucilieri introduce il concetto della disciplina. La liberazione delle intensità sonore non è caos, ma una pratica di ricerca delle migliori combinazioni, che non sono mai sempre le stesse, perché sempre in trasformazione.
La vastissima produzione di Sun Ra e dell’Arkestra, che si dipana lungo decadi in una costellazione di pezzi impossibilmente densi, ha acquisito nel tempo un’aura mitica: agli album noti si affiancano dischi rari, opere per lo più auto-prodotte e distribuite ai concerti, con etichette scritte a mano dai membri dell’Arkestra, copertine disegnate dalla comunità di musicisti e amici di Sun Ra, registrazioni live sempre sorprendenti… Un universo sonoro in continua espansione, attraversato, con gioia e curiosità, da un nomade della cultura; un invito a scoprire il potere vitale e creativo che è in ognuno e in ogni cosa.

“È la musica di te stesso… che vibri. Sì, anche tu sei musica. Ognuno ha una sua parte da suonare in questa immensa Arkestra che è il Cosmo”
(Sun Ra dal film Space is the Place).

* Le traduzioni dei testi di Sun Ra in questo articolo sono di Beatrice Ferrara, tranne dove indicato diversamente.

ascolti
  • Sun Ra, Space is the Place, Impulse, Universal Music Company, 1998.

 

letture
  • Paul Gilroy, The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza, Meltemi, Roma, 2003.
  • Mark Sinker, Loving the Alien. Black Science Fiction, in The Wire, Issue #96 (febbraio 1992).
  • Sun Ra, Fallen AngelExcerpt from an Interview with Rick Theis”, Semiotext(e) 12, Oasis, Vol. 4 No. 3 (1984).
  • Sun Ra, citato in Tongues of Fire, Lost in the Stars’: Hitching a Lift Down Sun Ra’s ‘Strange Celestial Road’, 2008 (non più reperibile).
  • John F. Szwed, Space is the place. La vita e la musica di Sun Ra, Edizioni minimum fax, Roma, 2013.

 

visioni
  • John Coney, Space is the Place, 40th Anniversary Edition, Harte Recordings, San Francisco, 2014.

 

Questo articolo esce in contemporanea sul blog   https://www.labottegadelbarbieri.org/ e viene tratto da quello già pubblicato in http://www.quadernidaltritempi.eu/sun-ra-il-signore-degli-anelli-di-saturno/





UNA RISATA VI SEPPELLIRÀ! VIVA MARTONE

Vi ricordate di Orazio Smamma? È il personaggio di un film di Bellocchio che finge di essere defunto per vincere una volta tanto un premio in uno straccio di concorso, perché «in Italia i morti comandano» e solo dopo che uno è morto «i necrologi parlano di “Ingiustizia”, “Risarcimento”, i grandi intellettuali fanno autocritica in pubblico e i professori universitari, quelli che fino a qualche giorno prima mi consideravano Zero, Zero, hai capito, Zero, quei professori oggi obbligano i loro studenti a laurearsi su di me, ma poveracci, cazzo, poveracci» (da «Il regista di matrimoni»). Beh, senza voler augurare la morte a nessuno ed essere iettatori, possiamo suggerire ai migliori talenti del nostro cinema un altro trucco per vincere qualche premio: fingere di essere dispersi in mare ed essere stati ritrovati su un’isola deserta dopo qualche mese, tanto proprio su un’isola deserta stanno pure adesso. Parlo, se non l’aveste capito, di quello schifo del Festival di Venezia, dominato da una banda di minorati che, tanto per cambiare, ha colpito ancora. Ma come direte voi? Ma se «Il corriere della sera» ha trionfalmente dichiarato che è stata «una delle migliori edizioni di questi anni» nella quale i film premiati «toccano la vita e la morte», e hanno vinto addirittura film che sono «un salto nel buio produttivo…senza dialoghi» e via idolatrando? Sì, sì lallerò… Vita, morte, buio… Intanto però vince Netflix e continua a giganteggiare una formula autoritaria di distribuzione a pagamento riservata ai soli abbonati, ai soli soci del Club dei Migliori. E vince Wildbunch, che affila i coltelli per fare le scarpe a Netflix e si lancia sul mercato del download, anch’esso a pagamento, fatto sempre dai Migliori in foia di migliorie. Chi se ne frega se così ammazziamo la visione nazional-popolare rivolta a tutti e non solo ai Migliori; sì insomma la visione collettiva, magari in piazza aggratise l’estate, in mezzo alla gente comune. E invece viva la circolazione semiprivata dei film, con la scusa di parlare al solitario fruitore (in privato mi raccomando!) dei Problemoni. Già i grandi “probbbblemi” dell’Uomo (mi raccomando la U maiuscola) manco fossimo un cineclub della parrocchia dove quello che conta è il “dibbbattito”. Col cavolo che vince chi è capace di sparire dietro la macchina da presa, di dirigere con mano ferma attori eccezionali, di tenere tutto in pugno dalla prima all’ultima inquadratura, di servirsi di dialoghi brillanti, scoppiettanti, affascinanti, tipo «A qualcuno piace caldo»! Col cavolo che vince la professionalità vera e il senso dello spettacolo! Vincono i “grandi Probbblemi dell’Uomo” nei quali spicca il contenuto, mica l’arte. Oppure vincono i film “senza dialoghi” e senza capo né coda: i film fintopensosi, fintorustici, insomma finti e basta; quelli che ti lasciano ammutolito, schiacciato, frastornato, rimbambito, a chiederti “Ma avrò capito bene?”. Non c’è spazio per nessun artista in questo mondo di seriosi da salotto, di fasulli della porta accanto e di Porta a Porta, di perbenisti neoconformisti, che hanno sostituito i vecchi stereotipi coi nuovi stereotipi al grido di “freak è bello”, per non confessare che “massmediatico è bello”, o se preferite che “basta che la gente paga e obbedisce è bello”. È chiaro che in questa prospettiva per il film di Martone – «Qui rido io» – non c’era un briciolo di possibilità. Tutto sommato, meno male, così il regista non si è contaminato con l’orgia di schifezze della nuova comunità dei perbenisti, ignoranti e arroganti che esultano agli ordini di Netflix e invece di urlare “Sieg Heil!” urlano “Sì Rai!”.

Ricominciamo da capo. Se non avete visto il film correte a vederlo. E se non vi fidate di me fidatevi dei dieci minuti di travolgente standing ovation del pubblico a Venezia. Un pubblico che è molto più maturo di quelli che decidono in suo nome.

«Qui rido io» è semplicemente meraviglioso. Toni Servillo è semplicemente meraviglioso. Del resto la classe non è acqua. Mentre tutta questa manica di deficienti erano ancora poppanti, il grande teatro napoletano era già straordinariamente adulto. Grande teatro significa testi, registi, attori e tradizione. Qualcosa come la Comédie française o l’Opera italiana dei tempi d’oro. Ma voi credete sia un caso se vengono fuori personaggi come Verdi, Rossini, Molière? Credete davvero alle stronzate dei critici che parlano del “Canone” delle arti, stabilito dai critici, una banda di banditi, finti arbitri del gusto e realizzato dai grandi geni [!!] isolati quanto sdegnosi che mirano solo alle prime pagine dei giornali? Un grande autore, come un grande attore nasce da una tradizione vivente (e sottolineo vivente) che viene alimentata continuamente da un lavoro serio di generazioni di autori e di impresari, a partire da repertori di opere solidi e sperimentati, che vengono rinnovati con intelligenza. E a partire da un rapporto con il pubblico vero, in sala, non con quello virtuale. Rapporto caldo e vivo, che si rinnova continuamente con la partecipazione. In luoghi adatti, come il Teatro Valle di Roma, vergognosamente abbandonato dalle istituzioni, in cui sono state girate (non a caso) tante scene di «Qui rido io».

Il teatro napoletano non è nato dal nulla. Era già straordinario nel Settecento grazie a grandi autori in prosa e versi e a grandi compositori come Paisiello. Per questo è durato nel tempo, ovviamente rinnovandosi, ma non alla maniera dei minorati che sanno solo “rottamare” quello che non riescono ad uguagliare.

Eduardo Scarpetta, il personaggio a cui si ispira «Qui rido io», fu proprio un innovatore radicale senza essere uno squallido “rottamatore”. Eduardo “uccise” Pulcinella, per così dire, e ne prese il posto, creando un personaggio, Felice Sciocciammocca, che è una specie di Charlot e di Totò.

Sciosciammocca in napoletano significa chi sta a bocca aperta. ”Scioscia” vuol dire soffia e “soffia in bocca” (scioscia ‘mmocca) significa chi respira a bocca aperta, cioè sta sempre a bocca aperta, si meraviglia di tutto, è credulone, ingenuo. Ma solo in apparenza. Di fatto la sua ingenuità disarmante rivela tutto quello che il mondo vuole nascondere. Come il bambino che dice ingenuamente “il re è nudo” nella favola di Andersen e rivela quanto è stupido il re e quanto vile la sua corte.

In fondo il personaggio è una replica moderna del Pulcinella che «ridendo, ridendo diceva la verità». Lui la verità non la dice “ridendo”, ma «facendo ridere gli altri». Combina talmente casini che tutti prima ridono e poi pensano “Ma guarda un po’. Ma allora il mondo va proprio così?”. Se c’è qualcuno che gli somiglia è un suo contemporaneo egualmente “disimpegnato” e “impegnato” contro il potere e la stupidità: il personaggio di Fortunello, che fece furore nei nascenti fumetti Usa e fu per due generazioni la “coscienza infelice” (o felice?) degli americani senza coscienza. Fortunello era un monello, uno scugnizzo che parlava in irlandese stretto e sputtanava tutti e tutto con la sua disarmante ingenuità. Sciosciammocca, che parla in dialetto napoletano stretto, non è un monello ma il suo modo di muoversi, la sua goffaggine, i suoi capitomboli verbali e umani hanno la stessa qualità dei monologhi di Fortunello. Una qualità degna di Chaplin: quella di far ruzzolare continuamente la realtà e le persone seriose per trascinarle in una serie di carambole senza fine, un gioco che ti toglie il respiro, ti sfinisce, ma alla fine ti fa sentire sollevato. Salvo dalla depressione di chi crede di essere il Re del mondo per mascherare che è solo un poveraccio. La commedia più famosa di Scarpetta, quella che lo esprime al massimo, è «Miseria e nobiltà» che tutti conoscono grazie alla versione travolgente di Totò, il quale lo copiava a man bassa ma copiandolo faceva sopravvivere qualcosa del suo stile.

Ora, diciamocelo francamente: chi si confronta con questi modelli e da questi modelli è, per così dire, modellato, se sopravvive diventa un mostro di bravura. Un mostro che fa impallidire qualunque pigmeo generato da Netflix. Questo appunto è stato Eduardo De Filippo, figlio naturale di Eduardo Scarpetta e obbligato a essere quello che è stato, fin da bambino, con una spietata determinazione dal padre. Eduardo lo ha raccontato in tante interviste: il padre lo trattava come uno schiavo, a un punto tale che quando da grande ebbe l’occasione di recitare le commedie di Sciosciammocca gli veniva da vomitare. Ma forse questa nausea non dipendeva solo dalla disciplina severissima di chi lo aveva educato: forse la sua nausea derivava edipicamente dalla difficoltà di padroneggiare gli istinti aggressivi contro un tale padre che era un padre padrone ma anche un padrone straordinario. Forse il problema enorme del piccolo Eduardo è stato confrontarsi con un simile genio ed essere all’altezza delle sue aspettative.

Il risultato di questo confronto, di questa lotta interiore, di questo corpo a corpo tra geni che somiglia alla Gigantomachia è stato divenire «uno dei più grandi drammaturghi della nostra epoca», come dice l’ultima didascalia del film di Martone. È proprio vero. Il film sembra un omaggio a Scarpetta, in realtà è un segreto omaggio a suo figlio Eduardo, al frutto di questa terribile lotta silenziosa che sacrifica la vita mortale in nome della Vita Immortale dell’Arte.

Il miglior complimento che si può fare a Mario Martone è di aver accettato la sfida e avere vinto la stessa lotta. Il suo film è degno di una commedia di Eduardo: anzi è una nuova commedia di Eduardo di Filippo, scritta da un altro che ha imparato la lezione e ha superato il maestro. Un altro che è capace di un simile successo perché è un uomo di teatro vero e non un damerino affatturato patito dei programmi della Gruber; qualcuno che sa cosa significhi mettere in scena un testo solido e scritto bene, con attori straordinari ben diretti e con una scenografia bellissima e accuratissima. Senza dimenticare il valore di una cultura profonda, di una conoscenza perfetta delle fonti, grazie alle quali il mondo che egli ricrea è credibile, autentico, nello spirito non solo nella lettera, come fanno i biopic oleografici e diligentissimi.

La storia di Scarpetta, rivissuta con «animo perturbato e commosso», è a suo modo esemplare. È la storia di un uomo fuori dal comune che però vive in un modo decisamente inferiore a quello delle persone comuni. Un uomo che crea e ricrea continuamente il mondo, ma non riesce a costruire il suo mondo. Un uomo che sembra il simbolo della libertà e della irriverenza e che invece è un tiranno nemico di ogni libertà, che costringe tutti quelli che lo circondano a vivere solo in funzione sua.

Scarpetta è il re di una piccola tribù di poveri mortali, asserviti al suo egocentrismo e alla sua onnipotenza, costretti a coabitare e a venerare il Dio che li comanda senza poter varcare mai le colonne d’Ercole che li imprigionano. Di questa tribù fanno parte nove figli avuti da donne diverse, obbligate a convivere e coesistere anche se si detestano: ed esse, come i loro figli, stentano a restare al passo del loro Padrone, che corre sfrenato sempre un passo avanti tutti.

Eppure anche lui, questo Superuomo, finisce col cadere su una buccia di banana: la buccia, si fa per dire, è un altro Superuomo, il grande Vate d’Italia Gabriele D’Annunzio. Eduardo Scarpetta assiste a una rappresentazione della «Figlia di Iorio» e di colpo ha un’idea geniale: trasformarla in una parodia che si chiama «Il figlio di Iorio» in cui reciterà vestito da donna. Chiede il permesso di farlo al Vate, rievocato in una scena divertentissima: «a metà tra le strisce di Crepax e Totò all’inferno» come ha detto il regista. Il Vate, compiaciuto per un momento nella sua vanità, glielo accorda. Ma un momento dopo già pensa di revocarlo. L’ossessione sono i suoi debiti e ogni occasione è buona per fare quattrini. Ed ecco allora che il poeta superiore agli uomini ridiventa l’omuncolo che è sempre stato e cita in tribunale l’esterrefatto Scarpetta-Sciosciammocca, chiedendo i danni e accusandolo di plagio, anche se era solo uno scherzo. Il bello è che mezza Napoli gli va appresso: la stessa Napoli che impazziva per Sciosciammocca si rivolta contro Scarpetta e lo umilia pubblicamente, accusandolo di ogni nequizia e proclamando la sua morte civile, la stessa che egli aveva inflitto a Pulcinella.

L’analogia è solo strumentale. La “morte” di Pulcinella era un normale avvicendamento di generazioni e somigliava piuttosto a un pensionamento che a un delitto. Invece la “morte” di Sciosciammocca è un assassinio vigliacco e odioso, un omicidio commesso dagli odiosi seguaci del Superuomo, decisi a diventare presto piccoli Superuomini anche loro, cioè fascisti tanto per non girarci intorno. Non a caso il “delicato” poeta Salvatore Di Giacomo firmò ignobilmente, anni dopo, il manifesto degli intellettuali fascisti e fu ricompensato con il titolo di Accademico d’Italia. Quelli come lui sono naturalmente nemici del povero Sciosciammocca, trascinato in tribunale e nelle piazze per ridere di lui. Non è una cosa nuova per Napoli. Fatte le debite proporzioni si pensi a come il popolaccio napoletano schernì gli eroi della Rivoluzione del 1799, come la figlia del principe Santobono Caracciolo, trascinata nuda per le strade per umiliarla.

Ma la verità non è quella che viene sbandierata. D’Annunzio non si può toccare perché è protetto dai potenti che non si possono toccare. Ed è il beniamino della società perché è un giullare che compiace questa società, esattamente come fanno oggi i giullari da massmedia. Invece Pulcinella, solo in apparenza giullare, è l’uomo che deride i potenti e per questo è pericoloso.

Non vi dirò come va a finire questa storia incredibile, tipica dei paesi dittatoriali: vi posso solo dire che il processo ricalca accuratamente quello che si svolse davvero tra 1906 e 1908, provocando un putiferio. Se mi è permesso, vorrei aggiungere un’osservazione alla rievocazione – bellissima – di questa vicenda dolorosa. Non è vero che allora tutti stavano dalla parte di D’Annunzio, anche se purtroppo ci stavano i gangster napoletani, della stessa pasta degli altri criminali che prenderanno il potere guidati dal boss Mussolini. Gli spiriti liberi sono sempre esistiti e sempre esisteranno, alla faccia di tutti quelli che sognano solo Mussolini, a cominciare da coloro che fanno RaiStoria e con la scusa della storia parlano di Mussolini al ritmo di una sera sì e una sera no (l’altra sera parlavano di Hitler, fateci caso!).

Gli spiriti liberi a D’Annunzio lo hanno sempre fatto a pezzi. Per scoprirlo basta consultare un libro stupendo, difficile da trovare: «D’Annunzio nella caricatura mondiale» curato da Gec, un grande fumettista, e pubblicato (udite, udite!) nel 1941 dalla Garzanti. In questo libro non mancano le caricature sulla «Figlia di Iorio» e la sua nauseante retorica falso-popolare, a metà strada tra «Un posto al sole» e «Gomorra». Come quelle, divertentissime, di Filiberto Scarpelli su «Il travaso», con D’Annunzio che balla la tarantella, travestito da contadino abruzzese insieme a Eleonora Duse travestita da “figlia di Iorio”.

 

Non mancano neppure le caricature del povero Scarpetta sul banco degli imputati, scherzoso risarcimento della sua sventura, come quelle di Nirsoli sul «Pasquino».

 

Se è così, se continua ad essere vero che “una risata vi seppellirà”, invitiamo tutti a farsi una fragorosa risata davanti al cinema dei “probbbblemi” e dei Padroni. E piuttosto che fingersi morti per avere un premio, invitiamo tutti a fingersi stupidi, come Felice Sciosciammocca, come Pulcinella, come Fortunello, ridendo a crepapelle insieme a loro. Prima o poi risorgeremo, seri seri dopo tante risate: come i figli dimenticati, che non possiamo dimenticare perché hanno fatto cose che nessuno potrà mai dimenticare.

articolo da noi riproposto e pubblicato da La Bottega del Barbieri https://www.labottegadelbarbieri.org/una-risata-vi-seppellira-viva-martone/

 






Luglio 2001

Giovedì 19

La sveglia suona alle cinque e un quarto. Io odio il momento del risveglio, anche quando sono le otto e a richiamarmi è una carezza di Massimo. Oggi invece sono le cinque e un quarto del mattino, fuori è ancora buio, c’è l’aria fresca, e Massimo è già partito da un paio di giorni. Mi alzo e mi preparo, cercando di muovermi rapidamente, di essere veloce. Alla fine, arrivo in stazione, e arrivo in tempo: prendo il treno delle sei e zero sette. Il viaggio per Milano è lungo, non tanto per la distanza quanto per i due cambi di treno che mi aspettano lungo la strada. Mentre viaggio, guardo le persone che sono con me: studenti, o anche persone che per lavoro frequentano abitualmente proprio questi treni del mattino che io invece non prendo mai. Osservo anche il paesaggio: guardo la campagna settentrionale, a cui non mi sono ancora abituata, che si risveglia pian piano. Durante il tragitto, mi dedico anche alla lettura del quotidiano: seguo a distanza ciò che succede a Massimo, così come, da quando è partito, guardo in televisione ogni telegiornale, ogni speciale, ogni inchiesta. Lui è già a Genova, ma lì ancora tutto deve iniziare: i giornali riportano solo i dibattiti e le tensioni del pre-G8. A Milano arrivo verso le dieci e mezza del mattino: arrivo all’appuntamento con il dottor Minuto, dove i miei clienti, della Turismo&Viaggi di Roma, arrivano in netto ritardo, un’ora abbondante dopo di me. Mi sento ancora un po’ impacciata, in questi abiti da consulente. Oggi però va sicuramente meglio della settimana scorsa: mi sembra che il mio ruolo sia maggiormente riconosciuto, percepisco la stima del dott. Minuto, e poi ritrovo con i romani il clima di solidarietà quasi cameratesca che si era già creato in passato. Mi diverte sentirli parlare – io che a Roma ci ho vissuto per tanti anni senza esserci nata – mi diverte sentire l’accento della loro voce, ma anche il modo in cui si esprimono, così familiare alle mie orecchie. Pranzo con loro, poi pomeriggio ancora in riunione. Quando capisco che ormai il lavoro è finito, verso le cinque e mezzo, cerco di andar via più in fretta possibile: so che gli orari dei treni sono scomodissimi, e cerco di prendere il primo treno per Torino. Come le altre volte, invece, lo perdo: una breve attesa ancora in stazione a Milano, sapendo che questo vorrà dire passare un’ora intera a Torino ad aspettare la coincidenza e arrivare a casa alle undici di sera. Salgo sul treno un po’ demoralizzata, e provo a chiamare Roma dal cellulare. Il mio telefono è scarico, la linea cade continuamente. La voce di mamma è tesissima, brutta come poche altre volte. Cerco di capire come stiano andando davvero le cose, lì in ospedale, e mi sento impotente e stupida, a tormentarla con domande ingenue. La linea cade e la richiamo, più volte. Tra un’interruzione e l’altra, riesco a capire che oggi papà sta decisamente molto male, che la preoccupazione comincia a prevalere su tutto. Alla fine, il telefono si spegne definitivamente. Parto da Milano in lacrime, decidendo che andrò a Roma al più presto. Appena arrivo a Torino, compro una carta telefonica e mi attacco ad un telefono pubblico per richiamarla. Lei mi spiega meglio, e mi dice che le cose non vanno bene e che sì, forse posso andare a Roma, se voglio essere sicura di salutare papà. Mi dice anche che nell’incertezza che ha caratterizzato i medici sin dall’inizio del ricovero di papà, una delle mille ipotesi che si sono fatte è che si possa trattare di tubercolosi. Lo devo tener presente, mi dice mamma, se voglio andare a Roma. Devo informarmi e capire se rischio qualcosa, e soprattutto se può rischiare qualcosa il bimbo che cresce dentro di me. Dal telefono della stazione, cerco anche Massimo. Cerco di condividere con lui il peso d’angoscia che mi sento addosso, l’impotenza, l’incertezza – vado o non vado a Roma? Concordiamo un po’ di persone da sentire l’indomani per un consiglio. Non mi racconta molto, di Genova: lì c’è stato il primo corteo, tutto tranquillo, e le cose per lui procedono bene, in modo interessante.

Venerdì 20.

La mattina la passo a casa. Comincio a chiamare tutte le persone che ci sono venute in mente parlando con Massimo ieri sera. La metà non riesco a trovarla, in cambio il mio medico della mutua, uno dei pochi che riesco a contattare, esprime molte riserve sull’opportunità di andare. Mi sento sempre più confusa, persa tra il desiderio di andare e la paura di farlo. Accendo la televisione per il rituale appuntamento con il telegiornale: le immagini di Genova che si vedono parlano di scontri, di attacchi della polizia, di disordini. Un senso di paura irrazionale mi investe, e si somma istantaneamente all’incertezza, all’angoscia, all’ansia che già sentivo. Proprio in quel momento mi chiama Maria Luisa, mia suocera. Mi sfogo con lei, che mi tranquillizza; ci confortiamo a vicenda al pensiero di Massimo proprio nel centro della bufera. Riprendo i miei consulti telefonici: alla fine riesco a parlare con uno zio medico che mi rassicura, minimizzando i rischi di contagio per me e per il bimbo, ma che al tempo stesso mi incita a partire perché lui papà l’ha visto, e non crede che sia opportuno aspettare, se lo voglio vedere. Ho deciso: parto. Cerco di nuovo di sgomberare la mente da tutto e vado ad un appuntamento di lavoro. Mentre sono lì mi chiama Maria, dell’ufficio di Massimo: mentre era a Genova ha perso il cellulare, le comunicazioni da adesso diventano molto più difficoltose. Rientro a casa, accendo la televisione a caccia di un telegiornale pomeridiano. Il tiggì c’è, ma è un’edizione speciale. A Genova c’è stato un morto, il primo morto del movimento antiglobalizzazione. Guardo con uno sgomento assoluto le immagini di guerra che il telegiornale propone. Non sono una persona apprensiva, ma sento l’ansia mozzarmi il respiro. Accarezzo il bimbo, dentro la pancia da quattro mesi: cerco di tranquillizzare lui, per tranquillizzare me. Alla fine, esco. Vado a salutare Silvia in ospedale – è appena nata, ed è figlia di amici – poi passo nell’ufficio di Massimo a ritirare delle cose che devo portare a Roma per lui, e in stazione a farmi il biglietto. Partirò stasera. Mentre sono fuori mi chiama Massimo: mi racconta di essersi trovato a Piazza Manin, oggi pomeriggio, e di essere andato via subito prima che cominciasse la carica della polizia. Il cellulare l’ha perso mentre scappava da lì. La valigia la preparo in venti minuti, in uno stato di confusione che non credo di aver mai vissuto. Riesco infatti a lasciare a casa quasi tutte le cose indispensabili che si mettono di solito in un bagaglio. In cambio metto magliette e camicie rosse – nonostante tutto non sto pensando affatto a funerali. Il treno lo prendo per un pelo, e appena salita cerco il mio cellulare per una telefonata. Non c’è: l’ho lasciato a casa oppure l’ho perso per strada; in ogni caso, non è con me.

Sabato 21.

Arrivo a Roma con più di tre ore di ritardo: per il G8 hanno deviato le linee ferroviarie di tutto il centro nord, e il sistema è andato completamente in tilt. Vado a casa con i mezzi, in autobus mi leggo il giornale: si parla di Carlo Giuliani, il morto di Genova, e degli scontri del giorno precedente. A casa trovo Francesco e Valeria. Senza papà e mamma, questa casa è davvero troppo vuota. Ci abbiamo vissuto in sette, adesso Valeria e Francesco si muovono da soli in stanze immerse nel silenzio. Pranzo con loro, e poi con Francesco vado al Gemelli, a trovare papà e mamma. Papà è semi-incosciente. Dischiude appena gli occhi, sembra vedermi, e dice: Guarda chi c’è. Mia madre festeggia la frase e la sottolinea: Ti ha riconosciuto, hai visto?, ti ha salutato. Io penso che un mese fa non si festeggiava il fatto che riconoscesse e salutasse sua figlia, lo si dava per scontato, era normale. Le cose sono cambiate poco alla volta, ma velocemente. Penso che mi dovevano avvisare, che era in queste condizioni, poi mi dico che probabilmente c’è scivolato dentro senza che loro potessero rimarcare di giorno in giorno grandi cambiamenti, nulla da poter raccontare da lontano, per telefono. Lo saluto e mi siedo sul divano, mi tengo comunque a distanza, visti i dubbi che ci sono. Papà si rianima di nuovo, e alla mamma chiede: Ma non è qui per parlare di lavoro, vero? Io non ho mai lavorato con mio padre, e lui è in pensione da più di dieci anni. Non so più nemmeno se era vero, che mi aveva riconosciuto. Mi sforzo di mantenermi serena, parlo con mamma. Nonostante tutto, lei riesce anche a far festa alla mia pancia, appena visibile. Papà riapre ancora un po’ gli occhi: Dov’è Valentina? La mamma gli risponde: È qui, Paolo, non se ne è andata. Allora forse sa che ero io. Sento il bisogno di piangere, di sfogare l’angoscia che mi dà vederlo così. La mamma mi viene incontro, in bagno. Papà non c’è già più, le dico. È già andato via. In ospedale rimango tutto il pomeriggio, fino a sera. Prima con Francesco, poi con Valeria. Nel frattempo, non ho alcun modo per parlare con Massimo: io sono senza cellulare, e lui ha perso il suo a Genova e non sa che anche io non sono rintracciabile. Cerco tutti i modi per comunicare con lui: lascio messaggi destinati a lui a casa dei suoi, provo a chiamare a Genova nel posto in cui dorme, tento altri contatti indiretti, tutto senza risultato. In ospedale, mi affaccio alle otto nella sala comune: il TG1 mostra ancora scontri, teste insanguinate, macchine in fiamme, vandali incappucciati. Sono le prime immagini che vedo in tutta la giornata: dopo l’overdose di informazione, adesso sono in completo blackout. Di sera, riesco a parlare con la mamma di Massimo. Lei mi dice di avergli parlato, che sta bene, che è tutto a posto. Mi sento già meglio. Le chiedo anche di avvisarlo del fatto che sono senza cellulare, e di chiamare dai miei, per contattarmi.

Domenica 22.

Di mattina, vado a Messa in parrocchia. Valeria viene con me, a differenza del solito. Dopo, passo a salutare i nostri amici e inquilini Lucia e Paolo, e rimango a pranzo con loro: mi fa un po’ effetto vederli nella nostra casetta, ma al tempo stesso mi fa piacere che ci sia qualcuno dentro, e che non sia un estraneo. Mentre sono lì, chiama Massimo: la telefonata è rapidissima, ma intanto gli parlo, ed è da più di ventiquattro ore che non riuscivo a farlo. Mi chiede di papà, gli chiedo di Genova. Di pomeriggio, sono di nuovo in ospedale. Io vado con Valeria e Francesco e lì c’è anche Silvia; Maria Letizia nel frattempo è fuori Roma, chiama spesso, riconosco l’ansia di chi segue da lontano le cose. Papà sta decisamente peggio di ieri: si lamenta spesso, o almeno emette dei suoni che sembrano lamenti. Poi dice anche delle cose, che spesso non riusciamo a capire. Forse non sono farneticazioni, forse ci sta parlando, però non riesce ad articolare le parole, così come non riesce a deglutire, a ingoiare le medicine, a muoversi da solo nel letto. Il pensiero che lui stia cercando di parlarci mentre noi non riusciamo a capire ci fa sentire impotenti. La mamma è molto scoraggiata, medici e infermieri oggi si sono espressi in modo del tutto disperato. Restiamo lì tutto il pomeriggio, fino a sera. Vado via alle nove di sera, e saluto mamma che mi dice: Non pensavo che sarebbe arrivato fino a stasera. Percorrendo i corridoi dell’ospedale, verso l’uscita, sento dei dolori alla pancia. Mi tengo il bimbo, e gli dico: Non preoccuparti, stai tranquillo, andrà tutto bene. Per la serata, il programma è di andare con un po’ di amici a vedere Francesco che suona in concerto. Arriviamo in piazza Santa Maria in Trastevere in ritardo, e il colpo d’occhio è fenomenale: la piazza è piena, c’è tantissima gente, persone di tutti i tipi che cantano e ballano ascoltando Franz e i suoi amici. Non posso fare a meno di pensare alle sue prime esibizioni, con un pubblico ristrettissimo fatto di amici e fratelli e fidanzate. Penso anche a papà, a come ne era fiero, nonostante le perplessità iniziali, a come seguiva la sua attività, i suoi concerti. Papà ne sarebbe contento – penso allargando lo sguardo nella piazza. Mi commuove, stasera, questa folla. Non c’è dubbio, sono diventati bravi. La musica è bella e trascinante, e in tanti si sono messi a ballare. Per finire, suonano Everybody needs somebody to love. È una canzone che papà aveva ben presente: ne storpiava il titolo, per prenderci in giro. È il colpo finale: anziché alzarmi e mettermi a ballare anch’io, mi metto a piangere piano, cercando di nascondere le mie lacrime. Torno a casa tardi, e prima di andare a dormire sento rientrare anche Francesco. Gli vado incontro per dirgli quanto mi sia piaciuto il concerto. Restiamo a parlare a lungo, delle cose più disparate. Parliamo anche di papà, perché io gli faccio un po’ di domande. In ogni caso, è nel fondo di ogni discorso, ed è nel modo stesso in cui ci siamo fermati a parlare stanotte, nel modo in cui cerchiamo di tenerci vicini. È molto tardi, quando vado a letto. Ma non rinuncio alla lettura del giornale che ho preso e non ho ancora letto; scopro così, alle tre di notte, quello che è successo la notte prima a Genova: l’incursione notturna nella scuola-dormitorio, le botte, i feriti, le polemiche. Lunedì 23. Mi sveglia Valeria, alle sette e venti del mattino. Ha appena chiamato mamma, mi dice, papà non c’è più. Il mio primo pensiero è: Sono venuta a Roma in tempo, l’ho visto. Poi mi alzo, stordita. Andiamo a svegliare Francesco, poi chiamo Massimo, che nel frattempo da Genova è arrivato a Pisa. Come omaggio, faccio un giro per casa: la camera da letto di papà e mamma, il soggiorno, la sua poltrona, i suoi occhiali, i suoi cruciverba. La casa è piena di papà.

(21 ottobre 2001)




SATCHMO FOREVER

Theodor Wiesengrund Adorno l’ho adorato e lo adoro, tanto che mi spilucco i suoi Minima moralia come una beghina si sgrana il rosario in modo acritico, capace d’esaltarsi financo all’apologetica sottolineatura mantrica d’un Sambudello. Poi m’arriccio e m’adombro, m’indispettisco stizzito se mi parla del jazz come cosa degradante, puro piacere estetico, alla stregua d’esperienze pornografiche e gastronomiche. Musica-merce, come certe canzonette volgari, lontana dalle dinamiche autentiche d’umanità oppresse, asservita ad una concezione dei rapporti sociali capitalistici, subdolamente veicolante i contenuti esiziali del consumo a prescindere. Mi faccio d’improvviso eretico al pensiero di Coltrane e Mingus seduti con espressione inebetita sui banchi d’un supermercato, mi ateizzo di botto se m’immagino Gillespie alla stregua d’un imbonitore per saldi di pentole e materassi. Poi, dopo il primo acchito di repulsa, l’abbattimento del totem ed il superamento d’una dipendenza liturgica in favore del vizio puro, mi rassereno, mi rifaccio razionale, e m’avvedo che tale critica furibonda, il tedesco se la concepiva in quel ventennio tra anni trenta e primi cinquanta in cui ancora Mingus non solleticava utilmente le corde del contraddittorio, della dialettica in controtempo. Ed è chiaro che Adorno adduceva le sue ragioni di negazione d’arte per il jazz allorché, al suo orecchio perfetto, s’avvicendavano, effimere e suadenti, le partiture semplici e ripetitive di certe orchestrine swing, con patinature che, senza porre questioni di discernimento particolare, sapevano della voce cavernosa e della tromba ruffiana di Louis Armstrong. Dunque, in siffatto modo rappacificato coi miei credi, pure m’azzardo ad avallare le critiche furibonde del Francofortese. E se le gote più gonfie del mondo riferivano di nostalgie profonde e malinconiche per i bei tempi andati in certi sobborghi di New Orleans, già mi prefiguro le corse dal dermatologo per certe eruzioni cutanee, sobbollenti sotto traccia, di uno qualsiasi dell’ampia tribù dei Marsalis. Che certo, lui, era rivendicativo e vertenziale, difensore della causa di ex – ma non troppo ex – schiavi, non più di quanto non lo fosse Pippo di Topolino, piuttosto pareva l’esatta riproduzione al maschile di Butterfly, la domestica di Rossella O’hara.

E allora pace fatta, tutto a posto? E no, che rimangono dubbi, che m’arrovello d’incertezze. Che se fino ad ora il ragionamento a me pareva non facesse una grinza, manco una pieghetta rasa rasa, se m’ero accodato nel derubricare le strombettate dell’omonimo del passeggiatore lunatico, a pura e semplice mercanzia d’asporto, più d’una cosa, a cinquant’anni dalla sua dipartita, non mi torna. Semmai mi sovviene che quando bambineggiavo intorno al giradischi della Selezione del Reader Digest, dalla puntina abbassata senza garbo dalla mamma, gracchiava quella tromba, ed a me mi si muovevano le gambe. Era come se ci fosse qualcosa di magico e misterioso in quella roba, prima che l’età della ragione m’inducesse ad espellerla a lungo per consapevolezze – quanto spontanee non saprei dire -, che non m’evitava di ridere come se mi facessero il solletico sotto i piedi. E il “No, Satchmo no”, piano piano, lentamente, s’è spento, né più mi viene di saltare al brano successivo d’una compilation quando quel tappeto di velluto si fa suono. Pure mi si allarga il riso se mi prefiguro il faccione da palla da basket che campeggiava sulla copertina d’un vinile, più d’uno, anzi. Pare proprio vero che quando s’invecchia si torna bimbi.

Forse era un conformista Armstrong, e sottolineo il forse, che ormai non ne sono manco più così sicuro. Che certo non rilasciava dichiarazioni roboanti a difesa della sua gente. Ma all’apice del successo, durante i disordini razziali degli anni ’50, non esitò a mandare a quel paese il governo americano dopo aver visto un bianco sputare in faccia ad una studentessa nera. Quindi non staccò nemmeno il biglietto per un tour in Russia organizzato dal dipartimento di stato, ed in piena guerra fredda, se non significava esattamente “mi scelgo io qual’è il mio paese”, certo somiglia parecchio ad un “so comunque chi è la mia gente”. Ed è difficile non ammettere che il suo stile, così apparentemente semplice e ripetitivo, alla fine ha consentito di creare i presupposti perché il jazz divenisse musica libera ed universale, persino entrando nelle viscere e rivoltandole di chi apparve come il perfetto contraltare del Nostro. Non credo sia così scontato che, senza quell’esperienza Ragtime, avremmo ascoltato un giorno le furibonde tirate di Ornithology, nemmeno le ovattate atmosfere di Ascenseur pour l’échafaud. Pure, nell’evidenza che i dischi comunque li incidevano i bianchi, lui fa d’aprifila, abbatte una frontiera che non era scontato che in una certa America potesse crollare. Se poi non s’è messo a rivendicarlo per se e per altri, al limite, chi se ne frega, se quel faccione m’ha fatto ballare e sorridere, e qualche volta lo fa ancora. E manco stavo nella pelle quando, ad un paio d’anni dalla sua scomparsa, ho scoperto che il vecchio amico inglese, assiduo frequentatore d’ogni jazz club minimamente rispettabile d’Oltremanica, e con cui dividevo fiaschi di vino e jazz nella bettola sotto casa, prima del suo ultimo viaggio, aveva dato disposizioni che mi si recapitassero tutti i suoi vinili e centinaia di musicassette dell’ “odiato” jazz dell’adorato Adorno. E, fatto ovvio che ve n’erano parecchie di Satchmo, non ho resistito alla tentazione di procurarmi un vecchio mangianastri in un mercatino di vecchiumi che, premi un tasto, poi un altro, fa pendant con le atmosfere fumose di casa mia, e colonna sonora per certi whisky torbati, mentre mi scappa quello strano fenomeno che le gote mi si gonfiano a pallone da basket.

 





Della presenza. La fotografia di Maria Cristina Comparato

Un tema delicato, una vicenda segreta nell’animo, che l’autrice ha voluto condividere in fotografia, conferendo a se stessa l’incarico gravoso di rappresentare tutte le donne che hanno subito la mutilazione di un seno o di entrambi, alle prese con un male che lascia poco spazio alla serenità, per non dire all’ottimismo.

Una donna  – giovane – che osserva il suo corpo trasformarsi in un “Altro” meno familiare e rassicurante; l’autrice osserva il cambiamento attraverso l’obiettivo della macchina fotografica, suoi scatti che testimoniano, silenziosamente, quello che il senso comune definirebbe un’esperienza lacerante.

Con questo portfolio di genere concettuale, Maria Cristina ha vinto la XVII edizione di Portfolio Italia – GRAN PREMIO fujifilm organizzato dalla fiaf – Federazione Italiana Associazioni Fotografiche.

Vorrei quindi riferire le mie impressioni su questo lavoro, in considerazione del tipo di rappresentazione che ne ha dato l’autrice, il registro adottato nel raccontare il suo vissuto, senza per ciò darne una valutazione di merito, perché non è questo lo scopo.

Il lessico è scabro, sono immagini fredde, anzi glaciali, una fotografia denotativa al limite del minimalismo, sterilizza l’emotività spogliando l’immagine di tutte le sfumature della pratica del dolore, privandoci delle icone confortanti della sofferenza.  L’autrice ha volutamente creato uno scarno catalogo di elementi, ossia gli oggetti della cura, corollario di un corpo ferito che si mostra in tutta la sua disarmante realtà:  una cicatrice esistenziale, difficile da dimenticare, una semiosi disturbante.

Avrà voluto, Maria Cristina Comparato, esprimere una deliberata protesta nei confronti degli stereotipi della femminilità, che ancora invadono lo spazio della nostra visione della donna, effige perfetta di un’estetica imposta culturalmente ?

Lo sfondo bianco accentua la sensazione di vita sospesa e il disagio dell’osservatore che non trova alcun appiglio per sviare lo sguardo: lo schiaffo lo sento arrivare.

Qui nulla è sfumato, accennato, tutto è evidente, lo straniamento non è celato e il fragile ramoscello simboleggia una caducità che si vorrebbe ridimensionare a favore della speranza.

Quale operazione ha voluto compiere questa giovane donna, offrendosi ai nostri occhi con cruda determinazione ? La risposta potrebbe essere contenuta nella penultima fotografia dello sfondo vuoto. Ma anche l’ultima immagine potrebbe contenere un indizio; a noi la conclusione, liberi di sentirla sotto la pelle.


Copyright immagini: Maria Cristina Comparato




ANARKIKKA, SOPHIE LAMDA, EMMA DANTE OVVERO …

… mai mettere lucchetti ai destini

Barbara Bonomi Romagnoli su «Smettetela di farci la festa», «L’amore non basta! Come sono sopravvissuta ad un manipolatore», «E tutte vissero felici e contente»

 

Il tratto prima di tutto mi ha colpito, quando anni fa mi imbattei in una vignetta di Anarkikka, nome d’arte – mai più azzeccato – di Stefania Spanò: un segno geometrico e al tempo stesso morbido, il bianco e nero alternato a spruzzate di colori e l’essenzialità, anche nell’uso di un lessico puntuale e mai banale per i messaggi trasmessi.
Nella raccolta ragionata edita da People dal titolo «Smettetela di farci la festa» – con l’eloquente sottotitolo “Di discriminazioni in genere” – si ritrovano molte delle sue storie in pillole, vignette ma anche brevi riflessioni sui temi a noi cari, dall’uso dei linguaggi violenti alle molestie e discriminazioni negli studi e nel lavoro. Alcune istantanee sono sempre attuali, altre “datate” perché riferite a notizie del momento, come quella del 2 settembre 2016 in cui Anarkikka sottolinea lo stupro all’italiana caratterizzato dal commento «se l’è andata a cercare», commento che sentiamo anche oggi ma in quel caso era riferito allo stupro di una ragazza violentata per tre anni, dai tredici ai sedici, da nove uomini. Ma ovviamente il giudizio della comunità è ricaduto sulla ragazza, con tutte le attenuanti del caso riferite ai maschi coinvolti. È proprio alla cronaca che spesso Anarkikka fa il controcanto, per contrastare narrazioni retoriche sulla violenza e sui femminicidi ancora dominanti sui media. E per «disinnescare alla base la cultura maschilista e patriarcale di cui i media si fanno specchio» come ricorda Giulia Siviero nella prefazione. Perché Anarkikka fotografa dettagli e comportamenti generalizzati «con la leggerezza di un battito d’ali sa ‘planare sulle cose’, per poi inchiodarle al muro. Sa, soprattutto, levare macigni: e le sono grata, per questo» chiosa Siviero. E, aggiungo, dobbiamo esserle grate anche per la sua arguta ironia e la sua capacità di dialogare e tessere relazioni, una delle pratiche femministe più importanti che Anarkikka ha saputo ripensare anche nell’epoca del mordi&fuggi dei social media.

 

Accanto al testo di Anarkikka, è uscito un altro fumetto che merita attenzione: «L’amore non basta! Come sono sopravvissuta ad un manipolatore», 294 pagine disegnate da Sophie Lamda, giovane illustratrice francese al suo primo libro, già bestseller in Francia, in Italia edito da Laterza. Lamda racconta la sua storia, si mette a nudo consapevole che quanto le è accaduto può succedere ad altre persone e che sia importante disegnare anche i sentimenti non sani, relazioni distruttive in cui la persona che amiamo è narcisista e manipolatrice al punto da farci ammalare, anche solo per sostenere la vergogna di doverne parlare. Anche l’autrice francese ha il dono dell’ironia e il fumetto scorre veloce in un lungo flashback che ripercorre la storia del suo amore malato, in uno sdoppiamento fra cuore e cervello, fra la parte di lei che cade nei tranelli del partner – in una altalena continua di autosvalutazione, autocommiserazione e depressione – e quella che inizia ad avere dubbi e intesse un divertente dialogo con il pungente Chocolat, orsetto di peluche che diventa la “voce” della sua coscienza, facendole capire che non è lei il problema. Il testo mantiene una forte godibilità anche quando si trasforma in una sorta di manuale d’uso, con riferimento esplicito alle teorie e agli studi scientifici che possono aiutare a capire chi si ha dinanzi, prima che sia troppo tardi e che la sindrome della crocerossina accechi più dell’amore romantico.

 

Anche perché, come ha ben riscritto Emma Dante, regista e drammaturga di fama internazionale, in «E tutte vissero felici e contente» [La nave di Teseo] chi lo dice che si debbano avere come modelle di riferimento le protagoniste tradizionali delle favole: perché non immaginare nuove personagge a cui ispirarsi che non hanno bisogno di principi o salvatori, di amori a immagine e somiglianza degli uomini? Dante non solo reinterpreta le classiche Cappuccetto Rosso, Rosaspina, Biancaneve e Cenerentola con l’ausilio di bellissime illustrazioni di Maria Cristina Costa ma vi aggiunge anche uno sguardo contemporaneo: «dal soggiorno arrivano le voci della televisione e nella penombra del corridoio la matrigna e le figlie, in vestaglia e tappine, camminano avanti e indietro. In fila. Sembrano tre pazze». Come le tante donne della porta accanto omaggiate da Alda Merini che continuano a ribellarsi a chi mette lucchetti ai loro destini.

 

 





“Concetto spaziale – attesa”, opera di Lucio Fontana

Allora figlia, mi chiedi di spiegarti questo quadro perché non ci capisci niente. Stai tranquilla, non sei l’unica.
L’arte è difficile da capire e da spiegare. A volte anche da accettare. Ma forse il bello è proprio questo continuo chiedersi cosa è, gli infiniti dubbi che ti regala, che sono molti di più delle assolute certezze.
Sì, perché l’unica cosa sicura per noi fruitori… va bene, dopo ti spiego anche cosa significa fruitori. Voglio dire, l’unica risposta che si può dare guardando l’arte è: mi piace/non mi piace. Anzi, meglio ancora: mi emoziona/non mi emoziona. A capirla ci vuole tempo e non sempre è necessario.
Perché l’Arte, quella con la “A maiuscola”, non è fatta solo per essere appesa al muro, ma per lasciare dentro di te “qualcosa”. E quel qualcosa, ascolta bene, non deve essere per forza una sensazione di benessere, perché a volte è esattamente il contrario: rabbia, delusione, disgusto… Lo so, è tutto molto confuso, ma, ti giuro, ci hanno provato in tanti a spiegare l’arte senza riuscirci.
Allora, questo quadro si chiama “Concetto spaziale – attesa” ed è di Lucio Fontana, che era di papà italiano e di mamma argentina. Te lo dico perché qualche volta i genitori degli artisti si sentono importanti. Non è bello? Ho scelto questo quadro perché tu da grande vuoi fare l’astronauta, anzi, come hai detto un giorno, l’esploratrice degli spazi. Bene, qui Fontana ha voluto mostrare che tempo e spazio non esistono, creando, così, la sua visione di infinito. Complicato? Allora, ti ricordi di Peter Pan e dell’isola che non esiste? Il concetto è un po’ quello. Chiaro che adesso ti chiederai: se non esiste come fa ad esserci? E se è infinito come fa a non esistere? Ma la grandezza di un
artista è proprio mostrarci, in una forma del tutto personale, quello che noi non siamo capaci di vedere: una realtà diversa.
Invece di pitturare un paesaggio perfetto, bello come una fotografia, un artista ti mostra quello che lui sente dentro, un sogno, una visione, attraverso un’opera che va oltre un’immagine comune, ti dà una finestra da aprire per respirare altro ossigeno. Difficile da accettare all’inizio, lo so, ma qui torniamo a quello che ti ho già detto: la cosa importante dell’Arte, quella con la A maiuscola, è soprattutto farti emozionare.
Per esempio, pensa alla forza dell’artista, non parlo della mano che taglia la tela, ma alla potenza per arrivare a quel gesto e farlo diventare arte. Una tela, che per le persone normali è un luogo destinato a raffigurare ritratti somiglianti e incantevoli paesaggi, riceve invece un taglio fatto con un coltellino qualsiasi. Sai, una volta ho sentito dire: “Eh, ma un’opera così la possono fare tutti, anche un bambino!”. Forse, ma solo Fontana l’ha pensato e ne ha fatto una cosa unica, preziosa. E il riferimento a un bambino non è sbagliato, sai, perché è importante per un artista essere un po’ bambino, proprio come te: curiosa, indipendente, libera.
E lo so, lo so che quando tu rompi o tagli qualcosa la mamma ti sgrida. Ma lo sai che noi grandi pensiamo in maniera diversa da voi.
Perché? Beh, gli adulti a volte sono troppo rigidi, troppo compressi dalle responsabilità e, se proprio vuoi saperla tutta, a volte facciamo cose che non vorremmo, sembriamo quello che non siamo, ci mascheriamo da persone di successo, dinamiche, ricche, quando invece ci piacerebbe tanto andare al parco a mangiare un gelato e sporcarci anche un po’.
Pensa a quanto sarebbe bello prendere una tela, un pennello, i colori e lasciarsi andare a gesti naturali, istintivi, buttare pittura dove capita. Vuoi saperlo? L’hanno fatto e, indovina, si sono scandalizzati tutti! Si chiedevano: perché il passero, la donna, il sole sono stati disegnati così? Allora te la faccio io una domanda: perché no? Pensa che magia riuscire a fare Arte con un semplice taglio. E immagina che meraviglia emozionarsi soltanto guardando quella spaccatura, sentire smuovere qualcosa dentro lo stomaco, a volte rabbrividire e ricordarsi di quell’opera per tutta la vita.
Lo so, sono concetti strani, ma la vita è più bella quando non è ordinaria, quando l’immaginazione ci trasporta chissà dove, quando qualcosa è dentro di noi, ancora non sappiamo neanche cosa, ma vogliamo tirarla fuori, non importa come. È un po ?come quando tu cominci a mettere insieme i mattoncini del lego: già sai dove andrai a finire? Credo di no, perché la tua fantasia di bambina è illimitata.
Il grande artista è quello che crea una bellezza che altri non riuscirebbero neanche a sognare, un incantesimo magico fuori dagli schemi. E ogni secolo ha avuto uomini e donne che hanno osato, sempre un passo avanti agli altri. Come sarai tu, esploratrice degli spazi.
Va bene, per oggi basta. Cosa vuoi fare? No, non credo che a mamma piacerebbe un taglio sulla tua maglietta. Perché? Lo sai perché, dai. Vuoi davvero provare? Però dopo a mamma glielo spieghi tu cos’è l’Arte, va bene?

 

Attesa, Lucio Fontana

Copertina: Lucio Fontana fotografato da Ugo Mulas




IL GRAN PIANISTA BIANCO (MAI ESISTITO) CHE SUONAVA MUSICA NERA

«Voglio imparare a suonare il bop» prima. E poi «Voglio essere il più grande pianista jazz di sempre». Così il ragazzino Ignazio Silvio Di Palermo (alias Blind Ike ma poi cambierà il suo nome in Dwight Jamison) si rivolge a Biff Anderson che è un buon pianista pur se vecchio stile. Ed entrambe le volte Biff risponde: «Oh, meeeerda!»; con 4 e per chiarire il concetto. Ma il ragazzo insiste e Biff accetta di aiutarlo. Il pianista cieco dai molti nomi (Ignazio, Ike, Dwight) «fino al 1950 non aveva mai pensato di diventare un bianco che suonava musica nera» e invece sarà un buon musicista e farà anche soldi.

Siamo in un bellissimo romanzo «Le strade d’oro» – originale «Streets of Gold» del 1974 – che trabocca di jazz, scritto da un altro uomo con molti nomi (per tacere dei 6 pseudonimi): Evan Hunter, nato Salvatore Albert Lombino ma famoso come Ed McBain. Morto nel 2005, fu romanziere molto prolifico. Noto ai più per i gialli (la serie dell’87° distretto) ma anche come sceneggiatore, a esempio per «Gli uccelli» di Hitchcock.

Salvatore Albert Lombino – d’ora in poi SAL – era figlio di italiani emigrati negli Usa e originari di Ruvo del Monte (in provincia di Potenza). Ed è grazie al Comune di Ruvo che «Le strade d’oro» nell’estate 2019 è stato finalmente tradotto (da Giuseppe Costigliola) in italiano. Non lo trovate in libreria. L’unico modo per averlo è scrivere alla Pro Loco di Ruvo del Monte (contatti@prolocoruvo.net): ve lo mandano contrassegno per 10 euro – sono 524 pagine – più le spese postali.

«Le strade d’oro» è dedicato al nonno di SAL cioè Giuseppantonio Coppola, a fine Ottocento in fuga dalla filossera che aveva colpito le vigne, per immigrare verso luoghi dove secondo molti le vie erano lastricate d’oro.

È la storia di come un immigrato diventa «americano» (cosa voglia dire non è chiarissimo). Quanti film e libri raccontano biografie simili? Per me il più bello su grande schermo resta «Gli amici di Georgia» (titolo originale «Four Friends») di Arthur Penn che però non parla di italo-americani.

Fra i tanti libri in tema questo è il più bello che conosco: per ironia, per spregiudicatezza (nel parlare di sesso), per scrittura. E per il tanto jazz.

Quel che più interessa – soprattutto chi legge «Musica jazz» (*) – è come Evan-Ed-Salvatore ci catapulta (attraverso Ignazio-Ike-Dwight) in mezzo ai musicisti del be bop e degli anni seguenti. Finzione e verità. Nella nota finale Evan Hunter spiega: «Personaggi, eventi, persino alcuni luoghi sono immaginari. E mentre le frasi attribuite a musicisti jazz esistenti sono state effettivamente pronunciate in una qualche occasione non furono certo dette da Dwight Jamieson […] Marian McPartland, per esempio, fece davvero quel commento sui batteristi che scomparivano ma lo disse al pubblico che era accorso a sentirla suonare al Hohn Drew Theater a East Hampton nell’estate del 1973».

E i musicisti veri? È Art Tatum che fa innamorare Ike del jazz e dunque all’inizio è ovunque e quasi da solo. Via via irrompono Oscar Peterson, Bird e Dizzy, Bud Powell e Kenny Clarke (non troppo amati da Ike), Sidney Bechet, Coleman Hawkins, Tadd Dameron, George Shearing, Max Roach…

Ed è proprio Oscar Peterson il protagonista di una delle più ipnotiche perdite di verginità (maschili) che io conosca. La parola a Ike cioè a Evan Hunter. «Adesso tenterò qualcosa che potrebbe spaventare persino uno come Oscar Peterson. Dimostrerò cosa significa suonare un assolo jazz e lo farò istituendo un paragone con quel che accadde con Susan […] una volta che superammo i preliminari, le tolsi la camicetta, il reggiseno, la sottoveste e infine le mutandine […] Vi proverò non solo che grande pianista sono […] e come apparirebbe il jazz se voi lo leggeste invece di ascoltarlo. Impossibile, dite? Aspettate un attimo, non avete ancora visto niente. Per semplificare le cose […] ricorrerò allo spartito di un blues di dodici battute con solo ventuno accordi». E così avanti per quasi 5 pagine mescolando swing e approcci sessuali, sino al gran finale musical-erotico.

Avete amato la scrittura jazz di Kerouac? Hunter è meglio.

Lo consiglio assai, assai, assai a chi ama i bei libri, il jazz e l’umorismo: qui una battuta tira l’altra per pagine intere. Non conosco l’inglese ma credo che il traduttore abbia visto i sorci verdi per rendere alcuni giochi di parole pazzeschi.

Nel libro, quasi autobiografico, di un italo-americano (di successo) possibile che non ci sia la mafia? Come no. E siccome Evan Hunter si diletta con gli acrostici la chiama «Malavita Associata Federata Italo Americana» ma anche «Muscolare Azione Federata per Intensificare l’Ansia» oppure «Masnada che Affligge e Forza gli Indipendenti all’Acquiescenza».

Il finale? Scopritelo voi. Ike vi regala un indizio: «Questa è l’America. Si vince e si perde facile».

(*) Questa recensione è uscita ne La Bottega del Barbieri   

 





Louis Armstrong, un esempio

È di tempi recenti il ritrovamento di alcuni documenti chiarificatori della mentalità del grande trombettista Louis Armstrong. 

Persona schietta, semplice ma per niente superficiale, il suo atteggiamento – al di là di alcune esigenze tipiche del mondo dello spettacolo per come era concepito un po’ di tempo fa – non ha mai lasciato spazio al benché minimo sospetto di “ziotomismo” o di accondiscendenza, e mai ha confermato quelle brutte ipotesi di naturalismo delle quali si è sempre autoalimentata tanta sguaiata letteratura sul jazz, dagli inizi del secolo scorso fino a oggi.

Ad esempio, è sempre piaciuta agli estimatori del jazz (più che ai detrattori) la favoletta che i musicisti del primo jazz di New Orleans non sapessero leggere la musica. Questa narrazione arcadica quanto deleteria piaceva sia a chi la scriveva che a chi se la è voluta sentir raccontare tutte le sere prima di addormentarsi, proprio come i bambini. Peccato che basti leggere invece alcune ricerche accurate di musicologi seri – uno per tutti, e per limitarsi all’Italia: Stefano Zenni – per scoprire che uno come Armstrong, la propria musica, la scriveva. E come lui tanti altri musicisti neri e creoli di New Orleans avevano ricevuto una educazione musicale di tutto rispetto e anzi, a giudicare dai risultati, di livello superiore e di grande efficacia anche pratica. 

Però è vero che spesso la scolarizzazione musicale, a quei tempi, in quei luoghi e per certe persone, poteva arrivare da strade abbastanza imprevedibili. Colpisce, proprio sotto capodanno, leggere il trafiletto di giornale che racconta come a 12 anni il povero Louis sia stato tradotto alla “Waif’s Home”, un carcere minorile, per aver sparato alcuni colpi di pistola in aria per festeggiare l’arrivo del nuovo anno. Questo il documento, nel quale viene definito “old offender”:

E intenerisce il cuore vedere un filmato di tanti anni dopo, una trasmissione televisiva di Steve Allen nella quale un Armstrong già famosissimo incontra in una carrambata incantata e meravigliosa il suo primo insegnante, quel Peter Davies che proprio alla Waif’s Home seppe intuire le potenzialità del ragazzo, gli mise nelle mani la prima cornetta e gli impartì le primissime lezioni di musica. Il grande Louis, l’adulto Louis, la stella planetaria Louis, qui torna semplicemente bambino. Lo si vede chiaramente dal linguaggio del corpo, ipercinetico e bioenergetico come sempre ma stranamente imbarazzato, gongolante, innocente.

Questo il filmato:

L’ultimo documento ci riguarda più da vicino: un dattiloscritto nel quale Armstrong racconta la propria esperienza con la pandemia del 1918. Traspare, da quelle righe, l’ansia di un diciassettenne conscio del proprio valore, che già suonava professionalmente e che vede interrotta forzatamente la propria attività. Racconta esattamente le cose che stiamo vivendo noi oggi, musicisti e non: le restrizioni, l’impossibilità di ballare e di suonare, il governo che prima allenta la stretta e poi richiude con più forza. A questo racconto così attuale dopo tanti anni, a questa ansia di fare, a questa giovanile impazienza, Armstrong aggiunge però un altro elemento, fondamentale per comprendere l’artista e l’uomo che era: la consapevolezza. Egli si rende conto – e ce ne rende conto – che oltre ai problemi pratici personali, come l’esigenza di saltare da un lavoro all’altro per sopravvivere, la gente attorno a lui stava soffrendo. E a quel punto il giovane artista promettente, il futuro genio del jazz, si rimbocca le maniche e si dà da fare come fosse una specie di paramedico, mettendosi a curare e ad aiutare parenti e amici. Alla fine, con l’orgoglio tipico dell’artista di rango, dichiara pure di averlo fatto bene! 

Questo il prezioso dattiloscritto: 

Da questi documenti – resi pubblici dal Louis Armstrong House Museum – traspare un esempio di umanità senza pari, e poi di forza, determinazione e fiducia. 

In fondo, le stesse caratteristiche della sua musica: a chi gli chiedeva “come si fa a suonare così” Louis Armstrong rispondeva semplicemente “Ama!”.





Le im-pari opportunità

Avete presente le pari opportunità? La pari dignità? I pari diritti? Beh se sì, siamo tra i pochi, pochissimi direi e di certo in questo fine dicembre non se ne hanno grandi esempi. Certamente non dopo una vignetta sessista, patriarcale e poco illuminata, indicata addirittura come “iniziativa presa a titolo gratuito” (dovesse venir fuori che sono, siamo anche ingrati!): il dubbio atroce che l’hashtag #andratuttobene era profondamente sbagliato ti assale, a dire il vero ne hai certezza! In questo 2020 dovevamo aspettarci di tutto, ma che un’associazione di categoria si macchi di tanto era davvero imprevedibile, o forse no… Ma in fondo io che sono donna, obbligatoriamente senza occhi o naso, e di proprietà (sua moglie, la famiglia) non riesco proprio a vedere un futuro … forse perché vengo sovrastata dalla mole di “quel padre, quel lavoratore che guarda speranzoso al futuro” (solo lui ovviamente), o forse sono angosciata da quella miniatura che è “Suo figlio, il suo futuro” (e non nostro figlio… ), anche lui senza naso ed occhi (no scusate ma a che età si creano gli occhi e il naso di un “suo” figlio?) … Allora ti fai delle domande: figlio maschio perché deve prendere in mano la sua attività? Solo il figlio maschio può? E se questo figlio maschio non volesse (auspicabile!) seguire le orme del padre? E le figlie femmine non hanno possibilità di futuro? Non rappresentano anche loro il futuro? Ma a Casa Merkel, alla nascita di Angela se lo saranno posto il problema? O a casa Von Der Leyen avranno pensato: chissà se Ursula avrà figli? (solo 7 di cui una coppia di gemelli)…di certo non sarà in grado in quanto femmina di gestire il suo futuro! (infatti ha in mano “solo” il futuro di milioni di europei…) La vignetta è stata ritirata (ma solo dopo che sono scoppiate le polemiche!) con un messaggio di pseudo scuse, ecco la toppa peggiore del buco!, ma poveri (sigh!), sono rimasti spiazzati perché l’associazione di Lucca è sempre stata propositiva e rispettosa e per di più ha tra i massimi dirigenti due donne, la Direttrice e la vicepresidente vicario in primis (come se questo fosse garanzia di qualcosa)…ecco ancora una volta noi NON ABBIAMO CAPITO e mettono a disposizione anche un aiuto psicologico a chi lo richiede… Bene di questo 2020 l’unica certezza che ho è che non si è capaci neanche di chiedere scusa e di fare un passo indietro quando è necessario, e questo è uno di quei casi in cui entrambe le cose sono urgenti. Da rappresentante dico che avere ruoli all’interno di un’associazione non è un LAVORO, ma una missione e se non capisci da solo quando hai prevaricato i tuoi obblighi e doveri e mestamente dài le dimissioni chiedendo scusa, semplicemente, senza arrancare ipotesi fantasiose quanto raccapriccianti, chi ha ruoli maggiori o simili dei tuoi te lo deve imporre, e se questo non succede è la base che lo deve chiedere, semplicemente inviando la disdetta. Quante donne imprenditrici sono socie di quella organizzazione? Quante di loro si sentono rappresentate da un’associazione che fa errori (o forse ORRORI) di questo peso? Nella vita quotidiana poi ti accorgi che dietro il perbenismo e la “normalità” di certe persone trovi la più becera realtà, e se chiedi a un fruttivendolo (socio di questa associazione) scusa cosa ne pensi? Risponde con l’aria stralunata di chi non ti capisce: non ci vedo nulla di male, da sempre è stato così… E se gli fai notare che lui ha la moglie al suo fianco al banco, e che non acquisterai più nulla da lui, in modo troglodita risponde, “ovvio che lavora pure lei, e comunque la troglodita sei tu!” ecco no, non andrà niente bene! Se il nuovo anno nasce con questi presupposti avremo un 2021 “illuminante” e con la strada solo in ripida salita… ah no scusate buon 1821 a tutti e buona parte della popolazione italica avrà sonni tranquilli, in fondo le “serve” stanno in casa e per altri 125 anni non avranno neanche il diritto al voto…

 





Estetiche del potere. Muralizzazione delle periferie e decontestualizzazione dell’arte di strada

«Molti degli operatori culturali attivi in strada a partire dai primi 2000 hanno modificato la percezione, l’occupazione e la condivisione di ciò che fino a quel momento veniva considerato lo spazio pubblico. La fisionomia della città, e alcune sue parti divenute “celebri” proprio per gli interventi di autori come Blu, si è modificata in virtù di quelle improvvise e impreviste presenze, spesso pittoriche, che hanno reso la città stessa per alcuni aspetti anche più “preziosa”» (Fabiola Naldi, Tracce di Blu, Postmedia books, 2020)

«Siamo stati denunciati mentre aiutavamo Blu a cancellare le sue opere. E con questa ci conquistiamo la denuncia più stravagante e imbecille dell’anno» (Laboratorio Crash, Bologna, marzo 2016).

«Da un lato volete sgomberarci, dall’altro volete rinchiuderci in una teca» (Centro sociale XM24, Bologna, luglio 2019)

Prendendo atto di come le periferie delle città si stiano da qualche tempo riempiendo di murales, Lorenzo Misuraca, in un suo scritto pubblicato su “Il lavoro culturale” nel 20151, si chiede se, al di là degli aspetti positivi, in tale proliferazione non vi sia anche qualcosa di negativo.

Rispetto ai graffiti comparsi sui muri delle città italiane negli anni Ottanta e Novanta, questa più recente ondata di murales, sostiene Misuraca, non pare rappresentare «l’autoaffermazione estetica» di una specifica «comunità underground». Inoltre, rispetto alle precedenti, le ultime produzioni sembrano incontrare un consenso più diffuso.

Che siano nati spontaneamente dal basso o commissionati a livello più o meno istituzionale, i murales delle periferie sembrano svolgere una funzione di riqualificazione urbanistica e culturale e, continua l’autore, il loro linguaggio di strada per la strada rappresenta un ottimo strumento per veicolare la rinascita di aree urbane periferiche e per rafforzare l’auto-percezione positiva che il quartiere ha di sé. Insomma, la «politica di ridisegno delle periferie» attuata dalle istituzioni, che in alcuni casi organizzano persino tour guidati alla scoperta delle “bellezze sui muri” delle periferie, sembra donare ai suoi abitanti l’orgoglio di un’unicità positiva.

A partire da tali premesse, Misuraca si interroga sulle possibili ricadute negative di questa “muralizzazione” delle periferie. Se da un lato il quartiere rischia di scambiare i suoi «bisogni strutturali, come i servizi di prossimità, i trasporti, il decoro urbano, gli spazi culturali e di socializzazione, con la colorazione artistica delle facciate», dall’altro, con il dilagare di tale fenomeno, la street art rischia di giocarsi la sua stessa anima che è quanto la contraddistingue dai manufatti destinati agli ambiti museali e chiusi che nel corso del tempo si sono talmente “addomesticati”, nel loro adeguarsi al gusto medio, da essere divenuti inoffensivi.

«L’arte di strada nasce per parlare ad altri, ai passanti nelle vie, ai nevrotizzati dai ritmi della città, alle famiglie di migranti. Lo fa stendendosi su un muro e lo fa, quando lo fa bene, creando un cortocircuito disturbante con la cultura dominante, che sia il capitalismo, il consumismo, l’autoritarismo, il fatalismo o il familismo clientelare». Converrà interrogarsi sul fatto che le opere di un artista come Banksy finiscono per piacere anche a quelli a cui non l’artista vorrebbe piacere. Attorno alle sue opere si è infatti creato un cortocircuito perverso per cui alcune delle stesse amministrazioni britanniche che un tempo bollavano tali interventi sui muri come atti vandalici, ora si adoperano per tutelare le sue opere da sconsiderati atti di vandalismo.

Non è una novità che un fenomeno di strada rischi di essere riassorbito da un sistema che non perde occasione per ricavare profitto anche da chi magari lo contesta e se qualche artista di strada si adegua, qualcun altro decide di resistere alle lusinghe. «Legittima l’aspirazione del muralista di vivere della sua arte», scrive Misuraca, «ma sorprende la scarsa consapevolezza di come i murales stiano cambiando la propria funzione all’interno della comunicazione pubblica. Da luogo di critica a luogo di ratifica del potere».

Di tale paradosso sicuramente si è accorto Blu, che non a caso «lavora in sinergia con le vertenze sociali e politiche dei territori in cui opera». A rendere evidente tale consapevolezza è la cancellazione, nel dicembre del 2014, operata dallo stesso artista di suoi lavori nel quartiere berlinese di Kreuzberg. «Il motivo è la gentrificazione, la trasformazione di quel quartiere multietnico e popolare in un luogo radical-chic e a vocazione commerciale, e dunque il decadimento della ragione stessa di quell’opera lì».

Nel 2016, in occasione della mostra bolognese “Street Art. Banksy & Co. – L’arte allo stato urbano”, che espone alcune opere letteralmente staccate dai muri della città, trasformandole così in pezzi da museo, con il pomposo obiettivo di «salvarle dalla demolizione e preservarle dall’ingiuria del tempo», l’artista Blu, aiutato dagli occupanti di alcuni centri sociali locali, risponde all’essere finito, suo malgrado, nel cartellone della mostra, cancellando le sue opere dipinte in città2.

Se da un alto la muralizzazione delle periferie può diventare una sorta di “trompe-l’oeil del cambiamento”, ossia «un’occasione importante di ricodificare tramite l’occhio dello straniero la percezione di se stessi, libera o quantomeno non delimitata da stigmi antichi», dall’altro, il crescente protagonismo istituzionale nel commissionare opere di street art può rappresentare «il germe di una politica comunitaria che sempre di più nasconde il segno sotto il tappeto del simbolo».

Detto che i murales, per quanto affascinanti, non cancellano il disagio sociale e l’isolamento a cui sono condannate le periferie, ciò che colpisce oggi «è invece la velocità con cui queste operazioni culturali vengono pensate, messe in atto, e digerite», scrive Misuraca, tornando sull’argomento sempre su “Il lavoro culturale” in uno scritto del dicembre 20203 che amplia la riflessione a come il capitalismo dei social incida, anestetizzandola, sull’esperienza creativa. Non appena un fatto tocca “corde comuni”, occorre metterlo a profitto istantaneamente, prima che l’interesse collettivo cali.

L’autodistruzione operata da Blu nei confronti delle sue opere è un atto estetico e politico radicale che ha il merito di riportare al centro della scena una riflessione tanto sulla scena urbana che su quella artistica. Non a Blu direttamente, ma attorno a lui sicuramente, è strutturato il libro di Fabiola Naldi, Tracce di Blu (Postmedia books, 2020) che raccoglie alcuni testi che, scrive l’autrice, «hanno vissuto di un momento empatico molto particolare, e hanno condiviso luoghi e contesti di destinazione speciali per la mia carriera e la mia esperienza personale. Ciascun testo che precede l’estratto ripubblicato agisce come un ipertesto, una sorta di scrittura aumentata di ciò che avevo già fatto al tempo».

In una scena artistica contraddistinta da una certa refrattarietà all’agire collettivo, in cui molti operano in solitaria senza un preciso codice espressivo, la cancellazione delle opere operata da Blu nel marzo 2016 rappresenta secondo Naldi «l’apice della parte libera e consapevole di un modo preciso di intendere lo spazio urbano. Certamente ci sono ancora autori che proseguono a lavorare in modo risoluto e a volte ancora antagonista, ma la deriva più decorativa, edonistica e restaurativa detiene il primato».

Riprendendo i ragionamenti di Miwon Know4 a proposito dell’arte pubblica, del site specific e del rapporto tra realizzazione e distruzione, Naldi evidenzia come tanto gli studiosi quanto gli spettatori casuali contemporanei debbano saper contestualizzare l’intervento estetico al suo contesto di riferimento. Pertanto, «la Street Art può esistere ed essere considerata tale solo se fruita come esperienza fenomenologica conseguente e adiacente allo stesso contesto, fatto per soddisfare il luogo in cui è stato realizzato e privo di valore se spostato, trasferito o modificato». È pertanto inevitabile che l’autore metta in conto, quando non la pianifichi direttamente, la distruzione dell’opera. È nelle regole non scritte della Drawing Art, illegale o meno, il suo essere effimera e instabile.

Scrive Blu poche ore dopo aver operato la cancellazione delle proprie opere: «A Bologna non c’è più Blu e non ci sarà finché i magnati mangeranno. Per ringraziamenti o lamentele sapete a chi rivolgervi». Come a dire che non è nel gesto in sé della cancellazione operata dall’artista che deve essere ricercato l’atto violento; questo deve piuttosto essere individuato nella logica di chi ha davvero distrutto la sua opera murale, «strappandola dalla sua unica e possibile collocazione in nome di una logica di preservazione, fondamentale in altri contesti pittorici ma opposto al lavoro di Blu».

Scrive Naldi che con modalità da attivista politico, «Blu considera buona parte degli interventi che realizza in lotta o in contrapposizione ai vari sistemi locali (diritto alla casa, lotta di autogestione, libero utilizzo delle piattaforme tecnologiche). Solo in quei casi, e solo con l’aiuto di un supporto economico per i materiali pittorici da utilizzare, Blu sceglie di sottoscrivere la battaglia di un singolo gruppo legato a un singolo territorio, consapevole he la notorietà e il rispetto acquisito nel corso degli anni possano ridisegnare le sorti di una precisa attività anche in nome delle sua presenza. Non si parla mai di riqualificazione urbana, non vi è partecipazione o collaborazione con le istituzioni, ma solo ‘urgenza di “accentuare” una situazione di emergenza sempre più comune a molte città». Ecco allora che in una data particolare per Bologna, l’anniversario dell’uccisione per mano poliziesca di Francesco Lorusso (11 marzo 1977), con l’aiuto di attivisti dei centri sociali Crash e XM24, Blu decide di ricoprire con il colore grigio le sue opere cittadine.

Dichiara il Centro sociale XM24 di Bologna sotto sgombero nel luglio 2019: «Non dimentichiamo che giornali e politici che oggi elogiano la tutela della Sovrintendenza sono gli stessi che ogni giorno condannano tag, scritte e disegni sui muri, gli stessi che considerano un priorità la “pulizia” della città e che augurano severe condanne a chi fa i graffiti. Gli stessi che apprezzano la “street art” solo se ci intravedono un potenziale profitto. C’è però una realtà evidente: quei pezzi esistono perché esiste una comunità che li ha fortemente desiderati, voluti, che ne ha scelto i soggetti, il linguaggio, la forma, il contenuto. In un rapporto di scambio continuo fra artiste e artisti chiamati a dipingere e Xm24, stretti in modo inscindibile. Non si può separare un’opera di arte urbana dalla comunità che abita quella porzione di città su cui essa insiste e per cui esiste, senza snaturarla del tutto, e renderla un tristissimo fantoccio vuoto. […] Non consegneremo al Comune un monumento svuotato dal suo contenuto politico e di lotta. Non ci saranno turisti e passanti che si faranno selfie di fronte al fascio spezzato, ai partigiani dipinti, al ritratto del nostro compagno Francesco Lo Russo, e al cane, al topo e al piccione di Xm24, e un Lepore o chi per lui a raccontare in modo addomesticato la storia dello Spazio Autogestito che oggi vogliono sgomberare. Da un lato volete sgomberarci, dall’altro volete rinchiuderci in una teca. Non vi farete belli della nostra storia, della nostra passione, del nostro presente. Non vi daremo la possibilità di provarci».

Un luogo pubblico dovrebbe essere inteso come spazio «condiviso, comune e spesso di passaggio», dunque, a proposito dell’arte pubblica, nelle sue molteplici manifestazioni, occorre secondo Naldi chiedersi cosa sia ora lo spazio pubblico e come si muovano al suo interno coloro che lo abitano. Visto che gli interventi di arte pubblica incidono inevitabilmente sullo spazio e sulla comunità che lo abita, non è che quelle opere vengano realizzate, lette e interpretate come in altri contesti.

È a partire da tali riflessioni, sulla specificità di tali esperienze, che l’autrice ha strutturato un volume che ruota attorno agli eventi espositivi ai quale ha preso parte Blu. Si tratta di un libro strutturato attorno agli scritti con cui l’autrice hanno accompagnato l’artista per un decennio nelle manifestazioni pubbliche e sulla strada, scritti che ora possono essere riletti a posteriori anche, e soprattutto, alla luce delle auto-cancellazioni operate da Blu, da un gesto capace di rafforzare e significare la sua intera produzione artistica e politica allo stesso tempo.

  1. Lorenzo Misuraca, Street art come il trompe l’oeil dello stato sociale. I rischi della “muralizzazione” delle periferie, “Il lavoro culturale”, 13 Maggio 2015. 

  2. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Graffiti, dispensatori d’aura ed ordine pubblico, “Carmilla”, 22 luglio 2016.  

  3. Lorenzo Misuraca, Capitalismo social. Come il capitalismo dei social prosciuga il desiderio e desertifica l’esperienza creativa, “Il lavoro culturale”, 8 Dicembre 2020. 

  4. Miwon Know, One Place After Another: Site-specific Art and Locational Identity, MIT Press, Cambridge, MA, U.S.A 2002. 

Questo articolo è stato già pubblicato su www.carmillaonline.com

 





Il buio che illumina i fantasmi

«Vedo tutto così chiaramente, come se fosse successo davvero. Ci ho provato a vivere normalmente, ma ogni volta sentivo che l’irreale non spariva, si spostava soltanto di un po’».

Polonia, 1935. Una donna senza nome, narratrice della storia, viene dimessa da un sanatorio per malati di nervi sul Baltico. Arriva a Varsavia con il fratello maggiore e si apre una vicenda che va avanti e indietro nel tempo, fra ricordi e presenze che sembrano aliene ma forse sono solo gli spiriti della vita vissuta e dei desideri che la animano.
Autrice di questo interessante esperimento letterario è Anna Kantoch, polacca, classe 1976, arabista di formazione ed esponente di punta del gruppo letterario “Harda Horda” che riunisce alcune fra le autrici fantasy polacche più influenti e originali. Ha pubblicato dodici romanzi e numerosi racconti, spaziando dal noir alla fantascienza, dallo steampunk al giallo, fino alla young-adult fiction. Con Buio ha vinto il premio Zulawski, il maggiore riconoscimento critico per la letteratura fantastica del suo Paese.
Per conversare con lei sull’edizione italiana appena pubblicata da Carbonio editore, l’abbiamo raggiunta con il sostegno di Salvatore Greco, interprete e agente letterario di Nova Books Agency che ha portato l’autrice in Italia.

Sei stata presentata in Italia come una esponente del “ginocentrismo della fantasy polacca”: ti ritrovi in questa definizione? 
Sì perché negli ultimi vent’anni il mondo letterario del fantasy è cambiato parecchio; era dominato da autori e invece adesso ci sono sempre più autrici, ad esempio Ewa Bialolecka che insieme a me fa parte di Harda Horda oppure la storica medievale Anna Brzezinska. Da mosche bianche ora siamo una presenza riconosciuta e sono molto orgogliosa di far parte di questo gruppo.

Iniziamo dal titolo: in italiano «Buio» fa pensare al fatto che la tua storia – parli anche di fantasmi e mondi paralleli – avesse bisogno di una situazione senza luce; è voluto o è qualcosa emersa nel corso della scrittura?

In polacco in realtà il titolo è nero; e il processo è stato parzialmente voluto e parzialmente casuale. In Polonia esistono diversi luoghi che si chiamano così, nessuno rassomiglia del tutto al posto che descrivo nel libro ma mi piaceva l’idea che fosse un luogo con questo nome per avere anche rimandi simbolici. Non sono però necessari questi toni scuri per raccontare eventuali altri mondi; piuttosto rispecchiano anche il mio carattere, non sono particolarmente ottimista e solare.

La tua narrazione parla di disagio mentale: è anche per questo che si muove fra tempi passati e presenti e identità diverse?
Sì è un elemento importante, perché volevo da subito creare una personaggia che non fosse del tutto credibile e lasciasse spazio ai dubbi, non fidarsi del tutto di quello che lei vive. Volevo lasciare l’incertezza sul fatto che i suoi disturbi mentali fossero il motivo dell’avere una visione delle cose diversa dagli altri.

Il tuo testo si muove fra realtà e finzione ma anche fra realtà e vite parallele, fantasmi che rincorrono i personaggi e viceversa: c’è una situazione particolare che facilita questi incontri?
Sento di credere a tutto quel che accade ai miei personaggi nel momento in cui accade: mentre scrivevo pensavo a una storia di sola letteratura fantastica, poi è diventato qualcosa altro che utilizza anche le categorie del realismo magico, ovviamente in contesti diversi dalla letteratura latinoamericana dove il realismo magico si è sviluppato.

La protagonista si sente diversa e riconosce chi come lei è diverso, uno straniero a questo mondo. È un modo per dire con la finzione narrativa che non c’è patria umana per chi è sensibile e non si omologa?
Il senso di estraneità è fondamentale nel libro. Sì, è anche un messaggio che va oltre la letteratura e vuole mostrare le sensazioni di chi si ritrova a vivere “fuori norma” rispetto alla società.

A un certo punto la protagonista dice «Sono una bambina, poco più di un rudimento femminile, un essere informe a cui si permette di giocare con i propri fratelli. Ma non è questo il punto: mia madre nutriva la profonda convinzione che mi avrebbe insegnato chi avrei dovuto essere». Ricorre nel romanzo il tema della femminilità imposta da culture patriarcali, pensi che fare letteratura posso sostenere i movimenti per i diritti delle donne?
La purezza del messaggio politico l’ho capito a fine stesura e me ne sono resa conto con orgoglio, perché sicuramente quando la tratteggio nel periodo pre-adolescenziale emerge il fatto che è quello il momento in cui si può scegliere cosa essere e lei, a modo suo, si ribella anche a quelle che sono le aspettative familiari. Le donne sono indirizzate verso uno schema sociale rigido, ieri come oggi, e il messaggio rivoluzionario si è sviluppato con il personaggio

Nel romanzo si parla di relazione amorosa fra donne: è possibile in Polonia esplicitare le relazioni lesbiche o si va incontro a discriminazioni? Credi la Polonia sia un paese per donne?
Non tutti gli ambienti sono aperti ad accogliere queste esperienze e anche per strada si può incorrere in situazioni spiacevoli, ma ci sono ambienti protetti, per esempio dove vivo nella regione della Slesia esistono circoli letterari dove gli orientamenti sessuali sono molteplici e non vengono giudicati.

Come sono state accolte le scene descritte nel libro?

Incredibilmente sono state molto apprezzate, addirittura c’è chi ha detto che è stata una delle cose migliori che ho scritto e sono molto soddisfatta anche io, lo dico senza falsa modestia.

Per chiudere sulle tematiche di genere, a un certo punto parli di comportamenti maschili per far apparire le donne prima isteriche poi vittime. Il non essere trattate come vittime è un tema importante nei femminismi contemporanei, come anche in quello polacco che è tornato di nuovo a protestare per il diritto all’aborto. Cosa pensi di queste manifestazioni, anche come figura pubblica di scrittrice nota e tradotta all’estero?
Il libro, ambientato negli anni Trenta, l’ho scritto quasi dieci anni fa e non potevo immaginare che questi temi tornassero con così tanta attualità, per cui per certi versi mi rattrista pensare che siamo tornati indietro e la situazione sta peggiorando. Sono una persona molto timida e introversa, non amo la folla e i rumori folli, ma questa volta ho partecipato alle proteste e ne ho parlato anche sui miei profili social per far capire che è necessario uscire dalla propria bolla di sicurezza e nemmeno la timidezza può fermare dal manifestare.

In un passaggio la protagonista dice: «Di fronte a me, invece, ho l’impossibile, sono ancora bloccata al confine tra due mondi, persa: nessuno dei due mi sembra abbastanza reale da potermi fidare». Sembra una visione un po’ pessimistica dell’esistente…
No, in realtà l’estraneità che la protagonista sente nei confronti del mondo la rende forte, nutrire dubbi fa sì che non si senta del tutto smarrita.

La protagonista vive con i ricordi, perché è grazie ai ricordi che vivono i sentimenti. Quanto è importante la memoria dei singoli per la storia collettiva? E cosa significa essere una scrittrice oggi in Polonia? 
La memoria è fondamentale, noi siamo ciò che siamo stati e questo insieme di ricordi compone una comunità che può scegliere di condividere o meno quella memoria. Non so che tipo di ruolo posso ricoprire in questo momento come scrittrice, ma già il fatto che «Buio» sia tornato attuale è un segnale importante.

 





Kim Ki-duk

11 dicembre 2020, pochi giorni prima del suo 60esimo compleanno, la tensione vitale di Kim Ki-duk si è spenta.
Kim Ki-duk è uno dei registi asiatici più conosciuti nel panorama cinematografico contemporaneo. Artista di rara complessità, dotato di sensibilità profonda e radicale, è un poeta che respira in modo estremo, sebbene persista in lui un’elegante raffinatezza percettiva.
Il suo è un cinema fondato dalla tensione tra delicate emozioni ed esplosioni di violenza, elementi separati che si attraggono reciprocamente, generando un flusso di energie instabili, ma che inspiegabilmente tendono a una situazione di equilibrio.
Nato nel 1960 a Bonghwa, una piccolo villaggio della Corea del Sud che dista 170 km dalla capitale, a nove anni si trasferisce con la famiglia a Seoul, dove in seguito frequenta un istituto professionale per l’agricoltura. A diciassette anni, per le condizioni di povertà in cui versa la sua famiglia, è costretto a lavorare in una fabbrica, che lascerà a vent’anni per
arruolarsi in marina, dove resta per i successive cinque.

È il periodo in cui si avvicina alla religione con l’intenzione di diventare predicatore, ma nel 1990 abbandona tutto e si trasferisce a Parigi per approfondire la passione per la pittura e riesce a mantenersi vendendo i suoi quadri.
“Arrivai in Europa perché volevo fuggire dalla società coreana, e da casa”, dice oggi. “Mio padre è un veterano della Guerra di Corea. Subì torture psicologiche e fisiche da parte della Corea del Nord. Riuscì a tornare a casa, con quattro pallottole in corpo, solo dopo uno scambio di prigionieri. Ma non fu più la stessa persona: era pervaso da un senso di sconfitta
e da una rabbia inaudita che scaricava quotidianamente su di me. Ero terrorizzato da mio padre, ma crescendo compresi che anche lui era soltanto un’altra vittima della società. I postumi di quella guerra si patiscono ancora oggi in Corea del Sud, nessuno però ne vuole
parlare. Per questo ho deciso di fare film che avessero al centro questi temi: la violenza, l’odio, i traumi, la solitudine, l’incapacità di comunicare. Situazioni che ho vissuto sulla mia pelle, ma che parlano di tutta la mia patria”.

Nel 1993 inizia ad avvicinarsi al cinema, scrive sceneggiature e vince il premio dell’Educational Institute of Screenwriting con la stesura di “A Painter and a Criminal Condemmed to Death”.
Cede del tutto al potente richiamo del cinema, nel 1996 esordisce con il film Crocodile, ambientato in Sud Corea, che già rivela in modo esplicito quali sono e saranno i temi centrali del suo lavoro: violenza, sesso e dolore.
Sono elementi chiave della sua narrazione, li ritroviamo intatti in Wild Animals, girato a Parigi (1997), e in Birdcage Inn (1998).
La componente distruttiva presente nella psiche umana, in contrapposizione alla vitalità sensuale dell’eros genera un brutale processo di tensione e di violenza, che spesso trova soluzione solo nella morte.

“Mi pongo sempre una domanda: cosa è umano? Cosa significa essere umano? Forse la gente considererà di nuovo brutali i miei nuovi film. Ma questa violenza è solo un riflesso di ciò che sono realmente, di ciò che è in ognuno di noi in una certa misura “.
Nel 2000 è presente al Festival di Venezia e al Sundance Film Festival con “L’isola”, che gli apre le porte della fama internazionale. Nello stesso anno Kim Ki-duk celebra la strenua ricerca di innovazione percettiva e di realizzazione con “Real Fiction”, girato 200 minuti con dieci cineprese e due videocamere digitali.
Il rapporto tra i personaggi e lo spazio vitale non consente loro di fuggire dai propri stati d’animo, così ne possiamo conoscere “desideri, ossessioni, paure che lì diventano quasi tangibili”.
L’indagine su questi contrasti di forze devastanti è presente anche ne: “Indirizzo sconosciuto” (2001), “Bad Guy” (2001) e “The Coast Guard” (2002).
“Spesso hanno criticato il fatto che nei miei film non si parla molto. Questo è perché racconto persone ferite, che hanno perso fiducia nell’altro. Così la violenza che è un’altra accusa che fanno ai miei film, non è un semplice gioco estetico. Per me è necessaria, è l’unica forma che esprime la crudeltà della vita, la sua tristezza e disperazione.”
Nel 2003 esce “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera”, un film fortemente simbolico, che sorprende per l’inquietante senso di pace evocato dalla splendida fotografia, davanti alle immagini perfettamente poetiche, sfuma lievemente l’intensità della violenza.
Nel 2004 gli vengono assegnati l’Orso d’Argento alla regia al Festival di Berlino per “La samaritana” (2004), e il Leone d’Argento al Festival di Venezia per “Ferro 3 – La casa vuota”.

È presente nel 2005 al Festival di Cannes con “L’arco”, segue “Time” (2006), “Soffio” (2007).
L’anno successivo vede la luce “Dream”; durante le riprese l’attrice protagonista Lee Na-yeong è stata vittima di un incidente sul set, durante la scena nella quale simula il suicidio per impiccagione.
Kim Ki-duk resta traumatizzato da questo evento, si ritira in solitudine e vive un periodo di profonda depressione. Riuscirà a vincere il grave tormento soltanto tre anni dopo con una lunga confessione-documentario: “Arirang”, dove espone un’intensa riflessione sull’arte e sulla vita, che approfondirà con il successivo “Amen”.
Nel 2012 realizza “Pietà”, per il quale viene insignito del Leone d’Oro al Festival di Venezia, dove negli anni successivi presenta fuori concorso “Moebius” (2013) e “One on One” (2014) con cui apre la selezione delle Giornate degli Autori; seguiranno “Stop” (2015) e “Il prigioniero coreano” (2016), che apre sezione denominata Cinema nel Giardino.
Muore in Lettonia, per le complicazioni dovute al maledetto Covid-19.

 





Irezumi, Tebori e Yakuza: l’antica arte del tatuaggio in Giappone.

In un tempo in cui le mode nascono con la stessa velocità con cui poi tramontano, solo alcuni si soffermano sulla genesi di fenomeni destinati, spesso, a lasciare poche tracce di sé nel ricordo comune.

Io stesso, grande appassionato di tatuaggi, mi sono dovuto fermare a pensare a quale potesse essere l’inizio di questa fantastica arte che in Giappone, come vedremo, ha avuto una crescita diversa dal resto del mondo.
La prima apparizione dei tatuaggi in occidente viene fatta coincidere generalmente con la figura del Capitano James Cook, che, nel 1744, di ritorno dal suo viaggio nell’Oceano Pacifico, portò con sé un indigeno il cui corpo era completamente ricoperto di tatuaggi; la sua vista generò le reazioni più disparate nella popolazione presente al suo arrivo, un po’ come accadeva fino a qualche anno fa quando davanti ai nostri occhi compariva la pelle di un uomo o di una donna, solcato da linee più o meno discrete di inchiostro. Di li a poco però, molti iniziarono a farsi tatuare, chi per semplice spirito di emulazione, chi per sincera ammirazione di quei motivi così affascinanti impressi sulla pelle, dando il via a quella che oggi è una vera e propria moda.

Immagine tratta da https://commons.wikimedia.org/wiki/File:The_Landing_at_Tana_one_of_the_New_Hebrides,_by_William_Hodges.jpg

Come ebbe inizio invece, e come si sviluppò l’arte del tatuaggio, in Oriente, e sopratutto in Giappone?

Diverse sono le testimonianze dell’origine dei tatuaggi in tutto il mondo, alcune celate in tempi remoti e con nature diverse; ad esempio, mentre nelle tribù indigene al tatuaggio venivano riconosciuti generalmente poteri religiosi e di protezione dal male, nel lontano Oriente la sua funzione (e quindi la sua evoluzione) fu completamente diversa.

La prima testimonianza scritta sui tatuaggi giapponesi è una cronaca cinese del 300 d.C. che riporta l’uso del tatuaggio presso gli indigeni giapponesi, mentre bisogna attendere l’800 d.C. per ritrovare reperti scritti di origine giapponese: vi si legge che in Giappone il tatuaggio veniva utilizzato a scopo punitivo, marchiando con il termine “cane” la fronte di coloro i quali si macchiavano di reati, e con righe e croci sulle braccia i colpevoli appartenenti alle caste minori.

Solo molto più tardi si inizia a parlare di tatuaggi giapponesi con finalità decorative, per imprimere preghiere buddhiste o pegni d’amore. Questo tatuaggio venne chiamato Hori-bari e nel 1700 il governo ne vietò l’uso presso le caste inferiori.

È solo nel periodo Edo (1603-1868) che il tatuaggio in Giappone ha il suo vero sviluppo per come lo conosciamo al giorno d’oggi. L’Irezumi (che significa “inserire inchiostro”) cioè il tatuaggio giapponese come giunge ai nostri giorni, si sviluppò proprio in quel periodo, andando a formare quello che è ancora oggi il canone codificato ed immutabile tramandato dai maestri. Non è però chiaro a quando risalga la moda dei tatuaggi full body, come se fosse un kimono dipinto sulla pelle (pratica che ad oggi richiede 5 anni e 100.000 euro), che ancora oggi costituiscono il tratto più distintivo dell’Irezumi.

L’inizio della grande diffusione del tatuaggio in Giappone si ha però con la pubblicazione del romanzo Suikoden, che narra le gesta di un gruppo di fuorilegge che combattevano la dinastia cinese Sung per difendere la popolazione. I capi di questa banda di fuorilegge erano descritti con il corpo ricoperto di tatuaggi ed immagini, e gli artisti più importanti dell’epoca fecero a gara per creare le rappresentazioni più sgargianti e suggestive, esagerando ed esaltando i loro tatuaggi. Ben presto il popolo si immedesimò nei protagonisti del romanzo, ed iniziarono a tatuarsi riproducendo gli stessi motivi descritti nella novella.

Immagine tratta da  https://blogs.yahoo.co.jp/jijisakura40/13823319.html

Così mercanti, operai, commercianti, tutti fecero ricorso all’arte dei tatuaggi, come anche gli Yakuza (letteralmente “mano vincente nel gioco”), giocatori d’azzardo che più tardi avrebbero formato l’organizzazione criminale conosciuta oggi con lo stesso nome.

Alcuni dei simboli ancora oggi usati nell’Irezumi rappresentano le carte usate nell’Hana-Fuda, il gioco d’azzardo degli Yakuza.

Con la diffusione delle immagini del Suikoden nelle stampe Ukyio-e, il tatuaggio in Giappone scopre il suo massimo splendore, con i più grandi incisori dell’epoca che diventarono tatuatori con il nome di Hori-Shi (maestri incisori che diventarono “maestri tatuatori”).

I tatuaggi giapponesi vengono tradizionalmente eseguiti sulla schiena: una tela bianca sulla quale il maestro tatuatore trova molto spazio per eseguire la sua opera d’arte. Samurai, dragoni, carpe e altri soggetti della tradizione. Questi tatuaggi sono figurativi, non astratti, e vedono moltissimi colori e sfumature.

Per quanto riguarda l’iconografia classica del tatuaggio nipponico infatti, molteplici sono i temi utilizzati come soggetti, ognuno con uno specifico significato.

Uno di quelli comunemente riconosciuto come appartenente alla cultura giapponese è il dragone: ritenuti dalla cultura occidentale animali potenti, feroci e malvagi, nella tradizione nipponica sono invece animali millenari che portano, con loro, saggezza.

Altro elemento riconoscibile come appartenente alla tradizione del paese del Sol Levante è la carpa, simbolo di coraggio, predisposizione a fare grandi cose, e porta con sé una leggenda cinese che ne giustifica il significato: si narra che una carpa riuscì a risalire la cascata situata sul “Dragon Gate” superando ostacoli e spiriti malvagi; gli dèi, impressionati da tanto coraggio, decisero di trasformarla in un drago.

Altro animale ricorrente nei tatuaggi giapponesi è la tigre, simbolo di forza, coraggio longevità. La tigre è uno dei quattro animali sacri (insieme a tartaruga, fenice e drago), e rappresenta il Nord e il controllo dei venti, particolarmente importante per un popolo che si affida al mare come principale mezzo di sostentamento.

Ma non ci sono solo animali tra gli elementi più riconoscibili dei tatuaggi giapponesi.

Troviamo ad esempio gli Oni (o Demoni Cornuti), spiriti maligni dipinti con un paio di corna, che vivono in gruppo, al quale appartengono divinità come quella del vento o del tuono. Questi spiriti vengono tatuati perché possono diventare dei protettori benevolenti, protettori ammirati da figure monastiche molto popolari nella cultura giapponese più tradizionale.

Altro elemento in contrasto con quella che è la nostra cultura è la Namakubi, la testa mozzata: elemento particolarmente macabro che tuttavia può simboleggiare la volontà di accettare il proprio fato con onore, accettazione che è alla base della cultura samurai.

Concludiamo proprio con il Samurai: la parola deriva dal giapponese “sabarau” che significa “servire”, ed è il simbolo di forza, coraggio, onore nobiltà d’animo.

Dopo un periodo di difficoltà coincidente con l’avvento dell’occidentalizzazione dell’Oriente da parte dell’America, negli anni ’70 il tatuaggio giapponese viene riconosciuto come lo stile più artistico ed elegante per esprimere l’arte del tatuaggio.

Nonostante molti in Occidente cerchino di replicare l’Irezumi, l’assenza di testi che illustrino i “canoni” dei tatuaggi giapponesi, rende impossibile tale pratica a chi non è stato un allievo di uno dei maestri Hori, gli unici depositari della tecnica peculiare utilizzata in Giappone ancora oggi.

Immagine tratta da  https://www.italiajapan.net/tatuaggi-in-giappone/

La tecnica peculiare dei tatuaggi giapponesi si chiama Tebori, che significa approssimativamente “scolpire a mano”. In effetti questi disegni danno una forte sensazione di tridimensionalità. È molto diversa dalle tecniche occidentali: tanto per cominciare, questi tatuaggi vengono eseguiti a mano, non con macchine automatiche. Ecco perché non è facile trovare in Italia un tatuatore in grado di eseguirli, malgrado ci sia qualche fortunato che nella propria carriera ha avuto la fortuna (o meglio l’immenso onore) di conoscere ed affiancare esperti maestri tatuatori giapponesi, imparando da loro i segreti del Tebori.

La tecnica Tebori si esegue con una cannuccia di bambù (oggi si usano anche materiali sterilizzabili) alla cui estremità sono fissati degli aghi.  Il maestro tatuatore esegue dei movimenti ritmici con i quali penetra la pelle con questi aghi. Il procedimento è più doloroso e richiede un tempo maggiore di guarigione, ma alla fine si possiede un vero pezzo d’arte sulla propria pelle.

A discapito della sua storia millenaria però, al giorno d’oggi i tatuaggi sono tutt’altro che ben visti nella società giapponese. In posti come piscine pubbliche e palestre, ma soprattutto nei bagni termali, è estremamente comune trovare cartelli di divieto d’accesso indirizzati alle persone tatuate.
Non importa se il tatuaggio è piccolo e si vede a malapena, il marchio inciso sul corpo impedirà comunque l’accesso ad una lunga serie di luoghi.

Immagine tratta da  https://www.italiajapan.net/tatuaggi-in-giappone/

Ma quali sono le ragioni della messa al bando dei tatuaggi?

Presumibilmente l’associazione che ancora viene fatta del tatuaggio con la Yakuza, o semplicemente con le sue radici storiche di marchio dei criminali, eppure ancora oggi sfoggiare un tatuaggio in Giappone, nonostante proprio il paese del Sol Levate sia riconosciuto come quello la cui arte nel tatuare non conosce eguali, può rappresentare un problema di difficile superamento.

Nonostante questo, tuttavia, esiste un momento della vita sociale in Giappone in cui non solo il tatuaggio viene accettato in pubblico, ma viene quasi celebrato.

È la ricorrenza shintoista chiamata Sanja Festival, che si tiene a Tokyo durante il terzo weekend di maggio, nata per onorare i tre pescatori che eressero il tempio Sensoji dopo aver pescato nel fiume una statua dorata del Buddha. Grandi cortei accompagnano per le strade festanti il passaggio dei tre divini altari: le statue, del peso di circa una tonnellata ciascuna, vengono agitate e scosse per intensificarne il potere propiziatorio e trasmettere alla comunità energia e forza.

I cortei sono un fiume di costumi sfarzosi, tra danzatrici alate, geishe e uomini tatuati in fundoshi (perizoma tradizionale giapponese), e rappresentano l’unico momento in cui i tatuaggi possono essere mostrati in pubblico.

Immagine tratta da  https://www.italiajapan.net/tatuaggi-in-giappone/


Special Thanks

“Colgo l’occasione per ringraziare Diatomea e i suoi gestori per la possibilità che mi hanno concesso di pubblicare articoli su quella che per me è una grandissima passione, il Giappone e la sua immensa e vastissima cultura, e soprattutto ringrazio la donna che mi dà ogni giorno lo stimolo per scrivere qualcosa di nuovo, interessante, pieno di passione, come la vita che proprio lei mi ha donato, e che mi dona ogni giorno rendendola meritevole di essere vissuta e scoperta, guardandola da prospettive nuove ed emozionanti”

Elio Caretta


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati o per gentile concessione dell’autore, tutte le altre sono coperte dal diritto d’autore ©MjZ




VICINE DI CASA, VICINE AL MONDO

Trent’anni di centro antiviolenza e quindici anni di Festival della Violenza illustrata per cambiare il mondo a partire dalle singole donne. Un bel compleanno per la Casa delle donne di Bologna che in questi decenni «ha visto passare oltre 12mila donne, ognuna di loro con una sua storia, importante, unica, di sofferenza ma anche di felicità per una nuova vita da ricostruire” come racconta Anna Pramstrahler, una delle socie fondatrici della casa e co-ideatrice del Festival: «siamo riuscite a costruire un centro autonomo e femminista, siamo tutte donne, formate, motivate, con una forte spinta politica a non volere considerare la violenza maschile contro le donne un problema “psicologico” come fanno i servizi istituzionali. È una questione globale, strutturale, una questione di potere tra i generi». E l’anno della pandemia lo ha confermato.

«L’emergenza sanitaria ha colpito in primo luogo le donne, questo ormai è chiaro e lo affermano anche fonti ufficiali: la povertà è aumentata e la cura di figli, anziani etc è tutta in mano alle donne. Gli episodi di violenza, soprattutto nei due mesi di chiusura totale, sono stati resi ancora più drammatici dal fatto che le donne non potevano chiedere aiuto, perché erano controllate 24 ore su 24 – continua Pramstrahler – Ma immediatamente dopo hanno chiesto aiuto ai Centri antiviolenza, anzi per noi i numeri sono notevolmente cresciuti. In più, moltissime delle donne povere, precarie, che hanno perso il lavoro a causa della violenza o della separazione, lavorano proprio nei servizi di cura e sono doppiamente svantaggiate”. Un motivo in più per confermare l’edizione 2020 del Festival anche se in versione completamente online, che sintetizza nel titolo “Vicine di case” una forte pratica femminista: «se la pandemia ci costringe a stare lontane, almeno fisicamente, noi abbiamo detto no. Noi siamo vicine alle donne, stiamo vicine tra noi perché solo così possiamo vincere questo momento difficile. Con “case” intendiamo la Casa delle donne ma anche le case delle altre donne o quelle delle associazioni e reti di donne, la nostra comunità. L’immagine del Festival ci è stata regalata dalla illustratrice Sara Colaone e ci ha fatto quasi ridere: tutte noi, donne, amiche, vicine, allegre, con voglia di fare, di parlare, di condividere. Tutte cose che non possiamo fare, ma nonostante i contatti fisici limitati progettiamo lo stesso un mondo comune con le donne».

Il festival parte da Bologna ma parla all’Italia e al mondo anche aderendo alla campagna Onu #16daysOfActivism, «16 giorni di attivismo contro la violenza di genere». Dal 25 novembre (Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne) al 10 dicembre (Giornata Mondiale dei diritti umani) il programma si svilupperà in 14 eventi on-line fra seminari, dibattiti e presentazioni di libri e due mostre: Uncinetto e mani di donne (Centro Lame, Bologna) dedicata a Nadia Murat (Premio Nobel 2018) e Sogni Vestiti e 100 Scarpe rosse per dire basta alla violenza sulle donne (Centro Nova, Bologna).

Un festival condiviso e reso possibile dalla tenacia di un gruppo di femministe che trent’anni fa non ha avuto paura di toccare con mano la realtà della violenza e che non ha mai mollato, convinte oggi come ieri che «la battaglia per tutte le donne deve continuare, creando alleanze anche con chi tra le donne occupa posti di potere – conclude Pramstrahler – e la pandemia può essere un’occasione per un grande cambiamento, che deve venire dalle donne».

Tutto il programma su https://festivallaviolenzaillustrata.it/

 

 

Immagine di copertina © Patrizia Pulga





C’era una volta il blues della domenica

Lavoro dall’età di 16 anni. All’epoca andavo anche a scuola serale. Ho preferito poi lavorare, lasciando la scuola quasi alla fine del suo termine cosiddetto “legale”. Il sabato e la domenica sono stati, più o meno, i giorni del riposo, in questi anni di lavoro. Eccetto il periodo del mio lavoro da pasticcere, quando il riposo era di mercoledì. Non lavoro praticamente da marzo. Quasi niente. Settore turistico ed indotti annessi. A marzo la perdita di mia Madre. Dopo un lungo periodo di ospedali, case per anziani, ancora ospedali ed infine hospice. A marzo, qualche giorno dopo il lutto, il primo lockdown (non mi piace questo termine). Due eventi, sommati a distanza di qualche giorno che, in altri tempi, mi avrebbero creato non pochi problemi di sonno. Mi sono ritrovato a ri-gestire tutto daccapo. Con grande reazione e con una buona capacità di campare con poco. Già ero low cost prima, figuriamoci ora, che devo “combattere” ancora di più. Vengo comunque da una famiglia low cost. C’è bastato sempre poco e non abbiamo mai oltrepassato il limite delle nostre possibilità. Tutto con Dignità. Il lavoro è un pezzo importante della mia vita. Alle volte anche troppo. Ci siamo dovuti fermare. Per una cosa seria. Una lunga vacanza impropria. Domani è lunedì. Un giorno lavorativo per molti. Per tanti altri un’altra “giornata al sole”. Aspettando che “sboccino fiori”. La domenica, oltrepassata l’ora di pranzo, iniziava per me, una sorta di training per prepararmi al giorno dopo. C’era un relax soporifero e nello stesso tempo malinconico. Preparavo gli abiti per l’indomani. Puliti e formali se dovevo fare passaggi da clienti,    “tecnici” se dovevo prestare la mia collaborazione come supporto tecnico. Cena frugale e a letto relativamente presto. Ora mi manca tutto questo. E comincio anche ad essere stanco per le ore passate in casa, per le persone che non posso vedere e toccare, per le continue e giuste precauzioni che dobbiamo osservare, per le informazioni dei media a “martello”. Una sensazione di invisibilità. La musica, da sempre una mia passione, e la bicicletta sono delle compagne insostituibili. Volano i pensieri. Con l’una e con l’altra. Il blues di questa domenica autunnale è estremamente profondo.
“I miei piedi sono freddi/non ho debiti da saldare e bambini da sgridare/   Padre, mi hai insegnato la verità/Madre, mi hai insegnato ad essere ricco   nella difficoltà/I miei antenati sono con me e sorridono, nella stanza senza calore.   Sono vivo e guardo oltre il tempo/I capelli sono ormai bianchi per aver pensato troppo/Il cuore è invece giovane e batte più lento e aspetta. Senza ferirsi/Il sonno, compagno della morte,  mi ristorerà/  I piedi continueranno ad essere freddi e non avrò mai debiti, né di denaro, né d’amore.   E non avrò tantomeno bambini da sgridare.”
Buonanotte e buona fortuna
 
 




La nostra Nig, la nostra schiava

«Nessuno l’avrebbe presa. Era nera, nessuno l’avrebbe amata. Sarebbe dovuta tornare e restare più che mai alla mercé della padrona». E non una padrona qualunque, ma una donna «altezzosa, turbolenta, lunatica e severa. In parole povere, una scorbutica in tutto e per tutto» che riversa sulla piccola Alfrado, detta Frado, e soprannominata Nig – diminutivo di nigger – una violenza inaudita e feroce per anni e anni, per niente smussata dalla finzione letteraria … la quale altro non è che la vicenda autobiografica di Harriet E. Wilson.

Nata nel 1825 in umili condizioni in una cittadina del New Hampshire da madre bianca e padre afroamericano, Harriet Wilson è considerata la prima scrittrice afroamericana ad aver pubblicato (nel 1859) un romanzo in Nordamerica: che viene finalmente tradotto in italiano da Mariacristina Cesa e Giuseppe Villella per Lebeg edizioni.

Prendere in mano il suo romanzo «La nostra Nig. Vita di una nera libera in una casa bianca del Nord, che dimostra fin dove si allunga l’ombra della schiavitù» significa mettere la mano su una ferita ancora aperta, dove insistono le quotidiane forme di razzismo vissute dagli afroamericani negli Stati Uniti: la testimonianza di come in uno stesso ambiente familiare possano coesistere sinceri antischiavisti e spietate razziste. 

La storia di Nig restituisce «la pericolosa, perversa e sadica ossessione delle donne bianche nel maltrattare pesantemente le donne nere, da sempre al centro di stupri e commistioni di razze» scrive nell’introduzione Jaki Shelton Green, poeta statunitense, erede di una famiglia discendente da schiavi e curatrice dell’edizione americana. Ma racconta anche di uomini incapaci di intervenire accanto ad altri che cercano, a modo loro, di fare qualcosa. «La nostra Nig mostra più e più volte di essere senza tempo. La nostra Nig canta che nel momento in cui perisce con il vento, anche le farfalle, le pietre e persino gli uccelli senza canto diranno di aver smesso di credere in un Dio che tortura un passerotto dalle minuscole ossa. La nostra Nig ci permette di vederla in viaggio: moglie, vedova, madre, madre in lutto e costruttrice di una nuova vita» chiosa Green.

Le tappe della vita di Nig sono quelle dell’autrice: si ritrova schiava pur essendo nata libera in uno stato del Nord (che al tempo della vicenda a metà Ottocento si proclama abolizionista). Il breve romanzo fu scritto per la necessità di guadagnare cioè per la sopravvivenza sua e del figlio. Ma è anche il documento prezioso di quello che realmente accadeva in un momento importante della storia statunitense, svelato anche dal lessico usato. Infatti «era tipico delle famiglie agiate riferirsi ai propri servi afroamericani facendo precedere al loro nome l’aggettivo possessivo our, nostro o nostra. Pertanto, l’espressione our nig sottolinea come la servitù, nonostante al Nord fosse illegale, diventasse di fatto proprietà della famiglia venendo allo stesso tempo privata della propria identità» – spiegano i traduttori – «nig compare per la prima volta nel Dizionario Merriam-Webster di inglese nordamericano nel 1864. Il termine, il cui primo uso si fa risalire al 1574, viene indicato come un sinonimo di ‘negro’ ma con un’accezione derisoria o dispregiativa. Nel 1859 nig è quindi un termine denigratorio per indicare una persona afroamericana. La traduzione di questo termine con un altro in italiano ci è parsa impossibile. Si sarebbe potuto utilizzare ‘negretta’ e quindi ‘la nostra negretta’. Tuttavia questa espressione ci avrebbe restituito un significato nel suo senso generale, mentre dalla lettura del testo si evince come il termine nig si sovrapponga al nome proprio della protagonista Alfrado, quasi sempre diminuito in Frado. Il termine dispregiativo diventa, pertanto, un vezzeggiativo utilizzato anche da chi nella vicenda si dichiara antischiavista, ecco perché si è preferito lasciare Nig anche in italiano».

La lingua, usata correttamente, non lascia scampo e restituisce sempre quello che esiste, anche in tutta la sua durezza. Ma non riesce sempre a spiegare.  A leggere questa storia, torna fortemente l’interrogativo «Perché? Perché questo odio verso l’altra/o?» da cui nasce la scrittura di Toni Morrison – ed è la domanda posta in apertura di un bellissimo documentario online sulla vita di Morrison – non trova mai piena risposta, ma possibili e personali vie di uscite sì. Perché Nig trova la forza anche per brevi ribellioni e si appoggia dove può, segue chi le suggerisce la fede in Dio anche se dubita che vi sia un paradiso per i neri.

A 18 anni, di nuovo libera, trova la forza per ricominciare da capo e altrove, fino ad arrivare a chiedere, essendole stato rifiutato per una vita, solo un po’ di meritato, meritatissimo affetto a voi «gentili lettori».

 





LA TRILOGIA MARSIGLIESE di Jean-Claude Izzo

Marsiglia, Francia ©MjZ

Marsiglia non è una città per turisti. Non c’è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Qui, bisogna schierarsi. Appassionarsi. Essere per, essere contro. Essere, violentemente. Solo allora, ciò che c’è da vedere si lascia vedere ”.

Così Jean-Claude Izzo descrive Marsiglia nella trilogia che lo farà diventare autore di culto e capostipite del “Noir Mediterraneo”, genere da lui codificato e portato alla massima espressione.

Casino TotaleChourmo. Il cuore di MarsigliaSolea, i tre capitoli che compongono l’opera, sono più di una trama avvincente, sono un inno alla città natale dello scrittore; bastano infatti pochissime righe affinché il lettore si innamori in maniera viscerale e acritica di vicoli e piazze che forse, in precedenza, aveva sentito nominare solo per la nefasta fama della Città durante i primi anni Novanta. Protagonisti assoluti, anche quando non vengono nominati sono due luoghi: Il Vieux-Port e Le Panier, il primo, crocevia di razze, galeotti, prigionieri, profumi e colori che descrivono Marsiglia più di mille guide turistiche; il secondo è semplicemente il quartiere più antico, là dove non solo “Massilia” è nata, ma anche dove cambia e migliora la sua storia.

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     Marsiglia, Francia ©MjZ

Sarebbe facile parlare della trilogia descrivendo le vicissitudini del protagonista, Fabio Montale, e della sua sgangherata vita, ma questo libro va letto con occhi diversi, con sensi diversi. Nelle pagine troverete sentimenti vividi, profumi inebrianti e colori ancestrali; emozioni talmente forti che spesso vi chiederete se non siate proprio voi a camminare per il Vecchio Porto o se non sia l’amore della vostra vita che vi sta cucinando la bouillabaisse nella cucina accanto.

Questo libro va anche ascoltato, però, la musica è il filo conduttore che unisce lo scrittore con il suo alter ego, Fabio Montale, e non può essere una semplice casualità il fatto che i tre titoli dei libri siano anche, e soprattutto, tre titoli di canzoni.

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Marsiglia, Francia © MjZ

E come il Jazz, che ammanta ogni singola lettera della trilogia, anche Jean-Claude Izzo è elegante, ha stile ed è estremamente diretto, la sua penna descrive sentimenti ai limiti e sfumati come la malinconia, la rabbia, l’amicizia, la solidarietà ed il razzismo; descrive, soprattutto, le contraddizioni dell’animo umano attraverso forse la città più contraddittoria di tutta Europa. Marsiglia d’altronde è chiusa dalle montagne e poi fugge verso il mare; Marsiglia è la città di chi arriva e di chi parte, Marsiglia è semplicemente noi e la nostra continua lotta tra arrendersi e lottare, tra il farsi coccolare dalle acque placide di un porto o sfidare il mare aperto con le sue onde che potrebbero essere mortali. Parafrasando Victor Hugo, Marsiglia oltre gli sconfitti, i romantici, i disadattati, oltre i margini “è la gioia di sentirsi vivi”.

“Penso al golfo di Marsiglia”, / Un’angoscia che si sveglia / Un frammento di cuore pieno d’esilio» Louis Brauquier

Immagine di Jean-Claude Izzo tratta da © https://ilmanifesto.it/jean-claude-izzo-il-cuore-di-marsiglia/

Di fronte al mare la felicità è un’idea semplice

da Chourmo. Il cuore di Marsiglia

Anche per perdere bisogna sapersi battere; anche senza possibilità, scommettere significa sperare; l’onore dei sopravvissuti è sopravvivere; è nel dolore che si riscopre di essere un esiliato

da Casino Totale

Lontano dagli occhi vicino al cuore, Marsiglia, sempre

da Solea

Marsiglia, Francia © MjZ

“Monterà in voi la limpida felicità di essere qui un giorno, una settimana, oppure un mese. O per sempre, magari” 

Jean-Claude Izzo

« Le persone che abbiamo amato non muoiono mai. Viviamo con loro. Sempre… Vedi, è come questa città, vive di tutti quelli che ci hanno vissuto. Tutti ci hanno sudato, faticato, sperato. Mio padre e mia madre sono ancora vivi in queste strade.» «Una città di esiliati» «Si, è così. Questa città sarà sempre e soltanto l’ultimo scalo del mondo. Il suo futuro appartiene a coloro che arrivano. Mai a quelli che partono.» «Oh! E chi resta, allora» «Sono come chi sta in mare, Felix. Non si sa mai se sono morti o vivi»“ da Chourmo


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I segreti di cui abbiamo bisogno

Arrivi alla fine del romanzo, e la domanda sorge spontanea: perché abbiamo bisogno di segreti? Elvira Seminara, giornalista e scrittrice, autrice del divertente e vivace I segreti del giovedì sera [Einaudi, 2020], è sorpresa e ride: “Non mi è stata mai posta questa domanda, non ci avevo mai pensato in questi termini. Ne abbiamo bisogno perché tutto è troppo manifesto, esibito, senza la possibilità di avere qualcosa di preservabile dall’esibizione. Ne abbiamo sempre meno di segreti e invece cerchiamoli, anche con noi stessi. I segreti abitano uno spazio ambivalente e misterioso, il più raro che esista perché apre allo spazio necessario del dubbio”. E della penombra, che forse tutte noi fondo in fondo reclamiamo, per riprendere fiato e ridere di gusto ogni volta che si può. Soprattutto quando si arriva ad un certa età di mezzo, fra i 50 e i 60, un po’ depresse e un po’ disincantate, eppure vive. E con la voglia di vivere, nonostante tutto. Per questo un gruppo di amiche e amici si incontra, insieme o anche solo a due a due, come racconta la voce narrante Elvis, alter ego dell’autrice e trait d’union della compagnia, che funziona come una sostanza reagente rispetto agli altri personaggi, è colei che fa parlare in un intreccio di elementi biografici e di escamotages narrativi fra un capitolo e l’altro. Donne e uomini si ritrovano in un circolo degli affetti, per dibattere di piccole cose del quotidiano e dei massimi sistemi, per condividere anche solo in parte dei segreti, consapevoli di essere su una soglia pericolante: quella dell’età, del tempo che passa, della Sicilia in cui si abita. E ancora la soglia dello sguardo dalla costa, che sorregge quando si ha paura di perdere l’orizzonte e al tempo stesso si ha un senso febbrile per il futuro, perché a voler essere sinceri come uno dei protagonisti “noi adulti proviamo una schifosa invidia per i giovani, un’ambigua e languorosa invidia, ma per accettarla la convertiamo prima in autoindulgenza e poi in un sentire più nobile e sociocompatibile, chiamato trasmissione di saperi”. Su questo non ha dubbi Seminara: “l’invidia esiste anche se ipocritamente diciamo di no, per questo Elvis, che sono io, dice quello che nella vita reale ci nascondiamo. Non amo la retorica o il rimpianto per il passato, e non nego questa forma di gelosia per chi è più giovane di noi, che non significa regredire ma voler restare giovani nel tempo”. Per questo tutte le voci che si rincorrono nel testo in un flusso veloce di parole, rapido come il modo di parlare dell’autrice, tengono insieme il peso specifico dell’età adulta e l’ironia e la leggerezza di chi conosce, abbastanza bene, i propri limiti e sa quanto possono pesare dolori e delusioni, lutti e separazioni. Sanno che non è possibile salvarsi da soli, che abbiamo bisogno delle relazioni, anche quelle incerte o casuali del sorriso che ti rivolge il panettiere perché non possiamo non rifletterci nello sguardo delle altre e degli altri, ed è sano pensarlo, soprattutto nel tempo pandemico in cui indossiamo la mascherina per entrambi, per me e per te, per tutti noi.

E per la città che, pagina dopo pagina, vorremmo raggiungere in un balzo, quella Catania descritta nella sua ambivalenza e nei suoi colori, nei sensi che stimola soprattutto a novembre, quando “nei trenta giorni di cui dispone, è capace di ondeggiare a caso dai dodici ai trenta gradi, e può capitare che domenica fai una nuotata e lunedì un salto sulla prima neve dell’Etna”. Pur non sentendosi ‘siciliana’ in senso classico, Seminara in questo romanzo narra le siciliane e i siciliani a tutto tondo, li conosce e  vuole loro bene, al punto da pensare che “quando un giorno improvvisamente provi nostalgia dei tuoi amici, anche se sono davanti a te, se li vedi ridere e provi tenerezza, poi gelosia e colpevolezza, e poi apprensione come se fossero in pericolo, in pericolo di felicità, lontani e intimi come mai, vuol dire solo una cosa, che quella storia sta finendo. E io devo prepararmi, allestire un congedo che non sia una fine”. E infatti non c’è una fine in questo romanzo, ma solo un ciuffo di capelli che spunta da un basco, quasi a voler dare aria al prossimo segreto.

Questo articolo esce in contemporanea con La bottega del Barbieri (http://www.labottegadelbarbieri.org)





Keith Jarrett e il tempio maledetto

Un ictus alla ribalta delle cronache, in un periodo in cui si parla e si scrive solo di un coronavirus, di una pandemia mondiale, di equilibri economici, sociali e politici in estremo pericolo: sembra un errore o perlomeno una mancanza di tempismo o di rispetto nei confronti di un problema reale e attualissimo. Ma l’importanza della figura di Keith Jarrett, pianista immenso e improvvisatore di genio universale, merita che succeda anche questo. Che si parli di un corpo che non risponde più ai comandi, alle idee e alla creatività di un uomo che di idee e creatività ha dimostrato nel tempo di averne davvero.

Jarrett ha ben chiaro un concetto: che il corpo è un tempio, eretto a gloria di qualcosa di grande, di eterno, di globale. E che il tempio serve a diffondere un messaggio. Siamo abituati a vedere Jarrett contorcersi mentre suona, a sentirlo gemere, a dissacrare il tempio pur di usarlo come canale, attraverso il quale lasciar passare qualcosa di grande, qualcosa che viene dal passato e dal di fuori, cercare di filtrarlo senza corromperlo, trovare una neutralità impossibile – specie per chi ha una personalità importante – pur di mantenere pulito il messaggio. E se il messaggio è proprio quello di riuscire a farsi “cavo”, vuoto come un maestro di Reiki, per veicolare energie universali, allora il corpo inteso come tempio diventa un problema, un impaccio, una maledizione. 

Di Keith Jarrett e della sua impressionante capacità pianistica è inutile parlare qui: dirò soltanto che è un musicista totale, pianista prodigio dall’età più tenera, scritturato negli anni ‘60 da maestri del jazz come Charles Lloyd e Miles Davis, vincitore di premi in ogni campo (i suoi 24 preludi e fughe di Shostakovich sono di importanza capitale e hanno vinto un Grammy Award), ha eseguito di tutto e tutto al massimo livello possibile, da Bach alle musiche segrete del maestro sufi George Ivanov Gurdjeff. La popolarità vera arriva all’inizio degli anni settanta con un disco dal vivo, registrato con la febbre e su un pianoforte scordato, di musica totalmente improvvisata: il “Koln Concert”. Non era la prima volta che Jarrett si sedeva alla tastiera dicendo semplicemente alle proprie mani di fare il loro lavoro. Anzi era una ricerca approfondita sul fatto che se uno ha tecnica, cuore, cultura il più possibile ampia e sfaccettata, nel momento in cui comincia a suonare dimentica tutto ciò che sa – ed è quello il momento della verità. Un atteggiamento che trova forse un precedente illustre in un pianista affatto diverso sia come formazione che come forma mentis: Erroll Garner. Un paragone che regge ancor di più se si pensa alla produzione della creatura più importante di Jarrett, quello “Standard Trio” nel quale, con l’apporto di contrabbasso e batteria, rivisita e reinventa in un colpo solo sia il repertorio delle canzoni americane di tutti i tempi che il pianismo jazz, diventando praticamente un faro per legioni di pianisti in tutto il mondo. E più o meno consapevolmente, lo fa esattamente come Garner: ogni brano ha una introduzione completamente improvvisata e tensiva, che sfocia poi in una rilettura assolutamente personale e liberatoria del pezzo in questione. Ciò che cambia è l’approccio: dove Garner è disincantato, divertito e giocoso – giacché libero da condizionamenti accademici, teorici e tecnici – per Jarrett la cosa è serissima e il corpo, quel suo corpo tenuto perfettamente in forma affinché adempia alla sua missione, viene piegato e trattato per essere in definitiva trasceso, così come da trascendere è tutta la sua immensa conoscenza.

Di pianisti importantissimi colpiti da ictus invalidanti ce ne sono stati. Il mitico James P. Johnson, il compositore del Charleston, riuscì a continuare a esibirsi e a registrare dischi per una decina d’anni dopo la prima ischemia avvenuta nel 1940, con l’aiuto di un batterista a coprire le inesattezze della mano sinistra. Il grandissimo virtuoso canadese Oscar Peterson negli anni novanta continuò a dare concerti in tutto il mondo suonando solo con la mano destra e ingaggiando un chitarrista per dare al gruppo maggiore completezza.

E poi gli ictus di Keith Jarrett, due, nel 2018. La riabilitazione, il ritorno a casa in piena pandemia, e la consapevolezza di non essere più un pianista – parole sue – perché la mano sinistra non risponde. Con ironia parla di un pianista “già sparato”, in risposta al vecchio calembour “non sparate sul pianista”. Ma con la lucidità e la consapevolezza che gli è propria, non ha mai detto di non essere più un musicista e questo è un dettaglio importante. Lui sa che il corpo è sempre un tempio maledetto, e che perfino quando è in perfetta salute lo è. Conosce benissimo – da buon sacerdote – la contraddizione tipica del tempio, che se da un lato magnifica dall’altro delimita. Jarrett ha sempre combattuto per far uscire fuori la Musica, e lo ha fatto attraverso il pianoforte – ma ci sono dischi nei quali suona il sassofono, o le percussioni. Ho pensato che potrebbe stupirci suonando la tromba, un giorno o l’altro – del resto lui è sempre stato uno da “Mission Impossible”. Aspettiamo.

 





Il piccolo motore del Manifesto e la scintilla del movimento operaio

Non sorprende, ma comunque emoziona e fa piacere lo straordinario e diffuso riconoscimento avuto da Rossana dopo la sua morte.

Mi ostino a pensare che non rappresenti solo un omaggio alla sua straordinaria persona, alla sua intelligenza e cultura, ma anche un riconoscimento dell’importanza che ha avuto, sebbene sconfitta, l’impresa politica collettiva, a cui diedero vita lei e il gruppo storico, fondatore della prima rivista il Manifesto.

Non è giusto separare Rossana da questa storia. Fondatori e fondatrici della rivista, una volta radiati dal Pci, capirono che per continuare ciò che avevano iniziato era necessario raccogliere e organizzare la diffusa domanda di base che la loro cacciata dal Pci aveva suscitato. Una domanda che non veniva solo dalle e dai militanti comunisti, ma anche da tanti gruppi organizzati di studenti e operai formatisi nelle lotte del ’68 e nella diffusa insubordinazione operaia dei primi mesi del ‘69.

Penso alla discussione nel collettivo operai studenti di Bologna, quando, nell’ottobre del ‘69, proposi di far confluire nel Manifesto la nostra esperienza. Ricordo che l’unica obiezione che mi fu fatta, soprattutto dagli operai del collettivo, fu quella di verificare se il gruppo storico era intenzionato a trasformare ciò che scriveva sul mensile in una presenza organizzata nei territori e nelle lotte. La paura che fossero “intellettuali slegati dalle masse” come da più parti si insinuava, svanì con la scelta di dar vita in tutto il territorio ai centri di iniziativa del Manifesto.

Faremmo un torto non solo a Rossana e a tutto il gruppo storico, ma anche alle tante e tanti che hanno condiviso l’impresa, considerare il Manifesto solo un giornale e i suoi militanti solo coloro che in questi 50 anni gli hanno permesso di nascere quotidianamente.

Sarebbe una visione impoverente che finirebbe per ridurre in lettrici e lettori passive/i le migliaia di donne e uomini che in tutt’Italia provavano ogni giorno, a costruire o almeno influenzare i conflitti operai e sociali a nome del Manifesto.

Ricordare questa parte non significa nascondere le discordanze che ci hanno diviso, tantomeno il dibattito sul tipo di organizzazione da costruire, dimenticare ad esempio quanto lei insistesse sulla nostra provvisorietà, sull’esigenza di non apparire come una forza scissionista.

Non aveva senso mettere in moto il piccolo motore del Manifesto, se poi la forza che si riusciva a sprigionare, non contribuiva ad avviare un processo più vasto, una generale rifondazione del movimento operaio italiano e in particolare del partito comunista.

Strettamente collegata all’idea della nostra provvisorietà era l’idea di rivoluzione sociale, ricca cioè di istituti intermedi, come i consigli, dove i soggetti sociali consolidavano conquiste e prefiguravano già le caratteristiche, le relazioni della nuova società a cui aspiravano.

Le nostre erano ambizioni grandi, che gli altri gruppi della nuova sinistra, in particolare Lotta Continua, scambiavano per opportunismo e cedimenti al Pci. Non hanno mai compreso che era questo l’unico modo per smettere di “predicare” la rivoluzione e impedire che le avanguardie più radicalizzate si separassero dalle masse.

Solo una rifondazione generale della sinistra italiana poteva aiutare a creare le condizioni, politiche, sociali e culturali, per mettere in discussione concretamente il capitalismo e cogliere l’occasione aperta dalla radicalità delle lotte operaie e studentesche. Così, come solo abbandonando l’attesa dell’ora ics, del potere come qualcosa da prendere, il socialismo a cui stavamo riflettendo avrebbe fornito risposte convincenti, di partecipazione e autogoverno, alle rivoluzioni fino a quel momento realizzate e miseramente fallite.

Non è che non fossimo consapevoli della sproporzione che c’era fra ciò che concretamente eravamo e le ambizioni che ci animavano. Proprio per cercare di colmare questo divario fummo costretti a procedere per continue accelerazioni, di cui la più ardua e sicuramente la più riuscita, fu quella di ideare nel ‘70 un giornale quotidiano, uno strumento autonomo che ogni giorno dall’aprile ‘71, oltre che nelle edicole, veniva diffuso dalle e dai militanti del Manifesto davanti alle fabbriche e nei quartieri.

È giusto dire che Rossana non la si può tirare da tutte le parti, Rossana comunista, quella operaista, femminista, ambientalista, ma certo è molto difficile separarla da questo progetto politico.

Mi si dirà che dagli anni ’80 quel Manifesto non esiste più, che la rottura politica fra Magri e Rossanda ha fatto nascere nuove ipotesi. È vero, abbiamo camminato su strade diverse, il partito da una parte e il giornale dall’altra, eppure nel ‘99, sull’onda del movimento pacifista mondiale e dei social forum, su iniziativa di Filippo Maone si fondò la seconda rivista del Manifesto, un collettivo in cui tardivamente l’intera sinistra comunista si ritrovò, da Ingrao passando per Tortorella, Chiarante, Bertinotti, insieme con Magri, Rossanda, Pintor, Castellina e Parlato.

In questa mia ostinata rivendicazione c’è solo la convinzione che riflettere sull’intera nostra storia potrebbe offrirci indicazioni utili per contribuire a ricostruire una soggettività all’altezza del presente, a smuovere la rassegnazione con cui ogni giorno subiamo i negativi rapporti di forza che si sono determinati in larga parte del mondo.

In fondo non è a questo che Rossana pensava a più di novant’anni quando, rientrata da Parigi, provò a proporci di fare un inserto da inserire nel Manifesto?

articolo già pubblicato su il Manifesto il 14.10.2020





Il punto d’incontro di due rette parallele

Era in piedi, le spalle alla parete, al riparo. Guardò oltre la finestra: lo scirocco soffiava sulla campagna, i muretti a secco, le masserie, i filari di vite; tutto si confondeva in un’aurea da miraggio. Al centro del cortile vide una macchina ferma sotto l’ombra del grande ulivo e si confortò: ormai un cordone di sicurezza circondava l’agriturismo: non erano più in pericolo.

     «Mi stordisce questo posto, comandante Lupo» lei disse «dopo quello che abbiamo passato».

Alle spalle di Lupo il condizionatore combatteva monocorde la battaglia contro la calura. Nella stanza un tavolo, due sedie, un fornello su cui gorgogliava una moka, due tazze di porcellana; anche se la fuga era finita i suoi sensi, però, rimanevano vigili: avvertì espandersi l’odore del caffè e sul filo di quell’aroma, i ricordi del loro recente passato si ripresentarono non invitati.

E fu di nuovo a Tel Aviv, al tavolino di un bar, ad aspettare.

Il suo mestiere era fatto d’attese e paura: dell’attesa di un segnale che confermasse la riuscita di un’operazione; della paura per la propria vita, per quella degli altri; per la missione sempre sul punto di abortire. Ma poi eccola arrivare; sedere, senza guardarlo, a un altro tavolo, giocare con gli occhiali da sole, ordinare un caffè e scacciare, con la sua presenza, ansia e tensione. 

    In Lupo la certezza di portare avanti l’operazione e il sollievo di rivederla si sovrapponevano. Perché, anche se disciplina e mestiere gli impedivano di ammetterlo, lei era diventata importante quanto la riuscita della missione. E adesso era lì, a tre metri; al collo i grani di una collana di corallo. Un codice: confermava l’invio, nell’ufficio import-export usato dal Servizio come base operativa, di un pony express. Chi nota un fattorino nell’atrio di un grattacielo commerciale? Avrebbe consegnato una busta con dentro un foglio fitto di numeri e conti bancari. Un altro tassello al tradimento di lei.

Lupo avrebbe voluto parlarle, rassicurarla e rassicurarsi, ma erano in pubblico, costretti dalla copertura. Per tutti lui era un organizzatore culturale e lei la frequentatrice, poco assidua, di conferenze e mostre: tra loro doveva apparire soltanto una cordialità distaccata e formale. Lei, perfetta nella parte, gli dedicò un sorriso accennato e un saluto col capo. Poi si alzò passandogli vicino. Lo sguardo di Lupo la seguì fino alla Mercedes, guidata da un arabo robusto, con cui andò via.

Come sempre si scoprì turbato da lei e desiderò smettesse il doppio gioco, sempre più pericoloso, e si salvasse. Era stata per Lupo, fino ad un anno prima, soltanto una figura sullo sfondo della caccia a Saled Katami, il padre/padrone di un’organizzazione travestita da austera finanziaria internazionale, ma sempre pronta a sostenere con uomini e mezzi il terrorismo internazionale. Un’appariscente bellezza dai capelli ramati e dal corpo florido; arrivava alle mostre, con l’aria barocca delle donne mediorientali laiche e abbienti quando indossano abiti occidentali, scortata a distanza dall’autista arabo. Tutti la accoglievano e la corteggiavano, perché era il giocattolo personale di Katami. 

 A Lupo appariva lontana dal quel mondo e mai avrebbe pensato potesse rivelarsi l’anello debole della catena. Invece un giorno era arrivata in Istituto, col pretesto di iscriversi a un corso di cucina e gli aveva consegnato un foglietto.   

     «Ho copiato questi numeri dal pc di Saled. Non so. Forse possono esserti utili» gli aveva detto; a Lupo erano bastati pochi secondi per rendersi conto: quel foglietto manoscritto con numeri satellitari, e-mail e nomi di società, era la prima crepa alle difese di Katami. Aspettava quel momento da anni, ma non aveva avvertito nessun senso di trionfo, si era sorpreso, anzi, a fare i conti con la paura per il coinvolgimento di lei. Per arginare la deriva dei pensieri si era rifugiato nell’ortodossia del mestiere. Brusco aveva intascato il biglietto, sforzandosi di non pensare. Si era limitato a guardare le rughe d’espressione ai lati degli occhi di lei e a pensare che mai si sarebbe perdonato, se le fosse capitato qualcosa.

Lei ne aveva retto lo sguardo e indicato un poster promozionale.

     «Ho imparato la lingua dalle suore. Sono cresciuta in istituto, sai. Ora voglio vederlo di persona il tuo paese» aveva detto, Facendo tintinnare i braccialetti al polso.

    «Ci andrai, quando sarà finita. È un impegno».

Per mesi le sue informazioni avevano dato lavoro agli analisti e guidato l’azione del Servizio. Almeno fino a quando Lupo non l’aveva vista, sulla terrazza di un locale sul Mediterraneo, pallida in viso, portare a tracolla una borsa gialla. Un segnale concordato di pericolo. Mi sospettano e ho paura, diceva quel codice. Lupo aveva avvertito lo stomaco accartocciarsi e compreso: l’unica soluzione era la fuga. Via da Tel Aviv. Verso casa.

In poche ore – secoli al suo senso d’urgenza – la finestra di fuga venne ristudiata, ricontrollata, attivata.

La mattina dopo Lupo fu di fronte una palazzina grigia, pregando perché quel giorno lei rispettasse il consueto appuntamento dal parrucchiere. Quando l’aveva vista scendere dalla Mercedes seguita dall’autista e da un altro giannizzero aveva dato il via agli uomini, con rabbia e sollievo. Nel ricordo l’azione gli sembrava essersi svolta come al rallentatore, sovrastata dal battito anomalo del suo cuore; per entrare nel negozio occorreva attraversare un atrio: avevano agito lì e sorpreso i due mastini. Lui stesso aveva colpito, con un calzino pieno di monete, l’autista alla nuca, sferrandogli poi un calcio ai testicoli.

Era salita sulla loro macchina muta, pallida e stupita. Lui le si era seduto accanto.

    «Hai paura?» le aveva chiesto, mentre le palme del lungomare scorrevano dal finestrino. Lei aveva intrecciato le dita delle mani, s’era addossata allo schienale, socchiuso gli occhi e ispirato forte, senza rispondergli.

Insieme l’agente e la sua fonte, nascosti nella stiva di una petroliera Eni, avevano raggiunto Malta. Da lì, con un catamarano di linea, Pozzallo, mischiati alla torma dei frequentatori del casinò.

A Ibla, di fronte al duomo di San Giorgio, come due escursionisti qualunque tra gente qualunque. Seguendo una procedura mandata a memoria da sempre, Lupo era entrato nell’ufficio turistico della piazza e chiesto informazioni su un particolare arredo del castello di Donnafugata. Gli avevano consegnarono una busta; all’interno vi aveva trovato il cartoncino pubblicitario di un agriturismo, la casa sicura scelta per loro, e le chiavi di una macchina. Doveva portarla là e ricominciare ad attendere, come sempre aveva fatto in tutta la sua vita di spia. Succube di un riflesso pavloviano aveva percorso il basolato al braccio di lei e raggiunto un’utilitaria posteggiata appena oltre la zona pedonale.

In macchina, assecondando i tornanti della collina, tra camion e station wagon di gitanti, non avevano parlato; assorbiti ciascuno dal sollievo che sembrava spingere avanti la vecchia Uno.

Lo sfrigolìo della moka allontanò quei ricordi. Il caffè era pronto. Lo versò nelle tazze. Lei era in piedi e lo guardava intensa.

    «Perché stai così lontano da me?» chiese.

    «Per non spaventarti».

    «Sei sempre così premuroso?»

    «È una regola: mai turbare una fonte».

Lei prese la tazza, vi soffiò sopra. Lupo rivisse nella memoria tutte le volte in cui, durante gli appostamenti, l’aveva vista compiere quel gesto: nei night o seduta ai tavolini di un caffè. Con lo sguardo di chi non vuole essere carina lei bevve un lungo sorso e lui non poté trattenersi dal guardarle le labbra: una stilla di caffè si distribuiva a delta tra i solchi che le percorrevano quando assumeva quell’espressione dura.

S’era cambiata d’abito e Lupo scoprì di avere di nuovo di fronte la donna di sempre e non più, come durante la fuga, il suo clone infagottato. 

La fissò come fosse la prima volta: la giacca del tailleur le conteneva con difficoltà le forme, affondò lo sguardo nel solco dei suoi seni e avvertì un desiderio d’intimità e tenerezza, ma era in azione e non poteva permettersi fantasie. Arginò la carica del testosterone e si costrinse a guardare altrove.

    «Sono abituata a questi sguardi e a quello che viene dopo» lei disse.

Lo sguardo di Lupo si posò sulla forma delle labbra di lei stampate dal rossetto sul bordo della tazzina. ‘Non sei più quella che ho sorvegliato per tante notti’ pensò ‘non è indelebile il tuo rossetto. Non avresti usato cosmetici di cattiva qualità prima’.

    «Perché hai scelto noi per tradire Katami?» le chiese d’istinto. Teneva la tazza di caffè tra le mani e il tepore lo confortava.

     «Sei stato tu» lei rispose sparandogli addosso gli occhi nero vino «vivevo con Saled e non m’importava da dove venisse il suo denaro. Poi sei arrivato tu e ho cominciato a chiedermi se fosse giusto continuare a non vedere. Ho seguito te».

    «Hai tradito Katami perché avevi già deciso a farlo» Lupo rispose d’impulso, maledicendo ancora una volta se stesso: mai disilludere una fonte. Ma con lei in quella stanza, scopriva di non essere più in grado di difendersi.

    «Mi confondi, comandante Lupo» lei riprese, come se comprendesse i pensieri di lui «mi parli e m’innamoro di te. Poi segui i tuoi pensieri e diventi un’altra persona e anche di questa m’innamoro. Ma tu non smetti e cambi di nuovo. Sei così con tutte le tue donne?»

    «Tu non sei una delle mie donne, signorina Schiraz».

    «Perché mi hai portata qui allora, perché mi hai salvato la vita?»

    «Perché i Servizi di mezzo mondo vogliono usare le tue informazioni contro Kaled, perché Forza 17 vuole ucciderti, il Mossad interrogarti prima che questo accada e  anche noi vogliamo la nostra parte e perché questo non è un gioco tra gentiluomini. Vuoi altri perché?»

Lupo finì il caffè. Ne avvertì il gusto amaro precipitargli in gola e per un attimo s’illuse di avere ristabilito i ruoli: lui il controllore, lei la fonte da proteggere e sfruttare. Solo questo, niente di più. 

    «Cosa c’entra questo con noi due» Schiraz gli rispose, scrollò le spalle, proseguì:

«Ho avuto paura quando Saled mi ha scoperta e quando mi avete portato via. Ma adesso è finita. Sono stata povera. Non sai le violenze che ho sopportato per uscirne. Non erano gentiluomini neanche quelli con cui andavo a letto. Ho sopportato e sono sopravvissuta. Ci riuscirò anche questa volta» disse con decisione.

Lupo guardò dentro la tazza: alcune linee marrone, simili a lacrime, convergevano verso il fondo mischiandosi tra loro.

     ‘Come nella vita’ pensò ‘ciascuno per la sua strada ma tutti attratti da uno stesso centro di gravità’. E forse quella stanza era il loro.

Fu sul punto di chiederglielo, ma Schiraz lo prevenne: «La mia vita è cambiata e da adesso voglio essere io a scegliere».

Poi gli s’avvicinò e Lupo scoprì di volere attraversare la distanza tra loro, qualunque fosse. Si abbracciarono e in quel gesto, transitò tutta la loro vita passata, le paure, le ansie e i sentimenti che li avevano condotti tra quelle mura. Ma nessuno dei due, per quanto lo desiderasse, riuscì a liberarsi della soma trascinata fin lì.

   «È stata una cosa da fidanzati» le disse nella penombra.

    «È stata solo la passione tra due adulti. Non ha senso una storia tra noi» Shiraz disse.

L’agente dentro di lui non poté darle torto. Non aveva parole. Quanto accaduto tra loro era soltanto un altro conto pagato alla vita: l’intersecarsi di due esistenze subito allontanate. La guardò negli occhi in silenzio.

Poi gli squilli del telefono interno, annunciarono l’arrivo degli inquisitori.

Erano in tre, guidati da una donna: giovane e sottile, non un filo di trucco. Indossava un pantalone minimal chic, da kapò; parlò per tutti: da quel momento, sottolineò, la testimone – così chiamo Schiraz – era sotto la loro tutela. Lupo comprese di essere  superfluo: l’operazione passava ai ‘regolari’. Gli era sempre stato difficile sopportarli, ma anche loro non sbavavano per gli ‘amici’. Interessi di bottega nel naturale ordine delle cose. Non dissimulò un ghigno di disgusto.

Schiraz li guardava tutti come se nulla potesse più importale.

    «Sarai sola da adesso. Bada a te» Lupo le disse

    «Saprò guardarmi» lei gli sorrise.

    «Ne sono certo, signorina Schiraz» Lupo rispose e uscì; continenti interi ormai li separavano.

Guidò nell’afa verso le luci di Modica.

Doveva ancora officiare l’ultima liturgia della missione: il rapporto a Ulisse. 

Camminò a piedi lungo la strada principale, a metà del viale giunse al portone di un edificio appena restaurato, all’altezza del suo sguardo la targa d’ottone di un ristorante; all’interno non più di sei tavoli imbanditi, su ciascuno una candela accesa.

Ulisse era a un tavolo d’angolo. Gli sedette di fronte.

    «Ho ordinato per due» disse a Lupo e poi, come a concludere un discorso pensato tra sé: «È stato un buon lavoro».  

     Servirono una mousse decorata da chicchi caffè tostati, a Lupo ricordarono i capezzoli di Schiraz.

    «Voglio continuare ad occuparmene» disse, mentre Ulisse penetrava la gelatina col cucchiaio.

Ulisse strinse le labbra, le arricciò, scosse il capo.

    «Sei troppo coinvolto» disse.

    «Lascerò il Servizio, altrimenti».

    «Puoi farlo, ma non la riavrai per questo. Incastrerà Katami e noi la nasconderemo. Sono le regole. Dovrai accettarle».

    «Andrò via lo stesso. Sono troppo stanco».

    «Hai solo bisogno di tempo».

La parte razionale di lui, condivideva le ragioni di Ulisse: se avesse lasciato, col tempo avrebbe cominciato a odiare Schiraz: il loro era stato soltanto l’incontro casuale di due parallele.

Lupo avrebbe voluto urlare, rovesciare il tavolo in terra, ma: «Non sarà una cosa breve, lo capisci» si limitò a dire.

    «Abbiamo tutto il tempo del mondo» Ulisse gli rispose, pagò il conto, andò via.

Lupo si preparò a passare la notte in città. Il Servizio gli aveva prenotato un albergo affacciato sui vicoli.  Dette al portiere documenti falsi e un nome d’arte. Una prassi di sicurezza ripetuta da sempre in automatico, ma questa volta nel farlo avvertì una solitudine indicibile.

Una volta in camera, uscì sul balcone a fumare. La brace della sigaretta tremava davanti ai suoi occhi. Non riuscì a resistere e fu di nuovo sulla strada.

Camminò a testa bassa per il corso, attratto dall’insegna luminosa dell’unico bar ancora aperto. All’interno pochi avventori silenziosi. Nessuno si meravigliò del suo ingresso, né lo guardò con curiosità: l’ora tarda e l’aria pesta facevano di lui un membro d’elezione del club. Un giovane biondo reggeva in mano un bicchiere con all’interno un liquore rubino. Scuoteva la testa, sussurrava a se stesso. Lupo, senza capire perché, gli si sentì sodale.

‘Non c’è età per perdere la partita della vita’ pensò. Accese una sigaretta, ne seguì con lo sguardo il consumarsi. Tutto era immobile. Acquistò il giornale locale da un extracomunitario. Lo spiegò sul tavolo: la crisi economica avanzava, ma il governo annunciava provvedimenti; una nuova sopraelevata avrebbe decongestionato il traffico in città. La banalità di quelle informazioni lo sconvolse e comprese come il mondo andasse avanti lo stesso, indifferente alle disperazioni di ognuno. Vide su una pagina interna del giornale, di spalla a molte colonne, la foto in bianco e nero di una donna. Non ebbe bisogno della didascalia per riconoscere la donna a cui aveva consegnato Schiraz. A lei, magistrato in trincea si dovevano, raccontava l’articolo, gli arresti di alcuni esponenti mafiosi. Da domani sfruttando le informazioni di Schiraz, sarebbe diventata un eroe, pensò. Ma tutto questo aveva una vita autonoma, ormai. Non serviva combattere: le cose andavano avanti lo stesso.

Guardò il ragazzo biondo a pochi passi da lui: aveva le lacrime agli occhi e lui, in quelle lacrime, misurò tutta la propria impotenza. Avrebbe voluto andargli vicino, consolarlo per la sua pena, qualunque fosse. Ma ormai sapeva: non ci sarebbe riuscito. Tutto sarebbe andato come doveva e quel dolore era inutile.

Rimase seduto e ordinò un espresso, lo condì con molto zucchero: l’unica dolcezza che poteva permettersi ormai.

 





Assunta

“State boni, ce n’è per tutti”  

Diceva sempre così quando noi nipoti le saltavamo addosso per avere un bacio. La conquista più grande era riuscire a sedersi sopra una sua gamba e farle fare cavalluccio “Madonna quanto pesano ‘sti  ragazzini…  so’ anziana io.”

Nonna Assunta era vedova. Raccontava sempre che nonno Ezio era stato dato per disperso nella campagna di Russia; a quell’età non avevo ben capito perché fosse dovuto andare fin laggiù, quando da noi, di campagna, ce n’era tanta.

Lei aveva un vezzo: portare i capelli lunghi raccolti dentro una retina. Sembravano una nuvoletta intrappolata per non disperdersi in aria. Ogni tanto, quando le stavo in braccio, mettevo il naso in mezzo a quella strana acconciatura e annusavo forte, come fanno i cuccioli che si calmano con  certi odori. Dopo un po’ mi diceva “Mò però basta, bella de’ nonna, che a forza d’annusa’ me fai er solletico” poi rivolta a mia madre “Nannare’, ma come mai ‘sta creatura m’annusa sempre in testa? Pare un segugio”. Valle a spiegare che quel vizio, con le persone che amo, non l’ho ancora perso.

Ieri sono tornata a casa tua, Assunta.

La serratura d’ingresso è difettosa, per aprire mi sono fatta aiutare dal portiere. Le imposte delle finestre erano chiuse, le ho spalancate tutte per far circolare un po’ d’aria. In cucina è entrato un bel raggio di sole che ha illuminato tanti granelli di polvere, come minuscole luci in sospensione; è stato allora che ho pensato che la vita non si ferma anche quando sembra il contrario, che qualcosa, sempre, accade.

Poi mi sono fatta coraggio e sono andata nell’altra camera. Ho visto la retina per i capelli appoggiata sul comodino ed ho scosso la testa, interdetta. Zia s’è scordata di rimettertela ed io non me ne sono accorta. Allora l’ho presa e ci ho giocato un po’ con le dita. Poi mi sono sdraiata sul tuo letto e l’ho annusata forte. Era come riaverti là, tutta mia. Annusavo quell’intreccio di fili e guardavo il soffitto; poi immaginavo oltre il soffitto, fino a vedere il cielo terso del paese in cui sei nata. Con tono ironico mi avresti sicuramente detto “Annusala un’ultima volta e basta, bella de nonna, che me fai er solletico. Poi, buttala via quella retina”.

E così ho fatto.

Adesso sei finalmente libera, Assunti’.

Vai.

Ogni tanto tornerò a casa tua, per sdraiarmi un po’ sul letto ed immaginare di volare con te chissà dove, mentre guardo i tuoi capelli bianchi muoversi nel vento.     

 





È state

Siate romantici, ma con discrezione.
Siate poetici, facendo finta di nulla.
Fate come vi pare, guardandovi intorno.
Sorridete, se necessario.
Piangete a vanvera.
E mangiate molti frutti rossi, lasciano un bel colore sulla labbra.
Ricordate sempre che il basilico non cresce tutto l’anno, potremmo mai riuscirci noi?
La cioccolata torna tra un po’, ma ci sono i gelati.
Il cambio di stagione ci starà sulle palle anche quest’anno, ma lo faremo, forse.
Uscendo poco ho calato 4 vestiti, forse neanche mi va più di uscire, non va bene?
Lo so, ma non basta.
Il sole non è più lo stesso, ma in fondo in fondo neanche noi.
La ricorderemo come l’estate della resistenza, quella in cui tra una mascherina e un vaffanculo, ognuno di noi ha sentito vicina la paura di morire e continua a sentirla; anche quelli che dicono è solo un raffreddore più forte degli altri, negando hanno più timore di tutti, ma così tanto che se lo nascondono.
La ricorderemo come l’estate pirandelliana, finalmente è evidente che tutti abbiamo una maschera, sperando di ricordarlo e che tutto questo abbia un termine.
I tramonti sono solo scelte di emisfero che la luna sfrutta a suo vantaggio, ma in certi momenti è meglio non pensarci; se vi dovesse capitare non era il tramonto giusto, cambiate viale.
Buon.
 
 




Rossana Rossanda e il giornalismo militante

20 settembre 2020

(articolo già pubblicato su http://www.barbararomagnoli.info)

In ricordo di Rossana Rossanda, ripubblico qui di seguito un testo contenuto nel volume “Scritture di Frontiera – Tra giornalismo e letteratura” a cura di Clotilde Barbarulli, Liana Borghi e Annarita Taronna, 2007, edito da Università degli Studi di Bari in collaborazione con Sil Società italiana delle letterate.

In questo lavoro ho inteso tracciare gli aspetti più importanti della figura di Rossana Rossanda con un breve accenno a «Il Manifesto», giornale quotidiano di cui lei è stata cofondatrice. Del lavoro di Rossanda ho messo in risalto un aspetto particolare, ossia il suo essere giornalista ‘militante’, dove per giornalismo ‘militante’ o ‘impegnato’ ? che è per definizione una scrittura di frontiera ? si intende l’uso della scrittura come scelta politica e strumento per trasformare il mondo.


Ho evidenziato questo aspetto anche per tentare di ragionare attorno ad un fenomeno che è sempre più presente in Italia nel campo della comunicazione e che veicola lo stereotipo della ‘donna-velina’. Ritengo, infatti, che il cliché della donna-velina non solo veicoli uno specifico sguardo sul corpo femminile, ma sia anche metafora di una maniera di intendere l’informazione, in particolar modo nei media mainstream che preferiscono la spettacolarizzazione della notizia a scapito dell’approfondimento, della ricerca e dell’esercizio della critica da parte di chi svolge questa professione. Mi sembra che il giornalismo praticato da Rossanda possa essere preso come modello ? o almeno come spunto per una critica costruttiva ? in contrapposizione al cliché della donna-velina imperante nell’attuale panorama mediatico e culturale italiano.

Comincio dal principio, chi è Rossana Rossanda. Non è un mito, né vuole esserlo, come lei stessa precisa all’inizio della sua autobiografia, ma credo possiamo tutti concordare nel considerarla una delle più grandi intellettuali e saggiste italiane del XX secolo. Rossanda nasce a Pola, città di frontiera, nel 1924 e la sua famiglia di estrazione medio-borghese venne travolta dalla crisi del ’29. Quindi, si trasferì prima a Venezia e poi a Milano, dove all’università fu allieva del filosofo Antonio Banfi ma, soprattutto, dove la sua vita fu radicalmente cambiata dallo scoppio della seconda guerra mondiale. È la guerra che le fa scoprire la politica fino a quel momento tenuta distante dal suo ambiente familiare che era tuttavia intellettuale, come ricorda Rossanda nella sua autobiografia: poca politica ma molti libri.
A chi le domanda perché, vista la sua origine familiare, è diventata comunista e non antifascista liberale, risponde:
Volevo fare un’altra vita, ma la guerra che cadde come qualcosa di mostruoso e imposto, mi fece pensare che dobbiamo cambiare il meccanismo di funzionamento del mondo. La libertà ha delle condizioni necessarie. Dal ’39 al ’46 avevamo solo la libertà di essere vivi. E neanche quella. La scelta di campo nasce dall’evidenza che troppa gente viene al mondo e non può essere padrona della propria esistenza. Non lo accetto e il comunismo è questo: la possibilità di prendere in mano la propria vita, è intollerabile che ci sia chi non lo possa fare.

Decide così, giovanissima, di partecipare alla Resistenza partigiana e, al termine della seconda guerra mondiale, si iscrive al Partito Comunista Italiano. In breve tempo, viene nominata da Palmiro Togliatti responsabile della politica culturale del Pci e viene eletta nel 1963 alla Camera dei Deputati.
Arriva il 1968, un anno di svolta anche nella biografia lavorativa di Rossanda. La giornalista pubblicò un piccolo saggio intitolato L’anno degli studenti, in cui affermava la sua adesione al movimento della contestazione giovanile che era deflagrata in tutto il mondo. Con un percorso di riflessione condiviso con altri, Rossanda in quegli anni si dichiara anche contraria al socialismo reale dell’Unione Sovietica. Nasce l’idea di una rivista di critica e riflessione e viene così fondato «Il Manifesto», esperienza che fu sia una rivista mensile e un giornale quotidiano, sia un partito. Anche per questo motivo, poco dopo Rossanda fu radiata dal partito, insieme ad altre e altri.
Questi brevi accenni alla sua biografia sono già sufficienti a cogliere la peculiarità del suo sguardo sul mondo e l’influenza che questo ha avuto sul suo lavoro giornalistico. Ma ci dicono anche che per Rossanda la politica è stata l’essenza di una vita e nel suo essere donna non si è mai occupata di questioni specificatamente femminili, tutt’altro. Quando lo ha fatto, ha sempre tenuto presente l’orizzonte complessivo nel quale anche le tematiche più vicine al movimento delle donne si inscrivono. Rossanda non scrive unicamente per se stessa ma per cercare «di capire e di informare su quel che avviene nel mondo attraverso una griglia di interpretazione di sinistra, comunista, libertaria, laica». Come lei stessa afferma: «Poiché nessuno di questi termini è di moda, il mio giornalismo è senz’altro militante». Per giornalismo militante intendo qui riferirmi a chi, come Rossanda, svolge questo mestiere con un approccio che unisce il rigore e il rispetto della tecnica giornalistica (ossia attenersi, pur nella discrezionalità di chi scrive, alla ricerca della verità dei fatti) alla passione civile che utilizza lo strumento giornalistico per modificare/trasformare il mondo e la politica che lo gestisce (che non significa alterare o limitarne l’immagine, ma restituire al lettore la pluralità e la conflittualità che il mondo contiene).
È questo che Rossanda ha fatto in trentacinque anni e più di lavoro, anche considerando come lei stessa dice che
c’è sempre un rapporto tra politica e giornalismo. In generale il giornalista risponde, in modo più o meno mediato, all’idea di società difesa dalla sua testata, che in genere è anche quella di una grande proprietà. Non esiste un giornalismo ‘oggettivo’. Che vorrebbe dire? C’è la selezione delle notizie a monte, a cominciare dalle agenzie, sennò neppure sarebbero discernibili; ma non è innocente. La selezione è retta da un criterio che è poi un giudizio. Secondo me [aggiunge Rossanda] la cosa più onesta è far cosciente il lettore di questa scelta e del punto di vista dal quale si scrive, giudizi e pregiudizi inclusi.

È proprio con questa filosofia che Rossanda (insieme a Luigi Pintor, Lucio Magri, Valentino Parlato, Luciana Castellina e altre e altri) decide di dar vita ad un progetto editoriale indipendente, un giornale che vuole essere «provocatoriamente solo politico, e per politica si intendeva in senso stretto il movimento anzi i grandi movimenti della storia». La novità de «Il Manifesto» è il non essere legato a nessuna proprietà specifica che possa influenzarne la politica editoriale. È gestito da un collettivo di giornalisti e si è costituito in cooperativa, cosicché si trova a non avere una proprietà davvero distinta dalla redazione, con giornalisti che sono editori di se stessi.
«Il Manifesto» è nato come voce comunista fuori dal partito, indubbiamente un’esperienza insolita, e nel corso degli anni, tra le varie cose, si è sempre schierato contro ogni guerra come modello militare di gestione dei conflitti. Il giornale ha scelto, infatti, sempre di parlare anche delle tante guerre dimenticate e lo ha fatto in maniera non embedded, termine entrato di recente nel nostro vocabolario. Con embedded si faceva riferimento agli inviati speciali nella guerra del Golfo, poi è diventato un modo per definire chi svolge questa professione attenendosi a “ciò che si vuole venga detto”. Per dirla con le parole di Rossanda:
Perlopiù il giornalista è embedded al sistema dominante. Il ‘dominio’ non è fatto solo di comandi o quattrini, possibilità o no di essere assunti, ma di molte sottili seduzioni: ci sarà una ragione se questo piace o interessa, se questo attira il lettore e quest’altro no, se il gossip fa pubblico, se si dà fastidio ricordando di continuo i mali e le sofferenze del mondo ecc. La spirale di connivenza tra quel che il giornalismo dà, il pubblico ama ricevere e il sistema dominante è molto stretta. In questi anni è passata la tesi che il liberismo [non il liberalismo] è il meno peggio, che ogni tentativo di mutamento sarà disastroso o sconfitto, che l’equilibrio è garantito solo dal mercato. Ne derivano anche una mercificazione e un ‘consumo’ delle idee.
Qui Rossanda ci dice qualcosa di importante anche sulla scelta dei contenuti che spesso sono una discriminante fondamentale per capire la differenza tra giornalismo militante e giornalismo mainstream.
Infatti, il XX secolo ha visto passaggi storici importanti e su questi si è focalizzato il lavoro di Rossanda. Faccio riferimento al fatto che alle due guerre mondiali è seguito un dopoguerra caratterizzato dalla divisione del mondo in due blocchi, la successiva fine della guerra fredda e la disgregazione dell’ex Unione Sovietica, la globalizzazione neoliberista che ha accelerato molti processi di trasformazione, l’avvento di Internet, la “guerra permanente” entrata con la tv nelle case di tutto il mondo, l’antico controllo politico e religioso sul corpo e l’immagine delle donne che ha assunto nuove forme (la guerra in Afghanistan è stata giustificata anche come liberazione delle donne dal velo talebano), fino ad arrivare all’11 settembre e a quello a cui stiamo assistendo oggi. Tutte queste tematiche, da me solamente accennate, sono state il contenuto privilegiato da Rossana Rossanda per i suoi scritti, articoli e saggi, spesso lungimiranti e in alcuni casi ancora molto attuali ? mi riferisco in particolar modo ad esempio alla raccolta di articoli che è stata pubblicata nel volume Note a margine.
Quindi Rossanda viene da questa storia, ne è stata testimone e l’ha poi raccontata, anche se, come lei stessa più volte ricorda, è diventata giornalista non per scelta professionale: «Avrei fatto dell’altro», dice, «ho fatto la giornalista come forma della politica dopo la radiazione dal Pci, il movimento del 1968, e poi la crisi crescente dei partiti…». Non è un caso che Rossanda abbia preso le distanze dalla professione giornalistica intesa come status symbol e che abbia rifiutato di essere iscritta al’Ordine nazionale dei giornalisti, istituzione italiana che non ha simili in Europa e che tutt’ora continua ad essere una organizzazione prettamente gerarchica e maschilista.
Inoltre, è importante ricordare che in Italia il sistema dei mass media non è di fatto pluralista (anche se nell’ultimo decennio sono notevolmente cresciuti i media indipendenti, via Internet, radio e stampa, spesso di carattere militante, che restano però esperienze di nicchia. Per fare un esempio che faccia capire la situazione, «Il Manifesto», indipendente, vende circa 40mila copie al giorno, mentre il «Corriere della Sera» legato a gruppi di potere specifici vende circa 900mila copie). Il sistema informativo italiano è fortemente dominato da lobby e/o interessi politici ? basti solo dire che il premier Berlusconi da solo controlla tre televisioni.
Rossanda nel suo lavoro ha dunque affrontato tutti questi nodi e complessità a cavallo tra due secoli e la particolare situazione italiana. Nel farlo, ha più volte puntato il dito, come dicevamo poco fa, sul mito del mercato e conseguente «mercificazione e “consumo” delle idee», un consumo di idee che ha, tra l’altro, l’obiettivo di veicolare stereotipi e immagini che riguardano la donna, sostenendo il modello di una donna-corpo come merce al pari di tutte le altre.
Secondo Rossanda,
anche a noi donne viene suggerito che, raggiunti alcuni innegabili diritti [votare, possedere o ereditare, non essere obbligate a sposare il tizio o il caio, potersene andare di casa, insomma una certa parità] conviene restare ‘femminili’, seduttive, moderatamente materne, signore del privato [salvo essere fatte fuori dal consorte], fuori dalle responsabilità del pubblico ed efferate consumatrici. Le donne si lasciano limitare con troppa facilità nelle loro ‘effettive capacità’. Finisce che neanche esse le conoscono più, perché poi uno è quel che fa. Il maschilismo resta imperante anche perché non ci sono più grandi battaglie contro di esso: siamo talmente tante donne nei media che, se davvero volessimo, potremmo imporre e imporci. Né si può dire che quelle fra noi che difendono un’altra immagine di sé rischiano la fucilazione. Resta perciò da vedere se il più delle volte non siamo complici della ‘velinità’ cui ci vogliono ridurre.
Rossanda, dunque, provocatoriamente chiede conto, in un certo senso, della “velinità” che c’è in noi e non è certo semplice dare una risposta. Credo sia interessante, per ragionare attorno a questo interrogativo, accennare brevemente alla storia del termine ‘velina’ in Italia, che è prima di tutto un tipo di carta molto sottile e trasparente.
Nella storia del giornalismo italiano si fa riferimento col termine veline ai dispacci del Ministero della Cultura Popolare, tramite i quali il regime fascista diramava agli organi di stampa e di informazione le notizie da rendere note (o meno) all’opinione pubblica. Ancora oggi, si usa “veline” per indicare i comunicati stampa che normalmente arrivano da governo o enti pubblici e che intendono suggerire al giornalista cosa e come scrivere la notizia. Ma è negli anni Ottanta, con la comparsa in Italia della tv commerciale che spunta la figura della donna-velina. La propone il programma televisivo “Striscia la notizia”, una sorta di telegiornale che vorrebbe unire satira, politica e varietà. Gli autori di “Striscia” decidono che le due ragazze “veline” sono le addette alla consegna delle notizie ai presentatori. Sembra che nell’intento degli ideatori ci fosse la volontà esplicita di richiamarsi in chiave polemica al periodo fascista per rivendicare l’inviolabile diritto alla libertà di stampa e di informazione, anche al di fuori dei canali ufficiali. Paradossalmente, dunque, negli anni Ottanta il corpo della donna-velina verrà usato inizialmente proprio come simbolo di una informazione che si definiva libera e indipendente ? un messaggio che credo però sia andato in un’altra direzione, se non addirittura opposta.
Le veline sono comunque sempre donne giovani e avvenenti che devono con la loro presenza e qualche performance richiamare l’attenzione e l’audience del pubblico. In poco tempo, grazie al successo della trasmissione, il termine “veline” è entrato nel modo di pensare comune e in senso lato viene anche utilizzato in modo spregiativo per indicare le giovani ragazze che vogliono entrare nel mondo dello spettacolo senza necessità di percorsi formativi o una graduale esperienza. La velina è diventata la pretesa di essere famosa senza saper fare nulla. Una sorta di rimedio universale alla disoccupazione. Attorno a questo ragionamento torna utile e anche suggestiva la provocazione di un gruppo femminista romano A/matrix che, riflettendo su questi temi, afferma: “Un mondo diverso è un mondo in cui anche la velina che è penetrata in ognuno di noi, donna e uomo, decide di scioperare. Siamo tutte e tutti veline. La velina è il paradigma della nostra dignità sociale perché nella società mercantile imperante è l’icona della conformità soggettiva ed esistenziale. La velina è il mordi e fuggi, l’usa e getta, il produci e consuma. Se l’immagine quotidiana venisse privata del nostro contributo, se le veline interrompessero i luccicanti sogni che i loro corpi e sorrisi promettono, se la velina si considerasse soggetto desiderante, saremmo già in un altro mondo”.
Credo che in questa imperante mercificazione del corpo femminile sia sempre più attuale il dibattito, iniziato con il femminismo degli anni Settanta e non ancora concluso, sul conflitto/confronto tra libertà-mercato-autodeterminazione della donna. Con l’evidente vittoria della mera emancipazione sulla liberazione e consapevolezza della donna.
Quindi, nonostante sia chiaro a quale stereotipo di donna rimanda il cliché della donna-velina, i media fomentano questo senso comune ed alimentano la “velinità” di cui parla Rossanda. Non c’è dubbio che sia maggiormente l’informazione mainstream rispetto a quella di carattere militante a scegliere una immagine di donna, e non solo, che preferisce l’apparire all’essere e che soprattutto, volendo utilizzare i termini di un vecchio dibattito femminista ancora aperto, attraverso il consolidamento di certi stereotipi, i media mainstream facilitano il lavoro di chi vuole il controllo sui corpi e sulle menti delle persone, in particolare sulle donne.
Appare invece evidente, rileggendone la vita e gli scritti, che Rossanda non si è mai piegata al modello del mondo maschile, lo ha certamente frequentato e ne ha preso parte attivamente, ma sempre nell’ottica di una modifica e di un miglioramento della società per tutte e tutti. Da un lato, quindi, abbiamo un modello di giornalista impegnata che non ha mai esitato a prendere parola sulle questioni del mondo e non ha mai perso la sua autonomia, dall’altro la donna-velina che pensa, mostrando il corpo, di essere libera e indipendente e che invece diventa simbolo di una informazione preconfezionata e funzionale ad un certo sistema. La questione è complessa e non certamente riducibile soltanto alle dinamiche interne alla società della informazione e comunicazione che, come ben sappiamo, riflette tutti gli aspetti di una società. Da tutto quello detto fin qui, la velina appare quanto più lontano possa essere dalla immagine di donna-giornalista che potrebbe invece rappresentare Rossanda la quale, tra l’altro, non può essere certamente classificata come femminista in senso stretto.
Non abbiamo in questa sede il tempo per approfondire il complesso rapporto avuto da Rossanda con il femminismo, ma con esso Rossanda ha intessuto negli anni un dialogo critico e fecondo, come lei stessa ricorda anche nella introduzione al volume Le altre, dove racconta l’esperienza radiofonica a fine anni Settanta, quando in una serie di conversazioni a Radiotre la giornalista si confrontò su alcune grandi parole-valori della politica (libertà, fraternità, eguaglianza, democrazia, resistenza, solo per citarne alcune) con donne che invece vissero in prima persona l’esperienza del femminismo degli anni Settanta (tra queste Lidia Campagnano, Letizia Paolozzi, Manuela Fraire).
In conclusione, vorrei ricordare proprio uno dei dubbi sollevati da Rossanda alle sue amiche e donne femministe. A queste donne che tanto si sono battute perché mutassero linguaggi e forme della rappresentazione della donna anche nei media, Rossanda ha più volte chiesto «cosa ha impedito al movimento delle donne di diventare intanto una forza capace anche di durare, di garantirsi uno spazio […] e soprattutto di generalizzare la propria cultura, farla passare…». Ossia, cosa impedisce ancora oggi alle donne di trasformare una cultura che le rappresenta in chiave sessista e discriminante.
A suo tempo, Rossanda disse che la grande forza del femminismo era stata l’aver portato allo scoperto e al centro della politica il corpo, la sessualità, l’esperienza dell’individuo in un’ottica di consapevolezza e riappropriazione della parola su se stessi. Il limite era stato quello di non riuscire a estendere questo modello fuori dal piccolo gruppo e delegare ad altri, spesso uomini, la lotta contro i “poteri reali”, gli stessi che cercano di dominare anche l’informazione e i media. Forse è da questo interrogativo che è necessario ripartire affinché anche nei media la donna possa essere se stessa senza omologarsi al modello maschile dell’usa e getta e con il riconoscimento delle sue capacità e responsabilità al pari di un qualsivoglia collega maschio.

Nota: le citazioni in corsivo sono frutto di una intervista a Rossanda a cura dell’autrice.

 





S1:E4 “Peter Saville – INPUT – Utilitas Firmitas Venustas”

C’è una citazione di Claes Oldenburg: “Sono a favore di un’arte che nasce senza nemmeno sapere di essere tale”. La conoscenza può diventare un limite, la consapevolezza bloccarti.” (Peter Saville)

Non ho potuto essere sintetica su Peter Saville, per lui nutro un amore incondizionato, sia per motivi personali, sia perché Saville è tuttora uno dei graphic designer più produttivi degli ultimi decenni e le sue copertine restano oggi tra le più riconoscibili di tutti i tempi. 

Perciò ho diviso gli articoli sulla sua straordinaria carriera in tre parti:  Input, Output, Joy.

Ho chiesto all’amico Valerio Michetti, anche lui adoratore di Saville, di fare tre playlist a corredo della lettura, grazie al suo entusiasmo possiamo augurarvi non solo buona lettura, ma anche buon ascolto:

Playlist per INPUT|Saville – parte prima: 

Utilitas Firmitas Venustas
“La bellezza è l’inizio di ogni viaggio e il fine ultimo di ogni ricerca, la musica la tiene saldamente stretta a sé perché è nel suo DNA.  Tutti i brani scelti sono legati all’immaginario di Peter Saville”.  (Valerio Michetti)

Peter Saville è nato a Manchester nel 1955, ha frequentato St Ambrose College e in seguito ha studiato graphic design presso il Manchester Polytechnic, dove assume l’ispirazione costruttivista tipica del periodo post-punk di cui è figlio, virando verso una grafica di ideale venustà, in risposta al rumore visuale della grafica punk.  Attinge a De Stijl, John Heartfield, Bauhaus e Die Neue Typographie, che avranno un impatto importante su tutta la sua produzione, e studia la tipografia moderna attraverso i lavori di Herbert Bayer e Jan Tschichold.

Nel 1979 Tony Wilson fonda la Factory Records insieme ad Alan Erasmus, Martin Hannett, Rob Gretton e Peter Saville, che ne diventa direttore creativo.  Sarà una delle più significative etichette discografiche indipendenti del panorama musicale, cui Wilson e Saville hanno dato in più una connotazione estetica nuova, il cover design assunse un’importanza ancora più rilevante di quanto già non fosse.

Peter Saville by Tony Barratt

Gli albori della carriera professionale di Peter Saville sono clamorosi, le sue opere sono oggetto di culto, indimenticabili espressioni del suo genio visionario.

Non si è più fermato, ha continuato in crescita indefessa attraverso un viaggio di progettualità trasversale, ha esplorato senza sosta le potenzialità del design e della propria capacità visionaria, che si sono incrociate con i fenomeni culturali e artistici contemporanei: musica, moda, sport e packaging.  Mai oppresso, anzi stimolato dai cambiamenti che la contemporaneità avrebbe potuto avere sul suo lavoro, nel corso degli anni ha collaborato con i Joy Division e successivamente i New Order, Roxy Music, Peter Gabriel, EMI, OMD, Givenchy, Yohji Yamamoto, Dior, John Galliano, Alexander McQueen, Selfridges, Adidas e Stella McCartney, per citare solo alcuni dei suoi numerosissimi clienti.

Peter Saville

Ma per comprendere il lavoro di Peter Saville e della Factory, occorre conoscere meglio il contesto in cui nacque e si formò, lo facciamo nel modo più autentico, attraverso le parole dello stesso Saville, con una conversazione avuta con Francesco Tenaglia (Mousse Magazine & Publishing, Rolling Stone, Rivista Letteraria), di cui riportiamo uno stralcio significativo (Testo completo: Peter Saville racconta )

“Manchester è cresciuta con l’industrializzazione e, nel Diciannovesimo secolo, è stato uno dei luoghi più importanti del mondo. Lì sono state accese le prime macchine da lavoro e, da ogni angolo del pianeta, si accorreva ad ammirarle.  Karl Marx studiò queste prodigiose novità per le sue ricerche su capitalismo ed economia sociale: come noto, Marx era legato da un rapporto di profonda amicizia e solidarietà con Friedrich Engels che visse a Manchester per un po’.  […]

Nacquero a Manchester i movimenti sindacali, le idee a favore dei diritti dei lavoratori, una nuova cultura morale-politica.  […] Facendo un fast-forward alla fine della seconda guerra mondiale, l’industria, motore del benessere cittadino, subì un declino repentino. La città in cui sono cresciuto era già post-industriale.  Sopravviveva qualche tratto che puntava al passato glorioso, ma era sempre più debole. In un certo senso, venne a mancare un’idea di futuro. […]

C’erano musicisti pop di Manchester, ma nella maggior parte dei casi andavano via. Come i Beatles con Liverpool. […]  Oltre al calcio c’era davvero poco, l’arte contemporanea nel Regno Unito era accessibile solo a un’élite privilegiata di Londra e anche lì, fino alla metà dei Novanta, era una scena concentrata sostanzialmente in un’unica via, Cork Street. […]

Il progressive, il glam e il pop avevano delineato una cultura musicale incentrata sull’immagine. Penso ai T.Rex, ma soprattutto a David Bowie e al peso simbolico del suo disallineamento così radicale con il mainstream.  L’idea che si potesse progettare da zero la propria identità era meravigliosa, decisiva per un adolescente britannico nei primi anni Settanta. […]

Il fenomeno dei super-gruppi a metà anni Settanta era stato spezzato dal colpo di stato del punk: era un momento in cui gli ambasciatori della tua cultura non ti parlavano più. Erano a zonzo per l’America a bordo di quarantotto camion, suonavano di fronte a migliaia di persone assiepate in uno stadio, persi nella mistica delle star milionarie. La loro esperienza di vita non era più legata alla tua.

Il punk arrivò e disse: “Grazie molte, da qui in poi ci pensiamo noi”. […]

Manchester, tra il 1976 e il 1977, divenne luogo di meravigliose venue per il punk e per quello in cui si stava trasformando, ovvero la new wave.  Purtroppo la canzone dei Sex Pistols God Save the Queen infastidì parecchie persone e i comuni, in giro per il Regno Unito, s’impegnarono ad arginare quella rogna sovversiva.  Manchester, dall’essere patria di sale da concerto, si svuotò nell’arco di pochissimi mesi per colpa di politiche rivolte a contenere il fenomeno punk.

Per questo motivo un giovane imprenditore nel settore televisivo, Tony Wilson, si prese carico della situazione trasformandosi nel guardiano della nuova cultura giovanile. Cercò un locale e inizialmente – devo essere onesto – non era qualcosa di diverso da quello che oggi si definirebbe “una serata” in un club.  Il primo Factory durò un paio di mesi e si teneva ogni venerdì sera. Volli assolutamente essere coinvolto e chiesi a Tony in che modo potessi aiutarlo. “Fa’ un poster” mi rispose. All’epoca c’erano solo Tony, il suo migliore amico Alan Erasmus e io. Stavo per diplomarmi e l’unica cosa che m’interessava veramente era realizzare copertine. […]

Peter Saville, Tony Wilson and Alan Erasmus, in front of The Factory Club (Russel Club), Hulme, 1979, by Kevin Cummins

Intanto, mi ero iscritto al politecnico per studiare grafica, la cosa più vicina all’arte che riuscivo a immaginare. […]  Non credo di essere uno stupido, ma nei quattro anni in cui ho studiato design mi trovai più volte a riflettere: “Forse quando avrò quarant’anni mi interesserà questa grafica. Adesso ho bisogno di uno strumento di espressione vivo”. Ed eccomi qui con Tony e il suo amico.

Nessuno di noi aveva alcuna cognizione dell’industria musicale. Tony disponeva di una piccola somma messa da parte, circa cinquemila sterline ereditate dalla madre. Questo punto è fondamentale: non ci fu alcun prestito. Nessuna banca, nessun investitore. Dal primo giorno, l’impresa collaborativa Factory Records era uno strumento per fare esattamente ciò che volevamo. Iniziammo nel 1978 e andammo avanti quattordici anni come collettivo autonomo senza alcuna struttura gerarchica poiché nessuno di noi sapeva come farne. […]


Note biografiche:

Valerio Michetti, classe ’77, è il batterista de La Grazia Obliqua, gruppo musicale romano e collettivo artistico attivo dal 2012.

La Grazia Obliqua prende forma nel laboratorio musicale del Ghostrack Studio a Roma come gruppo aperto ad un notevole eclettismo all’interno di una base musicale e poetica in cui dialogano la darkwave, il cantautorato, l’elettronica e la ballata crepuscolare.

La scrittura e l’immaginario de La Grazia Obliqua è incentrato sul tema della crisi, del disorientamento e della decadenza della civiltà occidentale con un focus sempre sull’uomo e sulla ricerca della Bellezza come antidoto etico ed estetico.

LGO : La Grazia Obliqua per cantare la bellezza – videointervista





BIRD 100. Charlie Parker, nonostante tutto

Avevo circa venti anni quando cominciai ad ascoltare e ad amare la musica di Charlie Parker. Erano già diversi anni che ascoltavo jazz. Durante gli anni della mia adolescenza avevo eletto quella musica come mio riferimento culturale. Ero l’unico penso di tutto il liceo che preferiva ascoltare Benny Goodman piuttosto che uno dei tanti cantanti pop che andavano all’epoca. Un po’ ciò mi rendeva orgoglioso e mi faceva sentire come uno davvero anticonformista e non allineato. Già, perché quelli che all’epoca si definivano alternativi e si identificavano in certi generi musicali, a me sembravano tutti uguali, estremamente stereotipati. Non erano anticonformisti, ma semplicemente conformi a un sistema che era diverso rispetto ad un altro sistema che loro consideravano mainstream.

Ma non era solo quello. A me piaceva davvero quella musica. La trovavo coinvolgente, energica, vera. Ogni qualvolta che avevo qualche soldo da parte raccattato dalle mance di compleanni o feste, ne approfittavo per andare a comprare un disco jazz alla Ricordi di via del Corso o, meglio, di via Giulio Cesare a Roma. All’epoca rimasi molto colpito dalla storia e dal personaggio di Billie Holiday. La classica artista maledetta intorno alla quale ne era nato un mito. Caso simile, da questo punto di vista, era quello di Charlie Parker.

Uomo dalle intuizioni geniali e degli eccessi oltre ogni limite, Bird – questo il suo soprannome – aveva fatto irruzione nel mondo del jazz e della musica in generale prendendo a schiaffi in faccia chi credeva che dalla musica non ci si potesse aspettare nulla di nuovo, che quanto si era sentito bastava. Invece, circa a metà degli anni ’40, era nata una nuova generazione di musicisti preparatissimi, molto motivati, che avevano un loro linguaggio, un loro slang, che sfidavano l’establishment dello showbiz e che suscitavano ammirazione e allo stesso tempo irritazione suonando a tempi velocissimi, con un virtuosismo inaudito, temi spesso presi in prestito da canzoni alla moda ma delle quali rimodulavano gli accordi e le melodie. Era quel genere che fu poi chiamato bebop. I boppers erano dei ragazzi che spiazzavano la vecchia generazione e che facevano sempre parlare di sé, vuoi per la loro musica, vuoi per il loro comportamento. In realtà, a posteriori, sappiamo che erano molto più legati alla tradizione di quanto può sembrare e di quanto si dicesse. Per tantissimo tempo il bebop fu considerato solo come musica di rottura. In realtà era una naturale evoluzione di quella che era stata la musica fino a quegli anni. Semplicemente l’epoca era cambiata, c’era stato un conflitto mondiale e con esso era cambiata la società con tutto ciò che comportano i cambiamenti storici. In più, negli anni della guerra, vi era stato un buco di documentazione sonora di qualche anno, per cui, quando l’industria discografica si riprese, il bebop fu percepito come un fulmine a ciel sereno.

Bene, di questo movimento avanguardistico chiamato bebop, Charlie Parker fu senza ombra di dubbio il mentore, il profeta, il personaggio da seguire e da imitare. Prima di lui forse solo Louis Armstrong, venti anni prima, aveva avuto un impatto così forte nella musica ma anche nel costume. Un altro musicista che ebbe un’influenza fondamentale su molti jazzisti fu, nella seconda metà degli anni ’30, il sassofonista Lester Young, di cui Parker fu un assiduo studioso. Al fianco di Parker vi erano musicisti incredibili come Dizzy Gillespie, Thelonious Monk, Bud Powell, Max Roach, Fats Navarro e tanti altri. Dalla sua ascesa, nessun sassofonista (ma oserei dire nessun musicista) poté provare a dire qualcosa senza in qualche modo rifarsi a quel modello. Vennero fuori decine di sassofonisti bebop cloni di Parker; gente che aveva imparato a memoria i suoi assoli “tirandoli giù” dai suoi 78 giri. Ancora oggi molti sassofonisti studiano sui pentagrammi del Charlie Parker Omnibook.

Questo per quanto riguarda l’aspetto musicale; ma, come dicevamo prima, Parker non fu solo un musicista geniale, fu anche un personaggio fuori le righe, classico esempio di genio e sregolatezza. La stampa, la TV e gli scrittori hanno sempre avuto questo morboso interesse, questa goduria nell’andare a scavare nelle ombre dei personaggi famosi. Lo vediamo anche recentemente analizzando come i media si siano occupati della cantante Amy Winehouse. Quante volte abbiamo letto titoli sensazionalistici su riviste di gossip che la immortalavano in stato confusionale con un bicchiere di whiskey in mano o che descrivevano con minuzia di particolari gli attimi in cui aveva avuto un collasso? È una vecchia storia. Ecco, con Charlie Parker avvenne la stessa cosa. I suoi eccessi, la sua dipendenza dalle droghe, i suoi comportamenti al limite della follia erano pane per i denti per i giornali. Non che i suoi eccessi non fossero veri, anzi. Ma i rischi in questo caso sono due: il primo è che passi in secondo piano il valore artistico; il secondo che si mitizzino certi comportamenti dando luogo da una parte a una condanna moralistica priva di redenzione, dall’altra a un’ammirazione che porta a imitazione.

Purtroppo della generazione dei boppers ne morirono molti, anche giovanissimi, dilaniati dall’uso sconsiderato delle droghe e dell’alcool. Ragazzi pieni di talento e di vitalità che caddero nel falso mito che quegli eccessi potessero essere la chiave della creatività. Purtroppo questa era una convinzione diffusa all’epoca e che si ripeté ancora negli anni a venire. Dizzy Gillespie, che riuscì bene o male sempre a stare alla larga da certi giri, nonostante ci convivesse quotidianamente, continuò incessantemente a tirar fuori capolavori fino alla vecchiaia, sempre con la stessa vitalità, allegria ed entusiasmo.

Dicevo… Avevo 19-20 anni quando cominciai ad approfondire l’ascolto di Charlie Parker. Sì, mi affascinava un po’ il suo aspetto di artista dannato, ma mi entusiasmava prima ancora la sua musica. E no, per me Bird non era dramma di vivere, non era depressione né malinconia. Per me le sue note erano gioia di vivere, erano vitalità, erano la quintessenza dell’entusiasmo e dell’irruenza, quella sana, quella bella. Percepivo che Parker non sentiva solo la necessità di comunicare attraverso la musica, ma aveva urgenza di farlo. Allora ribaltai il punto di vista rispetto a quanto avevo fino ad allora letto su di lui. Cominciai a capire che Parker fece quello che ha fatto nonostante la droga, nonostante i suoi problemi psichici e non grazie ad essi.

Mi procurai un film di cui la critica aveva tessuto le lodi. Era Bird, pellicola del 1988 diretta da Clint Eastwood. Non capivo nulla di cinema e continuo a non capirci nulla ora. Probabilmente, come avevo letto, la fotografia, i soggetti, i costumi, la recitazione erano grandiosi, ma a me quella volta fece rabbia quel film. Lo trovai artefatto, raccontava il personaggio in modo forzatamente distorto, godendo nell’esaltare il dramma della vita di Parker. Mi sembrò che a tratti puzzasse anche di razzismo. Sono passati molti anni e non ricordo più molto di quell’unica visione del film. Mi era rimasta però quella brutta sensazione. Essendo stato invitato a scrivere qualche riga in occasione del centenario della nascita di Charlie Parker ho deciso di rispolverare quel DVD e di riguardarlo. E niente… Mi sono addormentato dopo 40 minuti. Probabilmente la mia percezione è stata irrimediabilmente influenzata dall’impressione che ebbi all’epoca, poco più che adolescente, o forse ho solo verificato che all’epoca non mi sbagliavo.

Charles “Charlie” Parker, Jr nacque a Kansas City il 29 agosto 1920. È passato un secolo ma la sua musica continua ad essere un faro per migliaia di musicisti in tutto il mondo. C’è da rimanere sbigottiti per quanto abbia saputo influenzare la musica nonostante la sua breve vita, nonostante i suoi problemi, nonostante tutto. Bird era un bel ragazzone, era un musicista fenomenale, era una persona di un’intelligenza fuori dal comune. Bird era un genio.

 

 

 





Un uovo per una cupola

I cantieri di Santa Maria del Fiore, iniziata sotto l’egida di Arnolfo di Cambio nel 1296, rimase a lungo interrotta dopo la sua scomparsa nel 1302. Entro il 1367 venne innalzata una tribuna ottagonale trilobata e vennero impostati i piloni, che avrebbero in seguito retto il tamburo e la cupola; ma per problemi tecnici ed economici i lavori vennero bloccati; la quantità di legna utilizzata per la realizzazione di centine e delle impalcature, su cui avrebbero lavorato i muratori, era cospicua. Nel 1401 venne indetto, su volontà dell’Arte dei mercanti, un importante concorso per la decorazione della seconda porta bronzea del Battistero di San Giovanni e tra i partecipanti vi furono l’orafo Filippo Brunelleschi e l’orafo Lorenzo Ghiberti, che per la sua formella quadrilobata con la scena di “Sacrificio di Isacco” di stampo elegante e raffinato nei dettagli e con spiccate qualità pittoriche, vinse la gara; benché la formella di Filippo fosse dinamica ma equilibrata e simmetrica e i personaggi più veri e coinvolgenti dai volumi rigorosi, fu scelta la formella caratterizzata da armonia ed eleganza. Di seguito Brunelleschi, viaggiando per la città di Roma assieme a Donatello, studiò le rovine della Roma antica, ma soprattutto i principi architettonici; difatti nella biografia di Brunelleschi redatta dal matematico Antonio di Tuccio Manetti si legge: “nel ghuardare le scolture a Roma, come quello che aveva buono occhio ancora mentale, e aveduto in tutte le chose, vide el modo de murare degli antichj et le loro simetrie, e parvegli conoscere un cierto ordine di menbrj e d’ossa molto evidentemente, come quello che da Dio rispetto a gran cose era illuminato; el che e noto molto, parendogli molto diferente da quello che s’usava in que tempi”. Quando nel 1413 venne iniziata la costruzione del tamburo ottagonale di 45,5 metri di diametro, l’orafo fiorentino iniziò ad avere la sua rivincita, perché venne interpellato su come aprire gli oculi, così da far entrare più luce all’interno. Bandito un nuovo concorso nel 1418 per la realizzazione della cupola, questo fu vinto da Filippo stesso. Vasari riporta all’interno della “Vita di Filippo Brunelleschi” in “Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori” come fu risolta la faccenda della realizzazione della copertura di Santa Maria del Fiore, che tanti dubbi arrecava agli architetti e studiosi del tempo: “…che chi fermasse in sur un marmo piano un uovo ritto, quello facesse la cupola, che quivi si vedrebbe l’ingegno loro. Tolto dunque un uovo, tutti qu’ maestri si provarono per farlo star ritto, ma nessuno trovò il modo. Onde, essendo detto a Filippo ch’ e’ lo fermasse, egli con grazia lo prese e datoli un colpo del culo in sul piano del marmo, lo fece star ritto…”. Un uovo. Un uovo fu usato da Brunelleschi per far capire agli architetti e matematici del tempo come la cupola sarebbe rimasta in piedi con un sistema autoportante. Il progetto risolvette i problemi delle impalcature, innestate man mano nella costruzione senza bisogno di un appoggio da terra. Il ponteggio venne inserito a 54 metri di altezza su mensole appositamente costruiti sulla trabeazione interna del tamburo, sopra gli oculi. Otto squadre di operai, una per vela (spicchi che formano una cupola) e diretta ciascuna da un capomaestro, lavoravano contemporaneamente. Quando la curva impedì di lavorare all’interno, i lavori proseguirono con un’impalcatura all’esterno, sempre autoportante. L’ultimo ponteggio fu all’interno e circolare, come un pianerottolo sospeso su lunghe travi. I lavori, iniziati nel 1420, dopo sedici anni arrivarono alla sommità, ma mancarono ancora la lanterna, ultimata solo nel 1468 e le quattro piccole absidi con nicchie a tetto semicircolari, realizzare dopo la morte dell’architetto. L’idea rivoluzionaria dell’orafo Brunelleschi sta nel fatto di aver proposto una soluzione semplice e rivoluzionaria nella tecnica e in continuità con l’edificio già realizzato. La cupola gotica a sesto acuto è costruita con proporzioni classiche del 1:2 ossia rapporto dell’altezza (45,5 m) e l’altezza fino alla lanterna (91 m), mentre il rapporto fra diametro e l’altezza dal tamburo alla lanterna è 1:1. La cupola, divisa in otto vele da otto costoloni esterni, che si uniscono alla base della lanterna, venne realizzata con doppio involucro, costituito da due calotte, separate da un’intercapedine a mano a mano più stretta verso l’alto, così da ridurre il peso. L’uso di mattoni e di muratura a spina di pesce rivela come Brunelleschi abbia studiato il Pantheon e il tempio di Minerva Medica a Roma. 

Bibliografia:

“Laura Beltrame e Cristina Fumarco, Vivere l’arte,2008”     

“David Watkin, Storia dell’architettura occidentale, 2011” 

“Giorgio Vasari, Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori, 1568”           

“Antonio di Tuccio Manetti, La vita di Brunelleschi, 1480”


In copertina: Giovanni Battista Nelli, ricostruzione dei ponteggi interni della cupola di Brunelleschi, seconda metà del XVII secolo




Una realtà fantastica

Roma. Via Trionfale, ore 6:22 di un solito venerdì.
A quest’ora la timida luce candida e dorata del primo sole penetra dalle vetrate che circondano il mercato dei fiori di via Trionfale regalando uno spettacolo celestiale. Per quei pochi minuti che l’angolazione del sole permette alla luce di entrare il tempo sembra come fermarsi: gli sguardi affranti e stremati dalla nottata si distendono, le voci sembrano di colpo assumere un tono conventuale, i movimenti frenetici di soldi e fiori sembrano per un momento rallentare fino all’inverosimile.
Il mercato dei fiori è un posto magico. È talmente magico che sono convinto in fondo rappresenti la realtà.
I venditori di fiori, al sorgere del sole, hanno già finito una giornata di lavoro e sono quasi pronti per ripartire. La maggior parte di loro sono uomini. Alcuni di loro – quelli che attirano di più la mia attenzione –  hanno un aspetto mascolino, un po’ rude ai limiti a volte del selvaggio che contrasta però con un’intima delicatezza ed una spontanea gentilezza. Si riesce a scoprire questa genuina qualità solo oltrepassando il limite di quegli occhi duri e spesso dolcemente caparbi. Li caratterizza poi un’educazione non formalmente borghese quanto più profondamente primordiale, direi violenta, che non riesce a non vedere l’essere nell’uomo. Lì non esiste tolleranza.
Al mercato non ci si sente mai privi di un solare buongiorno e di uno speranzoso arrivederci.
Del mercato ti puoi fidare.
Mani – o meglio mano – rovinate ma robuste maneggiano graziosi fiori con la delicatezza di un neonato che pian piano scopre il prossimo e cerca un contatto timoroso e meravigliato – cito: “A signo’, so’ fiori mica so’ prosciutti!

Astromelie, lisianthus, lilium…sono alcuni nomi dei fiori più venduti. L’incessante scorrere di parole nel più stretto dialetto di una borgata romana o nel vorticoso accento di un rione napoletano intramezzate da nomi di fiori pronunciati con sì tanto scrupolo fa credere per qualche istante di essere o in un giardino botanico o in una sala accademica, contribuendo, ancora di più, ad alimentare quel tanto di metafisico che Le Marché aux fleurs di Prati incoscientemente possiede.
Tutto quel flusso di umana materialità – intrinsecamente di stampo marxista – verrà messo a servizio, per la maggior parte, delle basiliche romane, delle chiese di quartiere o di paese e dei camposanti. L’umano a servizio dell’ultraterreno, la morte che si fa vita.
Le decine di suore – immancabilmente chiamate sorelle – che frequentano il mercato alla ricerca del miglior modo di abbellire il convento, passivamente e senza pretese subiscono l’amorevole rispetto di una vecchia insegnante o di una dolce e saggia nonnina.
Di colpo mi giro e mi si mostra un quadro terreno e miracoloso – essendo io figlio del mio tempo –  allo stesso tempo. Una cliente con un vestito leggermente più corto del solito – di sicuro per quel posto –  esibisce, timida ma fiera, i resti di una gioventù evidentemente generosa, una vera e propria, seppur matura, Venere italica. Gambe affusolate che terminano in piedi ben curati ma visibilmente affaticati, un fondoschiena maturo ma con la tenera pretesa di mostrare ancora il suo lato più giovanile, schiena diritta e saggia, spronata ad essere gagliarda e leggermente scoperta dal lato sinistro, capelli biondi e sempre mossi. Dietro di lei decine di uomini diciamo incuriositi. La situazione che in ambienti più compromessi e avari, considerati più “alti”, avrebbe suscitato una scellerata ovazione in clima da stadio, al mercato dei fiori si trasforma in una timida e sentimentale reazione da branco liceale. Succede così che la donna, intenta a farsi osservare, gratifica il suo io, in fondo forse represso, senza sentirsi deturpata però della propria dignità. Nel pieno rispetto di carne e spirito viene apprezzata, desiderata, magari raggiunta ma mai vilmente comprata.
In quel posto che oserei definire un Purgatorio – non nel senso dantesco di stato di mezzo ma come realtà attuale dove regnano fragilità e speranza – trovo la mia religione. Passati quei pannelli di plastica, tra grida, sigarette, sorrisi, briscole, scurrilità sento la mia Chiesa. Una Chiesa intesa comunità fatta di uomini, come uomo era Cristo, animati da flatus humanitatis.

Nulla si sa, tutto si immagina recitava Fellini. Questa mia folle visione è la giusta piccola dose di sogno che mi sprona giornalmente ad essere migliore.
Come il Cosimo di Calvino trovo in quel posto il mio albero, il mio esistere e il mio resistere. Il mercato dei fiori è emblema di tutti quei luoghi che restano baluardi di umanità proprio come gli alberi del barone di Ombrosa. Forse tutto questo è fuori dal tempo e dallo spazio, forse il mercato dei fiori, così come l’ho descritto, è solo un posto remoto di una ingenua immaginazione. Ma non è la realtà il posto dove si annidano emozioni fantastiche e sensazioni irreali? Non è il presente quel luogo che, ereditando il passato, volge verso un futuro sempre incerto? Non è forse la realtà la più grande celebrazione della fantasia?

 

 





S1:E3 “Daniela”

Diciassette anni. Avete presente il cliché dello studente che si innamora dell’insegnante? Ecco. È lei. È Daniela la studente(ssa) innamorata della professoressa Donati, l’insegnante di disegno e storia dell’arte, l’insegnante dai lunghi capelli neri e il corpo da ballerina.

Daniela dice di avere iniziato a farsi domande un po’ concrete sulla sua sessualità a 12 o 13 anni, ma in realtà ha sempre saputo di essere lesbica, già dall’asilo. Tra turbamenti e groppo alla gola ha avuto le sue prime cotte, spesso non ricambiate. Quando era piccola non ha mai percepito come un problema il suo orientamento sessuale, neanche quando i suoi genitori sembravano infastiditi dalla sua amicizia con Flavia, dal loro stare sempre insieme e dal loro tenersi sempre per mano. Ma si sa, sono adolescenti, sarà più un capriccio che una infatuazione, con il tempo passerà, rassicurava la mamma di Flavia. Vedrai – diceva il papà di Daniela – è una fissazione di cui si libererà crescendo. Poi è arrivato forte e chiaro, proprio tra i banchi di scuola, il messaggio che il suo non è un comportamento corretto, soprattutto non è normale. Non è bene innamorarsi di una compagna di classe o di una insegnante. Così sono iniziati gli anni di non accettazione, fatti di paranoie adolescenziali e di pianti isterici di negazione.

Il coming out in una città del sud Italia, ma al nord non è poi così diverso, è stato tutt’altro che facile. Quanto si era illusa. Daniela era fermamente convinta di ricevere il supporto di sua madre, che ha sempre difeso i diritti di tutti e tutte, anche degli animali, e certa che anche suo padre non ci avrebbe trovato niente di male, né di sbagliato.  O meglio, per Daniela è stato facile dirlo quella prima volta proprio perché consapevole che non stava mica commettendo un crimine. All’epoca era innamorata e felice e voleva urlarlo al mondo. Ecco era il mondo che non era preparato ad accettarla o meglio che non voleva proprio accoglierla e, dopo quella prima volta disastrosa, ci ha pensato mille volte prima di dirlo ancora. Forse è andata meglio quando l’ha detto al suo giro di amicizie quella sera al bar, davanti a un gelato, dopo una bella giornata di mare e di vento. Daniela è felice di aver accettato la parte migliore di se, la parte più viva, la parte che non vedeva l’ora di essere lasciata libera. Adesso, un po’ per gioco e un po’ per stare in allerta, ha questa abitudine di appuntare su un quaderno tutte le banalità, gli stereotipi, le piccole violenze verbali che proprio amiche e amici le riserbano quando dice che le piacciono le donne. “Ma, secondo noi, non hai ancora trovato l’uomo giusto. Forse potrebbe essere solo una fase passeggera. Ah, bene, visto che ti piacciono le donne faresti una cosa a tre con me e la mia fidanzata? Lesbica? Va bene, quindi ti piace la birra? no? ma sai, ho sentito che tutte le lesbiche bevono birra. Toglimi una curiosità? nella coppia chi fa l’uomo e chi fa la donna? Però il sesso tra donne non è vero sesso, dai, come fate senza il pene? E come mai non hai i capelli corti? Forse odiate gli uomini, per questo non vi piacciono. Dai, se sei lesbica ti aspettiamo per la partita di calcetto domani sera. Comunque, secondo noi, non lo sei davvero, dovresti conoscere Giovanni, lui si che ti farà cambiare idea”.

La sigla LGBTQ+ spesso spunta fuori da un articolo o da un libro con quelle quattro lettere che sono le iniziali di lesbica, gay, bisessuale, transgender, queer, mentre il + indica tutte le altre identità possibili e  non assimilabili né alle precedenti né a quella eterosessuale. C’è anche intersessuale, asessuale, pansessuale. Quindi la sigla LGBTQ+ rivela che le realtà, le soggettività dietro quelle lettere, sono così tante e diverse e multiformi tra loro da sfuggire a definizioni e incasellamenti. L’Ilga-Europe (International Lesbian and Gay Association) calcola l’indice Rainbow Europe. L’Italia è in fondo al 35esimo posto, su 49 Paesi europei, per la protezione dei diritti LGBTQ+: solo il 23% dei diritti umani per questa comunità è infatti garantito. I problemi segnalati sono molti, dalla diffusione di discorsi e iniziative alimentate da pregiudizi, agli episodi di violenza omotransfobica, dalla mancanza di protocolli medici condivisi per le persone intersessuali, al mancato riconoscimento dei figli adottivi delle coppie dello stesso sesso. Daniela fa parte della comunità LGBTQ+ e conosce la discriminazione basata sull’orientamento sessuale, l’identità di genere e le caratteristiche sessuali. È una comunità che coinvolge dai 2,4 ai 3,6 milioni di abitanti. Persone che, pur costituendo circa il 6% della popolazione italiana, è come se non avessero il diritto di esistere.

 


Copertina: tatuaggio della calciatrice spagnola Maria Leon. Looks Can Be Deceiving.
immagine della fotografa sportiva Charlotte Wilson.




La palestra non è “un locale”

Secondo il concetto classico, ripreso poi dall’Umanesimo e oggi predominante, la cultura fisica è parte integrante dell’educazione generale. Essa non “si aggrega” a quella dello spirito ma va invece considerata come una vera e propria formazione morale, in quanto è una componente essenziale della civiltà dei popoli e ha sempre rivestito un ruolo determinante nell’evoluzione dell’uomo.

Mi chiedo come si possa spiegare o far comprendere Omero, la nascita degli Eroi, senza toccare l’argomento Olimpiadi. Come spiegare l’astio tra Atene e Sparta senza menzionare il diverso modo di intendere l’educazione, ovviamente motoria, in primis? Come spiegare il modo in cui il crescere del “professionismo” tra i vari pro e contro, spinse gli antichi a studiare la medicina, la traumatologia, la dietistica? O il modo in cui il Sofismo, che criticò aspramente la pratica fisica per quella intellettuale, storicamente coincida con la fine della potenza greca, prima per mano di Alessandro il Grande e in seguito per la dominazione Romana?

Eppure furono i Greci a creare il “Ginnasio”, che non era esattamente il biennio dell’odierno Liceo Classico, bensì il luogo ove gli studenti potevano esercitarsi nella pratica motoria,  da “gymnos”, nudo, così come lo studente si esercitava, accanto ai “perìpatos”, le passeggiate coperte, da cui prese il nome la scuola “peripatetica” di Aristotele.

Nel 2020 siamo in pieno dibattito se sia il caso o no di utilizzare le palestre scolastiche per creare delle classi.  Quindi fondamentalmente stiamo qui a dire che ci dispiace, ma che le Scienze Motorie possono essere sacrificate a fronte di una didattica di serie A, (il termine calcistico è volutamente usato), o meglio per mancanza di locali adatti a svolgere la didattica di serie A, perché questo è oggi considerata la Palestra: un locale. Quindi le Scienze Motorie cosa sono? O meglio, l’Educazione Fisica cos’è?

Siamo al paradosso, tanto per citare la scuola Eleatica e a chiederci se Achille abbia mai raggiunto o no la tartaruga. 

Chiedetelo agli Etruschi, ove la donna conobbe l’unico momento di parità di diritti. Non solo potevano assistere alle manifestazioni sportive, al contrario della democratica Grecia,  ma potevano loro stesse praticarle, ottime danzatrici. Superfluo citare i molteplici reperti che ci narrano di un popolo dedito ad ogni disciplina sportiva. I Romani, nella loro apparente contrapposizione alla Grecia, concepirono le manifestazioni sportive come mero divertimento, dagli etruschi capirono l’importanza della donna nella vita sociale ma fondamentalmente furono sempre “spettatori”. Anche se la grande pratica militare impose a Roma uno studio approfondito della ginnastica e della “tattica”, creando un attaccamento e un senso dello Stato che la portò leggermente ad influenzare il mondo per qualche secolo. Fu proprio la perdita di questo senso di appartenenza e dei suoi valori  una delle cause della sua caduta.

Nel Medioevo, l’avvento del Cristianesimo porta una scissione forte tra Anima e Corpo a vantaggio della prima e anche l’attività fisica ne risente. Ma presto l’importanza data al corpo sia per fini militari sia salutistici obbliga filosofi e intellettuali dell’epoca ad un brusco dietro-fronte

Fu in primis Carlo Magno a capirne l’importanza, non solo per motivi bellici, ma come mezzo di aggregazione e attaccamento della popolazione locale al proprio feudo. I Normanni tolsero ogni dubbio, risultando oltre che abili costruttori di navi, guerrieri formidabili, fisicamente difficili da contrastare. L’epica cavalleresca come quella di Omero, vede nei Cavalieri introdurre quello che oggi chiameremmo fair-play. Nascono i tornei, i percorsi di abilità dove i nobili dovevano cimentarsi per dimostrarsi pronti a guidare il proprio popolo diventandone beniamini. La loro educazione motoria e intellettuale andava di pari passo.

Con l’umanesimo e poi il Rinascimento l’educazione motoria diventa oggetto di grande interesse.

Oggi si sente molto parlare di individualizzazione dell’insegnamento. Ottimo, il primo a parlarne fu Francesco Filelfo, che intorno al 1420 fu chiamato ad insegnare dal Doge di Venezia, nelle cui opere non fa mistero della sua dottrina e oltre a credere in un insegnamento individualizzato nel rispetto della personalità del discente che non deve essere mai traumatizzato o impaurito dal proprio docente, sottolinea come la pratica fisica debba andare di pari passo con quella spirituale. L’educazione del giovane deve essere unitaria.  Vittorino da Feltre andò ben oltre. Ospite dei Gonzaga a Mantova, trasformò la sua splendida villa in una scuola, chiamata “La Casa Giocosa”. Fu il primo a tentare un’istruzione di massa, permettendo a studenti non abbienti di frequentare grazie alle quote pagate dai figli dei Signori. Promosse lo spontaneo sviluppo delle personalità dei suoi allievi, attraverso i giochi e gli esercizi fisici. Preoccupandosi di intravedere le attitudini dei propri giovani per indirizzarli alle professioni ove risultavano più portati. Considerava, per la salute,  fondamentale la pratica di esercizi fisici tutti i giorni, all’aperto, in qualsiasi condizione climatica, come conditio sine qua non per le attività mentali. Aveva intuito, nel 1423, che una buona predisposizione fisica avrebbe favorito l’apprendimento delle lettere e dei classici, come della musica e delle Arti. Leonardo da Vinci, oltre che nei suoi studi di anatomia, recitava che l’aspetto fisico e quello spirituale andavano educati di pari passo, fino ad affermare che il corpo umano è lo specchio del mondo: microcosmo-macrocosmo. Superfluo citare Machiavelli o Castiglione che nei loro trattati, davanti all’importanza della guerra, credono fortemente nell’esercizio fisico e militare, come quasi attività principale del “Principe” o del “Cortegiano”.

Intorno al 1500, la Rivoluzione non risparmia il mondo ecclesiastico. Erasmo da Rotterdam vede nell’educazione un dovere delle famiglie verso la società, il corpo è lo strumento della mente, che risulta essere uno strumento indispensabile per l’anima, ergo, la sua cura era imprescindibile. La Francia risponde qualche anno più tardi con Francois Rabelais che, nel suo Gargantua, arriva a descrivere con minuziosa capacità gli esercizi fisici giornalieri alternati alle discipline umanistiche, spiegando la sua dottrina educativa a stampo naturalistico che doveva riguardare il copro, la mente e la volontà del suo allievo. L’Inghilterra con Mulcaster e la sua ginnastica come disciplina sperimentale,  rincara la dose affermando che l’assenza di salute dinamica impedisce a molti uomini di sviluppare pienamente la propria personalità, che quindi doveva essere praticata da tutti, soprattutto da quelli dediti a una vita sedentaria. Ai già citati vanno aggiunti pedagoghi del calibro di Montaigne e Botero; quest’ultimo influenzerà l’educazione e la scuola Gesuita. Per Martin Lutero, frate agostiniano, l’educazione non poteva essere solo un problema familiare, ma doveva  occuparsene sia lo Stato sia la Chiesa; l’educazione andava portata ad ogni ceto sociale e anche alle donne. Nella sua visione contro la chiesa cattolica, il corpo non poteva più essere trascurato, anzi, doveva essere necessariamente valorizzato. Filippo Neri, gesuita, capisce l’importanza dello svago, delle ricreazioni, dei giochi e degli esercizi fisici, formando le prime scuole del popolo e i primi oratori. Nel 1600 è Tommaso Campanella e la sua Città del Sole a condannare l’ozio, e vede nel gioco e negli esercizi fisici un modo per preparare i bambini alla vita da adulti. Seguirono Antonio de Ferraris con “l’educazione degli Italiani” e Girolamo Mercuriale che, nel 1569, pubblicò il “De arte gymnastica”.

In questo periodo nascono soprattutto a corte, ma non solo, i primi giochi “sportivi” che daranno poi vita a quelli conosciuti ai giorni nostri, ma soprattutto nasce l’acrobatica con Gianni Tuccaro, e la Danza classica alla corte del Re Sole.

Nel ‘600 ad esprimersi sono personaggi di spicco come Bacone, che nella sua Città Ideale vedeva l’attività fisica come mezzo per correggere qualsiasi tendenza al male e all’indebolimento e proponeva tutti gli esercizi che giovavano alla conservazione della salute. Galileo Galilei studiò il corpo dal punto di vista biomeccanico e recepì l’importanza della cura del corpo attraverso il movimento. Comenio, autore della “scuola materna”, sottolineò l’importanza dell’attività motoria non solo per i “normodotati” ma soprattutto per i “minorati”, dando molta importanza, soprattutto per questi, a quanto le esperienze concrete potessero giovare sia sotto l’aspetto fisico sia psicologico. Milton, autore del Paradiso Perduto, raccomandò di praticare esercizi fisici perché atti a preparare un cittadino “utile” alla società. Locke, padre dell’empirismo inglese, vede nel gioco dei bambini qualcosa di utile e di affine al futuro lavoro, ed evidenzia  come un corpo debba conoscere le proprie capacità, e quindi in caso contrario apprenderle attraverso l’esercizio.

L’illuminismo, padre del pensiero moderno, sia con Rousseau e  poi con Helvetius tracciano l’idea di  un’educazione fisica, morale ed intellettuale  concatenate tra loro. Diderot studierà la possibilità di inserire l’educazione fisica nei programmi scolastici e sosterrà la necessità dell’istruzione elementare obbligatoria e gratuita per tutti. Con Basedow, padre del filantropismo tedesco, verrà dato ampio spazio all’attività fisica, formando docenti con una specifica preparazione. L’insegnamento dell’educazione fisica trova il suo compimento in Pestalozzi; anche per lui l’insegnamento fisico va impartito parallelamente a quello intellettuale da docenti specializzati non solo dal punto di vista fisico ma soprattutto pedagogico e psicologico.

In questo periodo si creano due scuole di pensiero differenti, quella sportiva militare soprattutto di stampo tedesco e quella correttiva salutista di stampo svedese, di cui molti probabilmente ricordano il famigerato “quadro”, per non dire le spalliere e la trave, elementi onnipresenti in ogni palestra scolastica. A questa lunga, ma pur sempre superficiale ricostruzione, mi piace aggiungere che la sconfitta con la Prussia della Francia nell’omonima guerra portò a riflettere un pedagogo francese sull’importanza della preparazione fisica dei soldati. Costui era un certo Barone di De Coubertin, che volò in Inghilterra, studiò i più famosi college Inglesi e tornò in patria riformulando l’intera struttura della scuola francese dando uno spazio considerevole alle attività motorie, ritenute essenziali alla formazione delle generazioni a venire. Sulla spinte delle scoperte archeologiche e al ritrovamento delle rovine di Olimpia, pensò di ricreare le Olimpiadi cercando, come allora, di trovare modi diversi per combattersi tra nazioni, auspicando  quella “pace” cara già nell’ VIII secolo a.C., quella pace che come tutti sanno terminò nel 1914.

Lo sport e l’educazione fisica da quel momento sono sopravvissuti a tutto. Alle Rivoluzioni, alle Dittature, alla Guerra fredda, al terrorismo, agli attentati, alle crisi finanziarie e alle guerre civili, regalandoci, malgrado tutto, momenti indimenticabili che non possono essere scissi dalla storia. Pensiamo al 1920 e alle donne ammesse ufficialmente ai giochi Olimpici, dopo che nel 1912 a Stoccolma l’Australiana Fanny Durak in una gara non riconosciuta aveva eguagliato  il tempo dei 100 metri maschili del 1896, dimostrando che il “gentil sesso” non era secondo a nessuno. Pensiamo a Jesse Owens nel 1936 a Berlino; pensiamo alle battaglie dei “neri”, ai film come “Glory Road”, il “sapore della Vittoria”, pensiamo alle Olimpiadi di Messico ’68 e ai pugni al cielo. Pensiamo al Pugilato di Mohammed Alì, pensiamo al film “Coach Carter” – lo sport contro l’emarginazione sociale in parallelo con lo studio. Pensiamo alle mille storie di campioni nati nella fame e arrivati sul tetto del mondo, pensiamo alle due Coree a braccetto insieme durante la sfilata olimpica, pensiamo ad una partita di calcio Iran – Usa; pensiamo a Nelson Mandela e a “invictus”; pensiamo ai tanti atleti para-olimpici e a cosa abbia significato lo sport nella loro vita. Pensiamo ai tanti ragazzi e ragazze che nelle nostre palestre comprendono il senso di appartenenza, di sacrifico, di amicizia, a quanti di loro trovano nelle varie discipline uno sfogo alla loro passione e che, in un mondo che ormai ci rende spettatori in tutto, trovano il modo di essere protagonisti, di crescere e di diventare uomini e donne seguendo regole e valori unici, sperando di vincere e partecipare alle “loro”olimpiadi. Pensiamo ai nostri alunni gareggiare con la maglia della loro scuola, rappresentare con orgoglio i loro istituti. Pensiamo a chi non può permettersi uno sport e trova nella scuola un modo di farlo. Pensiamo a tutti coloro citati, e non, che si sono espressi sul valore dell’educazione fisica e pensiamo ad oggi.

Per chi come noi, insegna lo “sport” e “l’educazione fisica” sotto ogni forma, questi non saranno mai  un locale, ma sempre e soltanto una PALESTRA di vita.

 




Pentothal, Zanardi & Pompeo, 32 anni senza Andrea Paz Pazienza

«Il mio primo disegnino riconoscibile l’ho fatto a 18 mesi, era un orso, questo testimonia quanto era forte in me il bisogno di disegnare»

(Andrea Pazienza, Il segno di una resa invincibile,
Corto Maltese, novembre 1983)

Ripercorrere le tappe della carriera di fumettista del grande Andrea Paz Pazienza in un elenco ragionato e ordinato significherebbe snaturare la sua memoria.  Paz sosteneva di non avere mai l’idea completa della storia quando iniziava a disegnare, preparava diverse tavole e cercava di legarle tra loro, schiavo della propria creatività straniante, con quei personaggi ricorrenti come “rozzi mantra primordiali”,  figli di una sensibilità aggrovigliata attorno al selbst mai tramontato della sua infanzia.

È figlio di Giuliana Di Cretico, professoressa di
educazioni tecniche e di Enrico Pazienza, professore di educazione artistica e
valente acquarellista.  Tecnicamente legato
al retaggio familiare, all’inizio dipinge acquarelli, presto giudicati troppo
delicati e inadatti alla prepotente e precoce forza espressiva che, sebbene
fosse solo dodicenne, già fremeva dentro di sé in stato di incessabile erranza. 

Giovanissimo si trasferisce a Pescara, frequenta il Liceo artistico e nel 1973 fonda con altri artisti il Laboratorio Comune d’Arte “Convergenze”.   Dipinge, lo farà fino al ’76, ma è frustrato e tristemente afferma: 
I miei quadri erano comprati da farmacisti, che se li mettevano in camera da letto”. 

A sedici anni raffigura il proprio funerale, sua sorella Mariella ricorda: “Quando aveva 13 anni, mio fratello disegnò un quadro che rappresentava il suo funerale. Ora è un po’ malandato: era stato fatto a pennarello, e anche se abbiamo cercato di conservarlo bene, i colori sono sbiaditi.
Andrea già allora immaginava di diventare famoso: aveva disegnato la sua bara, portata a spalle da persone che avevano volti sofferenti, che sembravano quasi maschere del teatro dell’arte. E ce n’erano altre che ridevano. Andrea aveva mostrato il suo quadro a mia mamma, dicendo che c’è sempre qualcuno felice della morte di un’altra persona. Aveva disegnato un volo di corvi e aveva scritto: “Andrea Pazienza is dead
”.

È questa la genesi del Paz, non ancora fumettista, è
un pittore che conosce la storia dell’arte, fa riferimenti a Rembrandt e
Duchamp, confesserà lo spirito dadaista e la passione per la pop-art e per la
poesia, a quest’ultima dobbiamo le 17 tavole dedicate a Jacques Prévert, in cui
prendono vita i tre componimenti dell’opera del grande poeta francese del ‘900,
come lui anarchico e romantico.

La madre di Paz teneramente racconta delle poesie scritte dal figlio, le conosce a memoria: “Per esempio: Dormi dormi dormi almeno tu che puoi dormire. Io penso a te tu non pensare a me.

I suoi dipinti sono caotici, usa colori in modo
spregiudicato accentuando il carattere figurativo con una quantità
impressionante di dettagli, una vertigine ad alta quota che disturba e provoca
un certo disordine emotivo.  Segue un
processo neuroergonomico distorto, cannibalizza se stesso e si auto-ritrae.

Succede l’inevitabile, alla porta bussa forte il Paz
narrativo, le storie che ha da raccontare prendono il sopravvento, nascono i
personaggi ormai entrati nella storia, Pentothal, Zanardi, Pompeo, il mondo
viene travolto dalla furia comunicativa dell’artista, che prende la realtà, la
brutalizza, ne rivela le verità, le angosce, ne tratteggia il tessuto umano
senza pietà.

Diceva anche che nei suoi fumetti parlava di se stesso, perché chissà: “forse mi amo“.  Sono i suoi personaggi a parlare di lui, spietati e senza filtri, Zanardi e Pentothal intrecciano le loro vite e continuano a far vivere il loro autore, egli stesso personaggio inverso e irriverente, definito da Milo Manara: “Il Caravaggio del fumetto“.

Di nuovo citiamo la sorella Mariella, che ricorda il fratello attraverso un aneddoto su un numero di Zanardi:
Pentothal è Andrea, cambiava solo il nome. Capimmo che con lui mio fratello aveva risolto la sua esigenza di narrare quei momenti. […]  Uno dei miei ricordi più belli riguarda un fumetto su Zanardi, che si intitolava Zanardi l’inesistente, che mi ha vista in un certo senso coautrice. Una parte di questa storia è narrata dalla sorella di Zanardi nel suo diario. E Andrea chiese proprio a me di scriverla, perché voleva che avesse lo stile di un’adolescente. Lo considerai un incarico di fiducia e responsabilità, e gli fui davvero molto grata“.

La vita di Paz corre su binari storti, deformati dalle droghe, scrive la sua ultima storia “Astarte”, rimasta incompiuta, che racconta di un gigantesco cane molosso, capo dei cani da guerra di Annibale.  Il cane appare in sogno a Paz stesso e gli racconta delle proprie storiche gesta e dell’amicizia con Annibale. Astarte segue l’esercito cartaginese nella marcia sull’Italia, fino al primo scontro coi romani.

La storia si interrompe qui. 
Il 16 giugno 1988 Paz muore di overdose a soli 32 anni.

Mai tornare indietro, neanche per prendere la rincorsa” 

Andrea Pazienza, Le straordinarie avventure di Pentothal

sito ufficiale http://www.andreapazienza.it/





Jesse Owens e i 45 minuti che cambiarono la storia dell’atletica

Tra il 20 e il 21 maggio 1927 un figlio di immigrati svedesi, di nome Charles Lindeberg,  trasvola per la prima volta l’Oceano Atlantico partendo dai pressi di New York  e arriva in quelli di Parigi a bordo di un monoplano leggero chiamato Spirit of St. Louis.  In realtà già due aviatori inglesi erano riusciti nell’impresa, coprendo la distanza, più breve, tra Irlanda e Canada, ma l’America è in piena recessione, ha bisogno di miti, e il fatto di aver compiuto l’impresa in solitaria fa di Charles “the man of the year”.

In questo stesso anno si assisterà alla fine della produzione del modello T, o più semplicemente Lizzie, la prima auto creata in serie e con il nuovo sistema della catena di montaggio ideato da Henry Ford, il padre dell’auto Americana, che, dopo aver lavorato nella società elettrica del padre della lampadina Edison, si darà allo sviluppo del motore a combustione interna creato da Karl Benz in Germania. Per gli americani sarà l’Uomo del Secolo, accumulando una ricchezza che lo renderà uno dei nove uomini più ricchi di sempre.

Cosa unisce questi due uomini? Entrambi nati nell’area di Detroit,  rappresentano in pieno quella faccia oscura dell’America mai chiara,  tra libertà e schiavismo, tra dittatura e democrazia, tra diritti civili e segregazione razziale, tra padri fondatori, discendenti di lavoratori dal nord Europa in cerca di fortuna o figli di tratte senza dignità. Charles ed Henry fanno parte di quell’America che, finita la Grande Guerra, deciderà di sovvenzionare lo stato che la causò e contro il quale mandò i suoi soldati a combattere in Europa: la Germania. Quando la crisi del ’29 fa precipitare il dollaro, anche per la Germania si prospetta il baratro ma gli Americani riescono a darle l’ultima boccata di ossigeno nel 1931, quando gli viene assegnata l’organizzazione dei giochi olimpici del 1936. Nel 1933 in Germania si assiste alla scalata al potere di Adolf Hitler. Nuovo punto in comune: sia Charles sia Henry sono due aperti sostenitori del cancelliere tedesco; Charles non nasconde la sua ammirazione e la difesa delle posizioni nazionalsocialiste, Henry finanzia in prima persona il partito di Hitler, arrivando, a detta di molti, a donare tutti i proventi della filiale Ford in Germania al governo tedesco, nonché ispirando la fondazione da parte di Hitler della Volkswagen, l’auto del popolo, nel 1937.  Sia Charles sia Henry vedranno premiare la loro dedizione con due medaglie consegnate dal Fuhrer in persona: Croce dell’Aquila Tedesca il primo, Gran Croce del Supremo Ordine dell’Aquila Tedesca il secondo.  A questo punto sarebbe lecito indignarsi ed è proprio quando il dito punta contro lo Zio Sam, che la realtà si intorbidisce e lascia spazio al sogno e come un filo mosso da un ago inizia ad intrecciare  e a cucire pezzi impensabili da poter mettere insieme. 

Nella società dove per eccellenza aleggia il dubbio, in  questa storia nemmeno il nome è una certezza.

James Cleveland Owens nasce nel 1913, sarebbe il tredicesimo dei suoi fratelli, ma tre sono morti per parto, quindi risulterà il numero 10. Se si parlasse del calcio, la storia sarebbe già fatta, il numero del predestinato. James nasce e cresce nel pieno mondo del latifondo, i suoi genitori sono dei mezzadri, coltivano una terra per conto di un latifondista. La sua salute è più precaria che mai, a soli 5 anni contrae per ben due volte la polmonite. Queste sue disavventure portano la madre a comprendere che questo figlio sarà il più speciale, come spesso era solita  dire. Un giorno il piccolo James chiama la madre facendole notare un’escrescenza sul petto vicino al cuore. La madre comprendendone la natura tumorale, manda il padre a pregare nei campi mentre lei con un coltello da cucina opera di persona il figlio estirpandogli il male. Il figlio si dimostra in effetti subito speciale, pochi giorni dopo è già in piedi. I soldi non bastano mai, e in tutta l’America si sparge una voce, un grande imprenditore del nord cerca operai da inserire in una catena di montaggio umana, e che pagherà 5 dollari al di là del colore della pelle: è Henry Ford che a Detroit ha appena creato la prima auto di serie, Lizzie.  A 9 anni James Cleveland si trasferisce con tutta la famiglia a Cleveland! Qui inizia a frequentare le scuole elementari, portando con sé l’insegnamento principale che il padre gli aveva dato fin da bambino: quando incontri un bianco, stai sempre con la testa bassa e non guardarlo mai negli occhi. James è ossequioso nel rispettare questo comandamento, anche troppo, decidendo di non rispondere nemmeno alla maestra quando gli chiede il suo nome. Costretto dall’insegnante a pronunciare il suo nome, James con un filo di voce e con un accento da sudista proferisce le sue iniziali: J.C.  che alla maestra fanno intendere Jesse. Lui non risponde e da quel giorno, per tutti, diviene Jesse Owens. A 13 anni fa l’incontro della sua vita: coach Riley.

In America, l’educazione fisica è molto importante sin da bambini e quando si arriva alla prima stretta di mano, con Riley, non c’è bisogno di presentazioni, il coach fa capire che lo segue da tempo e sa perfettamente quale sia il suo nome, Jesse per la prima volta alza gli occhi davanti ad un bianco e sorride.  Riley lo mette alla prova su un vialone alla periferia di Cleveland insieme ad altri ragazzetti più grandi di lui. “100 yard, ragazzi, 100 yard, tutto qui”.

Pronti, ai posti… GO!

Sulla partenza c’è poco da insegnare, la testa bassa e china l’aveva appresa dal padre in Alabama, doveroso nello stato con il più alto numero di linciaggi sui neri e nessun processo.  Alzarla lentamente, davanti a Riley, lo aveva fatto per la prima volta e la cosa lasciava ben sperare, per il resto, le cinque fasi della corsa, come le marce di un’automobile, Lizzie.  Il cucciolo parte, crea il vuoto dietro di sé, taglia il traguardo, non si ferma, torna indietro dal Coach e chiede come sia andato.

Undici secondi netti. Il record del mondo all’epoca è di nove secondi e quattro centesimi.

Riley capisce che davanti a sé ha qualcosa di unico in natura. Un giorno va a prendere Jesse con il suo modello T, il suo, perché è senza marmitta. Un rombo assordante impedisce anche di parlare, come a dire, lascia stare la storia delle marce, l’auto è qualcosa di costruito non fa per te. Arrivano all’ippodromo dove in ossequioso silenzio il coach lo fa assistere a tutte le gare dei cavalli. In natura l’animale più di tutti predisposto alla corsa e forse l’animale che più di tutti ha cambiato la vita degli uomini.

Tre i punti su cui riflettere: il cavallo corre velocissimo; il cavallo pur sforzandosi alla morte non lo dà mai a vedere; il cavallo non si guarda mai intorno, corre solo verso il traguardo.

Jesse non dimenticherà mai questi tre insegnamenti.

Ma un atleta ha bisogno anche di figure di riferimento simili a lui, e coach Riley decide di regalare al suo protetto un incontro fondamentale: Charley Paddock, l’eroe delle Olimpiadi di Anversa del 1920, colui che, nel 1924, intreccerà la sua vita con quelle di Abrahams e Liddell, gli eroi di Momenti di Gloria, ma questa è un’altra storia.

Jesse passa all’Istituto Tecnico di Cleveland. Quando la notizia dell’iscrizione arriva al tecnico di atletica dell’Istituto, la chiamata a Riley non tarda ad arrivare. Owens è una promessa troppo importante e a Riley viene chiesto di continuare il suo lavoro con il ragazzo.

Le conferme non tardano ad arrivare e Jesse a soli 19 anni eguaglia il record del mondo di 10 secondi e 3 centesimi.

La notizia fa il giro del paese e tutte le università sono pronte ad accogliere la freccia nera. Proprio tutte no, ovviamente non quelle del sud, quel sud da dove la sua famiglia è scappata, dove la segregazione si protrarrà fino agli anni ‘60/’70 , o ‘71 come in Virginia quando un Coach di colore verrà chiamato ad allenare per la prima volta una squadra di football mista: i Titans, o per molti Il sapore della vittoriaUniti si vince, meraviglioso film del 2000; come in Texas quando coach Haskins vincerà il torneo NCAA del 1966 con un quintetto di soli neri, per molti Glory Road, meraviglioso film del 2006. Ma queste sono altre storie.

Jesse sceglie con il cuore l’Università dell’Ohio  perché l’allenatore dell’università Snyder è un caro amico di Riley ma soprattutto perché Jesse aspetta una figlia da colei che diverrà poi sua moglie: Minnie Ruth Solomon.

Coach Snyder è un allenatore di quelli che sono anni luce avanti, che ti fanno guardare l’America da un altro punto di vista, facendoti dimenticare tutte le cose inspiegabili di questo paese. Coach Snyder è un degno erede di quella generazione di professori di ginnastica che alla fine del secolo scorso hanno visto James Naismith nel 1891 e William Morgan nel 1895 coniare rispettivamente il Basketball e il Volleyball.

Coach Snyder intuisce che ad un talento nato con la testa bassa che ha imparato ad alzarla così velocemente, bisogna solo aiutarlo a gestire e controllare il tempo. Snyder è il primo a capire che il ritmo è alla base di ogni movimento e che è possibile riconoscerlo, gestirlo ed allenarlo. Si presenta a ogni allenamento con un grammofono e dice a Jesse di trovare una musica che gli piaccia, che lo esalti e che gli permetta di cantarsela in testa aiutandolo così a gestire il ritmo nella corsa.

Swing, swing, swing è quello che rimbomba nell’America del 1935, accompagnato dal ballo Lindy Hop, nome dato durante una maratona di ballo da Shorty George Snowden, che dedicò un passo caratterizzato da un grande balzo proprio a colui che in quel momento stava balzando dall’America all’Europa: Charles Lindbergh.

Ci siamo, la colonna sonora è pronta, il protagonista anche, manca il luogo dell’appuntamento per quel 25 maggio del 1935, che nel mondo dell’atletica si continua ancora oggi a chiamare il D-Day. 

Big Ten Meet di Ann Arbor nel Michigan. Giochi studenteschi e in pista gli atleti delle due università che da sempre nel campo del football hanno contrassegnato la più grande rivalità sportiva di tutti I tempi.

Se oggi vi chiedessi di pensare ai 45 minuti più importanti dello sport, credo che tutti andrebbero a cercare nelle imprese del calcio, a qualche rimonta clamorosa o a qualche goleada o al risultato più storico della propria squadra. Ma che nel calcio in 45 minuti si possa vincere un mondiale, una finale ci sta, nell’Atletica mai più nessuno oserà tanto. Il D-Day inizia alle ore 15:15, testa bassa per il ragazzo che viene dai campi dell’Alabama, ready? Go! La testa si alza allo sparo, 1-2-3-4-5 neanche Lizzie, taglio del traguardo… i cronometri dicono uno 9,3 e l’altro 9,4. Gli danno 9,4 record del mondo uguagliato. Chiunque si sarebbe alterato, ma lui no, non è questo che gli ha insegnato il padre. Torna in pedana per il salto in lungo, ma non può perdere tempo perché alle 15:35 ci sono i 200 yard. Un solo salto… swing swing e qui deve aver pensato al Lindy Hop, che in realtà si sarebbe trasformato nel Jesse Hop perché nessuno fino al 1960 avrebbe fatto meglio: 8 metri e 13, “antropologicamente impensabile per l’epoca”. Di corsa tanto per cambiare; 15:35 start per i 200 yard, ready? Go! 20,3 e terzo primato del mondo. Ore 16:00 tempo di mettere 10 ostacoli sulla pista e si parte per i 200 yard ostacoli. 22,6 e quarto record del mondo.

Il mito narra che Jesse fosse anche infortunato alla schiena e che prima della prima gara fosse stato anche vestito da un suo compagno. Finite le gare, Jesse saluta Snyder e se ne torna a casa dalla sua Ruth con coach Riley e il suo modello T, quello sempre senza marmitta, quello dal rumore assordante. Ma sulla strada di ritorno ancora un insegnamento dal suo Coach, la concentrazione. “Quella ti ha fatto vincere da infortunato, sapevi che non potevi sprecare tempo ed energie. Ricordatelo Jesse, ricordatelo sempre anche quando starai bene”.

Invitato ovunque per la sua fama, tra Hollywood, locali e Night Club, Jesse dimostra di non riuscire a gestire quell’ambiente, ma tra i tanti incontri uno avrebbe dovuto illuminarlo, quello con Jim Thorpe, il più grande atleta americano fino a quel momento, vincitore di due ori nel Pentathlon e nel Decathlon a Stoccolma nel 1912, vincitore di medaglie entrambe tolte, per volere dello stesso comitato olimpico Americano, con la scusa che Jim avesse giocato a Baseball da professionista. Le vere motivazioni di questa privazione, invece, vanno ricercate nelle sue origini amerinde, il suo vero nome Wa-Tho-Huk, “sentiero lucente” e in quelle di un paese che ancora non aveva fatto i conti con il razzismo. Jesse scoprirà ben presto quelle due facce dell’America mai definite, mai “chiare”.

Il 4 luglio del 1935, nel Nebraska sotto 40 gradi, davanti ad uno stato gremito Jesse Owens conosce una doppia sconfitta nei 100 metri e nel salto in lungo. Eulace Peacock stabilì il nuovo record dei 100, in 10”2, tempo che non fu mai omologato per la presenza di troppo vento. Tempo che poi anche Jesse otterrà nella sua carriera. Nelle gare successive Peacock batterà Jesse in ogni meeting fino all’aprile del 1936 dove un infortunio interromperà la sua carriera impedendogli di partire per Berlino 36 lasciando quindi a Jesse la possibilità di passare alla storia come il nero che umiliò il regime

Al ritorno da Berlino, acclamato dalla folla, a Jesse e sua moglie non fu dato alloggio in nessun albergo del centro, se non a patto di passare per la porta di servizio. Il presidente Roosevelt in piena campagna elettorale gli negò l’incontro alla Casa Bianca, perché temeva potesse compromettere i voti degli Stati del Sud.

La moglie di Lindbergh  scrisse il libro The Wave of the future considerato la bibbia di ogni nazista americano. Lui si oppose fino alla fine all’intervento americano in Europa considerandola una causa giudaica e non americana. Prima cacciato dall’aviazione americana fu richiamato per collaudare i bombardieri  Ford, quel Henry Ford finanziatore del regime tedesco. Entrambi collaborarono con l’America e parteciparono alla guerra nel Pacifico.  Alla fine risultarono eroi nazionali.

Wa-Tho-Huk finì in miseria, nel 1950 si curò un tumore alla bocca solo grazie alla beneficienza. Lo stesso anno veniva riconosciuto come il più grande atleta del secolo.  Nel 1951 un film sulla sua storia ne celebrò le gesta. Purtroppo per lui molti anni prima aveva ceduto i diritti e quindi non ne ricavò nulla.  Nel 1953 si spense dentro una roulotte in California.

Eulace Peacock dopo aver prestato servizio sulla guardia costiera americana durante la seconda guerra mondiale, aprì un negozio di alcolici e officiò molti meeting di atletica. La sua lapide oggi recita così:

L’umano più veloce del mondo.





Il segreto della montagna

Sulla collina un uomo fuma

La macchina è stata vista

In pochi millesimi di secondo la combinazione rapida degli elementi chimici

Scatena l’inferno

Il vetro si sbriciola la lamiera si accartoccia la carne si strazia.

 

“Sono tua madre, Giovanni, ti sto aspettando.

Sono tuo padre, Giovanni, ti sto attendendo.”

 

Sulla collina il Diavolo fuma ancora un’altra sigaretta.

 

“Non posso fermarmi, ho ancora la testa piena di cose da dire.”

 

Sulla costola della montagna cieca, Satana ed i suoi servi scherzano

E premono un telecomando

Se la montagna avesse potuto vedere lo scempio

avrebbe rovinato su di loro cumuli di pietre.

 

Un rumore tremendo parte dal cuore della terra

Ed in pochi millesimi di secondo, dentro l’abitacolo

Il vetro si frantuma la lamiera si piega i corpi si dissolvono.

 

L’Angelo della Morte prende la mano di Giovanni

“vieni”

Giovanni dice: “non posso è ancora presto, il mio cuore

è ancora forte, la mia testa è piena di cose che non ho potuto dire”

 

va la Madre da Giovanni e gli dice:

“Giovanni, devi tornare, ricongiungerti a me”

Ma lui risponde:

“non posso, Madre, la terra, gli uomini e Francesca resterebbero soli.”

 

L’Angelo della Morte prende la mano di Giovanni e dice:

“così sia.”

Sulla costola della montagna sorda, Satana ed i suoi schiavi

Bevono alcool e fumano tabacco.

L’Angelo della Morte prende anche la mano di Francesca e dice:

“così sia”.

Madri prendono le mani dei figli che viaggiavano con loro e si sono dovuti fermare.

“noi non possiamo seguirvi, Madri, il nostro posto è accanto all’ombra ed al respiro 

di Giovanni, il nostro cuore è forte, la nostra mira sicura, le membra agili e giovani.”

“Così sia”, dice L’Angelo della Morte, e tutti i figli dal cuore forte e dallo sguardo sincero

tornano dalle Madri.

La terra rimane sola, e tutti gli uomini restano soli.

Quando si abbassa la polvere, siamo tutti più soli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non riuscirò a dimenticare.

Palermo 10 novembre 2002. Antonio Musotto.




La Qualità del Progetto è un valore

Sembra che in molti, compresi noi  progettisti, lo abbiano però dimenticato.

Infatti, la logica che oggi purtroppo guida molte operazioni speculative legate alle trasformazioni urbanistiche del territorio, possiamo dire che è sempre la stessa. Prima si certifica l’impossibilità di recuperare e riqualificare quartieri, in particolare quelli delle tante disastrate e dimenticate periferie italiane che, qualche anno fa, si erano meritate anche l’attenzione dell’architetto Renzo Piano con un progetto/programma denominato e poi diventato famoso come “il rammendo delle periferie”. Poi naturalmente, dopo i primi mesi di entusiasmo e di annunci con roboanti casse di risonanze per la comunicazione, non sappiamo più che fine ha fatto questo programma. Mentre continua a succedere tranquillamente tutto quello che è sempre successo. In poche parole si giustifica una inattuabile operazione di recupero con il pretesto dei costi eccessivi, non sempre reali, per poi sostenere, invece, una più remunerativa e completa demolizione e ricostruzione o la realizzazione di nuovi insediamenti “compensativi”, in altri luoghi da urbanizzare. Una logica che permette al potere politico di chiamare al capezzale del territorio ammalato, i medici delle grandi società di costruzione, che poi sono quasi sempre i proprietari di questi terreni. Soluzioni che, noi pensiamo, non abbiano più nessuna ragion d’essere di fronte ai disastri odierni compiuti dal potere economico-finanziario che spesso si immola al dogma neoliberista della crescita infinita. Queste soluzioni non possono più trovare giustificazioni dal punto di vista urbanistico ed architettonico perché in un nuovo modello di sviluppo o in una nuova idea di città non dovrebbe essere più consentito disattendere le aspettative di qualità della vita di quelle persone che, come tutti, hanno il Diritto di vivere degnamente i luoghi e gli spazi delle nostre città, al di là della loro collocazione sul territorio. In nome di quei sacrosanti diritti, alcuni sanciti anche dalla nostra Costituzione, ma soprattutto di quelli che potremmo chiamare Diritti per vivere degnamente la propria vita.

 

Diritto ad una Sostenibilità Ambientale.

Diritto ad un Risparmio energetico con l’uso delle Energie Rinnovabili.

Diritto ad una Riqualificazione di territori e strutture dismesse o abbandonate.

Diritto ad una Qualità diffusa dell’Architettura.

Diritto ad una migliore qualità della vita.

 

Inoltre siamo fermamente convinti che questo grande processo di rinnovamento, prima di tutto culturale, debba per forza coinvolgere il Progettista (Architetto, Ingegnere, Urbanista) che da sempre, con o senza complicità, ha avuto il compito di rappresentare, attraverso l’architettura, il “potere dominante”,  sia esso politico, finanziario che religioso, come la storia ci ha testimoniato. Ma purtroppo oggi le sorti di interi Paesi dipendono invece dal PIL e dall’ammontare del Debito Pubblico, Grecia docet, per cui prima o poi potrebbe toccare anche noi come Comunità europea, in questo momento alle prese per esempio con il Corona Virus e con tutto quello che comporterà. Quindi possiamo affermare che non c’è più nessun aspetto (culturale, etico, sociale e soprattutto politico) in grado di contenere o condizionare il potere economico-finanziario. L’unico capace, nonostante la crisi in cui ci ha fatto precipitare, di orientare scelte di natura architettonica ed urbanistica. Ecco perché diventa assolutamente necessario parlare di “qualità della Progettazione” per cercare di combattere “l’ingiustizia distributiva” che affligge le nostre città. Ecco perché, facendo appello ad una assunzione di responsabilità connaturata alla sua figura, il Progettista rimane l’ultimo “baluardo” che, con la bontà e la qualità del progetto, può porre un argine a questa deriva. Anche per recuperare, all’interno di qualsiasi percorso progettuale, quel ruolo di protagonista che spesso, con la sua complicità, gli è stato cancellato dalla Committenza Pubblica-Politica-Affaristica, prima e da quella Privata-Economico-Finanziaria adesso.

 





Ciao, Ezio

Ho pensato e scritto l’inizio di queste poche righe più di una volta.

Ezio Bosso da oggi suonerà in maniera ancora dirompente, il suono del suo silenzio sarà frastornante.

Quel silenzio che tanto caratterizza la musica – o l’arte in generale, di un quadro parla anche il suo silenzio – e che è parte integrante ed attiva della vita, da oggi sarà ancora più rumoroso.

Talento del contrabbasso, compositore, direttore d’orchestra e pianista. Questi sono stati, fra tanti, i suoi “ruoli” nel mondo della musica ma, sebbene non sia semplice trovare in una persona generalmente tutte queste caratteristiche, il suo talento più grande è stato di sicuro l’entusiasmante e travolgente attaccamento alla vita con le sue gioie e, ahimè, i suoi dolori.

Claudio Abbado è stato uno dei suoi maestri e mentori, come spesso ricordava nei suoi interventi, non solo per l’importanza del ruolo musicale che ricopriva, ma anche, e soprattutto, perché avevano più di qualcosa che li accomunava. Tutti e due avevano una devozione totale per la musica ed entrambi hanno trovato in essa la cura metafisica ai dolori che, fino all’ultimo, li hanno accompagnati nel loro cammino terreno. Per loro la musica aveva una funzione di aggregazione sociale e purificatrice dello spirito. La musica è spirito. Musica come trascendenza che abbatte la porta dei sensi e che ci insegna a trasformare i problemi in opportunità come affermava lui stesso qualche anno fa davanti all’assemblea del parlamento europeo.

Al di là delle critiche spesso mosse alla sua figura mediatica, Bosso si è fatto, con la sua vita, portatore del bello e di un messaggio d’amore.

Quei movimenti del corpo isterici, nevrotici, quasi spiritati ma dolcemente umani ricordavano le note del clarinetto di Tony Scott o ancor meglio del trombone di Frank Rosolino. Aveva convertito energia negativa in energia positiva. Aveva trovato l’intima chiave. Si muoveva nella vita come un pianista in preda ad un raptus emotivo e davanti alla tastiera o all’orchestra intera tutto si fermava e di colpo, come un neonato che guarda incredulo la sconfinatezza del cielo, iniziava la musica.

Fui invitato a suonare un concerto da lui diretto ma per ragioni personali fui costretto a rifiutare quella proposta. La cosa mi dispiacque molto perché la sua figura mi ha spesso incuriosito. Avrei voluto sentirlo parlare, vederlo ragionare, ascoltare il suo silenzio, la sua musica e respirare la sua atmosfera. Invece no. Sono qui a scrivere di lui che per così poco avevo avvicinato e che oramai rimarrà soltanto un non ricordo passato e un esempio futuro.

Cito Paolo Fresu che scrive oggi il commento a mio avviso più emozionante e spiritualmente terreno per omaggiare un amico: “Fortunato ad averti conosciuto sempre uguale e sempre diverso”.

Oggi Ezio bosso ha salutato per l’ultima volta il suo pubblico.

Restano le sue parole. Resta la voglia di vita. Resta la sua musica.

 





Tecno Notiziario

Buonasera a tutti i nostri affezionati consumatori!

Purtroppo l’infezione non si ferma.

Oggi i Mostri hanno attaccato un centro commerciale alle porte di Roma.

Ecco le immagini.

Si vede il Mostro avvicinarsi dal parcheggio, come vedete, indossa un lungo impermeabile, vietato dalle leggi speciali per la sicurezza del Ministero della Tranquillità e del Sobrio Decoro.

I nuovi tecnoscanner in dotazione hanno identificato l’aggressore come Marco Rossini, ventisette anni, laurea in fisica, inserito nella lista nera avendo esaurito i 12 mesi del nuovo contratto di rotazione lavorativa come scaffalista.

Ora vediamo il cecchino della Fanteria Tecnofederalista abbatterlo, purtroppo, ancora una volta la rete illegale, fuori dal controllo dell’authority per la Coesione Familiare, ha funzionato da richiamo per decine d’infetti, che nel giro di poche ore si sono radunati intorno al centro commerciale e l’hanno attaccato in massa e, nonostante l’eroismo della Fanteria Tecnofederalista e dei Miliziani territoriali, hanno sterminato molte famiglie mentre svolgevano il loro compito di consumatori.

Il Ministro della Tranquillità e del Sobrio Decoro giunto sul posto, ha diretto il contrassalto delle forze tecnofederaliste che ha portato all’abbattimento di tutti i mostri.

Il Ministro ha annunciato un inasprimento della lotta ai contagiati, con la creazione di nuovi campi di contenimento e riadattamento al consumo ragionevole.

A Roma, il Ministro dello Star Bene, ha annunciato un nuovo stanziamento straordinario per la ricerca del vaccino contro il morbo, per la cui sperimentazione saranno usati gli ospiti dei campi di contenimento, ovviamente volontari.

Ci giunge ora la notizia che le forze tecnofederaliste hanno eliminato un altro mostro su un treno, questa volta si tratta di una donna, Francesca Pazzi trentadue anni, biologa molecolare. Era stata notata alla stazione di Torino e un rapido controllo ha permesso di accertare che proprio oggi era stata sostituita in un call center, i tecnocacciatori sono saliti sul treno e l’hanno abbattuta prima che potesse arrecare danno ai viaggiatori paganti.

Ripetiamo l’appello diffuso dalla Presidenza del Tecnoconsiglio: chiunque noti un giovane, con elevato titolo di studio, che non ha i tre semi tatuati in fronte, comprovanti la partecipazione ad almeno tre programmi del Ministero della Formazione Visiva trasmessi dalla nostra emittente, in possesso di libri carta non approvati dalla commissione dello stesso Ministero, non usa carte di pagamento, è tenuto  immediatamente segnalarlo alle stazioni della Milizia Tecnoterritoriale, anche in forma anonima; si ricorda che: chi non ha almeno tre account e non acquista quotidianamente per la cifra stabilita dalle tecnotabelle ministeriali in base al suo bisogno, calcolato dal Ministero del Tecnopil, è un nemico del Paese e del Consumo Sovrano.

E ora veniamo ad argomenti certamente importanti, ma più lievi.

È collegata Alessia, per la puntata settimanale di “Un’Amica per il Presidente”, programma obbligatorio del Ministero della Formazione Visiva. Ci sei Alessia?

Sì, Barbara buonasera.

Allora? Grandi novità stasera vero Alessia?

Certo Barbara, come tutte le settimane, intanto l’eliminazione tra Giovanna, la neurochirurgo marchigiana, e Flora, filosofo del diritto, piemontese, chi vince entra direttamente in finale, chi perde torna nei campi di contenimento e riadattamento al consumo; ma la vera sorpresa è un’altra: una nuova concorrente entrerà nella casa e la prossima settimana si giocherà la finale.

Il pubblico sarà chiamato a scegliere tra, niente popò di meno che, due ex Mostri catturati dalla Fanteria Tecnofederalista, che hanno superato il programma di ricondizionamento; Emilio, che sappiamo essere grande vanto della nostra emittente, infatti, grazie all’innesto direttamente nel nervo ottico di tutte le nostre trasmissioni in poco più di un mese è diventato un consumatore affezionato. E Luisa che, anche lei con un innesto ad hoc, ha ripreso il suo ruolo di madre e di moglie ed è stata guarita da una forma regressiva infantile che la portava a cercare la sua mamma – uccisa dalla tecnomilizia perché sorpresa a rubare ai Grandi Magazzini del Pil – attraverso il sesso saffico.

Mamma mia due ex Mostri addirittura!

Sì Barbara, il programma è stato voluto dall’Amministratore Delegato della Corporazione per trasformare questi esseri mostruosi in lavoratori della grande industria nazionale e poter scontare i loro orribili delitti.

E inoltre si offre loro la possibilità di competere per il prestigiosissimo titolo di Amico del Presidente, ma ci puoi dire qualcosa su di loro Alessia?

Guarda, non dovrei, ma vi posso dire che tutti e due hanno contratto il virus in un orribile paese straniero e poi l’hanno manifestato una volta rientrati nel nostro bellissimo paese alla fine del loro contratto di prestito temporaneo europeo.

Una storia molto triste di ingratitudine, avere la possibilità di tornare nel nostro grande Paese, dopo aver avuto l’onore di rappresentarlo in Europa gratuitamente e poi fare cose tanto orribili.

Infatti, ma stasera ci divertiremo molto con loro, sarà davvero una puntata elettrizzante. Ciao Barbara.

Vi seguiremo con grande interesse come sempre. Ciao Alessia!

Torniamo alle notizie del telegiornale: oggi il Ministro della Scienza Infusa ha inaugurato il nuovissimo parco divertimenti  Pompeiano, una meraviglia della tecnologia simbolo della rinascita di una terra deturpata dalla vergogna  dei resti romani, che il nostro governo è riuscito a risolvere definitivamente…. Ma che succede?

O mio Dio!

Amici e Amiche del Consumo, ci comunicano che i Mostri hanno circondato il nostro centro di produzione, ecco le immagini, vedete questi orribili esseri che si avvicinano agli ingressi, i miliziani aziendali li stanno già abbattendo e siamo in attesa dell’arrivo della Fanteria Tecnofederalista.

Sono centinaia e si avvicinano con il loro passo strascicato e antitelegenico, con orribili abiti dai colori non abbinati, ovviamente scarmigliati e ancor peggio è evidente che non abbiano fatto uso delle creme per la pelle imposte dal Ministero dello Star Bene… ricordate chi non contrasta il processo di invecchiamento (stanno lavorando per risolverlo) è antitelegenico e non rispetta le norme riportate nella tecnocostituzione: sei uno dei nostri eroici consumatori? Essere giovane e bello rende il tuo Paese giovane e bello.

Le ultime notizie dicono che alcuni sono penetrati nell’ala ovest, ma che sono stati fermati dagli eroici miliziani.

Il Ministro della Tranquillità sta seguendo in diretta la vicenda e presto sarà qui con le sue truppe, ora ci rilascerà una dichiarazione, colleghiamoci in diretta con il Ministero.

Il Ministero è stato invaso dai Mostri interrompete immediatamente!

Ci arrivano notizie di attacchi a tradimento in diversi punti del paese, ma la situazione è tenuta sotto controllo dalle truppe.

S’invitano i cittadini a rimanere nelle proprie case, a seguire lo svolgimento degli eventi, potranno compiere il loro dovere giornaliero di consumatori acquistando on line: il Ministero del Tecnopil – grazie ai suoi tecnici 24h – sta attivando linee di consumo connesse a tutte le case, ricordate sempre: “un Paese è bello e forte se ogni giorno rimpingui le tue scorte”

Stiamo facendo uno share mostruoso!

O Dio Pil eccoli!

Stanno entrando! Stanno entrando!

 

 





Una finestra sul mondo: la vita degli altri

Finalmente piove! Oggi 14 aprile la tanto attesa pioggia è arrivata.

Niente donne di Botero sulla spiaggia di Copacabana, incontri di kick-boxing, irriducibili runner che corrono come leoni in gabbia, patiti dello sport che non possono fare a meno di giocare a pallone, proprio così, e saltare la corda sulla mia testa! Manipoli di fumatori che all’improvviso si materializzano all’imbrunire, anziani che arrancano guardinghi insidiati da ragazzini in bici.

Oggi che il sole non c’è tutti a casa a lamentarsi sull’impossibilità di fare e di muoversi, solo qualche sporadica bandiera al vento.

Il virus ha fatto scoprire i terrazzi.

Luoghi abbandonati e semisconosciuti ai più sono stati improvvisamente rivalutati come spazi furtivi di socializzazione.

Dal mio settimo piano “fin dove l’occhio di un uomo poteva guardare”, avrebbe detto Guccini ne Il vecchio e il bambino, non ce n’è uno che non sia occupato da una qualche attività, eccetto quella di stendere i panni che, essendo tutti in casa e non avendo balconi abbastanza grandi, sarebbe l’unica che avrebbe diritto di essere praticata lassù.

Nelle case di una volta gli stenditoi e i lavatoi erano “spazi pertinenziali” obbligatori in ogni nuova costruzione, poi, nel tempo, alcuni di questi, con nuove normative ad hoc, sono stati trasformati in piccole abitazioni, altri sono rimasti ai condomìni per uso comune.

Ma quando mai sono stati così affollati come in questo momento!

Sempre deserti eccetto in estate quando sporadicamente il sabato qualche grigliata aggregava sempre lo stesso piccolo gruppetto di persone o per un uso modesto di spiaggia per poveri.

Ben nascosti ai controlli, il giorno di Pasqua pullulavano di vita con scambi di battute dai terrazzi confinanti “guarda che chiamo le guardie” e giù risate.

Ma che c… avete da ridere non lo so!

Quando si è in gabbia la trasgressione per un momento di libertà diventa vitale e forse è il momento più atteso della giornata, il momento clou. Andare a fare la spesa, portare a spasso il cane, tutte attività che normalmente erano noiose e schivate, se non schifate, da tutti i componenti della famiglia specialmente i giovani. Adesso invece valgono oro.

Se per caso, in tempi ante corona virus, provavi a chiedere ad un figlio di portare fuori il cane la risposta puntuale sarebbe stata: “a ma’ ma adesso non posso c’ho da fa’, vacce te” oppure “ce vado dopo, ma che c’hai fretta”, io no ma il cane sì. A Roma così avrebbero risposto. Adesso invece, come dicono alcuni comici, questi cani sono stressati dall’uscire in continuazione, essendo l’unica scusa plausibile. “Il telegrafo del crepuscolo” di Peggy e Pongo nella Carica di 101 ormai è a tutte le ore considerando la quantità di cani di tutte le taglie e razze che girano. Incredibile quante ce ne sono!

Solo la Protezione Civile opera senza fermarsi nel cortile in basso, loro sono autorizzati…anche a distanze più ravvicinate rispetto a quelle degli altri, senza molto rispetto delle norme salvo quando si riuniscono sparpagliandosi in circolo e noi, guardoni, alle finestre ad osservare i loro movimenti che scandiscono le ore della giornata. Il rumore delle serrande alzate al mattino, l’arrivo dei mezzi, le loro voci, le serrande che si riabbassano e quando tutto diventa silenzio sai che è pomeriggio inoltrato. Un’oretta e un’altra serranda si alza, la pizzeria che consegna a domicilio apre e nuovi suoni si aggiungono.

Non avrei mai pensato di vivere anche la vita di emeriti sconosciuti e di osservarla con una certa curiosità e nell’alzare lo sguardo notare di essere in buona compagnia.

Minuscoli balconcini, meno di 1,5 mq, sono strapopolati.

Bimbi che saltano, panni, cani, gente che prende il sole, telefona, legge, fuma e scruta come il capitano Achab l’orizzonte, non il mare infinito, ma i palazzi di fronte. Inimmaginabile che un posto così piccolo potesse servire, oltre che ad ospitare piante, a così tante attività.

I primi giorni alle 18,00 i concerti erano momenti densi di pathos, ho visto alle finestre e nei balconi molte persone, il quartiere echeggiava di suoni, ogni gruppo di palazzi si era organizzato con i suoi piccoli concerti, addirittura c’era un Dj che a richiesta eseguiva canzoni, chitarre, sassofoni, di tutto. Ma, almeno dalle mie parti, è durata poco, non più di 2/3 giorni, eccetto il Dj che è resistito qualche giorno di più.

Per fortuna? Non lo so ma non mi è mancato quel “rumore di socialità” mi ricordava il film Quinto potere nel quale a comando la gente rispondeva alle sollecitazioni del presentatore: “Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!”.

Oggi alle 18,00 concerto, domani alle 12,00 l’inno d’Italia e poi l’applauso ai medici e a chi si prodigava con il proprio lavoro per il nostro benessere…purché rimanessimo a casa.

A raga’ diamogli un taglio a tutto sto’ bordello e poi le canzoni che fate mi annoiano e tutti i giorni con la stessa sequenza, Azzurro, Nel blu dipinto di blu, Rino Gaetano…, uffa, belle ma basta.

Però lasciando vagare lo sguardo sui palazzi ad osservare bene non sapevo che ci fossero così tanti giovani.

Abituata ad uscire e rientrare secondo gli orari di lavoro, non mi ero accorta che, nel tempo, la composizione degli abitanti era cambiata, ma la scelta delle canzoni era comunque datata, come se i vecchi motivi fossero un trait d’union transgenerazionale.

Poi il silenzio, per fortuna, è ritornato ad incombere sulle nostre vite, lasciando spazio ad altri suoni forse poco cittadini.

È scemato il verso dei gabbiani e delle cornacchie, strano a dirsi ma questi volatili ormai appartengono alla vita di molte città, sarà perché c’è meno spazzatura in giro? Mi sono domandata chissà dove la portano adesso mentre prima pareva non ci fosse soluzione al problema, lo scopriremo sicuramente quando ritorneremo alla normalità.

Sono diventati prevalenti, con l’arrivo della primavera, il garrito delle rondini ed il fischio dei merli, quest’ultimo devo dire, musicalmente molto variegato.

La Natura, nonostante tutto, ha le sue regole inderogabili e va avanti lo stesso a dispetto di tutto. Le piante fioriscono, prima i fiori e poi le foglie o viceversa? Dipende, secondo il proprio ciclo vitale.

Ma, con l’avvicinarsi della sera, il silenzio diventa innaturale, tombale, abituati come siamo al rumore continuo di sottofondo, resta solo il fracasso o il suono dei nostri pensieri. Pensieri che si perdono o si fissano in un tempo sospeso, illimitato.

Tempo perduto, tempo bene impiegato, tempo ben organizzato, chi ha tempo non aspetti tempo, tempo che passa, tempo infinito…una condizione insolita, che ci obbliga a fare i conti con una nuova consapevolezza del tempo e dello spazio.

Spazi talvolta piccoli o anche no, ma come umani non più abituati a convivenze forzate tutto sembra rimpicciolito, anche i nostri pensieri rischiano di ridursi alla routine quotidiana, in un’affannosa ricerca di “cose da fare” che scandiscano la nostra giornata in cerca di occasioni da sfruttare per dare un senso a questo nuovo status di reclusi in cui la nostra generazione, vissuta in un nirvana di eterna giovinezza, si è trovata catapultata improvvisamente senza rendersene conto ed è costretta a confrontarsi con il nemico invisibile…e con se stessa.

 


Foto copertina  © Lucilla Brignola




SEID UMSCHLUNGEN, MILLIONEN! (ABBRACCIATEVI MOLTITUDINI!)

Forse nei momenti difficili, forse da sempre o forse solo negli ultimi mesi, aleggia tra noi europei un altro grande virus oltre al neo arrivato Covid-19: quello della diffidenza che, infima e sottile, lavorando da mediano, alimenta sempre più un clima di avversione nel nostro vecchio continente.

Per cercare di crearmi un’idea leggermente più strutturata della questione “Europa” sono voluto partire da lontano, analizzando il termine stesso. Nella mitologia “Europa”, figlia di Agenore e Telefessa, nipote di Poseidone e Libia, venne rapita da Zeus tramutatosi in toro; dalla loro unione una volta giunti a Creta nacquero Minosse, re di Creta, e Radamanto. Altresì, l’analisi etimologica della parola non ci dà troppi chiarimenti e lascia libera l’interpretazione. La tesi più accreditata è che si fondi sul termine ereb con il quale i Fenici usavano indicare tutti i paesi ad occidente della Siria; quella che dà, invece, il via a questa mia riflessione è un’altra. Riprendendo tra le mani il vecchio e marmoreo GI, il vocabolario di greco, un po’ malconcio – non tanto per il grande uso che ne feci quanto perché, ahimè, negli anni del liceo fungeva da rialzino per qualsiasi cosa non arrivasse all’altezza desiderata – ho avviato una ricerca sul significato dei termini che compongono la parola “Europa”. Questa risulta essere formata dall’unione di due vocaboli: eurus traducibile con l’aggettivo italiano “ampio” e ops, che sta per “voce”, “linguaggio”, o ancor meglio, e se vogliamo ancor più poetico, “sguardo”. Ecco qui, che unendo le due traduzioni “Europa” assume il significato di “ampio sguardo”.

Da qui nasce questo breve saggio, che ha la velleità di puntare il faro sui valori propri racchiusi nel significato di “Europa”, allontanandosi invece dall’interesse politico ed economico che la potenza europea rappresenta.

Già, quindi, nella parola “Europa” è contenuto il significato più nobile, quel significato che i suoi Fondatori avevano in mente, forse dimenticato e che varrebbe la pena di riscoprire e riavvalorare. “Europa” come “ampio sguardo”, che fonda le sue radici non sul suo valore economico e politico, ma su un valore di tipo culturale, mettendo in primo piano una visione “sacra” e  “divinizzata” di essere umano e di intelletto, basata sui valori delle antiche società elleniche.

Franz Josef Muller, membro della Rosa Bianca, movimento cristiano di resistenza tedesca al nazismo, in un intervento tenuto a Belluno il 5 febbraio 1996 dice:

Vorrei dire, rapportandomi alla realtà attuale, che se si persegue soltanto un’Europa dell’economia, dell’efficienza economica, questa non è l’Europa che noi della resistenza, e altri ancora, volevamo. Se l’Europa non farà riferimento alla sua cultura, alla sua storia spirituale non sarà un’Europa in grado di lasciare un’eredità buona e utile per gli uomini.”

È forse un caso che l’inno dell’Unione Europea, il tanto noto Inno alla Gioia composto da Ludvig van Beethoven sul testo dell’Ode alla Gioia di Friedrich Schiller, sia inserito in uno dei più grandi capolavori della storia della musica? Ci si può forse interrogare anche sull’assonanza simbolica di questa scelta dato che la IX sinfonia di Beethoven, dal quale ultimo movimento è tratto il nostro inno, è considerata come uno degli elementi più innovatori e rivoluzionari nell’evoluzione della composizione musicale?

Mi sento di dire che probabilmente sì, l’idea d’Europa come “ampio sguardo”, rassicurante e futurista, tutt’oggi, è rivoluzionaria.

Una grande oasi sognata da grandi uomini, molti dei quali italiani come Nilde Iotti e Alcide De Gasperi, fondata su un sentimento di pace ed unione. Un grande “continente contenitore” di etnie, usi e costumi, che miscela Oriente e Occidente avvicinando climi e paesaggi, sapori e sguardi, melodie e ritmi. Potremmo allargare la visuale citando Gandhi in una delle sue frasi passata alla storia: “L’umanità intera appartiene a un’unica grande famiglia”; ma il discorso si perderebbe in meandri dell’anima che solo il cuore, e non di certo la mia penna, potrebbe interpretare.

Lungi dall’intento di queste poche righe alludere al fatto che non debbano esistere confini geografico-politici, sarebbe troppo utopico e forse banale. Le differenze, insite tra i tanti popoli del continente europeo – tra qualsiasi nazione o anche tra qualsiasi uomo –, formano il nostro patrimonio e rappresentano la nostra forza. Magari nel futuro non esisterà più questo grande paese chiamato Europa e ritorneremo a una politica, nel senso alto del termine, che conta piccoli stati (si fa per dire) ognuno facente capo solo ed esclusivamente a sé stesso.

Quello che è certo, è che i confini e ancor più le barriere non devono esistere tra gli esseri umani. Le tensioni e gli odi politici hanno già troppe volte plasmato noi, uomini liberi, provocando ferite umane e sociali che la storia ancora ci rammenta. La politica e i governanti cambiano, noi, il popolo nella sua entità fisica e metafisica, no.

Sophie Scholl, insieme a suo fratello Hans, fu anch’ella membro della Rosa Bianca. Come tanti altri militanti frequentarono il ginnasio classico della città di Ulm, nella Germania meridionale.

Quella scuola non aderì mai alle idee del nazional-socialismo. Lì i giovani, tramite lo studio dell’arte, della letteratura e della filosofia (soprattutto con l’analisi dei testi dei filosofi greci come Socrate e Platone) ebbero subito modo di interpretare malato il sistema “umanamente imperialistico” alla base   dell’ideologia nazista – e tutto sommato anche del prodotto contemporaneo ed amico made in Italy. È proprio su queste idee che si formavano le coscienze di tanti “partigiani” tedeschi che vedevano nella cooperazione dei popoli europei e nella formazione di una grande coscienza europea il futuro dell’intero continente.  Sophie, prima di essere ghigliottinata, fu torturata per quattro giorni consecutivi, dal 18 al 21 febbraio del 1943. Prima di morire un agente della Gestapo le domandò: “Signorina Scholl, non si rammarica, non trova spaventoso e non si sente colpevole di aver diffuso questi scritti e aiutato la Resistenza, mentre i nostri soldati combattevano a Stalingrado? Non prova dispiacere per questo?”. Lei rispose: “No, al contrario! Credo di aver fatto la miglior cosa per il mio popolo e per tutti gli uomini. Non mi pento di nulla e mi assumo la pena!”.  Aveva appena 22 anni.


Seid umschlungen, Millionen!
Diesen Kuß der ganzen Welt!
Brüder, über’m Sternenzelt
Muß ein lieber Vater wohnen.

Abbracciatevi, moltitudini!
Questo bacio vada al mondo intero!
Fratelli, sopra il cielo stellate deve abitare un padre affettuoso.




IL RUOLO DELL’ARCHITETTURA [Post Covid-19]

Da tempo il ruolo dell’architettura si è andato man mano
restringendo verso direzioni considerate poco credibili se non, addirittura,
superflue. Schiacciata dalla continua pressione economica, la categoria
professionale degli architetti sta soffrendo un depauperamento del proprio
ruolo in un contesto così ampio che va dal design di interni alla progettazione
urbana a grande scala.

Perché sia accaduto questo non è chiaro. Si potrebbe pensare
alla continua e silenziosa perdita di idee in chiave progettuale o anche
all’estrema velocità del tempo di trasmissione dei dati che fa sì che un
prodotto diventi obsoleto dopo soli due anni e che si vadano sempre ricercando
isolati fenomeni spettacolari a discapito di un’architettura intesa come
organizzazione umana, come capacità di fruizione da parte del cittadino, come
dialogo, come supporto alle condizioni di vita e di lavoro dei singoli.

Il tema dell’ultima Biennale di Architettura 2018 è stato Freespace e, dalla visita dei Padiglioni, è emerso chiaramente che la tendenza dell’architettura oggi sia quella di concentrare l’attenzione sulla qualità dello spazio generato da opere costruite o non costruite, materiali o immateriali, tutte, comunque, rivolte a riconsiderare l’Oggetto costruito non più come una scatola chiusa bensì come uno sfondo che regola ed agisce sulla dimensione urbana in cui si inserisce. Basti pensare a City Life a Milano in cui gli “Oggetti” vanno al di là del progetto stesso che li ha generati e fanno da sfondo alla partecipazione attiva della comunità promuovendo l’incontro e definendo la forma del luogo in cui sono inseriti. Penso alle parole dell’architetto Gio Ponti che, nel suo libro Amate l’Architettura, parla dei grattacieli di Mies van der Rohe a Chicaco (che lui chiama “blocchi”) come dei “meravigliosi cristalli ad elementi ripetuti che possono essere sublime ingegneria. L’architettura è nella loro composizione che determina una figura finita, immodificabile”

Sembra fuori contesto in questo momento storico parlare di Freespace, di luoghi di incontro, di invito alla socializzazione, di immodificabilità della forma, di promozione dell’interconnessione tra le persone. In una certa misura lo è, e lo è in quella in cui forse è arrivato il momento di capire che noi professionisti dobbiamo rientrare nell’Oggetto e dobbiamo rioccuparci dell’Architettura con un approccio che “aderisca alla legge del mutamento e privilegi gli spazi interni” come ci insegna Bruno Zevi, dove un approccio inorganico e classicista che parte da schemi e volumetrie prefissate, lasci il posto a una visione dell’Architettura che “rispettando e potenziando l’individuo, stimoli il pluralismo”.

Perché, se da una parte è insindacabile che l’architettura
si occupi di dare forma ai luoghi in cui viviamo, è altrettanto certo che sia
essa stessa uno strumento sociale, un mezzo che si interpone tra l’agire privato e le relative conseguenze pubbliche e lo fa a cominciare dall’Oggetto
stesso che, per primo, deve rispondere alle necessità del singolo e della
collettività.  

RITROVARE IL PROPRIO RUOLO

Gli architetti, ma non solo, tutti i professionisti che hanno a che fare con la progettazione sono chiamati in questo momento storico di emergenza pandemica a ritrovare il proprio ruolo e a riflettere su quello che sta accadendo. Se c’è un aspetto fondamentale, in questa situazione di emergenza e di isolamento in cui il mondo intero versa in questi mesi, è quello di saper cogliere quanto ci si debba mettere in discussione e quanto si possa fare per dare al progetto la capacità di affrontare in maniera seria i problemi logistici a cui ci siamo trovati di fronte. In questo senso il ruolo dell’architettura ha modo di riacquistare il valore che ha sempre avuto e cioè quello di delineare e regolare il complesso rapporto tra l’idea e l’etica, tra la bellezza e la funzionalità, tra la forma e lo spazio, tra la struttura e la funzione. Leggo molti articoli riguardanti il lavoro dell’architetto ai tempi della quarantena ma, al di là di tutto, ricordiamoci che siamo inseriti in un mondo in cui la digitalizzazione ha mosso i suoi passi ormai più di venti anni fa e nel quale ci siamo piegati prima, e adattati dopo, nello sfruttamento massimo dei sistemi di aggiornamento. Io direi di cominciare a parlare di quello che sarà il lavoro dell’architetto post Covid-19, di quanto cambieranno le abitudini delle persone e di quanto sarà necessario leggere, in prospettiva, le odierne attuazioni che non solo tarderanno a scomparire, ma regoleranno le future interconnessioni sociali.  

Quello di cui parlo è ripensare alle diverse forma di
socialità e di controllo della stessa, al rapporto che cambierà tra il pubblico
e il privato, alla scoperta, ri-scoperta e ri-adattabilità degli spazi. Le
dinamiche degli spazi comuni
cambiano quando il contatto tra le persone è negato e la realtà a cui siamo
sottoposti richiederà un ripensamento della rigenerazione dei luoghi sia sotto
il profilo urbano sia sotto quello di fruizione dell’Oggetto. Partendo dalla
condizione di isolamento, la prima casa,
il luogo che per molti di noi ha avuto un ruolo di appoggio quasi fugace dopo
intere giornate passate fuori al lavoro, in linea con questi anni di
accelerazione ed estrema mobilità, assumerà una nuova attenzione in termini di
vivibilità degli spazi che per molti diventeranno multiuso grazie allo sviluppo
dello smart working. I servizi
scolastici necessiteranno di nuovi investimenti per le infrastrutture digitali in modo da rendere possibile un adattamento
in accessibilità. Molte delle strutture monofunzionali dovranno essere
ripensate e riutilizzate in vista di un approccio alla funzione che sia mutevole e mutante. Le strutture ristorative, quali bar, ristoranti e tutte quelle di
aggregazione sociale, lì dove la “shut-in-economy” (ossia l’economia al chiuso)
non sarà sufficiente a garantire un volume di affari proporzionato ai costi di
gestione del locale e del personale, vedranno una riprogettazione dello spazio
pubblico pensato per un numero limitato di persone   e saranno regolate da norme
igienico-sanitarie più restrittive che dovranno tenere conto di zone filtro tra
quelle di servizio e quelle dei clienti. Il fermo della mobilità ci ha posto di fronte alla riappropriazione da parte della
natura di luoghi che le erano stati negati dall’uomo; di contro, sta
dimostrando che non è influente sul tasso
di inquinamento
che ancora si sta registrando nelle principali città, come
Roma e Milano, e che a fare la differenza sono le temperature ancora basse che
richiedono l’utilizzo degli impianti di riscaldamento. Non solo, consideriamo
che gli stessi edifici rappresentano
un potenziale elevatissimo nel raggiungimento degli obiettivi di contrasto al
cambiamento climatico, è bene che una volta per tutte sia chiaro che
l’architettura ha una grande responsabilità in merito e che è arrivato il
momento che gli investimenti siano rivolti all’utilizzo di materiali e
tecnologie adeguate al raggiungimento dell’abbattimento delle emissioni di CO2
.

L’architettura dovrà far fronte a tutte queste necessità,
dovrà rivedere le priorità e ripensare alle soluzioni.

IL TEMA DELLA CITTÀ. UNA NUOVA GESTIONE DEI PROGETTI TERRITORIALI

Se da una parte è vero che viviamo in ambienti più ricchi di
“dati aperti”, i cosiddetti data urban,
frutto di una tendenza all’urbanizzazione sempre più diffusa nel mondo,
soprattutto nei paesi in via di sviluppo, come l’Africa e l’Asia, è altrettanto
vero che “la città che dopo mezzo secolo
di accuse e critiche era stata rivalutata come luogo primario della nostra
evoluzione, sembra non essere più il contenitore adatto per la gestione
strategica di progetti territoriali complessi
” – dice Giacomo Biraghi,
esperto internazionale di strategie urbane. La città andrà ripensata non solo
sulla base delle visualizzazioni interattive, che rivelano come le metropoli si
comportano e come le persone interagiscono con l’ambiente urbano in cui vivono,
o del concetto di “Smart City”, incentrato sull’efficienza e le prestazioni
ottimali legate ad essa, perché le azioni umane non sempre sono quantificabili
e prevedibili; senza alcuna demonizzazione in merito, ritengo che nessuna
tecnologia intelligente sia in grado di valutare gli effetti sociali della
cultura e della politica, né valutare l’importanza dell’impegno civico ed etico
delle persone, tantomeno in questo momento, in cui l’effetto sociale della
pandemia cambierà in maniera importante il modo del vivere comune. Quello che
si dovrà progettare nel potenziamento, invece, sono le aree esterne alle città,
di cui molte, ad oggi, non dispongono neanche di una connessione Wi-Fi stabile.

La gestione dei progetti territoriali dovrà interessare soprattutto la mobilità, il monitoraggio e il ripristino di tutte le infrastrutture a supporto della stessa, magari studiata per appoggiarsi maggiormente alle fonti rinnovabili”- dice Stefano Boeri.
Le statistiche degli ultimi giorni dicono che nell’immediato post coronavirus, quando la quarantena sarà finita, non ci sarà una repentina ripresa delle attività legate al tempo libero e, dal punto di vista economico, questo sarà un problema per le imprese. Solo il 3% degli intervistati ritiene plausibile l’idea di viaggiare all’Estero a breve termine, se non costretti dal lavoro, e questo in prospettiva potrà essere letto come una possibilità di potenziamento della rete di collegamento tra le varie Regioni d’Italia, delle loro strutture ricettive, degli interventi integrati per la crescita e l’interconnessione tra esse. Dedichiamoci a ricostruire i territori, ripartiamo da lì.

LA PROGETTAZIONE DEGLI EDIFICI

Gli edifici sono responsabili del 36% di tutte le emissioni, del 40% di energia, del 50% di estrazione di materie prime nelle Ue, del 21% del consumo di acqua”, dichiara la GBC Green Building Council Italia nel cui Manifesto pone in evidenza il peso che il settore delle costruzioni ha nelle emissioni di CO2 . Dal momento che l’Europa è impegnata concretamente a rendere l’impatto ambientale pari a zero, è bene che il New Green Deal, il nuovo patto verde, sia il punto di partenza per fare in modo che gli obiettivi energetico-ambientali si integrino con quelli economici-sociali. In Italia abbiamo bisogno di monitorare le prestazioni degli edifici e di adottare un protocollo energetico ambientale che detti delle regole e che sia assolutamente alla base delle nuove progettazioni e del riutilizzo delle esistenti. L’architettura ha bisogno di potenziare la cultura dell’efficienza, della sostenibilità, della gestione circolare dei materiali, dei componenti, del cambiamento e delle trasformazioni climatiche.
L’architettura ha un ruolo sociale e sociologico e quando l’architettura crea l’Oggetto, disegna il luogo, dà un contributo all’ambiente e fa contemporaneamente qualcosa per le persone, allora l’architettura ha trovato la propria essenza, l’espressione evoluta per cui è nata, il proprio ruolo.

Racconta
David Chipperfield, nuovo Guest Editor di Domus per l’anno
2020, dopo aver incontrato Renzo Piano nel suo studio a Parigi: “L’interesse per le prestazioni, la
tecnologia e la costruzione non è fine a se stesso. Piano ha sempre considerato
il ruolo sociale dell’architettura come sua ragione d’essere
”.

Fare architettura significa costruire
edifici che respirano, che non consumano troppa energia, anzi, che vivono in
simbiosi con l’ambiente. Siamo di fronte ad una nuova frontiera espressiva del
progetto. Fatta di leggerezza, trasparenza e sensibilità
” – dice lo stesso Renzo
Piano in un’intervista al Corriere della Sera.

RIENTRARE NELL’OGGETTO

Tanti sono gli edifici di cui si potrebbe parlare, ma visto il momento che stiamo vivendo, parto dal tema della sanità e nello specifico dal tema degli ospedali. In questi giorni sono state tante le persone a cui ho sentito dire che il problema più grande dell’emergenza sanitaria è costituita dagli enormi tagli alla sanità che il Governo ha fatto negli ultimi venti anni. È innegabile che sia così ma non credo che sia questo il problema del collasso delle strutture sanitarie. Nessuno poteva prevedere una pandemia del genere e nessun Paese sarà in grado di gestire dei numeri così alti con le sole forze che hanno regolato, fino ad oggi, le dinamiche quotidiane in fase di “normalità”. Quello che può cambiare, invece, in assenza di un numero elevato di terapie intensive, è la riorganizzazione interna dello spazio ospedaliero in cui le sale possano assurgere a diversi tipi di trattamento in base alle necessità.

Converto in idee progettuali un’interessante intervista che Mario Cucinella ha rilasciato al Sole 24ore: gli spazi delle sale operatorie devono rispondere al cambiamento di utilizzo così da essere agevolmente spostate, così come gli spazi delle sale delle degenze, in modo da potersi adattare facilmente alla necessità del cambiamento delle cure in fase di emergenza; la flessibilità nella riconversione dei reparti è fondamentale per la gestione da parte del personale sanitario e di conseguenza per la gestione ottimale del paziente; quando un Pronto Soccorso si sviluppa tutto su un piano, al piano terra, chi entra è accolto in base alla gravità della situazione e trova subito cura perché l’intero piano è dotato delle svariate specialità di emergenza, si rende il lavoro di gestione più fluido e si fa un dono del “tempo” al paziente, che a volte si traduce in secondi e non in minuti o ore; le entrate e le uscite devono avere percorsi separati in modo da non far entrare in contatto le persone malate con quelle sane, questo riduce di gran lunga le possibilità di contagio.

Questi sono solo alcuni degli aspetti che un progettista deve prendere in considerazione e forse rientrano anche in quelli più banali ma quello a cui voglio arrivare è che, ancora una volta, ci troviamo di fronte al concetto che quando l’architettura crea l’Oggetto o ne ridisegna il contenuto agendo  contemporaneamente anche sulla fruizione da parte delle persone, allora l’architettura ha trovato la propria essenza, l’espressione evoluta per cui è nata, il proprio ruolo.

Una buona progettazione può favorire la gestione delle grandi emergenze? La risposta è sì.
La flessibilità è una questione morale, non un solo un fatto tecnico”. R.P.


In Copertina Visiera protettiva ©Aaron Hargreaves / Foster + Partners
Anche il mondo dell’architettura e del design si mobilita per fronteggiare la pandemia da coronavirus.
Numerosi studi di progettazione si sono infatti improvvisamente trasformati in centri di produzione per la realizzazione di visiere protettive e mascherine dimostrando che l’arma vincente in questa situazione di emergenza che non vede confini geografici, è il potere della collaborazione e della condivisione per cui talvolta il sapere e la tecnica di un singolo diventano strumento di ulteriore approfondimento per molti. È il caso di due big dell’architettura come lo studio BIG di Bjarke Ingelse lo studio Foster+Partners fondato da Sir. Norman Foster, che hanno studiato dei prototipi di visiere protettive per poi decidere di divulgare schemi e modelli sul web per chiunque, da ogni parte del mondo, avesse mezzi o creatività per reiterarli partecipando a questa grande realizzazione collettiva

Fonte: Archiportale articolo del 10/04/2020


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright. Copertina: ©Aaron Hargreaves / Foster + Partners




Profili dalla quarantena – Giovanni

Giovanni è un operaio, uno di quelli fortunati però, lavora in un luogo dove gli operai sono ben pagati e tutelati.
 
Giovanni è un bell’uomo di origine messinese, un siciliano biondo con gli occhi grigi; uno di quelli che mi piacciono tanto, direi un bell’ombroso, nella sua vita ha molto amato, tre donne e sei figli.
 
Giovanni lavora in una stamperia, pochi contatti con l’esterno per il lavoro in sé, ma poi ognuno, terminato di lavorare torna alla sua vita, e la rete relazionale si estende creando ragnatele impensabili.
 
Del resto quante volte ci è capitato di stupirci perché coso conosceva cosa che tu conosci dai tempi dell’università, da questo punto di vista il mondo è una sputazzata diceva mia nonna, anche se adesso immaginare una sputazzata ci riporta subito a goccioline, saliva, inspiro virus, oddio il male invisibile!
 
20 giorni fa uno dei colleghi di Giovanni risulta malato ovvero positivo al covid19, ricoverato; è relativamente giovane, come Giovanni e come me è in quell’età limbo dove ancora ricordi bene l’energia degli anni precedenti e hai la netta percezione che il tempo passa con o senza di te, di alzarti ti riesce uguale, ma ogni volta ci vuole un cincinino di più; la testa però va a mille, forse a consolarti del fatto che nuove risorse arrivano e altre ti abbandonano.
 
Giovanni è solo, vive alla porta accanto, fuma sigarette infinite sul terrazzo, ha un’aria triste, non chiedo, capisco che è meglio lasciare stare; siamo vicini, ma tra i vicini non c’è più il contatto di prima spesso sono estranei, adesso più che altro dei vicini ci si lamenta, come se vivere in un condominio non richiedesse pazienza reciproca e comprensione, (questo mi riporta a un’altra storia, la storia di una che si diceva tanto amante degli essere umani purché non vivessero nel suo palazzo) poi una mattina mentre stracuravo le mie piante sbotta in uno sfogo come se ci conoscessimo da sempre: “Sono a casa da 11 giorni, adesso sono in preda a un’angoscia che non capisco, non mi manca nulla, Glovo ha risolto per me… – poi si adombra – no non è vero che non mi manca nulla, mi mancano i miei bambini e adesso ho anche paura di averli infettati, io in quarantena, la mamma in quarantena e loro che non capiscono cosa succede. Il più grande – otto anni – ha tanti problemi relazionali e ogni giorno aveva psicomotricità; adesso ci vediamo in video e non capisce perché non ci vado, la sua routine si è interrotta è molto agitato, stringe forte forte il fratello piccolo al punto da fargli male. Non ho più neanche voglia di annaffiare le piante… guarda che schifo!”
Gli sorrido: “Se vuoi alle tue piante ci penso io”
Giovanni sorride: “Ancora poco e finisce questa quarantena, non mi hanno fatto il test, dici che sarà sicuro andare a trovarli, ovviamente dopo la quarantena di Isabella? Che avendomi incontrato è in quarantena anche lei.”
 
E adesso cosa rispondo? “Giovanni cosa sia sicuro io non l’ho mai saputo prima, adesso men che meno, ma tu stai bene, non hai sintomi, ‘mbè credi a questo, non c’è molto altro da fare.”
 
Questo virus non sta solo mangiando avidamente i polmoni delle persone, sta mangiando gli affetti, ma ci sta anche riavvicinando, ci porta a raccontarci di nuovo con meno diffidenza; perché sì avremo anche tutti paura, ma questa paura ci sta unendo, ci fa sentire – paradossalmente tutti uguali – e anche se a volte i nostri nervi saltano e ci danno fastidio i comportamenti altrui, le relazioni vivono di una nuova confidenza, una confidenza che serve a scaldare il cuore.
 
Oggi Giovanni esce, Isabella anche ha concluso la quarantena, sono una coppia separata, ma finchè c’è questa situazione hanno deciso di vivere assieme, dicono per i bambini, ma penso che invece sia perché c’è bisogno di stare vicini, anche per i bambini; forse potrebbe rinascere la loro storia adesso, su nuove basi, sulla consapevolezza che questa separazione fisica ha fatto “male” a tutti.
 
Forse no, ma mi piace tanto pensarlo.
Buon.

Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright. Copertina: Renato Guttuso, Balcone a Velate, al tramonto, 1967. Olio su tela cm. 190×270 (due elementi di cm. 190×135 ognuno) 




Metamorfosi di una quarantena

Se per una volta le si presta fede, una speranza dura per lungo tempo
Spes tenet in tempus, semel est si credita, longum
Ovidio

Roma. Quarantena A.D. MMXX

Inizio questo scritto raccontando delle mie sensazioni, muovendomi in una città in sospensione, in un paese in sospensione. Così come mentre batto le dita su uno schermo, nella mia abitazione spira un vento da nord, che prende a schiaffi il lato più esposto, scivola attraverso i mattoni vivi del perimetro, muove le foglie di edera sul balcone completamente soleggiato e rientra dalla finestra a sud, facendo ondeggiare le tende. In un silenzio di periferia semi rurale…
Uso spesso i puntini di sospensione, a me tanto cari, perché mi danno l’impressione delle sfumature dei pensieri, come se fossero degli haiku collegati tra loro, senza metrica, ma solo per materializzare i grigi che stanno tra il primo pensiero al risveglio e l’ultimo prima di addormentarmi. Insieme a quelli notturni, che a volte schizzano fuori dai miei sonni spesso disturbati da paralisi ipnagogica, dove il peso dell’Uomo Nero si posa sulle mie spalle…

Reduce da un lutto, con cui ho iniziato a fare i conti molto prima che questo avvenisse, una calma apparente maschera ciò che l’inconscio accumula, elabora e manifesta. Tutto questo è parte di un avvenimento traumatico mondiale, che sembra come se il mal comune possa alleviare l’impegno, lo stress e la capacità di reagire, con una elaborazione ed analisi costante, che porta all’accettazione dello status quo di giorno in  giorno. Tra morti, bollettini della Protezione Civile e stupide polemiche politiche di idioti dallo scranno parassitario.

Le mie esperienze di “istituzionalizzazione forzata” quali scuola, caserma, carcere, struttura psichiatrica e presente ambiente lavorativo, mi hanno dato l’opportunità di riprendere e sviluppare l’origine del personale carattere che contraddistingue una certa propensione alla solitudine. Ricercando continuamente quell’auto-mutuo-aiuto che proviene da un percorso di pulizia dell’Anima, anche con la condivisione di spiritualità legata soprattutto alla connessione con il pianeta, che ospita il mio passaggio su di esso…

Cosa mi manca…

Prima di tutto mi manca il mio Paese. Che non è la totalità della sua “gens”, per usare un termine latino o più propriamente popolo, che racchiude tutte le diversità, che sono ricchezza, o motivo di separazione, e che sono particolare occasione di conoscere, incontrare e stabilire una connessione. Temporanea, stabile, effimera, distanziata, stabile o a termine.
Questo accade, quando nel proprio paese di nascita, si viaggia attraverso di esso, mossi dalla curiosità di un bambino che si perde con la fantasia in ogni angolo. Apprezzando le sensazioni, adoperandosi ad amplificare non solo ciò che è tattile, visivo, olfattivo, uditivo o gustativo, ma nell’insieme accendere quello stato mentale che porta ad una “cura catartica”.

I vecchi non  dormono

Questo si dice di chi raggiunge un età avanzata, come se fosse un luogo comune da citare insieme a tanti altri.
I vecchi dormono eccome. Questo l’ho sempre pensato da quando osservavo mio Padre che spesso si adagiava. Sembra come se si abituino già alla Morte, quando il loro sonno diventa anche diurno, o come se volessero spegnersi anche per un dosaggio di “nulla” della Mente.
Questa ultima settimana mi sono recato al lavoro, necessità di spostarmi in un clima di quarantena consigliata, attenendomi a tutti i dettami declamati per la prevenzione. Azioni che dovrebbero essere la normalità di un popolo responsabile, che per molte delle sue azioni , decantando scenari dittatoriali e uomini unici dal pensiero unico, oltre a non avere un minimo senso civico, mettono in pericolo quella che è la collettività.

Mi vengono alla mente i  comportamenti che tengono i cittadini cresciuti nelle socialdemocrazie, spesso tacciati di tendenze suicide o eccessiva freddezza nei rapporti sociali. La prossemica varia da paese a paese, ed usi e costumi, anche nel nostro Bel Paese, sono differenti.

Un virus

La parificazione delle vite passa dall’eliminazione delle sovrastrutture, spesso involucro presentabile secondo i canoni di un modello ipercapitalistico. Per dirla alla Fromm (Erich) l’Homo Consumens ha dato e sta dando la massima spallata a questo pianeta. E questo reagisce con una difesa biologica, forse, anche diffondendo un virus, emanazione di un decadimento sociale e purtroppo naturale, che l’antropizzazione ha accelerato. A suo danno.

Da sempre sono esistiti individui convinti che per essere felici sarebbe bastato raggiungere il piacere, il potere, la fama e la ricchezza, e che l’unica cosa da imparare non fosse tanto l’arte di vivere quanto il modo per ottenere abbastanza successo da acquisire i mezzi per vivere bene. Eppure, se anche esistevano individui e gruppi che praticavano il principio di un edonismo radicale, tutte le culture avevano maestri di vita e maestri di pensiero. Questi proclamavano che vivere bene è un’arte che va imparata, che imparare quest’arte richiede fatica, dedizione, comprensione e pazienza, e tuttavia costituisce la cosa più importante da apprendere.
Una delle ragioni che spiegano questo sviluppo va ascritta al fatto che viviamo in una società dominata dalle macchine, nella quale il lavoro artigianale è stato sostituito da quello meccanico o informatico. Un tempo produrre una scarpa o un tavolo era un compito arduo, per imparare il quale occorrevano anni. Oggi chi produce scarpe o tavoli utilizzando delle macchine non compie più un’operazione complessa né ha bisogno di anni di apprendistato. Sempre meno professioni specializzate richiedono una formazione paragonabile a quella di un muratore.

Lo stesso sviluppo, la possibilità cioè di fare le cose con facilità, si può osservare nel settore dei consumi. Cucinare, guidare un’auto, usare un computer o telefono…ebbene quasi tutte le attività legate al consumo non richiedono più capacità, né sforzo o concentrazione: basta seguire le semplici istruzioni per l’uso. Perché sobbarcarsi la fatica di imparare quest’arte, quando invece ogni cosa può essere sbrigata facilmente, quando ogni bambino, schiacciando il pulsante di un televisore, può produrre per incantesimo un intero mondo?

Eppure, vivere non è facile…

L’uomo è dotato solo di alcune pulsioni istintive, che non può fare a meno di soddisfare per la sopravvivenza tanto del singolo quanto della specie. Sotto tale profilo non siamo diversi dagli animali. Ma, a differenza di questi, non possediamo un corredo istintivo innato che di volta in volta ci indichi come organizzare la nostra vita e che contenga un progetto per l’arte di vivere. Se noi uomini, nelle nostre azioni, fossimo determinati da queste necessità biologiche, agiremmo allora “razionalmente” e – per fare solo un esempio – non ci uccideremmo a vicenda per questioni di onore, di fama o di ricchezza, ma saremmo solidali tra noi con l’obiettivo della sopravvivenza. Se il nostro agire fosse determinato solo dalla ragione, non sorgerebbero problemi…

In confronto all’animale, l’uomo viene al mondo prematuramente e completa la propria nascita fisiologica solo molti mesi dopo la nascita vera e propria. Ciò vale per l’aspetto psichico più ancora che per quello fisico. Sotto il profilo psichico all’uomo occorre tutta la vita per portare a pieno compimento la propria nascita. Nel corso di questo processo può anche accadergli di perdersi; in ogni momento del suo sviluppo può cessare di crescere per finire con l’approdare, come un menomato psichico, nella “distruttività”, nella depressione, nell’incapacità di amare e nell’isolamento.

L’uomo è soggetto alla legge di ogni vita fisica e psichica: vivere significa crescere ed essere attivi; se la crescita si interrompe, subentrano il decadimento e la morte. Non è difficile riconoscere la morte fisiologica, mentre la morte psicologica è figlia del decadimento.

A.D. MMXVI. Qualche tempo fa….

Mutevolezza. Attraverso il mio paese. Le mie mancanze passano per delle strade, quelle dove il silenzio è la sola presenza, rotta dalla mia presenza.

Due alberi. Piccoli. Su un crinale.
La strada é quella che porta a Macereto.
Ci sono quei luoghi, che io chiamo “emozionali” dove ognuno trova il suo essere animale, primordiale.
Quando.
Il silenzio della mattina poco dopo l’alba è inteso nell’insieme delle luci, dei profumi del vento che entra dalle cuciture del giubbotto.

Le curve che scendono da Fiastra verso Sarnano.
Si snodano su 25 km e sette tornanti che rapidamente poggiano la quota di altitudine.
In tempi diversi, la terra ha tremato. Forte.

Nello scorrere del tempo su queste strade, la faglia sismica si è spostata, da sud verso nord. Come a dividere la terra e i suoi due mari Adriatico e Tirreno.
Poi, in solitudine, lontano dalla diffusione mediatica, solo così si può sentire come la Terra nella sua Vita, in un piccolo tremore, nella sua scala di intensità di movimento, cerca di comunicare con chi vi poggia i piedi sopra.
Le case, in cui l’Umano vive, poggiano come i suoi piedi, ma se queste hanno fragili radici, inevitabilmente crollano.
Così come le certezze, che solo dalle sovrastrutture, inutili, fanno di un tetto, un luogo non sicuro. Non collegato alla vera struttura, dell’insieme.
Solitamente, i viaggi, hanno bisogno di una preparazione, in base al luogo dove c’è intenzione di recarsi. Un carico di responsabilità spirituale, misto a razionalità organizzativa. Fosse anche spostarsi con l’autobus.
Ma quei due piccoli alberi….li ho immaginati quando la “botta grossa” li ha strapazzati.
Così come ero sdraiato nella mia tenda, solo, con la motocicletta accanto.
Il tintinnìo delle pentole e gli argini del lago di Fiastra che si sono riversati nell’acqua.
Un giorno dei tanti. Quelli vissuti attraverso. Come il Sacro volto di Manoppello.
Un altro evento di trauma.

Argini

I limiti sono volubili, spesso determinati da quei numeri che vanno a costruire i grafici che ogni sera vengono esposti nei telegiornali. Un terremoto, una popolazione, i decessi, i guariti…
E l’Anima che a stenti guarisce, sempre toccata da quei bollettini di guerra. Troppo spesso paragonati ad un conflitto dove il nemico lo puoi vedere in faccia, ma che le nostre facce vengono eguagliate da una mascherina. Dove il virus rende tutti uguali. Un dittatore molto democratico…

Quello che non c’è è ciò che mi manca di più. Senza darlo per scontato. Prendere la metro, camminare dritto sul pavimento della stazione, tra il desiderio mattutino di evadere nei silenzi, di quegli angoli del mio paese. Tra i colori e le sue tradizioni. L’essenza.

Niente sarà più come prima? Questo non lo sa nessuno. Almeno io ogni giorno non sono mai lo stesso.

E rimarrà Storia del secolo XXI…

(R)

Sopporta e persevera; cose molto più gravi sopportasti.
Perfer et obdura: multo graviora tulisti.
Ovidio


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Tacciano le madri, ascoltiamo le figlie

Questa recensione esce in simultanea su La Bottega del Barbieri «perchè – spiega Barbara – con le amiche e gli amici di Diatomea e della Bottega del Barbieri siamo per la condivisione e il fare rete, e allora anche le riflessioni su libri, femminismi e cultura possono essere pubblicate in entrambi i luoghi senza aver bisogno di copyright».

Cominciare dalla fine, senza svelare la trama, per andare a leggere “la loro storia”: cinque donne, qualche uomo, un’isola su cui si ritrovano tutte, una voce narrante che infine recita “lei sa di cosa ho bisogno. Sa che per esistere, per avere la giusta consapevolezza di te, devi possedere una storia che ti precede (e che ti continua, ha detto una volta), perciò non ho mai dovuta pregarla. È stata lei a spiegarmi da dove vengo e perché e a raccontarmi della repubblica delle madri”.

È qui, nella storia che ognuna di noi ricostruisce, che risiede, almeno così mi è parso, il senso profondo dell’ultimo romanzo di Maria Rosa Cutrufelli, L’isola delle madri [Mondadori, 2020].

Una scrittura fantastica, come preferisce definirla Cutrufelli, non di fantascienza, perché non c’è nulla nel racconto che non accada già nel nostro presente.

Il pianeta terra estremamente sofferente per l’inquinamento, per lo sfruttamento delle risorse naturali e un turbocapitalismo che ha sfregiato i luoghi della cultura e quelli del vivere comune, alimentando disuguaglianze, riducendo diritti e reprimendo possibili ribellioni. Un intreccio di vite che si snoda in paesi mai nominati ma facilmente riconoscibili, fra l’Est Europa e il Mediterraneo, con un ritorno anche metaforico alle isole fondative della civiltà occidentale, a quelle mitologie che avevano tracciato un destino umano che sembrava irreversibile e che mai come oggi appare invece in continuo mutamento.

Uno scenario che, involontariamente, sfiora l’attualità della quarantena e della pandemia, ma qui la malattia è un’altra, è la sterilità umana considerata la ‘malattia del vuoto’ intesa “come qualcosa che si è prodotto nelle nostre cellule”, spiega Cutrufelli, andando a minare del tutto la riproduzione della specie.

Un fatto reale portato alle estreme conseguenze, così tanto che a volte nello scorrere delle pagine manca l’aria e ci si sente un po’ con le spalle al muro, quasi che la diminuzione delle nuove nascite sia da leggere solo come un enorme cataclisma e non, anche, come scelta di altre vite possibili.

Che fare dunque dinanzi al rischio del vuoto totale? Fra chi – anche nel romanzo – pensa che non sia così necessario riprodursi perché il mondo è pieno e chi ripete che è solo Dio a dare la vita, le personagge di questa storia propongono, se lo si vuole, di ricorrere alle biotecnologie e alla scienza. Una soluzione che spesso nella lettura appare come l’unica possibile, quasi non fosse invece auspicabile un cambiamento negli stili di vita che tanto influenzano anche la capacità, per chi lo volesse, di riprodursi.

Non è un tema casuale, per chi come Cutrufelli è impegnata in prima persona nei movimenti femministi e che ha scelto la narrativa come terza via – fra politica e dogma – per offrire alla discussione comune spunti di riflessione.

Sulla maternità, sulla gestazione per altre e altri, sulla difficoltà di definire oggi ‘la madre’ quando, afferma la scrittrice, è già in essere una scissione in tre figure: la madre donatrice, la madre gestante, la madre legale. Dovremmo forse dire donna, al posto di madre: donna che dona l’ovulo, donna che lo fa crescere nel suo corpo, donna che si prende cura del nuovo essere e lo fa diventare una persona, senza che il corpo sia minimamente chiamato in causa.

Un ripensamento complessivo dei ruoli e il riconoscimento che, non solo nella comunità umana, la differenza è nella relazione che si instaura. Relazione d’amore e di responsabilità, di rispetto e curiosità, di ascolto reciproco.

Ecco perché allora è arrivato il tempo di uscire da una discussione che nel mondo reale è solo fra madri, a fatica sono ammesse le non madri, per ascoltare la voce delle figlie e dei figli nati fuori dal tradizionale incontro fra uomo e donna, per dare parola a chi una condizione del tutto diversa la vive già e vuole raccontare la sua storia, a modo suo.

Chissà allora, suggerisce Cutrufelli, che non servano parole nuove, visto che quelle note non riescono a significare la realtà. Lei ne inventa alcune nel suo romanzo prendendo ispirazione dal linguaggio che si sta diffondendo fra chi nasce grazie alle biotecnologie, laddove gli intrecci familiari invitano a preferire il termine ‘zia’ per la donna gestante o cugina/o per le sorelle/fratelli non di sangue. Peccato, ma su questo con Cutrufelli ci confrontiamo da tempo, che la riflessione sul linguaggio non contempli del tutto anche il lessico sessuato e mi faccia sobbalzare nel leggere che “lei è un medico” o “caporeparto” riferito ad alcune protagoniste della storia. Cutrufelli ritiene che alcune parole sessuate siano ancora un inciampo per la lettura e che la scrittura romanzata abbia bisogno di tempi più lunghi per tenerne conto.

Senza dubbio la narrativa le ha permesso di tradurre interrogativi complessi in una storia che solletica pian piano chi legge e con accuratezza scandaglia l’anima delle protagoniste alle prese con “un sorriso che sembra affiorare da complicate negazioni interne”. È invece benevolo lo sguardo che la scrittrice posa sul ruolo del padre, che, come spesso nella vita reale, appare spettatore balbuziente, quasi giustificato se “è solo dentro i suoi pensieri che un padre (biologico o putativo che sia) può fare il nido per suo figlio, non è così?”. Del resto, per il momento, ricorda Cutrufelli, senza il loro seme ancora non c’è nascita possibile. Ma tutto il resto sì, considerato il prezzo pagato dalle donne prima, durante e dopo la nascita, in ogni epoca e ad ogni latitudine, chiamate poi a riparare anche i danni prodotti da quella metà del cielo che avvelena i pozzi e i fiumi.

Ed è proprio l’eco di un racconto sui pesci mutanti che nuotavano nelle acque avvelenate del fiume – racconta l’autrice in una breve nota finale – ad averla spinta a scrivere questo romanzo, non l’attualità ma piuttosto un lento lavorìo interiore suscitato dalle storie che le raccontava il padre scienziato a lei bambina sugli effetti dei cambiamenti climatici, dell’inquinamento, delle modificazioni genetiche dei cibi e l’uso di pesticidi.

Una storia di decenni fa che – a volerla ascoltare – lasciava già intravedere il futuro che stiamo vivendo ora.





Bigliettai si nasce

– Cornuto! Quasi quasi gli vado appresso e gli rompo la testa!

– Ehi, con chi ce l’hai?

– Con quell’operaio dei Cantieri Navali, ce l’ho!

– Bravo! Te la pigli con i compagni, ora?

– Disonorato! Deve ringraziare che sono un pubblico ufficiale.

– Pubblico ufficiale? Non ne sono sicuro. Bigliettaio sei. Che ti ha fatto?

– Hai visto il gruppetto che aspettava davanti ai Bagni Virzì?

– Eh!

– Certo, che l’hai visto. Sei l’autista.

– Allora?

– La vettura era ancora vuota, no? Sale il primo viaggiatore: Abbonato, dice, e passa avanti. Il secondo: Invalido civile. Il terzo: Invalido di guerra. Il quarto: Militare. E passa pure lui. L’operaio sale per ultimo, si siede davanti al mio gabbiotto: Profugo, fa. Mi viene da dire: Nuddu cuinnutu paa ‘u bigliettu, stamatina?

– Come?

– Nessun cornuto paga il biglietto, stamattina? Il siciliano non lo capisci?

– Lo sai che son nato a Lodi.

– Vero è, ma tua madre è dell’Albergheria e tuo padre della Kalsa. Finiscila, sei di Lodi a convenienza tua. Comunque, l’operaio mi guarda, scuote la testa: Dura la vita del bigliettaio, ah? Facile non è, dico io. Non immagini che quella dell’operaio sia tutta rose e fiori. Vita di sacrifici. Pensi che io, nel ’35, partii da solo per l’Abissinia: ero sposato da un mese e mia moglie già aspettava. Ma il bisogno è bisogno e feci di necessità virtù. Per fortuna sono sempre stato un gran lavoratore. Trovai subito la mia strada. In capo a un anno avevo impiantato una fabbrica di camere d’aria che rendeva una fortuna. Intanto mio figlio era nato, cresceva in fretta. Mia moglie, che già era cagionevole, era debole per la gravidanza e il parto. Aveva bisogno di qualcuno che la assisteva, non se la sentiva di raggiungermi. Di tornare in patria non se ne parlava. Mi dovetti rassegnare. Ma io – lei è uomo e capisce – non potevo restare solo. Un masculu ca è masculu, un vero maschio,  deve avere una donna che lo accudisce, per il mangiare, la pulizia, la biancheria. Per aver un po’ di conforto la notte.

– Soltanto! Come dargli torto!

– Già.

– Ti ha raccontato tutta la sua vita?

– E io, cretino, che lo stavo a sentire. Così, qualche mese dopo il mio arrivo, mi metto dentro una ragazza di vita che ho conosciuto in un casino, mi dice. Una giovane tuicca…

– Eh?

– Turca, scura di pelle, va’.

– Ma i turchi sono chiari. Spesso biondi.

– Che ne so. Così mi disse quello e così ti dico. Una turca, bellissima, mi dice. Le affido la casa, i denari. La tratto come una moglie. Tanto che quando resta incinta, visto che sono sempre stato cattolico apostolico romano osservante e praticante, non solo le permetto di tenere il bambino ma gli do il mio nome e lo cresco come un figlio legittimo. E siccome mia moglie era sì malaticcia, ma aveva un carattere di quelli… ce l’ha tuttora, a dire il vero… è capace di cancellarti dalla sua vita se le fai un torto piccolo così; se viene a scoprire l’esistenza di questo bambino… meglio che lo sappia da me. Ci penso e ci ripenso. Sì, meglio raccontarle tutto. Quello che succede, succede. Lei  si piglia il suo tempo ma alla fine mi risponde: “Giovanni, il primo impulso che ho avuto dopo aver ricevuto la tua lettera è stato quello di rivolgermi a un buon avvocato per ottenere l’annullamento del nostro matrimonio presso la Sacra Rota. Ma poi mi sono detta: doveva succedere. Un uomo come Giovanni non può restare senza una donna per troppo tempo. Almeno hai  fatto del bene; hai sfamato e redento una povera traviata. Io non posso più avere bambini, e la mia salute non mi consente di assolvere i doveri di una buona moglie. Così ho deciso di darti il mio consenso”. Felice della sua benedizione, vissi bene per qualche anno. Poi scoppiò la guerra. Pareva dovessimo fare sfracelli, finì come lei sa. Fatima morì sotto un bombardamento degli inglesi. Io persi la fabbrica. Restai solo, con quel povero figlio e con una valigia piena di banconote che non valevano più niente: me ne tornai a casa, più povero di quando ero partito.

– Che è successo poi? Com’è andata a finire?

– Ti sei appassionato?

– Che male c’è?

– Nessuno! Stronzo pure tu. Ora ti conto il resto, vediamo se non ho ragione a volergli rompere la testa. Non immagina la consolazione di mia moglie. Accolse Antonio, il bambino di Fatima, come se fosse stato suo, e riuscì a farlo accettare a nostro figlio. In quegli anni gli aveva raccontato di questo fratello sconosciuto e Francesco lo aspettava con ansia. Un comportamento ammirevole, gli dico. Cosa devo dirle, mi fa. Per anni ho creduto di aver voluto bene ai miei figli alla stessa maniera. Ma l’altro giorno, Francesco, il grande, dopo cena, mi dice: “Papà, se sei d’accordo, dopo la maturità vorrei fare l’università. Ho pensato a medicina”. E io: “Posso dirti di no, figlio mio? Certo, saranno sacrifici, ma tu meriti e sarai accontentato”. Poco dopo si avvicina Antonio: “Papà, l’anno prossimo pure io mi voglio iscrivere all’università, magari in ingegneria”. E io: ” No gioia mia, non te l’avere a male: tu che sei figlio di buttana fai il bigliettaio…”.

–  Togo –  Togo? Che cosa, togo! Ti devo alzare le mani?

– No, no. Per cortesia! Chi la porta la macchina, poi?  Andiamo, non te la prendere: ti offro un caffè, se mi offri una sigaretta.

– È stato fortunato che l’ho capita tardi.

– Ma tu pure, che ti ricordi tutta la storia, coi nomi, persino.

– Ancora!

– Scusa, come non detto. Però: No gioia mia, tu che sei figlio di … scusa… scusa… ahi! Chi si, pazzu?

– Ma tu non eri di Lodi?

Da un fatto realmente accaduto a Palermo, nel secondo dopoguerra, sulla linea 1 Via Oreto – Leoni, una storiella di Pino Caruso e un breve racconto.


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright. Copertina ©Antonio Musotto




La relazione nel setting terapeutico: collusione e consapevolezza del terapeuta

In psicoterapia un aspetto che viene quasi completamente ignorato dal pensiero comune riguarda l’esistenza di un “doppio livello” di comunicazione e, di conseguenza, l’esigenza di portare avanti il lavoro su due fronti da parte del terapeuta.

L’aspetto più conosciuto, quanto meno da alcuni, riguarda il lavoro teorico. Intervenire sulle problematiche psicologiche richiede una conoscenza teorica e metodologica, una cornice di riferimento (nel mio caso l’Analisi Transazionale) attraverso la quale leggere e filtrare la sintomatologia presentata dal paziente e favorire quindi tecniche di intervento. Questa cornice la si ottiene ovviamente attraverso la formazione offerta dalle scuole di psicoterapia, scuole quadriennali in cui si impara ad essere terapeuti.

L’altro livello, nascosto e a mio avviso molto più importante del primo, riguarda l’esistenza di quello che Freud nella sua Psicoanalisi aveva definito Transfert (con il relativo Controtransfert). Questi concetti sono strettamente legati a quello di collusione in terapia e al suo opposto, la consapevolezza di sé da parte del terapeuta.

Per Transfert, in maniera molto sintetica e schematica, si intende la proiezione da parte del paziente sul terapeuta delle proprie aspettative nei confronti di una figura parentale: in pratica egli ricerca nel terapeuta ciò che si aspetta di ricevere dal genitore che ha determinato il suo modello di attaccamento. Frasi del tipo: “Non pensare male di me per quello che ti sto dicendo” o “Dottoré oggi la vedo pensierosa, posso aiutarla in qualcosa?” possono dare al terapeuta indizi molto importanti su copione di vita e modelli genitoriali della persona che ha davanti.

Riuscire a cogliere questi indizi è possibile solamente mantenendosi il più neutrale possibile, lasciando che la persona ci interpreti e ci immagini secondo la sua esperienza di vita. Il problema è che spesso restare lucidi davanti ad esternazioni che solo in apparenza sono rivolte a noi è faticoso (quando si è consapevoli) se non addirittura impossibile in caso di non consapevolezza. Questo perché i copioni di vita non esistono solo per i pazienti ma anche per i terapeuti, rientrando ahimè anch’essi nella categoria degli esseri umani!

Un terapeuta con un copione da “Salvatore” potrebbe ad esempio colludere con un paziente dal copione di “Vittima” rendendo impossibile la terapia (copioni di vita e giochi psicologici verranno analizzati in un articolo a parte). Un paziente quindi desideroso di aiuto che invade il tempo e lo spazio del terapeuta attraverso continue telefonate e messaggi può essere difficile da contenere per un terapeuta desideroso di aiutare incondizionatamente, a maggior ragione se non si rende conto dei propri punti deboli. Questi “errori” da parte del terapeuta e l’insieme delle reazioni emotive di questo nei confronti del paziente vengono definite “Controtransfert”. Attraverso queste reazioni emotive il terapeuta si “aggancia” al paziente creando insieme giochi psicologici: situazioni chiaramente dannose in terapia.

Tornando all’esempio di sopra un terapeuta nella posizione di “Salvatore” entrerà nel gioco proposto dal paziente cercando di risolvere o una sua necessità di salvataggio o farsi perdonare colpe arcaiche o ricevere un riconoscimento a lungo sognato. Non è possibile lasciare che ciò accada: è necessario ripulire l’esperienza del paziente fornendo una nuova alternativa che generi un finale più funzionale rispetto a quelli messi in atto finora, e motivo per cui egli giunge da noi.

Evitare la collusione con il paziente è possibile grazie alla consapevolezza di sé. Il percorso formativo di un terapeuta pretende (a seconda della scuola) il sottoporsi ad un percorso di psicoterapia obbligatoria avente lo scopo di individuare e lavorare sui propri “anelli deboli” per permetterci poi, come professionisti, di individuarli e riconoscerli (quindi intervenire adeguatamente) durante il nostro lavoro come terapeuti; è chiaro inoltre che il vantaggio di una terapia personale come essere umano (indipendentemente quindi dall’essere terapeuti) non ha bisogno di essere evidenziato.

Il doppio lavoro di cui parlavo all’inizio si traduce quindi nella creazione di una cornice teorica delle problematiche del paziente da una parte, e del continuo monitoraggio di sé e delle proprie reazioni emotive a quello che costui ci dice dall’altra parte, sia per massimizzare la possibilità di cogliere indizi sulla persona sia per preservare quest’ultima dall’essere il nostro “vomitatoio” temporaneo di un qualcosa che riguarda la nostra vita e la nostra persona.

Vien da sé che maturare esperienza come terapeuti, fare una terapia personale e stare continuamente sotto supervisione tra colleghi rende più semplice questo compito che, specialmente agli inizi della propria carriera, non è semplice per niente.

Ho sempre pensato al mio lavoro come una condizione della mia esistenza, non come un’attività che svolgo. Io Sono una psicoterapeuta, non Faccio la psicoterapeuta. Perché questo lavoro non richiede solo una formazione, un modellamento dei propri schemi mentali, ma anche un cambiamento nella propria essenza, necessario per porsi nella maniera più neutra ed efficace possibile davanti alla molteplicità della natura umana che ogni giorno siamo chiamati a conoscere.





Dopo il Virus – prima parte

vai alla seconda parte
vai alla terza parte

Era stato deciso tutto in poche ore.

Radunammo allo Spazioporto i componenti dell’Unità di Governo Mondiale, insieme a pochi altri rappresentanti di Etnie particolari, di quelle che avevano dimostrato migliore resistenza all’epidemia. I motori magnetici dell’astronave ronzarono brevemente, si sincronizzò la frequenza di trasporto sulla traslazione spaziotemporale, l’equipaggio prese posto nelle capsule di sospensione vitale, presi un ultimo respiro, poi anch’io mi affidai al neurocalcolatore, mi sarei risvegliato nella costellazione di Pegaso, agganciato alla torre di ancoraggio della città di Terra Futura, sul pianeta HR2550, dichiarato biocompatibile dopo le prime missioni traslazionali.

Lasciavamo la Terra, devastata dall’Epidemia, sperando di tornarci, un giorno. Lasciavo pezzi della mia vita, e mio padre – che non vedevo da mesi – cocciutamente chiuso nel suo laboratorio di genetica molecolare in una grotta a cinquecento metri sotto il livello del mare, dentro una miniera di salgemma nelle montagne della Cucotka.
Insieme a quella sparuta pattuglia di ricercatori che erano riusciti a superare o evitare il contagio, giovani mostruosamente determinati a combattere il Virus.

Era convinto di riuscire a sintetizzare un vaccino contro quel Virus che aveva ucciso 7 miliardi di persone in pochi mesi, e che aveva reso sterili la maggior parte degli animali.
Mio padre, mi aveva concepito con metodi tradizionali, prima che il Congresso Eugenetico decidesse di consentire agli uomini di riprodursi solo affidando oociti e spermatozoi alle fattorie umane.
Gli somigliavo, così diceva sempre, aggiungendo che da una testa di marmo non poteva nascere un figlio con una testa più morbida, non aveva torto.

Avevo avuto anche una madre, ma era morta mentre combatteva a testa bassa in un reparto di medicina d’urgenza, sopraffatta da uno dei Virus che avevano cominciato a flagellare l’umanità alla fine del XXI secolo.
Era stata una cosa improvvisa, la mattina era in Ospedale, la sera era morta, con i polmoni paralizzati, non ricordo le parole che ci eravamo scambiati durante la chiamata che le avevo fatto dal Cosmodromo, avevo pensieri che andavano troppo lontano nello spazio e nel tempo, semplicemente non avevo ascoltato cosa mi aveva detto quella mattina.

Nonostante la sospensione delle funzioni vitali, il flusso dei pensieri non si arrestò, continuai a ricordare quell’ultima volta nella quale ci eravamo salutati con la promessa reciproca di non arrenderci al virus, di non lasciare che la civiltà umana sul pianeta Terra diventasse solo polvere fossile.

Uno degli effetti collaterali del trasporto in sospensione vitale era che la coscienza profonda, liberata dal giogo dei sensi e delle convenzioni comportamentali, mandava in loop continuo tutti i ricordi più remoti, anche se la somministrazione di oligonucleotidi antisenso consentiva di bloccare quelli negativi e dolorosi: una scelta inevitabile dopo che una buona parte dei navigatori stellari avevano avuto turbe psichiche importanti al risveglio, causando il default di molte missioni e la perdita di vite.

Programmammo accuratamente gli androidi che avrebbero sorvegliato la nave spaziale durante la nostra assenza, inducendo in loro anche un certo livello di empatia per le nostre condizioni e istruendoli all’uso degli schermi di difesa da attacchi alieni, anche se non ci era mai accaduto durante le precedenti missioni di doverne fare uso. Gli androidi: per molti anni erano stati loro a costituire l’unico equipaggio delle navi spaziali in cerca di pianeti ospitali, la neuroprogrammazione eliminava dal boquet dei sentimenti che erano capaci di mimare dall’umano che dava loro un imprinting genetico, quindi non erano in grado di provare tristezza, nostalgia, rimorso, rimpianto. Forse.

Volontariamente avevo regolato la pompa di infusione del mix farmacologico necessario a mantenere lo stato di sospensione vitale sul minimo, volevo rileggere i miei pensieri nascosti.
Il sogno ricorrente della prima missione, quello di camminare nudo su una spiaggia e poi finire sugli scogli fino ad essere portato via dalle onde, era stato sostituito da quello che mi vedeva in giro per i garage della città della mia infanzia a cercare un certo numero di motociclette che dovevano essere in mio possesso ma che invece erano sparite.
Era un sogno piuttosto angosciante, anche perché non avevo mai posseduto una motocicletta, erano state abolite per ragioni di sicurezza da parecchi anni. Forse era un ricordo chiuso nel DNA, un ricordo che avevo ereditato, neanche gli psicologi del Servizio di Trasporto Spaziale erano riusciti a decrittarlo.


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright. Foto copertina ©Antonio Musotto




S1:E1 “L’arte per l’arte, le cover d’autore”

“Amo così tanto la musica e avevo una tale ambizione che volevo andare ben oltre ciò per cui mi pagavano. Volevo che le persone guardassero l’illustrazione e ascoltassero la musica.”

Alex Steinweiss

Quando compriamo un vinile, o un cd, quante volte le loro copertine ci hanno attirato e incuriosito?  Molte cover illustrate hanno fatto la storia della musica, alcune sono celebri al punto che la loro fama è ormai indipendente dal progetto musicale cui sono legate.  

È alla genialità del giovane grafico statunitense Alex Steinweiss, che dobbiamo la ricchezza e la longevità dell’unione tra arte figurativa e musica. Fu lui ad avere per primo l’idea di dare a un concetto commerciale una qualità artistica di alto livello illustrando le buste dei dischi, nel 1940 disegnò la prima copertina illustrata della storia: “Smash Song Hits by Rodgers & Hart”, raccolta di brani scritti dal pianista Richard Rodgers e dal paroliere Lorenz Hart.

© Alex Steinweiss

Per Steinweiss iniziò una carriera favolosa, grazie alla quale caddero nel dimenticatoio i tristi involucri di cartone con il foro centrale utilizzate fino a quel momento, fu una vera e propria rivoluzione non solo del modo di vendere la musica, ma anche per l’invenzione di un mezzo artistico del tutto nuovo.  Da quel momento in poi, la grafica divenne parte integrante di ogni progetto musicale e ancora oggi costituisce il primo legame tra l’artista e il suo pubblico. 

Dal 1939 al 1945 fu il solo e unico illustratore della Columbia Records, curò tutti gli aspetti grafici di ogni album prodotto dall’etichetta discografica, si occupò anche della realizzazione dei loghi e di tutto il materiale pubblicitario. Plasmò così il suo inconfondibile stile, che influenzò intere generazioni di designer di copertine; per citarne una: Sonata per pianoforte no. 5 di Beethoven, cui anni dopo Storm Thorgerson dichiarò di essersi ispirato per la realizzazione della celeberrina grafica di The Dark side of the Moon dei Pink Floyd.

© Alex Steinweiss

Le sue tavole possedevano allo stesso tempo una grafica moderna e un forte potere comunicativo, ai vari elementi compositivi integrava spesso suoi disegni originali, senza trascurare di inserire nel quadro grafico anche tutte le informazioni relative al musicista e al suo progetto musicale. Utilizzava i colori come linguaggio, musica per gli occhi, preannunciavano il suono, diventando la porta che conduce verso la personalità del musicista e il contenuto compositivo. In “Rapsody in blue” di Gershwin, il colore parla più del titolo dell’opera stessa e lo skyline descrive perfettamente lo stile urbano di Gershwin;  in  “Sinfonia numero 2” di Brahms, crea forse l’unica copertina esistente senza il volto del compositore, lo rappresenta invece il sigaro per cui Brahms era famoso. 

Nel 1947 comparve per la prima volta il font “Scrawl Steinweiss”, ovvero il suo caratteristico font “riccioluto”, infantile al primo sguardo, geniale dal punto di vista del design, annullò il pur lieve conflitto tra le immagini e le parti “scritte”,  una grande quantità di informazioni veniva inserita in copertina senza appesantire il risultato artistico grazie alla sua leggera semplicità.

Nonostante la sicurezza del successo, l’evoluzione artistica di Steinweiss non si ferma, negli anni successivi al 1950 realizza una serie di copertine, frutto della incredibile fusione del suo design con le fotografie di Margaret Bouke-White, fotogiornalista pioneristica celebre per le immagini della Russia e dell’underground industriale tedesco degli anni Trenta; scattò alcune delle prime fotografie all’interno dei campi di concentramento tedeschi di Erla e Buchenwald dopo la fine della seconda guerra mondiale e catturò le ultime foto del Mahatma Gandhi, in India.

In questi anni e fino al 1973, oltre a Columbia Records, Steinweiss collabora con altre etichette discografiche come Remington, Decca e London Records, il suo design si arricchisce continuamente di nuovi elementi, come il collage e le figure fustellate.  Non dobbiamo sottovalutare il valore artistico di Steinweiss, minimizzando le sue opere a semplici “buste illustrate per dischi”, il suo non è un lavoro meramente grafico, possiede la forza del genio artistico, che traduce nelle opere il fattore culturale del proprio tempo.

In tutta la produzione di Steinweiss seguiamo l’influenza del cubismo sintetico, quando il cubismo si snoda in immagini più comprensibili, accoglie nuove sfaccettature e moltiplica i piani e le prospettive, nell’uso del collage ritroviamo tracce di Braque e Picasso, che furono tra i primi ad usare questa tecnica nel primi del novecento. 

Nel 1973 decide di dedicarsi esclusivamente alla pittura e abbandona la grafica.

© Alex Steinweiss

Curiosity killed the cat:

Poco prima della morte di Steinweiss, avvenuta nel 2011, l’editore Taschen pubblicò un libro-catalogo dedicato al suo lavoro.  Uscì in edizioni di diverso grado: la più semplice è di 420 pagine e pesa 3,5 kg; la più elaborata costa $ 1500, è numerata, firmata e include una serigrafia firmata

La copertina
disegnata per la registrazione originale di South Pacific (1949) è stata in uso quasi continuamente da allora
per il 78 giri, per l’LP, per il 45 giri, per vari formati di nastro e per il
CD. L’unico altro design grafico in America utilizzato per così tanti anni
è la Coca-Cola in bottiglia.

Link al sito ufficiale:  alexsteinweiss.com





Giornata mondiale della poesia.

“La Valigia blu” è una trasmissione di poesia che va avanti da un paio d’anni. Il suo luogo di generazione è la Letteraria Web Radio, che per il momento è un contenitore di podcast culturali.

L’idea è quella di offrire a tutti coloro che fanno cultura come “cassetta degli attrezzi”, ovvero come necessità prima di decodificare la complessità di questo mondo, un momento di confronto e di stimolo.

“La Valigia blu” è un format dedicato completamente alla poesia. La poesia ha attualmente una grande platea di autori. Ed anche di lettori/ascoltatori. Una vera e propria “nazione” che stenta però a credersi tale. È in atto un cambiamento ancora poco percepibile. È la situazione tipica del coacervo in cui però i fluidi e i liquidi, le “presenze” non comunicano tra loro, anzi. Regna la competizione e la corsa alla pubblicazione. Risultato, sono tutti schiavi degli editori. In realtà c’è un gran bisogno di poesia. Che rimane insoddisfatto.

Non perdiamo però le speranze e l’occasione di stare chiusi in casa sta dando a “La Valigia blu” un seguito importante. La ripresa delle trasmissioni è partita proprio in queste settimane e in due puntate ci sono stati almeno 300 ascolti.

Letteraria web Radio:
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POESIE SENZA PASSAPORTI

Tema della Puntata del 21 marzo 2020
Giornata Mondiale della Poesia. Il 21 marzo, primo giorno di primavera, si celebra la Giornata Mondiale della Poesia, istituita dall’Unesco nel 1999. La poesia è in grado di andare oltre i confini, le lingue e le differenze, portando con sé un ideale di bellezza che diventa globale. In questi giorni di grande difficoltà mondiale invitiamo i poeti a partecipare numerosi.

Prima parte
[anticipata dall’ascolto di 04:56 minuti di musica]

Seconda parte

Terza parte





La Valigia blu. Seconda puntata

“La Valigia blu” è una trasmissione di poesia che va avanti da un paio d’anni. Il suo luogo di generazione è la Letteraria Web Radio, che per il momento è un contenitore di podcast culturali.

L’idea è quella di offrire a tutti coloro che fanno cultura come “cassetta degli attrezzi”, ovvero come necessità prima di decodificare la complessità di questo mondo, un momento di confronto e di stimolo.

“La Valigia blu” è un format dedicato completamente alla poesia. La poesia ha attualmente una grande platea di autori. Ed anche di lettori/ascoltatori. Una vera e propria “nazione” che stenta però a credersi tale. È in atto un cambiamento ancora poco percepibile. È la situazione tipica del coacervo in cui però i fluidi e i liquidi, le “presenze” non comunicano tra loro, anzi. Regna la competizione e la corsa alla pubblicazione. Risultato, sono tutti schiavi degli editori. In realtà c’è un gran bisogno di poesia. Che rimane insoddisfatto.

Non perdiamo però le speranze e l’occasione di stare chiusi in casa sta dando a “La Valigia blu” un seguito importante. La ripresa delle trasmissioni è partita proprio in queste settimane e in due puntate ci sono stati almeno 300 ascolti.

Transitiamo Umani:
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Tema della Puntata del 18 marzo 2020
Le distanze. Si tocca al nocciolo il senso dei rapporti umani in un periodo di emergenza come questo.
Ospite Sergio Bellucci.

Conoscere qualcuno, ovunque egli sia, con cui comprendersi nonostante le distanze e le differenze, può trasformare la terra in un giardino” Goethe

Riuscire a focalizzare il rapporto con l’altro in un momento in cui siamo costretti a “prendere le misure”.

Prima parte

 

Seconda parte

 

Terza parte

 





West End Blues, fenomeno sociale ai tempi della quarantena

Tempo di quarantena, tempo di reinventarci, tempo di condividere il più possibile, tempo di riscoprire cosa amiamo e cosa pensavamo fosse importante e che invece oggi ci appare superfluo, tempo in cui si scopre che tante cose non sono per niente scontate come ci sembravano fino a poche settimane fa.

È così che musicisti di ogni ordine e grado impiegano il loro tempo e la loro arte suonando il proprio strumento e, spesso, condividendo le proprie note attraverso i social o, meglio, dalla finestra del proprio appartamento, per consolare o far passare qualche minuto di svago agli abitanti dei palazzi limitrofi.

Musicisti di ogni ordine e grado. Chi prima strimpellava la chitarra in chiesa, chi cantava in un coro, chi si esibiva con la band del liceo in qualche pub, chi fino a pochi giorni prima si esibiva sul palco di un grande auditorium.

Ma quello che stiamo notando in questi giorni non sono solo esternazioni personali, scelte individuali; sta nascendo anche un interessante fenomeno globale che consiste nel condividere ciò che i musicisti sentono come un patrimonio condiviso e trasversale. Sì, perché ci sono canzoni, assoli, introduzioni di brani che hanno segnato la storia di alcuni generi musicali e che, a distanza di decenni, continuano a interessare ed appassionare generazioni di musicisti.

Succede così che il 21 marzo Todd Stoll, importante trombettista jazz americano, nonché Vice Presidente dell’Education Department del Jazz at Lincoln Center di New York, scrive un post lanciando quella che in gergo si chiama una challenge, ossia un appello-sfida. L’invito è quello di “postare un video di te che suoni l’iconica introduzione a West End Blues di Pops [Louis Armstrong] e taggare 10 amici”.

I post sono seguiti dall’hashtag #westendblueschallenge in modo che tutti possano trovare e vedere i video di coloro che stanno aderendo all’appello.  Non è più l’epoca della televisione, ma quella dei social network e il limite ma forse il bello di questo mezzo di comunicazione è il fatto che le cose bisogna cercarsele, bisogna volerle; non vengono trasmesse in modo univoco e c’è chi le recepisce più o meno passivamente e consapevolmente.

Sembra una cosa carina da fare. Subito rispondono vari trombettisti che postano la loro versione ritaggando altri colleghi. La cosa nel giro di poche ore diventa (è il caso di dirlo) virale. Ma non solo tra trombettisti e non solo negli Stati Uniti. Se un virus non conosce nazionalità né confini, la stessa cosa si può dire della musica.

Tra i primi in Italia a rilanciare la challenge è stato il trombettista Nicola Tariello che, come richiesto, ha postato la sua versione taggando altri dieci trombettisti e diffondendo la cosa in tutta la nazione.

Ma di cosa si tratta? West End Blues è un brano jazz composto da Joe ‘King’ Oliver ed inciso nel 1928 da Louis Armstrong con i suoi Hot Five. La sua introduzione alla tromba (o alla cornetta?) fu l’insieme di note più folgorante di tutta la prima metà del ‘900 nella musica popolare. Essa segnò all’epoca un gesto di rottura sorprendete, dato che combinava due idee – il break d’apertura […] e l’esteso chorus stoptime – in una cadenza a tempo libero.[1]  Fu una di quelle esternazioni piene di vitalità, genio e intuito che lasciarono di stucco qualunque musicista. Oggi forse alle nostre orecchie non pare così trasgressiva o audace, ma ciò è dovuto al fatto che abbiamo talmente interiorizzato (oserei dire geneticamente) quel modo di esprimersi che lo diamo per scontato. Ma, all’epoca, scontato non lo era affatto. Quelle poche note segnarono una svolta, cambiarono per sempre il corso della storia della musica e nulla poté più prescindere da esse. Schiere di trombettisti (ma non solo) per anni continuarono a risuonare quelle note sentite squillare dalla campana di un grammofono a 78 giri. Persino un sassofonista così moderno come Charlie Parker l’aveva studiata e di tanto in tanto la inseriva nei suoi assoli. [2]

Ma ora tralasciamo gli aspetti tecnici e quelli puramente storici. Ciò che è importante osservare, oggi, è come e perché poche note incise quasi un secolo fa stanno risuonando nelle case di mezzo mondo, durante una crisi globale senza precedenti, che vede le persone di qualsiasi grado sociale ed economico recluse in casa. Il fenomeno meriterebbe un’attenzione particolare non solo tra musicisti e musicologi ma anche tra sociologi. E il fenomeno è assolutamente trasversale: troviamo il ragazzino alle prime armi con la tromba come il super professionista con il sassofono. Già, perché si vedono musicisti con qualsiasi strumento condividere la loro versione di West End Blues: non solo trombettisti, ma anche sassofonisti, trombonisti, pianisti, violinisti, tubisti, clarinettisti, cornisti, strumenti modificati con l’elettronica e Dio solo sa quanti altri.

All’inizio di questo articolo parlavamo di un patrimonio condiviso. In una conversazione con il jazzista Giorgio Cuscito, ha detto:

«È come una call, un richiamo della foresta, un richiamo alla vita, non so cosa ha. Però è incredibile il rinnovato successo globale di questa cosa. Non solo, ma mi pare che sia trasversale: essendo scritto, lo suonano tutti: jazzisti e non.

Ci stiamo divertendo a farlo, ma non è soltanto un divertimento. Qui si è scelto questa cosa, non si sa perché, in questo momento. È fondamentale! Vuol dire che, in nome di una ricerca di un’unione in questo isolamento assurdo, per non sentirsi soli benché isolati, si è scelto un incipit di Louis Armstrong del 1928 e non tante altre introduzioni di altri brani come potrebbe essere quella di In The Mood. E invece no. E non so quale sia il motivo! È una cosa che andrebbe analizzata a livello musicologico in maniera molto attenta. Esce fuori che questo West End non lo conosce nessuno (a parte i trombettisti per via di Armstrong), ma ritorna ad essere quello che è: fondamentalmente il brano più importante della storia del jazz.

In tutto ciò credo che abbia anche a che fare la solarità di Armstrong, la sua personalità, il suo travalicare il fatto musicale in sé».

A me è venuta in mente una scena rimasta nella storia: alla caduta del muro di Berlino, nel 1989, fu suonata la IX di Beethoven da un’orchestra composta da musicisti provenienti da Est e da Ovest, diretti da Leonard Bernstein. Non so se sia il caso di paragonare i due episodi – sono epoche e situazioni differenti – ma nel piccolo grande mondo del jazz possiamo affermare senza ombra di dubbio che la West End Blues di Louis Armstrong è la nostra IX di Beethoven!

A questo punto ascoltiamo questa pietra miliare che ancora oggi anima tanti musicisti:

Si sta inoltre cercando di fare una playlist di tutti i video trovati in condivisione con questo hashtag. L’operazione è quasi impossibile dato il sempre crescente numero di video prodotti e condivisi, ma la playlist viene quotidianamente aggiornata!

Playlist dei video raccolti – [clicca sull’immagine]


Note

[1] Gunther Schuller, Il Jazz. Il periodo classico. EDT 1996.

[2] https://jazzontherecord.blogspot.com/2018/08/bird-quotes-satchmo.html





La Valigia blu. Prima puntata

“La Valigia blu” è una trasmissione di poesia che va avanti da un paio d’anni. Il suo luogo di generazione è la Letteraria Web Radio, che per il momento è un contenitore di podcast culturali.

L’idea è quella di offrire a tutti coloro che fanno cultura come “cassetta degli attrezzi”, ovvero come necessità prima di decodificare la complessità di questo mondo, un momento di confronto e di stimolo.

“La Valigia blu” è un format dedicato completamente alla poesia. La poesia ha attualmente una grande platea di autori. Ed anche di lettori/ascoltatori. Una vera e propria “nazione” che stenta però a credersi tale. È in atto un cambiamento ancora poco percepibile. È la situazione tipica del coacervo in cui però i fluidi e i liquidi, le “presenze” non comunicano tra loro, anzi. Regna la competizione e la corsa alla pubblicazione. Risultato, sono tutti schiavi degli editori. In realtà c’è un gran bisogno di poesia. Che rimane insoddisfatto.

Non perdiamo però le speranze e l’occasione di stare chiusi in casa sta dando a “La Valigia blu” un seguito importante. La ripresa delle trasmissioni è partita proprio in queste settimane e in due puntate ci sono stati almeno 300 ascolti.

Transitiamo Umani:
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Tema della Puntata dell’ 11 marzo 2020
La crisi. In greco questo termine ha tanti significati e tante sfaccettature così come nella lingua cinese; vuol dire anche possibilità, sviluppo, nuove opportunità ed in questo senso la poesia è in grado di cogliere appieno queste parole, ce le può portare fino al nostro cuore.
15 poeti leggono e riflettono sulla poesia.

Intro

Prima parte
[anticipata dall’ascolto di 05:30 minuti di musica]

Seconda parte
[anticipata dall’ascolto di 03:00 minuti di musica]





Catene

Usciti sulla terrazza del Centro Turistico, un edificio tra il minimalista postindustriale quasi elegante e un Brutalismo severo forse ispirato alla brutalità della storia che pervade quel luogo, la mole martoriata della prigione del penitenziario di Port Arthur si presenta in tutta la sua possenza nonostante la distanza.

I resti del penitenziario

Il tempo, l’incuria di chi, abbandonandola, aveva cercato di fare sparire memorie e vergogne troppo difficili da esorcizzare, gli incendi che regolarmente divorano intere regioni di questa piccola isola, e la superstizione, prodotto inconscio del senso di colpa di chi le sopravvisse, hanno fatto scempio di quella che era diventata una vera e propria comunità, il primo nucleo sociale di una colonia che diventerà poi la Tasmania, lasciando al loro posto rovine puntellate recentemente con tecniche molto sofisticate, spazi dove cunette ed avvallamenti suggeriscono i siti di costruzioni ormai sparite, strutture per la punizione, il contenimento e la salute dei galeotti e casette ormai disabitate che una volta avevano ospitato i personaggi su cui cadeva la responsabilità di gestire la popolazione dei galeotti e di chi se ne prendeva cura.

La mappa del territorio di Port Arthur

In alcune di queste si può anche entrare e vi si possono ammirare gli oggetti di tutti i giorni disposti come se stessero aspettando quelle mani, quei riti familiari, quelle voci nel dramma quotidiano di una lotta impari, ma tenace, per la sopravvivenza in un mondo alieno che non aveva nessuna somiglianza con quello che era stato lasciato dietro, e spalle a migliaia di miglia di distanza.
C’è sempre una notevole folla di visitatori, non solo turisti da ogni parte dell’Australia e del mondo, ma anche gente locale, spesso attratta dal filo che la lega personalmente e intimamente alla storia stessa del luogo e a quelle memorie grazie a un antenato galeotto o assoldato al servizio del sistema o perfino entrambi i casi.

Eppure non si sentono schiamazzi, non c’è aria di gita in campagna, come se fosse piuttosto una visita in un cimitero e tutti rispettassero il dolore e le tragedie che sembrano tuttora aleggiare in quel luogo come fantasmi.
Le guide sono preparatissime e tendono a ricreare non solo il contesto storico ma l’esperienza umana di chi si trovò a vivere lì per forza di cose, tutti ugualmente prigionieri, incatenati tra loro e a quella penisola lontana da ogni barlume di civiltà, sia perché alcuni non erano riusciti a scappare alla giustizia inglese e sia perché gli altri dovevano pur tenerli d’occhio e redimerli facendoli lavorare. E poi anche le loro mogli e i bimbi nati lì, e soprattutto morti lì di malattie, di fatica, di parto, di incidenti, di malinconia.
Eppure il tempo accomunava tutti intrinsecamente e simbioticamente, e marcarlo era diventato vitale per ogni individuo: i galeotti non lo vedevano che in funzione della sopravvivenza ai 7, 14 o 21 anni della loro condanna col miraggio del foglio di via che al suo termine avrebbe permesso loro di ricominciare una vita da liberi cittadini, mentre per gli altri, militari e civili, lo scandire del tempo grazie al ritmo regolare e inviolabile dei compiti da svolgere nei ruoli assegnati era l’unica cosa che desse senso a un’esistenza e che ammortizzasse i costi di un ambiente dove ogni certezza e ogni senso di sicurezza erano stati stravolti per sempre.


Foto copertina: Il principio operativo del penitenziario. 




Manca

Ho fatto il pieno di centri commerciali questo inverno.

Ogni venerdì scappavo da casa, chiudevo lo studio, montavo in macchina con la mia borsetta nera piccola, leggera, le scarpe da ginnastica e il pantalone comodo per camminare.

Guidavo con gli occhi chiusi lungo un pezzo del raccordo anulare, saltando buche, svincoli e scie di tir, sapendo cosa fare. Scivolavo sotto i parcheggi di Ikea, dritta, a destra e poi a sinistra, accanto al nastro trasportatore. Spegnevo il motore e lentamente mi riappropriavo del mio tempo condensato in un pomeriggio di inizio weekend.

Un respiro lungo e mi immergevo nella folla anonima e chiassosa.
Sì lo so. La maggior parte di voi cerca la cima di una montagna per liberarsi dalla fatica.
Anch’io quando i centri commerciali si svuotavano e il bisogno di ossigeno si trasformava in desiderio di azzurro e di fiori non di plastica. Ma prima, ho preferito immergermi nell’anonimato di una folla che mi nascondeva.

Vi ho toccato, sfiorato, sorriso.
Vi ho osservato seduta su una panchina, mentre ordinavo polpette vegetariane, mi collegavo al WiFi di Ikea e mi isolavo con gli auricolari alle orecchie.
Come facevi, mi chiedevate.
Era semplice: il rumore dell’umanità che mi scorreva accanto, era ciò che mi serviva per collocarmi nel mondo. Una sorta di misura di riferimento per quando mi disorientavo.

Annusavo il profumo dei banchi dei negozi che conoscevo, mi guardavo attraverso le vetrine e gli specchi degli ascensori, accorgendomi di quella ruga spuntata all’improvviso o del mio rossore sul viso.
Ho mantenuto il rito del venerdì pomeriggio per tutto questo inverno, spegnendo il cellulare, non rispondendo a nessuno, guardando l’orologio solo quando sentivo che mi facevano male i piedi e la piccola borsa nera cominciava a pesare. Allora mi rendevo conto di aver camminato per ore, tra negozi, nei bar, nei ristoranti, ferma a guardare l’ultimo modello di SUV esposto sotto la scala mobile interna con dentro una super modella in costume. Avevo bisogno del mio spazio, me lo prendevo così, respirando persone e immergendomi in voi che non sapevate chi ero.

Ho ridisegnato così le mie idee, delineando confini che nessuno vedeva, sfiorando mani che non avrei mai più sentito. Era un modo per sentirmi appartenente a questo modello di società che ci è stato imposto, senza il quale ora sono persa.

Ho pensato in questi giorni a tutte le volte che ho immaginato una guerra nucleare: le sensazioni immaginate erano identiche a quelle provate in questi giorni.
Ci è stato sottratto il tempo, il tempo di abituarci a tutto questo. Siamo andati a dormire e il  giorno dopo era tutto cambiato, come l’effetto di una bomba nucleare lanciata sul nord Italia, i cui effetti si stanno propagando ora, allargandosi sempre di più.

Sembra già passato un anno e invece solo un mese.
Non ho più i miei bagni di folla, né la possibilità di sedermi per terra in una piazza gremita. Ho il ricordo nitido di quel primo weekend con la dichiarazione di zona rossa per la Lombardia – il lancio della bomba – e noi a Bologna, tra i carri di carnevale e le sfilate creative di cui ho un video e che ora mi vergogno anche solo a pubblicare, e che riguardo per calmare l’attacco di panico che arriva subdolo di notte. L’ultima settimana di saldi, le cene nei locali affollati e un bicchiere di vino rosso in compagnia. La musica, il rumore, le urla dei bambini, sembrano ricordi lontani. Sono smarrita perché abituata a vivere di quello che mi veniva presentato come normale appendice dell’esistenza. Come i miei stupidi venerdì pomeriggio rubati per non pensare e per giocare ad essere altro, oltre le regole societarie che mi hanno costruito e fatto diventare quella che sembro.

Eppure ci sono stati giorni felici che sembrano così lontani da non meritarci un sorriso.





Casa lontana

Il signor Nakamura si svegliò di soprassalto; aveva sentito piovere. Era sicuro di aver sentito il rumore delle gocce d’acqua sulla tettoia di lamiera.

Scese dalla cuccetta e si avviò per il corridoio seguendo la pista luminosa sul pavimento.

Si fermò di colpo: “nello spazio non può piovere, non possono esserci nuvole”, si disse ad alta voce Nakamura, ascoltando il ronzio sommesso delle pompe.

Nella Stazione Orbitante Multinazionale, vanto della tecnologia europea (ed anche dei tangentisti che avevano spartito le mazzette), era un momento di sospensione delle attività scientifiche: gli ultimi specialisti erano stati rispediti a terra da un paio di settimane, ed i nuovi ricercatori stavano terminando il training, in attesa della navetta che li avrebbe condotti ai loro esperimenti in assenza di gravità.

Nakamura si occupava, in questi momenti di relativa tranquillità, di rimettere in ordine i materiali, di togliere le incrostazioni, di ripulire il disordine che i giovani esuberanti ricercatori delle migliori università erano soliti causare.

Ma l’operosa attività di Nakamura era, negli ultimi giorni, disturbata da problemi onirici che lo turbavano non poco.

La sensazione della pioggia era solo l’ultimo incubo che aveva dovuto subire, ed ora cominciava, leggermente, a preoccuparsi.

Undici anni di esperienza pressoché consecutivi sulle stazioni in orbita geostazionaria lo avevano reso insostituibile, infatti conosceva la funzione e l’utilità di ogni singolo componente, e sapeva risolvere i problemi diagnostici con capacità e competenza.

Mai avrebbe pensato di chiedere di essere sostituito per problemi medici, il minimo accenno a guasti psicologici lo avrebbe escluso definitivamente dalle missioni sulla stazione, che era la sua casa.

Un’altra notte cronologica, un altro turno di riposo, o almeno così sperava che fosse; per essere certo di dormire, Nakamura prese una compressa di un farmaco ipnoinducente a media durata d’azione, e si sistemò nella cuccetta.

Ma terminata la fase di sonno profondo, l’ingresso nella fase r.e.m. fu inaugurato dallo stormire di aceri giapponesi, nel pieno della foliazione, ed il rosso delle foglie era ben vivido negli occhi della mente: ciò che turbò Nakamura fu la sensazione, netta al risveglio, di avere sfiorato le foglie purpuree degli aceri e di averne sentito anche l’odore.

Sotto il cuscino antistatico, al mattino, Nakamura trovò un ciuffetto di foglioline rossastre, ancora fresche.

Stette ad osservare, sul tavolo del laboratorio di genetica, le foglie per alcune ore, dopodiché le introdusse nell’analizzatore molecolare.

Il responso fu una strisciata di valori illegibili, e la macchina concludeva l’analisi dichiarando di non aver trovato traccia di minerali conosciuti.

Nakamura tentò di chiamare il controllo a terra, ma una volta collegato si astenne dal segnalare il fatto: un pazzo in una stazione orbitale avrebbe passato il resto dei suoi giorni sotto le amichevoli cure degli psichiatri specializzati in smarrimenti spaziali, e questa prospettiva non lo attirava affatto.

Chiese l’invio con il prossimo cargo di una nuova fornitura per la farmacia di bordo, e dei materiali di routine che si erano consumati nel frattempo, e chiuse il collegamento con la base a terra.

Decise di restare sveglio, spostò due telecamere miniaturizzate sopra la cuccetta e si mise a riparare alcuni strumenti fuori uso da tempo, ma non per questo ancora inutilizzabili.

Restò sveglio per il corrispettivo di 48 ore terrestri, sempre tenendo d’occhio i monitor portatili collegati alle telecamere, ma non registrò alcuna attività al di fuori della norma.

Tutti gli strumenti indicavano ciò che era evidente, nessuna variazione nei parametri fisico-chimici misurabili.

Il sonno lo aggredì senza possibilità di resistenza, ed ebbe appena il tempo di arrivare fino alla cuccetta antigravitazionale, per sprofondare subito dopo nel torpore assoluto.

Dopo alcune ore di assenza di stimoli, si alzò per iniziare la routine dei controlli, passò al monitor di controllo, nessuna variazione apprezzabile negli standard di funzionamento della stazione orbitale, aprì il laboratorio con gli stabulari, ispezionando i topolini, i conigli, i ratti bianchi mutanti destinati ad ammalarsi di tumore per poi essere curati con i farmaci sintetizzati in orbita, le cavie intente a rosicchiare i mangimi sintetici.

Passò nell’altra camera, dove dietro una ampia vetrata si poteva osservare la stanza di Sheila, il suo computer, la sua amaca, l’albero secco.

Ma Sheila non c’era; Nakamura si avvicinò ai monitor, poi sbloccò la porta a vetri della stanza illuminata: pavimento pulito, luci diffuse, tavolo e posate in ordine, lettino al suo posto, ma dello scimpanzé nessuna traccia.

Poteva ispezionare tutti i cavi sotto il pavimento, controllare con microcamere tutti i passaggi dei liquidi e dei gas nel ventre della stazione spaziale, poteva fare un check completo di tutti i cablaggi elettronici, e farsi una bella stampa del risultato.

Però si era perso la scimmia. O meglio, la scimmia non era più dove avrebbe dovuto essere.

Pensò con raccapriccio alla segnalazione da fare al controllo a terra, gli avrebbero mandato dopo qualche ora un cargo con superefficenti bruschissimi operai galattici e magari lo avrebbero dimissionato su due piedi per inefficienza totale.

Spense il monitor di controllo della camera di Sheila, mise in tasca il tester che aveva usato per provare gli strumenti, la porta a vetri si richiuse con un rumore pneumatico e si spostò attraverso il corridoio, senza fatica, a gravità zero.

Sconfezionò il pasto liofilizzato, tentando di immaginare, come ogni volta, l’odore ed il colore del contenuto se lo avesse consumato in un ristorante, sulla terra; quella roba assolutamente asettica lo nutriva e lo faceva sopravvivere, fornendo i metaboliti e gli enzimi necessari alle sue funzioni vitali, e garantendogli l’apporto vitaminico bilanciato, e basta. Niente emozioni.

Nakamura pensò con disagio ad una scimmia in fuga, a tutti i danni che potevano succedere in un laboratorio orbitale, al rischio di dover smontare paratie e portelli per poterne recuperare il cadavere; si appoggiò alla cuccetta, ebbe la sensazione di infilare la testa in un sacco di tela scuro, fu catturato dai fantasmi del sonno.

Una strada ampia di un quartiere popolare, riquadri di cemento perfettamente disegnati sui marciapiedi, alberi di ailanto piantati da poco in fori regolari, con alti tutori per tenerli dritti, ed in quella strada, Nakamura ne è certo anche se non vi è mai passato, abita la sua prima maestra, una maestra che ha amato esageratamente, tanto da rifiutarne le coccole per vergogna. Si avvicina al portoncino bianco con piccole vetrate colorate, il giardino è spoglio e trascurato, si aspetterebbe di trovare aperto, invece deve bussare ed aspetta che qualcuno venga ad aprire. Ma invece della ragazza alta e bruna con lunghi capelli nerissimi apre la porta una anziana stanca; è vestita di nero e Nakamura cerca di parlare. La vecchia gli mette una mano sulla bocca e comincia a piangere; probabilmente la maestra è morta e lui ha fatto una passeggiata inutile, e vorrebbe gridare ma la voce non gli esce, e sente nel petto esplodergli tutte le parole che non ha mai saputo dire alla sua giovane maestrina, poi si mette a correre a casaccio, inciampa e cade.

Si risveglia sudato e sbatte, nello scatto che fa per rialzarsi, la testa nella volta della cuccetta. Nel monitor che copre la sala controlli vede del trambusto: è Sheila che si è arrampicata su un alto baobab e tira oggetti a due leoni che tentano di arrampicarsi sull’albero. Nakamura adesso è sveglio, ma crede di continuare a sognare, afferra a casaccio una torcia ed un martello e si dirige rapidamente verso la sala controlli, ed intanto nel corridoio tende l’orecchio, e li sente, i leoni che ruggiscono ferocemente.

Si ferma, e non sapendo perché, dal telecomando multifunzione smorza le luci dei corridoi; adesso sono illuminate solo le lucette gialle d’emergenza, che tracciano una pista interrotta sul pavimento.

È arrivato alla sala controlli, e crede di sentire un odore che non conosce, che non può conoscere, perché non è mai stato in Africa; l’odore acre della savana, e la puzza forte dell’urina dei grossi carnivori, ed il fetore delle carcasse in decomposizione.

Apre la porta blindata della sala controlli: la luce è accesa, e dentro è tutto in perfetto ordine, niente baobab, niente leoni, niente savana.

Acciambellata sulla poltrona girevole Sheila giocherella con un joystick, muovendo i carrelli dell’archivio degli esperimenti.

Nakamura si avvicina calmo allo scimpanzé, che lo abbraccia e gli sale in braccio, e quindi la riporta nella sua luminosa gabbia.

Mentre resetta tutti i computer e lancia la routine della  trasmissione automatica dei dati a terra cerca di non chiedersi il perché della sparizione e ricomparsa del quadrumane, e spera che i sensori non ne abbiano segnalato il muoversi lungo le paratie della stazione orbitale.

Non vuole darsi spiegazioni e soprattutto non saprebbe dare spiegazioni plausibili agli ingegneri di missione, e magari lo invierebbero ad un periodo di riposo e controllo per finire poi inchiodato al suolo. A terra non vuole ancora scendere.

Non vuole tornare alla casa di Kyoto, vuota dopo che la moglie lo ha piantato per fuggire con un lottatore di kendo, non vuole affrontare il dolore dei ricordi tra quelle pareti mobili, non vuole più nutrire i carassi giganti nella vasca del giardinetto.

La casa è lontana, pensa, ma la mia vera casa è qui, lontano dalla confusione e dal disordine, lontana da metropolitane sovraffollate e da bande di motociclisti rissosi, lontana da terroristi al gas nervino e da estremisti di destra con megafoni e catene, lontana dalla corruzione e dal consumismo indispensabile, lontana da quel genere umano cui appartiene solo per colpa del D.N.A.

Nakamura sintonizza il ricevitore digitale su una stazione in broadcasting dall’Australia; il segnale riflesso dal satellite diffonde nella sala riparazioni grandi pezzi musica varia, in prevalenza rock’n’roll e surf, e mentre lavora intorno ad un pannello solare guasto, batte con il piede il ritmo, seguendo il rullante del batterista.

Alcune ore dopo è di nuovo in trance onirica, ed addormentandosi ha avuto la sensazione di vedere altri uomini in giro per la stazione, ma è impossibile, cerca di dirsi, senza il rispetto dei protocolli di aggancio guidati dalla sala controlli nessuna nave spaziale può attraccare al pontile flessibile della stazione orbitale.

Stavolta, per sicurezza, ha ingerito dopo il pasto una compressa di benzodiazepina a lunga durata d’azione, poiché teme di dovere affrontare ancora uno degli strani sogni che lo hanno assillato, ultimamente.

Nakamura è fuori della stazione orbitale, sta rimettendo a posto una fila di pannelli solari sul fianco destro, ed il cordone ombelicale che lo tiene collegato pulsa di ossigeno ed acqua: Nakamura perde il primo cacciavite, continua il lavoro con quello che si è portato di scorta, perde anche questo, e nel movimento scomposto senza gravità si allontana troppo dal portellone aperto, ed il cavo che lo collega alla stazione orbitale striscia sui supporti delle parabole, si sfrangia la copertura, si taglia e dopo un secondo si accorge di essere perduto nello spazio.

Alla deriva mentre l’aria sfugge veloce attraverso il tubo tranciato, il fantoccio in tuta spaziale gira come un disco finito di suonare sul piatto giradischi, e poi si perde confuso nel nero uniforme del buio spaziale.

Alla deriva guarda la stazione spaziale illuminata dai fari di servizio, pensa che adesso la sua casa è veramente lontana, poi scompare perso nello spazio.

Alcuni giorni dopo, i tecnici arrivati sulla stazione dopo la scomparsa inspiegabile di Nakamura osservarono i filmati delle telecamere di servizio, e videro che si alzava, come addormentato, sonnambulo, dalla cuccetta, la scimmia lo aiutava ad indossare la tuta spaziale, mentre le diceva di voler raggiungere un luogo sulla terra, (parole non chiare, microfono difettoso), poi raggiungeva in fretta il portellone per il corridoio esterno, lo apriva e si lanciava nel vuoto senza agganciarsi al cordone di sicurezza ed al tubo dei rifornimenti di aria e acqua.

La scimmia teneva tra le mani una foto di una casa di Kyoto con giardinetto e vasca per i pesci rossi, e sopra era scritto, con pennarello rosso: casa lontana.

 

 


Foto copertina © Antonio Musotto




Diritti al Cuore Onlus e Diatomea.net presentano: percorsi e dialoghi sui femminismi nel XXI secolo

Diritti al Cuore Onlus e Diatomea presentano

Sabato 7 dicembre 2019 alle ore 19:00 in Via Federico Borromeo 75 le associazioni Diatomea.net e Diritti al cuore presentano l’incontro “Percorsi e dialoghi sui femminismi nel XXI secolo”. Ingresso gratuito.

Oggi come non mai è necessario parlare di femminismo. Un termine a volte troppo abusato, schernito, screditato, usato in maniera distorta, circondato da stereotipi e manipolazioni. 

Ma cosa sono i femminismi oggi? Di questo parleremo con Barbara Bonomi Romagnoli e Marina Turi, autrici di “Non voglio scendere! Femminismi a zonzo” e Benedetta Pintus e Beatrice Da Vela, autrici di “Siamo marea. Come orientarsi nella rivoluzione femminista”.

Coordinano Raffaella Matocci di Diatomea.net e Francesca Caprioli di Diritti al Cuore Onlus.

Breve descrizione dei libri

Siamo marea. Come orientarsi nella rivoluzione femminista di Benedetta Pintus, Beatrice Da Vela, Villaggio, Maori 2019.
Un manuale che ripercorre la storia del movimento femminista e che ci guida attraverso la giungla dei vari temi e teorie, per capire meglio come reagire e lottare contro le discriminazioni di ogni giorno e conoscere da vicino il variegato mondo dell’attivismo contemporaneo.

Non Voglio scendere! Femminismi a Zonzo di Barbara Bonomi Romagnoli – Marina Turi, Golena, 2019.
Sei tragitti per andare a scovare femminismi felici e appassionati, (auto)ironici e pungenti, includenti e visionari, capaci di produrre un progetto politico nella cornice del tempo che viviamo, quando tutto sembra bloccato, stereotipato e ripetitivo.

 

 




Augusto De Luca fotografa Eugenio Bennato

Ho sempre ammirato ed apprezzato Eugenio Bennato, perché, nonostante la sua infinita bravura, è sempre rimasto umile come persona e coerente nel suo stile musicale.
Fratello di Edoardo e di Giorgio, noto come Giorgio Zito, si è laureato in fisica ma ha seguito la sua vena artistica, che l’ha portato ad essere un rinomato rappresentante della scena musicale italiana ed internazionale.
Cantautore e musicista, tra i fondatori della Nuova Compagnia di Canto Popolare, nel 1969, e dei Musicanova, nel 1976, insieme a Carlo D’Angiò, ha vinto, nel 1999, il Nastro d’argento per la miglior colonna sonora per il film ‘La stanza dello scirocco’, diretto da Maurizio Sciarra.
A lui dobbiamo la nascita, nel 1998, del movimento culturale e musicale Taranta Power per valorizzare e promuovere la Taranta attraverso musica, cinema e teatro, che fonde, in modo squisitamente originale, sonorità tipicamente mediterranee, antropologia culturale, tradizione e contaminazione.
Nel 2006, poi, in qualità di accademico, ha insegnato al Laboratorio di Etnomusicologia presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli. Acclamato anche a livello delle più alte istituzioni, nel novembre 2018 è stato invitato dal Parlamento Europeo di Bruxelles a suonare in occasione della giornata dedicata ai diritti umani.
Credo sia chiaro il perché desiderassi da tanto tempo fargli un ritratto e l’occasione giusta fu il mio incontro con la moglie, artista di indiscusso talento.
Infatti, quando andai a casa della mia carissima amica Pietra Montecorvino per ritrarla, le dissi che mi avrebbe fatto molto piacere fotografare anche il marito. Lei, prontamente, mi rispose che non ci sarebbero stati problemi e, dopo qualche giorno, mi telefonò, dandomi il suo numero cellulare e fissandomi un appuntamento nel suo studio al Vomero.
Mi recai all’incontro con la mia fotocamera Leica e un piccolo bank per illuminare la scena. Chiacchierammo amabilmente soprattutto di quando avevo conosciuto sua moglie subito dopo il film di Renzo Arbore ‘… che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?’, che le aveva dato una grande notorietà e gli raccontai anche di alcune polaroid che le avevo fatto in quel periodo e che, purtroppo, con mio grande rammarico, non riuscivo più trovare.
Poi mi mostrò le varie stanze per trovare uno sfondo adatto al ritratto che avrei dovuto realizzargli. Fui subito colpito da una notevole quantità di strumenti a corda che erano in giro un po’ ovunque e capii che erano proprio quelli che dovevo utilizzare nella foto. Li raggruppai insieme, posizionai la luce lateralmente, per creare l’ombra di uno di essi sulla parete e scattai.
Feci pochissime foto, perché guardando gli scatti, mi resi conto che il risultato era già ottimo e, dopo un bel caffè, che non presi prima perché avevo premura di cominciare il lavoro, lo salutai e andai via soddisfatto. Qualche giorno dopo inviai il file anche a Pietra che mi disse che lo scatto era piaciuto molto anche a lei… non potevo essere più contento.

Eugenio Bennato – foto di Augusto De Luca




Augusto De Luca fotografa Napoli per Telecom

Nella metà degli anni ’90, quando vivevo nella città capitolina, pubblicai il libro ‘Roma Nostra’, Gangemi editore.
Questo volume ebbe un discreto successo tanto che, dopo pochi mesi dalla sua uscita e dalla mostra di presentazione nel Museo di Roma a Palazzo Braschi, ci fu una riedizione più economica venduta addirittura nei chioschi dei giornalai.
Per caso il libro fu visto dagli addetti alle immagini che illustravano le schede telefoniche Telecom. In quel periodo fioriva un collezionismo appassionato di card per telefonare dagli apparecchi pubblici, che erano in ogni strada. Telecom le pubblicava anche decorate con opere molto selezionate di importanti artisti e fotografi di tutto il mondo. Fu allora che mi contattarono chiedendomi tre foto per altrettante schede su Napoli.
Ne fui lusingato e realizzai subito tre polaroid manipolate che risultarono, però, essere troppo particolari ed innovative per il grande pubblico. La Telecom voleva degli scatti più classici, che fossero vicini a quelli presenti nel libro realizzato su Roma.
Allora mostrai loro queste tre immagini tratte da un’altra precedente pubblicazione, ‘Napoli Mia’. Piacquero subito ed andarono velocemente in stampa. Prima dell’accordo però, come conditio sine qua non, volli che su ciascuna ci fosse stampato il mio nome.?E così fu.
Ricordo che molti collezionisti mi chiedevano di autografare le loro schede e, quando andavo a qualche mostra mercato da loro organizzata, tantissimi ragazzi e adolescenti si ammassavano tutt’intorno sgomitando per conoscermi e farsi firmare le loro “reliquie telefoniche”.
Quello fu un periodo molto intenso anche perché Telecom, successivamente, mi chiese di illustrare altre quattro schede con le foto di alcune capitali europee… ma questa è un’altra storia!
Le tre schede telefoniche, il cui valore era ancora espresso in lire, furono emesse in occasione del Summit Internazionale della Comunicazione promosso dalla Telecom Italia nel 1997. Erano ad elevata tiratura e commercializzate su tutto il territorio nazionale.
La scheda del leone di piazza del Plebiscito era da lire 5.000 ed aveva una tiratura di 5.000.000 di pezzi.
La scheda di Castel dell’Ovo era da lire 10.000 ed aveva una tiratura di 1.500.000 pezzi.
La scheda del Maschio Angioino era da lire 15.000 ed aveva una tiratura di 600.000 pezzi.


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright 




Perfect days di Wim Wenders

L’ultimo film di Wim Wenders è molto diverso dalla maggioranza delle opere in circolazione ed ha colpito tutti per il suo carattere insolito. Il titolo Perfect Days allude a una celebre canzone di Lou Reed che evoca la felicità provata in un giorno fuori dal comune, ma racconta in realtà una serie di giornate molto comuni, uguali l’una all’altra: le “giornate perfette” di Hirayama, (Koji Yakuso) un sessantenne giapponese che vive in una casa modesta e pulisce i bagni pubblici di Tokyo con grande cura e attenzione. Queste toilettes, in mezzo a splendidi parchi o ai margini delle strade nel quartiere elegante di Shibuya, sembrano incontaminate: costruite da architetti famosi sono molto raffinate e a volte avveniristiche, come quella tutta trasparente, le cui pareti di vetro però diventano riflettenti nel momento in cui si chiude la porta e tornano trasparenti quando poi la si riapre per uscire. Ogni giorno Hirayama compie gli stessi gesti: in una Tokyo in cui il sole sorge presto e con vigore (non a caso siamo nel Paese del Sol Levante) accompagnato dalla canzone più adatta alla circostanza (The House of the Rising Sun) Hirayama si sveglia, fa una scrupolosa pulizia personale, prende un caffè freddo da un distributore automatico, monta in macchina e si dedica alla pulizia delle toilettes di tutti; pausa pranzo con un panino al parco o un piatto caldo a un fast food; breve turno pomeridiano fino all’arrivo di chi deve subentrare al suo posto; ritorno a casa nel traffico pomeridiano, dopo un bagno purificatore nei bagni pubblici; cura di un piccolo giardino bonsai fatto di talee di piante salvate dalla incuria di tutti; lettura appassionata di romanzi (tra i suoi autori preferiti William Faulkner o Patricia Highsmith, ma anche la “sottovalutata” e struggente Aya Koda). È appassionato di fotografia e scatta spesso istantanee dell’ombra sulle foglie degli alberi. È un uomo di poche parole, che ha certamente amato la moglie scomparsa, ma che ora si è rifatto una vita. Vede pochissime persone: Takashi, il ragazzo che lo sostituisce nel turno pomeridiano sfaticato, sanguisuga e lamentoso, con cui scambia due parole; una ragazza timida al parco o un senzatetto folle e originale con cui non parla mai, ma che rispetta e ama sia pure in silenzio: una donna che gestisce un ristorante tradizionale che lo tratta con affetto. Va al lavoro e torna a casa su un vecchio camioncino, ascoltando Lou Reed, Patti Smith, The Animals, Van Morrison, Otis Redding, Nina Simone: musica di un passato prossimo che sta per divenire sempre più passato remoto. Tutto in lui sembra rimasto ancorato a questo passato: le musicassette che ascolta o la macchina fotografica analogica i cui rullini devono essere sviluppati. Del resto tutta la vita di Hirayama sembra essere destinata alla conservazione e le fotografie che vengono collezionate e archiviate in scatole numerate sembrano il simbolo, l’emblema dei giorni che passano per essere archiviati e custoditi nella memoria. Ma nella memoria di Hirayama ci sono anche delle ombre che non conosciamo: compaiono misteriose come quelle che ci sono sulle foglie degli alberi, quando meno lo aspettiamo. Una nipote, fuggita da casa,va a trovarlo e chiede di essere ospitata: l’incontro fa emergere qualche piccolo segreto sul passato del protagonista. I segreti aumentano a poco a poco: quando la madre della nipote, la sorella di Hirayama, viene a prenderla arriva con una macchina lussuosa, con un autista. La donna non sa quasi nulla di lui; accenna a un padre che non sta bene, molto autoritario, che Hirayama non va a trovare da molto tempo. Non può credere che il fratello faccia davvero il lavoro che fa e ci fa intuire che prima faceva ben altro e che con il padre deve essere successo qualcosa. Quando va via, Hirayama si lascia andare ad un pianto dirotto. In ogni caso egli ha scelto la sua vita umile consapevolmente: è sereno e riesce a realizzare le sue piccole passioni ogni giorno. E a dare a ogni giorno il valore di giorno unico. Come ha scritto efficacemente Roberto Chiesi: «Wenders segue il flusso quotidiano dell’esistenza di Hirayama e rivela che…nessun istante è mai uguale all’altro perché nessun aspetto della realtà è mai banale se lo si guarda con attenzione e partecipazione.» (“Menteinfuga”, 27 gennaio 2024)

C’è comunque un’ultima cosa da considerare. Hirayama è sicuramente affascinato dalla proprietaria del ristorante che lo tratta così bene. Ma non ha il coraggio di dirle niente. Un giorno vede la donna insieme all’ex marito e si allontana subito, sgomento. L’uomo lo segue e lo trova davanti al grande fiume che scorre a Tokyo. Lo rassicura: non vuole tornare insieme alla moglie. È venuto solo per dirle che sta per morire di cancro. Tra i due scatta un sentimento di complicità affettuosa. Come ragazzi si mettono a giocare con le parole e con le loro ombre. E Hirayama dimostra al suo nuovo amico che sta per morire che un’ombra, aggiunta ad un’altra ombra, forma un’ ombra più scura. Come potrebbe essere altrimenti? Se si aggiunge qualcosa a qualcos’altro, ciò che è stato aggiunto deve restare in una qualche forma. Come nella vita di ciascuno. L’ombra di ognuno di noi, sommata all’ombra che esiste, farà aumentare il colore dell’ombra. Di poco. Ma abbastanza perché si possa intravedere se riusciamo a catturarne l’immagine. È questo il senso profondo di ciò che vediamo e di ciò che il film ci fa vedere, racchiuso in una parola giapponese intraducibile che Wenders colloca al centro dello schermo nell’ultima immagine che vediamo dopo i titoli di coda: la parola è “komorebi” e indica l’attimo fuggente in cui a luce appare e scompare tra le foglie, il bagliore istantaneo che filtra dove sembra che ci sia solo il buio. Quello che il poeta insegue per tutta la vita desiderando che finisca solo quando può dire all’attimo “Fermati! Sei così bello!”. Verweile doch! Du bist so schön! Ed ecco che alla fine di questa Tokyo story, così giapponese, fa capolino Goethe. Sì perché Hirayama, si chiama proprio come il protagonista di Il gusto del sakè, l’ultimo film di Ozu, il regista a cui Wenders ha dedicato Tokyo Ga. Ma il richiamo all’attimo fuggente, anche se è suggerito da una parola giapponese, fa pensare all’anelito di eternità del Faust.

Perfect days di Wim Wenders è stato molto apprezzato dai critici e dal pubblico. Ho l’impressione, tuttavia, che non tutto il suo fascino sia stato valorizzato. Mi permetto di conseguenza di sottolineare qualche aspetto che mi ha colpito, nella speranza di fornire spunti di riflessione, senza nessuna pretesa di offrire l’interpretazione definitiva di un’opera complessa e piena di ambivalenze. La prima cosa che mi viene in mente è che Wenders attualmente ha 78 anni, un’età rispettabile in cui non è strano fare uno o più bilanci del proprio passato, in qualunque forma. Wenders lo fa a modo suo, da regista. Ma lo fa, e come. Non possiamo ignorarlo. Nel film ci sono molti rimandi e molte allusioni ad altre opere dell’autore e soprattutto molti rimandi e molte allusioni alle sue illusioni, alle sue ossessioni. Non ha senso, dunque, soffermarci sul carattere ripetitivo dell’esistenza del protagonista come hanno fatto praticamente tutti coloro che hanno recensito il film, alcuni stupiti, altri affascinati o addirittura inorriditi. Dire che il protagonista del film conduce un’esistenza quasi “autistica” (sic!) o comunque “ossessiva”, una “routine” “monotona” e “sempre uguale”, significa non capire nulla e restare fermi all’apparenza. È ovvio che il personaggio principale ripeta sempre gli stessi gesti e faccia sempre le stesse cose: infatti è l’alter ego di un regista che ripete per l’ennesima volta ciò che ha già detto e ridetto in altri film. E lo fa a ragion veduta, perché rimugina sulla sua esistenza artistica e psicologica, ritornando di continuo su temi e problemi che lo hanno avviluppato e forse imprigionato sin dalla giovinezza. Quando si arriva all’età dei bilanci, confrontarsi col proprio passato è necessario, anche se visto dal di fuori può sembrare un esercizio monotono e ripetitivo. Se mettiamo da parte l’affascinante involucro che riveste la facciata del palazzo, l’intonaco istoriato da grandi pittori di edifici rinascimentali come il Palazzo Massimo a Roma, affiorano immediatamente la pietre con cui sono costruite tante costruzioni visive di Wenders.

Innanzi tutto l’identità di cinefilo del regista, che ritorna di continuo, non solo per i riferimenti ad autori fondamentali nella storia del cinema come Ozu (a cui abbiamo accennato) o il Nick Ray di Lampi sull’acqua, che parla della sua morte per tumore come l’ex marito della proprietaria del ristorante, ma per il fatto stesso di avere scelto che il suo film venisse fotografato nel formato a 4:3, “a francobollo”, tipico del cinema classico, che permette di inserire la figura umana in spazi quadrati, valorizzandola più di ogni altra cosa circostante o di inquadrare lo spazio senza perdersi in fughe a destra e a sinistra, facendo risaltare ogni oggetto con la forza di un bassorilievo.

Un altro carattere ricorrente della personalità di Wenders è l’amore e l’ossessione per la fotografia che isola un istante sottraendolo al “corso del tempo”, nel cui flusso vaghiamo perduti come il mendicante che appare e scompare nei parchi e nella strada davanti agli occhi complici e indulgenti di Hirayama. Questo atteggiamento che potremmo definire “passività operosa” ci fa tornare all’inizio dell’esistenza, quando tutto quello che si fa è seguire con gli occhi incantati il mondo, trasformandoci in un puro occhio assorbito dalla visione della vita, seguaci istintivi dell’invito dello Zen ad abbandonarsi al grande mare dell’essere. Da ciò nasce una naturale simpatia per l’atteggiamento di accettazione totale dell’universo da parte del mondo orientale ed in particolare per lo stile di vita giapponese. Come ha detto lo stesso Wenders: «Ho amato Tokyo la prima volta che ci ho camminato e mi sono perso. Era già la fine degli anni Settanta. Era un momento di pura meraviglia. Ho camminato per ore, senza sapere dove fossi in questa immensa città, poi ho preso una linea qualsiasi della metro e ho trovato il mio albergo. Ogni giorno andavo in un altro quartiere. Sono rimasto stupito dalla struttura apparentemente caotica della città, dove trovavi vecchi isolati con vecchie case di legno accanto a grattacieli e incroci trafficati, dove passavi sotto queste autostrade, e svettavano fantascientifici edifici a due o tre piani e dove c’erano i quartieri più tranquilli, quartieri residenziali e labirinti di stradine proprio accanto ad essi. Ero affascinato da tutto il futuro che vedevo prendere forma. Avevo sempre considerato gli Stati Uniti come il luogo dove si poteva incontrare il futuro. Qui in Giappone, ho trovato un’altra versione di futuro, che mi si adattava».

Un altro aspetto caratteristico del regista è il suo amore per la musica che caratterizza situazioni o sentimenti che vengono rappresentati. La canzone del titolo di Lou Reed, è quella che da un senso a quello che accade, ma Hirayama cerca anche altre ispirazioni perché ascolta ogni giorno un diverso brano musicale della sua collezione che anticipa o accompagna i suoi gesti. Questo ruolo centrale della colonna sonora è tipico di Wenders a partire dal primo cortometraggio 3 LP americani (1969), o dai primi lungometraggi come Estate in città (1970) o Alice nelle città (1973) nei quali la musica pop americana, scaturita da un juke box, scandiva road movies che si svolgevano di qua e di là dell’Atlantico, In Perfect Days la stessa musica ritorna con il suono d’epoca delle audiocassette su nastro.

Molti altri elementi ci riportano all’universo del regista tedesco a cominciare dall’amore per Patricia Highsmith che ha ispirato l’Amico americano o da quello per personaggi stravaganti, solitari, poetici, marginali, a disagio nelle grandi metropoli caotiche e nel mondo moderno. Senza avere la pretesa di elencare ogni analogia, ogni simmetria, ogni corrispondenza, ci sembra opportuno sottolineare che questo complesso gioco di rimandi interni, questa polifonia fatta di echi, di rime, di vibrazioni parallele nasce dal fatto che Wenders è un vero autore, che svolge sempre lo stesso discorso attraverso le variazioni sul tema rappresentate dalle sue diverse creazioni, che possono essere opere di finzione o documentari. Il fascino di Perfect days sta proprio in questo: nell’essere la manifestazione di un autore che ci ha parlato varie volte nel corso del tempo con una voce che riconosciamo subito tra tutte e che ci auguriamo di poter ascoltare di nuovo molte altre volte.




Augusto De Luca fotografa con Instant Kodak

Alla fine degli anni 70, Giuseppe Alario, Direttore Kodak per il mezzogiorno Italia, mi chiese di realizzare una ricerca fotografica su materiale Instant Kodak.
Accettai la sfida e, con questa economica fotocamera in plastica, mi cimentati nell’impresa colossale.

Negli anni settanta la Kodak iniziò la produzione di pellicole autosviluppanti denominate Instant Kodak, che, a differenza delle Polaroid, erano rettangolari, l’immagine sulla superficie, infatti, misurava 9 x 6,8 cm.

Dopo aver perso una battaglia di brevetti con la Polaroid Corporation, Kodak poi ha lasciato il business Instant Camera il 9 gennaio 1986 e tutto il materiale e le fotocamere sono state ritirate dal mercato.

Le istantanee che ho realizzato sono frutto di varie manipolazioni ed esposizioni sulla stessa pellicola a sviluppo immediato.
Tutte le immagini furono esposte per la prima volta nello stand Kodak al ‘Fotocine 80’, la manifestazione fieristica di settore che si tenne alla Mostra d’Oltremare di Napoli e, successivamente, in varie rassegne.

Nessun altro fotografo ha mai realizzato con la fotocamera Kodak Instant una ricerca fotografica, quindi questo mio lavoro rimarrà per sempre nella storia della Kodak e dei suoi prodotti. Ovviamente ne sono lusingato.

Instant Kodak – di Augusto De Luca
Instant Kodak – di Augusto De Luca
Instant Kodak – di Augusto De Luca